martedì 29 aprile 2008

Veltroni in Africa? Si può fare

Ieri subito dopo il netto risultato vittorioso alle elezioni comunali di Roma alcuni sostenitori di Alemanno si sono riversati sulla scalinata del Campidoglio per festeggiare e hanno appeso uno striscione che racchiudeva in poche frasi il disastro compiuto da Veltroni.

Lo striscione infatti recitava: "Walter santo subito. Con le primarie ha fatto cadere il governo Prodi, con le elezioni politiche ha fatto uscire i comunisti dal Parlamento, candidando Rutelli ha fatto vincere la destra a Roma".

In effetti, pur semplificando all’estremo ciò che è avvenuto negli ultimi 6 mesi, in quelle frasi è sintetizzata la sconfitta epocale del centrosinistra, della sinistra “radicale”, ma soprattutto la sconfitta della strategia politica di Veltroni.

Infatti a quanto scritto sullo striscione va assolutamente aggiunto il fatto indiscutibile che Veltroni è riuscito nell’epica impresa di resuscitare un Berlusconi che a fine novembre, dopo la fallita spallata al governo Prodi e la fondazione sul predellino di un’auto del Popolo della Libertà, era ben avviato sul viale del proprio tramonto politico spinto dagli insulti che Fini e Casini gli rivolgevano parlando di “comiche finali”, di “ectoplasma” in riferimento alla Casa della Libertà che in quel preciso momento praticamente non esisteva più.

E invece Veltroni, decidendo allora di aprire un canale privilegiato di dialogo con Berlusconi lo ha rimesso sul piedistallo riaffermando così quella leadership del Cavaliere che appunto gli era stata negata dai suoi alleati Fini e Casini, in quel momento considerati ormai ex alleati.

Ma Veltroni è andato oltre. Ancor prima della caduta di Prodi aveva deciso che il PD sarebbe andato da solo alle prossime elezioni, distruggendo quindi l’Unione che era ancora al governo del Paese. Era chiaro che a lui interessava solo consolidare al più presto la forza elettorale del PD facendo il vuoto alla sua sinistra e pescando voti al centro e per ottenere questo obiettivo gli serviva arrivare ad elezioni attraverso una rapida caduta di Prodi e un governo successivo di larghe intese con Forza Italia e UDC per riformare la legge elettorale, i regolamenti parlamentari e ridurre il numero di deputati e senatori.

Ma questo piano si basava solo sulle false promesse che Veltroni aveva ricevuto da Berlusconi in caso di caduta del governo Prodi.
E infatti, appena caduto Prodi, il trio Fini-Berlusconi-Bossi si è immediatamente ricompattato e ha voluto assolutamente andare ad elezioni nel più breve tempo possibile lasciando Veltroni nella melma fino al collo, costretto ad imbarcarsi in un’avventura elettorale troppo ravvicinata nei tempi e a quel punto obbligatoriamente solitaria.

Quindi la strategia politica di Veltroni, perdendo così le sue fondamenta, ha provocato un effetto domino disastroso e fallimentare sotto tutti i punti di vista perché di certo c’è ben poco da rallegrarsi per quell’inutile 33% raggranellato dal PD alle elezioni; per non parlare poi della raffazzonata candidatura di Rutelli decisa ovviamente in quattro e quattr’otto anche contro la volontà dello stesso Rutelli che ha dovuto subirla.

In sintesi, Veltroni ha contribuito alla caduta di Prodi – che infatti ha deciso non solo di non candidarsi più per il Parlamento ma se n’è andato anche dal PD sbattendo la porta –, si è fatto abbindolare dal bluff di Berlusconi che lo ha infinocchiato alla perfezione e ha perso pesantemente le elezioni politiche nazionali e quelle comunali di Roma.

Basta questo o è necessario qualcos’altro perché Veltroni si compri un biglietto di sola andata per l’Africa e cominci lì una nuova vita con un’impegnativa attività di volontariato?
Perché in Africa c’è tanto che … si può fare.

lunedì 28 aprile 2008

L'annuale riunione nell'ombra della Commissione Trilaterale

Si chiude oggi a Washington l’annuale riunione plenaria (25-28 Aprile) della Commissione Trilaterale nel silenzio più totale dei mainstream media di tutto il mondo, ovviamente.
Ne disegna un ritratto Enrico Piovesana di Peacereporter, anche se non si saprà mai ciò di cui hanno discusso esattamente nella 3 giorni di riunioni.


I manager del mondo. Si conclude oggi a Washington la riunione annuale della Commissione Trilaterale
di Enrico Piovesana - Peacereporter - 28/04/2008

Le riunioni del G8 o quelle del World Economic Forum di Davos sono oggetto di grande attenzione da parte dei mass media e dei movimenti no-global.
Quelle della Commissione Trilaterale, assai più importanti per le sorti del mondo, avvengono invece nel silenzio mediatico più totale. Nessuno se ne accorge, nessuno ne parla, nessuno protesta contro questo organo privato di concertazione e orientamento della politica mondiale che riunisce l’élite politico-economica di Stati Uniti, Europa e Giappone (da cui il nome): duecento tra capi di Stato e di governo, ministri, grandi banchieri, manager delle più grandi multinazionali, economisti, militari si riuniscono ogni anno per quattro giorni in una città della triade, per decidere a porte chiuse le linee guida di politica internazionale ed economica che i singoli governi devono poi seguire.
Quest’anno la riunione si tiene a Washington. I lavori, iniziati venerdì, si concludono oggi.

Il governo mondiale dei ‘migliori’. La Commissione Trilaterale è stata fondata nel 1973 dall’attuale presidente onorario dell’organizzazione, David Rockefeller, patriarca della potente dinastia bancaria e convinto ‘mondialista’, assieme a Zbigniew Brzezinski, uno dei principali architetti della guerra al terrorismo post-11 settembre, oggi consigliere di Barak Obama.
La stampa statunitense dell’epoca definì la Tilaterale una “filiazione diretta” del Gruppo Bilderberg, società segreta internazionale di cui condivide membri e ideologia: quella di un ordine mondiale gestito da una ristretta aristocrazia economico-politica soprannazionale.
Scrive il filosofo e sociologo francese Gilbert Larochelle, “la cittadella trilaterale è un luogo protetto dove i ‘migliori’, nella loro ispirata superiorità, elaborano criteri per poi inviarli verso il basso”.

Una sorta di massoneria internazionale. La Trilaterale non è un’organizzazione segreta, ma è caratterizzata dalla riservatezza tipica delle organizzazioni massoniche.
Ha un sito web molto discreto dove si trovano luoghi e date delle riunioni e dove si possono ordinare i ‘Trialoghi’, gli atti pubblici di quelle riunioni – che però, lo ricordiamo, si svolgono a porte chiuse, quindi non è detto che venga pubblicato proprio tutto.
La maggiore riservatezza riguarda i suoi membri: le liste aggiornate dei partecipanti sono pubbliche solo in teoria: noi l’abbiamo richiesta tempo fa, senza avere risposta. Sono note solo quelle degli anni passati (vedi sotto l’elenco degli italiani).

Linee guida per la politica mondiale. Dai Trialoghi pubblicati finora emerge che nelle riunioni della Trilaterale si prendono decisioni ‘quadro’ in materia di globalizzazione dei mercati, politica energetica, finanza internazionale, liberalizzazione delle economie. Ma si discute anche crisi internazionali e guerre, gestione del dissenso e limitazione degli “eccessi della democrazia”. Il tema dipende dalle contingenze storiche.
Ad esempio, dopo gli attentati dell’11 settembre, la riunione annuale del 2002 fu dominata da Dick Cheney, Donald Rumsfeld, Colin Powell e Alan Greenspan che sollecitavano una “risposta globale” al terrorismo che vedesse impegnati tutti i Paesi occidentali sotto la guida degli Stati Uniti.

I saggi illuminati. Politica estera e militare, economica, finanziaria e sociale di ogni governo devono seguire le direttive imposte da questi ‘esperti’.
Su Le Monde Diplomatique del novembre 2003, l’autore di un articolo sulla Commissione Trilaterale – il professore Olivier Boiral – scriveva: “Come i re filosofi della città platonica, che contemplavano il mondo delle idee per infondere la loro trascendente saggezza nella gestione degli affari terrestri, l’élite che si riunisce all’interno di questa istituzione molto poco democratica si adopera nel definire i criteri di un ‘buon governo’ internazionale. Veicola un ideale platonico di ordine e controllo, assicurato da una classe privilegiata di tecnocrati che mette la propria competenza e la propria esperienza al di sopra delle profane rivendicazioni dei semplici cittadini”.

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Riportiamo di seguito i nomi più noti dei membri italiani della Trilaterale secondo un elenco aggiornato al 2006 (tra parentesi le loro posizioni all’epoca):
Vittorio Colao (Rcs, ex Vodafone)
Alfonso Iozzo (San Paolo Imi)
Enrico Letta (Eurodeputato)
Luca Cordero di Montezemolo (Confindustria, Fiat)
Alessandro Profumo (Unicredit)
Silvio Scaglia (Fastweb, ex Omnitel)
Luigi Ramponi (Pres.Comm.Difesa C.D., ex vice Capo Stato Maggiore)
Paolo Scaroni (Enel, Eni)
Maurizio Sella (Banca Sella)
Marco Tronchetti Provera (Telecom, Pirelli)
Franco Venturini (Corriere della Sera)

Altre personalità italiane che hanno partecipato a passate riunioni della Trilaterale:
Giovanni e Umberto Agnelli
Romano Prodi (quando era presidente dell’Iri)
Tommaso Padoa Schioppa
Mario Monti


Per ulteriori info:
http://it.wikipedia.org/wiki/Commissione_Trilaterale
http://www.sourcewatch.org/index.php?title=Trilateral_Commission
http://www.francocenerelli.com/antologia/trilateral.htm
http://www.trilateral-commission.net/

domenica 27 aprile 2008

Sul V-day di Grillo “l’informazione” fa quadrato

Un articolo di Marco Travaglio che sintetizza bene come “l’informazione ufficiale” ha raccontato il V-day organizzato da Beppe Grillo il 25 Aprile scorso.
Ma d’altronde non c’era certo da aspettarsi qualcosa di diverso da tali “professionisti dell’informazione”…

Va tutto molto bene
di Marco Travaglio - voglioscendere

Spiaceva quasi, l’altroieri, sentire l’intera piazza San Carlo che sfanculava ogni dieci minuti Johnny Raiotta, il direttore del Tg1 che fa rimpiangere Mimun. Troppi vaffa per un solo ometto. Poi però uno rincasava, cercava il servizio del Tg1 di mezza sera su una manifestazione criticabilissima come tutte, ma imponente, che in un giorno ha raccolto 500mila firme per tre referendum.
Invece, sorpresa (si fa per dire): nessun servizio, nessuna notizia, nemmeno una parola. Molti e giusti servizi sul 25 aprile dei politici, sulle elezioni a Roma, sul caro-prezzi, sul ragazzino annegato, poi largo spazio alle due vere notizie del giorno: le torte in faccia al direttore del New York Times e la mostra riminese su Romolo e Remo (anzi, per dirla col novello premier, Remolo). Seguiva un pallosissimo Tv7 con lo stesso Raiotta, Tremonti, la Bonino e Mieli che discutevano per ore e ore di nonsisabenechecosa. Raiotta indossava eccezionalmente una giacca, forse per riguardo verso il direttore del Corriere. Questo sì che è servizio pubblico. Così, nel tentativo maldestro di contrastare - oscurandolo - il V-Day sull’informazione, Johnny Raiotta del Kansas City ne confermava e rafforzava le ragioni.
E anche i giornali di ieri facevano a gara nel dimostrare che Grillo, anche quando esagera, non esagera mai abbastanza. Il Giornale della ditta, giustamente allarmato dal referendum per cancellare la legge Gasparri, sguinzaglia per il terzo giorno consecutivo un piccolo sicario con le mèches in una strepitosa inchiesta a puntate: “La vera vita di Grillo”. Finora il segugio ossigenato ha scoperto, nell’ordine, che Grillo: da giovane andava a letto con ragazze; alcuni suoi amici, invidiosi, parlano male di lui; la sua villa a Genova consuma energia elettrica; ha avuto un tragico incidente stradale; è genovese e dunque tirchio (fosse nato ad Ankara, fumerebbe come un turco); nel suo orto ha sistemato una melanzana di plastica; ha avuto un figlio “nato purtroppo con dei problemi motori” (il giornalista è un cultore della privacy); e, quando fa spettacoli a pagamento, pretende addirittura di essere pagato. Insomma, un delinquente.
E siamo solo alla terza puntata: chissà quali altri delitti il Pulitzer arcoriano - già difensore di Craxi, Berlusconi, Dell’Utri e Mangano - scoprirà a carico di Grillo. Nell’attesa, il Giornale ha mandato al V2-Day un inviato di punta, Tony Damascelli. Il quale, mentre il Cainano riceve il camerata Ciarrapico, paragona Grillo a Mussolini chiamandolo Benito e poi si duole perché piazza San Carlo ha applaudito a lungo Montanelli (fondatore del Giornale quand’era una cosa seria) e Biagi, definito graziosamente “il grande disoccupato”. La scelta di inviare Damascelli non è casuale, trattandosi di un giornalista sospeso dall’Ordine dei Giornalisti perché spiava un collega del suo stesso quotidiano, Franco Ordine, spifferando in anteprima quel che scriveva all’amico Moggi. Siccome l’Ordine non è una cosa seria, lo spione non fu cacciato, ma solo sospeso per 4 mesi. E siccome Il Giornale non è (più) una cosa seria, anziché licenziarlo l’ha spostato in cronaca. E l’ha mandato al V-Day che aveva di mira, fra l’altro, l’Ordine dei Giornalisti. Geniale.
Il Foglio, per dimostrare l’ottima salute di cui gode l’informazione, pubblicava proprio ieri un articolo di Roberto Ciuni, ex P2. Ma, oltre ai giornalisti-cimice, abbiamo pure i giornalisti-medium. Quelli che non han bisogno di assistere a un fatto per raccontarlo: prescindono dal fattore spazio-temporale. Il Riformista, alla vigilia del V-Day, già sapeva che sarebbe stata una manifestazione terroristica, “con minacce in stile Br ai giornalisti servi” (“Le Grillate rosse”). Ecco chi erano i 100 mila in piazza San Carlo: brigatisti.
Francesco Merlo se ne sta addirittura a Parigi: di lì, armato di un telescopio potentissimo, riesce a vedere e a spiegare agli italiani quel che accade in Italia. Ieri ha scritto su Repubblica che “in Italia c’è sovrapproduzione di informazione” (testuale): ce ne vorrebbe un po’ meno, ecco. Quanto a Grillo, è “in crisi” (2 milioni di persone in 45 piazze) e “non riesce a far ridere” (strano: ridevano tutti). Poi, citando Alberoni (mica uno qualsiasi: Alberoni), ha sostenuto che “in piazza c’erano umori che non s’identificano con Grillo”. Ecco, Merlo è così bravo che, appollaiato tra Montmartre e gli Champs Elysées, riesce a penetrare la mente e gli umori dei cittadini in piazza a Torino, Milano, Bologna, Roma. E spiega loro che cosa effettivamente pensano. Più che un giornalista, un paragnosta. Finchè potrà contare su fenomeni così, l’informazione in Italia è salva. Di che si lamentano, allora, Grillo e gli italiani?

L'evidente successo della NATO in Afghanistan

Ieri il presidente afghano Hamid Karzai aveva rilasciato un’intervista al New York Times con dure critiche per gli arresti compiuti dalle Forze USA e GB di presunti taleban e loro simpatizzanti in quanto impediscono a questi gruppi di deporre le armi, così come per la scelta di concentrare la guerra nei villaggi afghani mentre la vera minaccia si annida nelle roccaforti islamiste del Pakistan dicendo chiaro e tondo “La lotta al terrorismo non è in Afghanistan. La lotta al terrorismo va fatta ovunque. Non ci sono alternative al chiudere quei santuari. Il Pakistan altrimenti non avra' pace, il progresso del Pakistan ne risentira', e cosi' vale per la pace ed il progresso dell'Afghanistan e del mondo intero. Perche' la guerra al terrorismo non si consuma nei villaggi afgani, ma altrove, ed e' li' che la guerra dovrebbe trasferirsi”.

Karzai aveva poi insistito anche sull’opportunità che il governo di Kabul gestisca in proprio il potere in Afghanistan chiudendo l’intervista con un appello per “la fine di tutte le vittime civili” nel suo Paese.

Ma a sole 24 ore da questa forte critica della gestione della guerra al terrorismo da parte di USA e GB, ecco che puntuale arriva un fallito attentato alla sua persona mentre stava assistendo a Kabul a una parata militare organizzata per celebrare il 16esimo anniversario della liberazione della capitale da parte dei muhjaddin.

Un attentato rivendicato subito da un portavoce dei taleban, tale Zabihullah Muhjahid e avvenuto non solo a 24 ore da quell’intervista ma anche dopo la morte di almeno 24 persone tra venerdì e sabato in una serie di attacchi in varie province del Paese. Naturalmente queste sono solo le cifre “ufficiali”.

Tutto ciò rappresenta il segno inequivocabile del “successo” delle Forze NATO in Afghanistan...

Il video dell’attentato

sabato 26 aprile 2008

Il lager di Gaza

Il 23 Aprile scorso durante la riunione del Consiglio di Sicurezza dell'Onu dedicata al Medio Oriente il rappresentante della Libia, Ibrahim Dabbashi, ha paragonato la situazione di Gaza ai campi di concentramento nazisti. A quel punto su richiesta dell'ambasciatore italiano, Marcello Spatafora, la riunione è stata sospesa immediatamente. I rappresentanti di alcuni Paesi "hanno rimosso l'auricolare della traduzione, si sono alzati in piedi e sono usciti dalla sala della riunione del consiglio di sicurezza" per protesta contro le affermazioni del rappresentante libico. Ovviamente tra coloro che sono usciti subito ci sono i rappresentanti di USA, GB e Francia.

L'iniziativa dei diplomatici occidentali è stata naturalmente accolta con favore da Israele. Arye Mekel, portavoce del ministero degli Esteri israeliano, ha infatti dichiarato "Hanno fatto ciò che era richiesto in una situazione simile, e vanno applauditi; il Consiglio di Sicurezza è stato preso in ostaggio da Paesi irresponsabili, in passato legati al terrorismo".
Anche gli USA non hanno fatto mancare le loro severe critiche contro la presa di posizione del rappresentante libico, tramite l'ambasciatore aggiunto all'ONU Alejandro Wolff che ha detto "Possiamo trattarne globalmente, onestamente e in modo costruttivo, oppure in maniera tendenziosa, ed è quel che è accaduto. Il delegato libico è stato tendenzioso, di parte, storicamente scorretto e moralmente oltraggioso".

La Libia però non ha fatto marcia indietro e Ibrahim Dabbashi, conversando con i giornalisti al Palazzo di Vetro, ha voluto ribadire che la situazione nella Striscia di Gaza "è anche peggiore (di quella dei campi di concentramento) perchè essa viene bombardata ogni giorno da Israele". Attirandosi nuovamente la condanna di Wolff "Parole come queste dimostrano l'ignoranza della storia e continuano ad impedire che si trovi una soluzione pacifica in Medio Oriente".

Ma certo…sono proprio queste parole la causa del fallimento di una soluzione pacifica, mica la continua costruzione di insediamenti israeliani in territorio palestinese, i quotidiani bombardamenti di aerei ed elicotteri israeliani, i cannoneggiamenti dei tank israeliani o ancora l’ennesimo rifiuto israeliano di dialogare con Hamas, che proprio nei giorni scorsi aveva invece offerto una tregua.
Tutto ciò non conta nulla, non esiste.

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Qui di seguito due articoli sull'episodio avvenuto all’ONU.
Il primo di Pierluigi Battista, come sempre cieco difensore di Israele e dei suoi crimini, mentre il secondo articolo è di Maurizio Blondet che risponde duramente a quanto scritto da Battista.

Una prima svolta
di Pierluigi Battista - Il Corriere della Sera , 25/4/2008

I diplomatici di quattro Paesi occidentali platealmente abbandonano per protesta la sala del Consiglio di sicurezza all’Onu e l’ambasciatore italiano alle Nazioni Unite, Marcello Spatafora, convince la presidenza a dichiarare immediatamente chiusa la discussione. Descritta così, potrebbe sembrare una di quelle tempeste destinate a compromettere la stabilità internazionale. Ma può anche essere una svolta, il segnale di un sentimento politico di insofferenza per chi, all’interno e fuori del Palazzo di Vetro, indugia ancora nel paragone tra «la situazione di Gaza e quella dei campi di concentramento nazisti», avanzata dal rappresentante della Libia. La reazione stavolta è stata fulminea: non restava che lasciare quell’importante riunione per non accettare in silenzio quell’ennesima ingiuria contro Israele.

A sessant’anni dalla Dichiarazione dei diritti dell’uomo promossa dalle Nazioni Unite all’indomani di una guerra apocalittica e feroce, l’azione dell’Onu a tutela dei diritti calpestati nel mondo non gode di grande reputazione. Difficile credere che le Nazioni Unite possano dimostrare un impegno efficace se al vertice delle commissioni deputate alla difesa di quei diritti siedono Paesi (e la Libia è tra questi) in cui il diritto è totalmente inesistente, le carceri rigurgitano di prigionieri rinchiusi senza regolare processo, la tortura è una pratica diffusa e impunita, le libertà politiche e civili cancellate da regimi asfissianti.

E’ difficile chiedere equanimità a un organismo internazionale che si rifiuta, com’è accaduto due mesi fa, di condannare la strage nella scuola rabbinica di Gerusalemme. E così all’Onu il terrorismo antisraeliano non viene mai sanzionato, ogni volta il veto di uno Stato di fede antioccidentale non consente a Israele di godere della solidarietà internazionale. Il ruolo di Israele deve essere sempre quello del carnefice. Ogni cordoglio per le sue vittime viene negato. Israele, con un paragone fabbricato deliberatamente per offendere crudelmente gli ebrei, viene dipinto come il «nuovo nazismo», e la questione palestinese come la nuova Shoah.

Fu in ambito Onu che a Durban, nel 2001, una conferenza si trasformò in una truce kermesse antiebraica. E non si è dissolto il triste ricordo di quell’Assemblea generale delle Nazioni Unite, anno 1975, in cui un nutrito gruppo di dittature equiparò il «sionismo» a una nuova forma di razzismo. Il gesto degli ambasciatori che abbandonano il Consiglio di sicurezza quando risuonano le ingiurie antisraeliane del rappresentante libico rovescia un atteggiamento rassegnato in cui la prudenza si trasforma in accondiscendenza, sottomissione ai capricci di nazioni che soffrono di un deficit strutturale di democrazia, irresponsabilità su un tema, quello dei diritti universali, che stenta a trovare il riconoscimento che gli si deve.

Ed è significativo che l’ambasciatore italiano si sia adoperato per sospendere una riunione che non avrebbe avuto senso proseguire, se non al prezzo di accettare la grottesca comparazione tra la condizione di Gaza e Auschwitz. E’ significativo e confortante perché segna la volontà di non accettare più i proclami di chi vorrebbe cancellare Israele dalla carta geografica, negando ad esso persino il diritto d’esistenza. Un primo passo. Ma un passo importante.


Guardiamoli morire: il Reich lo vuole
di Maurizio Blondet - Effedieffe, 26/4/2008

No, non si può dire che Gaza è ridotta a un campo di concentramento. Il nostro ambasciatore per primo – sempre i primi nella viltà – ha interrotto la riunione del Consiglio di sicurezza in cui il delegato libico ha fatto il paragone proibito. Pierluigi Battista, il sub-direttore del Corriere, applaude. Anzi vi vede «il segnale di un sentimento politico di insofferenza per chi, all’interno e fuori del Palazzo di Vetro, indugia ancora nel paragone tra la situazione di Gaza e quella dei campi di concentramento nazisti, avanzata dal rappresentante della Libia. La reazione stavolta è stata fulminea: non restava che lasciare quell’importante riunione per non accettare in silenzio quell’ennesima ingiuria contro Israele».

Si noti en passant la minaccia implicita: l’insofferenza per chi accusa Israele di genocidio cresce anche verso chi lo dice «fuori del Palazzo di Vetro». Ossia anche contro di noi, che da tempo chiamiamo Israele, con prove e fatti alla mano, Quarto Reich. Ma non è qui il punto. Il lato sporco e ripugnante di questa uscita del nostro ambasciatore, Spatafora, e del giornalista-Batista è che essa avviene il giorno stesso in cui l’UNRWA, l’agenzia dell’ONU che distribuisce cibo d’emergenza ai più miserabili fra gli assediati di Gaza, ha smesso le distribuzioni perchè Israele non fa arrivare più il carburante. Un milione di prigionieri, sul milione e mezzo dei rinchiusi a Gaza, non ricevono più questa sussistenza essenziale.

Ma non si può dire, non si deve. Cresce l’insofferenza contro chi lo dice. Questo, dopo oltre dieci mesi di quello che gli aguzzini chiamano, ridacchiando, «la cura dimagrante». «I trasporti pubblici non funzionano più», scrive Le Monde (1), «le università e molte scuole sono chiuse. Le ambulanze, i generatori, le pompe per l’acqua funzionano al rallentatore. Quindici motori diesel per i pozzi sono fermi, privando di acqua 70 mila persone, Dal 15 al 20 per cento della popolazione ha l’acqua solo da tre a cinque ore al giorno», annuncia l’UNRWA. Le riserve degli ospedali sono sotto la soglia critica. La spazzatura non può più essere raccolta . 60 mila metri cubi d’acqua di fogna sono gettate in mare ogni giorno non trattate. «In certi quartieri c’è un odore terribile, certi viali sono sepolti dall’immondizia perchè il municipio non ha più carburante», dice Sarah Hammond, responsabile della Oxfam, agenzia umanitaria britannica.

Il sub-direttore dice che a giudicare Israele non ha diritto la Libia, «in cui il diritto è totalmente inesistente, le carceri rigurgitano di prigionieri politici, la tortura è una pratica diffusa e impunita, le libertà politiche e civili cancellate da regimi asfissianti». Ma Sarah Hammond non ha un nome libico, e non pare al soldo di Gheddafi. E così nemmeno John Ging, il direttore della UNRWA sul campo, ha un nome libico. Eppure ha detto: «Le condizioni di vita nelle prigioni del mondo sono migliori di quelle della vita quotidiana nella striscia di Gaza».Ha detto questo l’8 aprile, il blocco dei carburanti era cominciato solo da due giorni. Ora, 20 giorni dopo, la somiglianza con Auschwitz è più prossima.«Sono tre settimane», dice John Ging, «che abbiamo avvertito le autorità israeliane del disastro che minaccia, e nulla è accaduto. Non avremmo dovuto arrivare a tanto. E’ un insulto alla dignità dei palestinesi e una violazione dei diritti dell’uomo e della legislazione internazionale» (2).

Taci, John: in Battista, e nei suoi padroni, cresce l’insofferenza per chi dice la verità. Farai una brutta fine, specie se sei americano. Perchè anche in USA «la tortura è una pratica diffusa e impunita, le libertà civili cancellate» dal Patriot Act. La Legge del Patriota ti ingiunge di tacere. Macchè, lui insiste. Dice a Le Monde: «Gli israeliani dicono di aver abbandonato la striscia di Gaza, ma controllano tutto e fanno praticamente ogni giorno delle incursioni. Dall’inizio dell’anno , sono stati uccisi 53 ragazzi e bambini di meno di 18 anni e 117 sono stati feriti. Tutto questo fa’ parte della responsabilità di Israele. Tutto questo porta solo a più estremismo, più violenza, più odio. Perchè continua la politica del blocco?».

E’ facile rispondere, John: perchè Hamas ha offerto una tregua nei giorni scorsi, purchè Israele levi il nodo scorsoio alla sua popolazione. E perchè il coraggioso presidente Carter è andato a parlare con i responsabili di Hamas in Siria, e ne è tornato dicendo che la pace è possibile.La risposta isrealiana è stata questa: stringere il nodo scorsoio, accelerare lo strangolamento dei suoi prigionieri.

Quanto a Carter, Nobel per la Pace, è stato sepolto dagli sputi. «Carter è venuto nella regione con mani sporche ed è tornato con le mani sporche di sangue dopo averle strette a Khaled Mashaal, il leader di Hamas», ha ruggito Dan Gillerman, ambasciatore di Sion all’ONU (3).Lui sì, lui può usare questo tipo di linguaggio, può insultare una degna persona, senza suscitare «insofferenza». Battista si unisce allo sputo. Kanan Ubaid, viceministro dell’energia di Gaza (Gaza è un lager autogestito e bombardato quasi ogni giorno, una novità rispetto ad Treblinka; la prigionia con spese a carico dei prigionieri) dice a Le Monde: «E’ la condanna collettiva a una lenta morte del popolo e dell’economia. E’ un crimine commesso sotto gli occhi della comunità internazionale che se ne fa’ complice». E’ la pura e semplice verità.

La Comunità europea sa quel che avviene, tanto che ha «esortato» il Reich giudaico a riprendere i rifornimenti; è la stessa Europa che – Italia in prima fila, sempre prima nel calcio al debole oppresso – si alza e interrompe la seduta all’ONU, quando la verità viene detta.Kanan Ubaid è persino troppo buono: la «comunità occidentale» è direttamente complice dello sterminio al rallentatore, ha contribuito allo strangolamento di Gaza da dieci mesi. Ma si sa, Kanan Ubaid non è ascoltabile. Bisognerà che stia attento il giornalista di Le Monde, che vede e testimonia la verità: deve capire che cresce l’insofferenza per la verità, che ci saranno conseguenze per chi osa dirla ancora.

La questione è che Pierluigi Battista non manca di carburante nè di cibo. E’ ben pagato al Corriere; forse non tanto quanto Magdi Allam, ma certamente molto, molto. E’ pagato tanto appunto per manifestare la sua minacciosa «insofferenza» verso la verità dei fatti. C’è chi è pagato molto e c’è chi manca di tutto, e viene lasciato morire di fame. Tutto questo è stato previsto: «...che nessuno potesse vendere nè comprare all’infuori di coloro che portavano il marchio, cioè il nome della Bestia o il numero del suo nome». Sono tempi in cui c’è un ricco mercato per le menzogne e per chi le propaga come vere.

Le menzogne fioccano come neve, di questi tempi. Il 6 settembre 2007 – forse lo ricorderete – caccia israeliani bombardarono un sito in Siria. Il 24 aprile 2008 gli Stati Uniti confermano con «prove» fotografiche l’asserzione di Israele, ossia che quel sito bombardato era un reattore nucleare, in cui la Siria si costruiva una bomba al plutonio con l’aiuto dei nord-coreani. Otto mesi dopo. Perchè non dirlo subito? Perchè otto mesi dopo?Persino la BBC esprime dubbi (4). Il fatto ricorda «quel febbraio 2003 quando il segretario di Stato Colin Powell andò alle Nazioni Unite con immagini ed audio che ‘dimostravano’ la presenza di armi di distruzione di massa in Irak. La cosa, a quanto pare il meglio che fossero riuscite a produrre le agenzie di intelligence Usa combinate – risultò sviante, a dir poco. In seguito nessuna arma fu trovata».

Sto citando letteralmente la BBC: Battista rivolga a questa la sua insofferenza per la verità. La prova contro la Siria, continua il network britannico, consiste in un video di 10 minuti. Ma «è composto di immagini ferme che, si sostiene, sarebbero state prese dentro l’installazione durante la costruzione. Ovviamente non c’è modo di verificare quest’asserzione in modo indipendente». E’ la BBC, Battista, non sono io. Quelli sono giornalisti, Battista.

Le immagini sembrano quelle di «un reattore moderato a grafite raffreddata a gas del tipo del modello nord-coreano a Yongbyon», dice la BBC, «Ma non si vedono segni di altri impianti di un programma di fabbricazione di bombe: un impianto per separare il plutonio, e la fabbrica per assemblare effettivamente un’arma. E se, come dicono gli americani, il reattore era quasi completato, di dove sarebbe venuto il combustibile all’uranio?».Ma soprattutto, perchè fare un video, composto però di immagini fisse? Come si fa a sapere che sono state riprese proprio in Siria, e non in qualunque altro posto del mondo? Un «anonimo US official» dice alla AFP: «è una presentazione tipo Powerpoint, non è un video dell’impianto». Dunque una specie di lavoro elaborato per «presentazione».

Esattamente come la «presentazione» di Colin Powell del 2003, quando agitò un flaconcino con polverebianca che, giurò, era antrace iracheno.... E un altro, «che chiede di non essere nominato in quanto non autorizzato a discutere temi segretati», dice alla Reuters: «Fra le foto di cui dispone l’intelligence degli Usa c’è un’immagine di ciò che appare essere gente di discendenza coreana» (5).«People of Korean descent at the facility». Frase cauta e ridicola, anche i servizi si vergognano un po’. Quelli non saranno proprio coreani, ma «di discendenza coreana». E come si fa ad appurarlo? Dal DNA? Come si distingue, da una immagine, un coreano da un giapponese o da un cinese? Indossa una T-shirt con la scritta «I survived in Pyongyang?». Infine il Financial Times ci dà la verità ultima: il tizio nella immagine è Chon Chibu, scienziato atomico nordcoreano che lavora a Yongbyong. Naturalmente, nessun riscontro. Questi coreani si somigliano tutti.

Bisogna credere sulla parola. A una presidenza americana che è già stata scoperta a mentire decine di volte.E l’ultima, come abbiamo riportato, accordandosi con Israele in segreto, consentendo a Sion di ampliare gli insediamenti in Cisgiordania, mentre diceva che Israele doveva congelare gli insediamenti. E’ un gran momento per le menzogne di Stato. E’ il nazismo, ma con l’aiuto della buona stampa liberale. Anche questo previsto, dall’Apocalisse. Converrà ricordare che nessuna «segnatura» radiattiva venne constatata dopo il bombardamento di otto mesi fa in siria, e questo da geologi occidentali petroliferi, che controllano costantemente la radiattività ambiente.

Il capo della AIEA El Baradei ha deplorato il ritardo nella rivelazione. Palesemente irritato: «L’agenzia tratterà questa affermazione con la serietà che merita e ne investigherà la veracità». Ma già, El Baradei si chiama Muhammad. Viene da un paese, in cui «il diritto è totalmente inesistente, le carceri rigurgitano di prigionieri rinchiusi senza regolare processo, la tortura è una pratica diffusa e impunita, le libertà politiche e civili cancellate da regimi asfissianti»: che non è – come si potrebbe credere dalla descrizione – Israele, ma l’Egitto. «Amico» degli USA, tra l’altro. Battista eserciti la sua minacciosa insofferenza. Dia il calcio dell’asino alla gente che muore di fame, accrediti come vere le menzogne di cui dubita la BBC. Si guadagni il grosso stipendio.

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1) Michel Bole-Richard, «Etranglée par le blocus, Gaza sombre dans la misére et les pénuries», Le Monde, 25 aprile 2008.
2) «A Gaza, l’Onu cesse d e distribuer des vivres en raison d’une pénurie de carburant», Le Monde, 25 aprile.
3) Verena Dobnik, «Israel’s UN ambassador calls Jimmy Carter a bigot», Associated Press, 25 aprile 2008.
4) Jonathan Marcus, «US Syria claims raise wider doubts», BBC, 25 aprile.
5) «US says North Korea gave Syria nuclear assistance», Reuters, 24 aprile. «A U.S. official, who asked not to be named because he was not authorized to discuss classified matters, said that among the intelligence the United States has was an image of what appeared to be people of Korean descent at the facility.

I “rainmakers” thailandesi

Qualche giorno fa il sito inglese di Al Jazeera ha pubblicato un articolo curioso.
Non è una novità che nel nord della Thailandia, in particolare nella provincia di Chiang Mai, capiti spesso che ad aprile si formi una cappa di smog dovuta ai numerosi incendi nelle foreste circostanti e all’annosa pratica degli abitanti dei villaggi di bruciare qualsiasi tipo di rifiuto nel giardino di casa. Inoltre aprile è l’ultimo mese della stagione secca prima dell’arrivo delle piogge, quindi il concentrato di inquinamento e fumi da incendi è talmente alto da provocare puntualmente da anni questa foschia stagnante.

Il governo thailandese, per cercare di porvi rimedio, già da qualche tempo ha deciso di utilizzare alcuni aerei della King Air che sorvolano la zona interessata rilasciando nell’aria una mistura di sale, ioduro di argento e ghiaccio secco con l’obiettivo di “inseminare” le nuvole aumentandovi la quantità delle particelle di acqua o ghiaccio e far quindi piovere.

I “rainmakers” sono certi di avere un qualche successo, ma ammettono il limite principale. E’ basilare la presenza di nuvole nel cielo da “inseminare”.
Comunque gli abitanti della zona confidano speranzosi nel successo dei “rainmakers” anche perché con questa cappa di smog stanno naturalmente aumentando i casi di asma, mal di gola e prurito agli occhi.

Ma, più in generale, è nell’intero Paese che la situazione sul fronte dell’inquinamento sta peggiorando, grazie anche al fatto che sono tollerati livelli ben più elevati di quelli accettati nell’Unione Europea, per esempio.

Sembra però evidente che il lavoro dei rainmakers continuerà anche in futuro ma finora nel Paese non è mai stato sfiorato l’argomento di un eventuale ulteriore peggioramento della qualità dell’aria causato proprio dalle sostanze irrorate dagli aerei dei rainmakers.
In tal caso però anche i thailandesi dovrebbero affrontare la questione delle “scie chimiche”. Forse tra 50 anni…forse.

giovedì 24 aprile 2008

L’acqua calda

Pochi giorni fa è stato pubblicato un articolo sul New York Times firmato da David Barstow in cui si racconta come il Pentagono abbia ingaggiato una schiera di “analisti militari”, tutti ex alti gradi dell’Esercito USA in pensione da tempo, perché partecipassero a talk show televisivi e telegiornali USA col fine di plasmare l’opinione pubblica raccontando menzogne sull’andamento della guerra in Iraq.
Naturalmente i media nostrani hanno trattato questo “scoop” come notiziola di quart’ordine, sbarazzandosene praticamente del tutto dal momento che il centro del mondo per loro sono la fermata di La Storta a Roma, il ginocchio di Totti o la salma di Padre Pio.

Comunque, a prima vista si potrebbe dire “Ma che bravi David Barstow e il New York Times”. Invece si tratta di una vicenda che, per chi cerca di informarsi seriamente su ciò che accade in Iraq e non vuole bersi le frottole dei mainstream media, non rappresenta alcunché di nuovo e sconvolgente. Infatti il commento più consono a tale “scoop” è il classico “meglio tardi che mai”.

Inoltre fa specie anche il timing scelto dal NYT, in piena campagna elettorale per le prossime elezioni presidenziali USA e che vedranno, anche con una vittoria di McCain, il drastico ridimensionamento della cricca neocon e delle annesse teorie disastrose se non proprio una sua totale estromissione dal potere per i prossimi 4 anni almeno.

Quindi ora è troppo comodo e ipocrita uscirsene con tale “scoop” e mettere Rumsfeld o Torie Clark sulla graticola quando ormai sono già da tempo fuori dal Pentagono.
Certo, “meglio tardi che mai”…intanto però la guerra USA in Iraq continua e il silenziatore dei media pure...


Qui di seguito una traduzione dei brani salienti dell’articolo di Barstow ad opera di Pino Cabras.

Dietro agli analisti TV, la longa manus del Pentagono
di David Barstow – New York Times, 20 Aprile 2008

Nell’estate del 2005 l’amministrazione Bush doveva far fronte a una nuova ondata di critiche su Guantanamo: Il centro di detenzione era stato appena definito da Amnesty International come "il gulag dei nostri tempi", c’erano nuove accuse da parte degli esperti di diritti umani dell’Onu su degli abusi, mentre si estendevano gli appelli per farlo chiudere.

Gli esperti di comunicazione dell’Amministrazione risposero prontamente: un venerdì mattina presto caricarono un gruppo di ufficiali militari in pensione su uno dei jet solitamente usati dal vicepresidente Dick Cheney e li spedirono a Cuba farsi un giro, meticolosamente programmato, del campo di Guantanamo.All’opinione pubblica questi personaggi risultano molto familiari perché comparsi decine di migliaia di volte in TV e alla radio in qualità di "analisti militari", il cui lungo periodo di servizio li ha investiti di capacità di giudizio autorevoli e attendibili sulle questioni del mondo post-11 settembre.

Tuttavia, come ha scoperto un attento esame di «The New Tork Times», ben celato dietro questa apparente imparzialità, esiste un apparato informativo del Pentagono che ha usato questi analisti per una campagna mirante a generare una copertura mediatica favorevole alle performance dell’Amministrazione in tempo di guerra.La manovra - iniziata nel periodo di preparazione alla guerra in Iraq e ancora oggi in corso - ha cercato di sfruttare intese ideologiche e militari, oltre a far conto su una potente carta finanziaria: la maggior parte di questi analisti ha legami con i contractor militari, con interessi precisi proprio in quelle strategie di guerra che erano chiamati a commentare via etere.

Questi rapporti d’affari non sono mai stati divulgati al pubblico e talvolta nemmeno agli stessi network, ma nell'insieme gli uomini a bordo di quell’aereo per Guantanamo rappresentano più di 150 contractor militari, sia come lobbisti, dirigenti di alto rango, membri dei consigli di amministrazione, sia come consulenti. Tra le società sono ricomprese le più importanti del settore della Difesa, ma anche società più piccole, tutte parti di quel vasto agglomerato di contractor che si azzuffano tra loro per rastrellare centinaia di miliardi di dollari in commesse generate dalla guerra al terrorismo condotta dall’Amministrazione. E’ una concorrenza accanita, nella quale le informazioni riservate e un facile accesso agli alti ufficiali sono cose assai apprezzate.

Registrazioni e interviste mostrano in che modo l’amministrazione Bush abbia fatto uso del suo potere di controllo sull’accesso a tali informazioni cercando di trasformare gli analisti in una sorta di cavalli di Troia mediatici: uno strumento inteso a modellare la copertura dall’interno delle notizie sul terrorismo dei principali network radiotelevisivi.I documenti dimostrano che gli analisti sono stati blanditi in centinaia di incontri riservati con i leader militari di più alto grado, compresi ufficiali con influenza decisiva in materia di contratti e bilanci. Sono stati portati in visita in Iraq e hanno avuto accesso a notizie d’intelligence classificate top-secret. Sono stati informati da funzionari di Casa Bianca, Dipartimento di Stato, Dipartimento di Giustizia, inclusi Dick Cheney, Alberto R. Gonzales e Stephen J. Hadley.In cambio,i membri di questa compagine hanno fato da cassa di risonanza ai punti su cui si imperniava il messaggio dell’Amministrazione, talvolta anche quando sospettavano che le informazioni ricevute fossero false o gonfiate. Alcuni analisti hanno poi ammesso di aver messo a tacere i propri dubbi perché temevano di mettere in pericolo il loro accesso.

Taluni hanno anche espresso il rimorso per aver partecipato a quello che essi stessi ritengono uno sforzo volto a ingannare l’opinione pubblica americana con una propaganda travestita da "analisi militare indipendente". «È come se ci avessero detto: "Noi abbiamo bisogno che vi leghiamo le vostre mani dietro la schiena e muoveremo la vostra bocca per voi"» racconta Robert S. Bevelacqua, un "berretto verde" a riposo, ex analista di Fox News.Kenneth Allard, un ex analista militare della NBC che ha insegnato informazione di guerra alla National Defense University, ha dichiarato che la campagna corrispondeva esattamente a una sofisticata operazione di informazione: «questa era una precisa politica coerente e attiva».Al deteriorarsi delle condizioni dell’Iraq, ha ricordato Allard, vide una distanza abissale fra quanto veniva detto riservatamente agli analisti e quanto è stato rivelato da inchieste e libri successivi.«Notte e giorno», si è lamentato Allard, «ho avuto la sensazione che fossimo stati turlupinati». Il Pentagono, da parte sua, difende i suoi rapporti con gli analisti militari, e sostiene di aver passato loro soltanto dati oggettivi sulla guerra.Un portavoce del Pentagono, Bryan Whitman, ha detto che «lo scopo di tutto ciò non era altro che un onesto tentativo di informare il popolo americano». Whitman ha aggiunto che era “abbastanza incredibile” pensare che dei militari in pensione potessero essere allenati e trasformati in «burattini del Dipartimento della Difesa». [...]

Molti analisti hanno negato con forza di essere stati cooptati o di aver consentito che i loro interessi economici esterni condizionassero i loro commenti via etere, e alcuni hanno usato la loro tribuna per criticare lo svolgimento della guerra. Diversi, come Jeffrey D. McCausland, un analista militare della CBS nonché lobbista dell’industria della difesa, hanno detto di aver puntualmente informato i loro network circa il loro lavoro esterno e si sono astenuti da trasmissioni che andassero a interferire con i loro interessi d’affari. «Non sono qui per rappresentare l’Amministrazione», ha detto Mc Causland. Alcuni funzionari dei network, nel frattempo, hanno ammesso solo una limitata consapevolezza delle interazioni dei loro analisti con l’Amministrazione. Hanno dichiarato che sebbene fossero sensibili rispetto a potenziali conflitti d’interesse, non applicarono tuttavia ai loro analisti gli stessi parametri etici cui sottostanno i loro dipendenti in merito agli interessi finanziari esterni. Hanno sostenuto che l’onere di rivelare i conflitti spettasse ai loro analisti. E hanno inoltre fatto notare che, qualunque fosse il contributo degli esperti militari, i molti giornalisti dei network hanno dato copertura alle notizie di guerra per anni in tutta la loro complessità.A cinque anni di distanza dall’inizio della guerra in Iraq, la maggior parte dei dettagli di questa architettura e organizzazione della campagna del Pentagono non erano ancora stati rivelati, ma «The New York Times» è avuto successo nel far causa a carico del Dipartimento della Difesa per ottenere l’accesso a 8.000 pagine di messaggi e-mail, trascrizioni e documentazioni varie, che descrivono anni di riunioni riservate, viaggi in Iraq e a Guantanamo e una massiccia operazione del Pentagono sui temi chiave.

Questi documenti svelano un rapporto simbiotico nel quale le normali linee di demarcazione tra governo e giornalismo sono state travolte. I documenti interni del Pentagono si riferiscono spesso agli analisti militari definendoli come "moltiplicatori della forza del messaggio", "surrogati" sui quali è possibile contare per dispensare gli "argomenti e i messaggi" dell’Amministrazione a milioni di americani "sotto forma di opinioni strettamente personali". Dai documenti si ricava che nonostante molti analisti siano consulenti pagati dai network, con gettoni da 500 a 1000 dollari per ogni comparsata, durante gli incontri del Pentagono parlavano alle volte come se stessero operando dietro le linee nemiche. Alcuni suggerirono al Pentagono dei trucchi per aver la meglio sui network [...].

Alcuni avvisarono di storie in programmazione o spedirono al Pentagono copie della loro corrispondenza con i direttori dei notiziari. Molti – anche se certamente non tutti – ripeterono in buona fede i temi chiave tesi a contrastare le critiche. «Ottimo lavoro»: queste le parole di Thomas G. McInerey, un generale in pensione dell’Air Force, consulente e analista di Fox News, scritte al Pentagono dopo aver ricevuto fresche istruzioni sugli argomenti chiave alla fine del 2006: «Ne faremo uso.» In svariate occasioni risulta dai documenti che l’Amministrazione ha reclutato gli analisti quasi fossero una forza di intervento rapido volta a smentire colpo su colpo quel che veniva considerato come una copertura mediatica negativa dei fatti, tra cui certi servizi degli stessi corrispondenti dei network dal Pentagono. Ad esempio, quando alcuni articoli rivelarono che i soldati in Iraq stavano morendo a causa dell’inadeguatezza delle loro protezioni personali, un alto funzionario del Pentagono scrisse ai colleghi: «Credo che i nostri analisti, opportunamente preparati, possano controbattere in questa arena».

I documenti rilasciati dal Pentagono non mostrano alcun do ut des in tema di commenti e contratti. Ma alcuni analisti hanno detto che hanno usato l’accesso speciale come un’opportunità di marketing e di relazioni o per affacciarsi a future possibilità d’affari.John C. Garrett è un colonnello dei Marine in pensione e analista non retribuito per i canali TV e radio di Fox News. È anche un lobbista alla Patton Boggs, un’impresa che aiuta le aziende a vincere contratti con il Pentagono, anche in Iraq. Nei suoi materiali promozionali, dichiara di essere «aggiornato a cadenza settimanale con accessi e incontri con il segretario della difesa, il presidente dei Joints Chiefs of Staff (gli stati maggiori riuniti delle varie armi, NdT) nonché di altre importanti figure decisionali ad alto livello dell’Amministrazione.» Un cliente riferì agli investitori che gli accessi speciali e i decenni di esperienza di Garrett lo hanno aiutato «a sapere in anticipo – e in dettaglio – il modo migliore di soddisfare i bisogni» del Dipartimento della Difesa e di altre agenzie. Nelle interviste Garrett ha detto che c’era un inevitabile sovrapposizione nel suo duplice ruolo. Ha ammesso di aver ottenuto «informazioni che altrimenti non otterresti» grazie agli incontri e ai tre viaggi in Iraq sponsorizzati dal Pentagono. Ha altresì riconosciuto di aver usato il suo accesso e le sue informazioni per identificare opportunità per i clienti [...].

Allo stesso tempo, in una e-mail al Pentagono, Garrett esibì un grande zelo nel voler essere d’aiuto con i suoi commenti per TV e radio. «Per favore fatemi sapere se avete qualsiasi punto specifico che intendete affrontare o che preferite minimizzare», scrisse nel gennaio 2007, prima che il presidente Bush andasse in TV a descrivere la strategia di ripresa (surge) in Iraq. Per contro, molti analisti hanno detto che l’Amministrazione ha dimostrato che c’è un prezzo da pagare nel sostenere le critiche. «Perderete ogni accesso» ha detto uno di loro, McCausland. [...]Già all’inizio del 2002 era in corso una pianificazione dettagliata per una possibile invasione dell’Iraq, ma si evidenziava ancora un ostacolo. Molti americani, come risultava dai sondaggi, erano poco inclini a invadere un Paese senza alcuna chiara connessione con gli attentati dell’11 settembre. I funzionari del Pentagono e della Casa Bianca ritennero che gli analisti militari avrebbero potuto avere un ruolo cruciale per aiutare a prendere il sopravvento su tale resistenza.Torie Clarke, l’ex sottosegretaria alla Difesa per gli affari pubblici che sovrintendeva alle pubbliche relazioni e ai rapporti del Pentagono con gli analisti, giunse al suo incarico con idee precise sul modo in cui si doveva ottenere quel che lei chiamava “dominanza informativa”. In una cultura mediatica satura di persuasioni occulte, l’opinione viene influenzata per lo più dalla voce di chi sia percepito come figura autorevole e del tutto indipendente. Così, ancora prima dell’11 settembre, aveva costruito all’interno del Pentagono un sistema volto a reclutare "persone con influenza cruciale", in procinto di congedarsi o di cambiare attività, che con un’assistenza adeguata avrebbero potuto divenire elementi su cui far conto per far sorgere un sostegno popolare alle priorità dettate da Rumsfeld.

Nei mesi che seguirono l’11 settembre, quando ogni network si precipitava per accaparrarsi la propria squadra all-star di ufficiali militari in pensione, la signora Clarke e i suoi collaboratori intuirono una nuova opportunità. Per la squadra della Clarke, gli analisti militari erano il massimo quanto a "persone con influenza cruciale": autorevoli, e in maggioranza decorati come eroi di guerra, tutti in grado di raggiungere una vasta audience. Gli analisti, notavano, spesso catturavano per più tempo gli spettatori rispetto ai corrispondenti dei network, e non stavano semplicemente spiegando le capacità degli elicotteri Apache. Stavano strutturando il modo in cui gli spettatori dovevano interpretare gli eventi. Inoltre, mentre gli analisti erano dentro i media delle notizie, non ne facevano parte. Erano uomini militari, molti dei quali sintonizzati ideologicamente con la squadra di cervelli neoconservatori dell’Amministrazione, dei quali molti avevano un ruolo chiave presso un’industria militare che si attendeva grandi incrementi nel bilancio in vista di una guerra in Iraq. [...]

Perfino analisti senza alcun legame con l’industria della difesa e nessuna simpatia per l’Amministrazione, erano restii a essere critici nei confronti dei leader militari, con molti dei quali erano amici.« È davvero difficile per me criticare l’esercito statunitense», ha detto William Nash, un generale a riposo dell’esercito, analista alla ABC. «È la mia vita...». Altre amministrazioni presidenziali fecero in passato dei tentativi sporadici e su scala ridotta volti a costruire dei rapporti con gli analisti militari occasionali. Ma si trattava di casi irrisori, se comparati con quanto aveva in mente il team di Torie Clarke. Don Meyer, un aiutante della Clarke, ha affermato che nel 2002 fu presa una decisione strategica che puntava a fare degli analisti il fulcro della spinta impressa alle pubbliche relazioni per costruire le giustificazioni per la guerra. I giornalisti venivano dopo: «Non volevamo dipendere da loro tanto da farne il nostro principale veicolo di diffusione delle informazioni». Il normale ufficio stampa del Pentagono sarebbe stato tenuto separato dagli analisti militari. Agli analisti sarebbe invece venuto incontro un piccolo gruppo di funzionari di nomina politica, imperniato su Brent T. Krueger, un altro assistente di alto rango della Clarke. La decisione richiamava altre tattiche dell’Amministrazione che mandavano sottosopra il giornalismo tradizionale. Delle agenzie federali, per esempio, hanno pagato degli editorialisti affinché scrivessero in favore dell’Amministrazione. Avevano distribuito alle stazioni televisive locali centinaia di pseudo-notizie grondanti di resoconti melliflui sulle magnifiche sorti e progressive dell’Amministrazione. Lo stesso Pentagono ha pagato segretamente i quotidiani irakeni per pubblicare la propaganda della Coalizione.Anziché perdersi nelle lamentele sul “filtro dei media”, ciascuna di queste tecniche semplicemente riconvertiva il filtro in un amplificatore. Stavolta, ha detto Krueger, gli analisti militari starebbero «scrivendo la pagina delle opinioni» per la guerra.

L’assemblaggio della squadra
Sin dall’inizio, rivelano i colloqui, la Casa Bianca si è molto interessata a quali analisti erano stati identificati dal Pentagono, richiedendo liste di potenziali aderenti e suggerendo dei nomi. L’equipe di Torie Clarke ha redatto delle schede riassuntive che descrivevano il loro background, le loro affiliazioni d’affari e le posizioni da essi assunte sulla guerra.[...]
Un po’ alla volta il Pentagono è arrivato a reclutare più di 75 ufficiali in pensione, sebbene alcuni abbiano partecipato solo brevemente e occasionalmente. Il contingente più numeroso è stato affiliato a Fox News, seguito dalla NBC e dalla CNN. Ma furono inclusi anche gli analisti della CBS e dell’ABC. Alcuni di loro, anche se non erano sul libro paga di alcun network, riuscivano a essere influenti in altri modi, sia perché ospiti di trasmissioni radiofoniche, sia perché spesso scrivevano editoriali o perché venivano citati da riviste, siti web e giornali.Almeno nove di loro hanno scritto articoli di commento per il «New York Times.» Il gruppo era rappresentato in modo preponderante da uomini impegnati ad aiutare le società a vincere contratti militari. Diversi di loro ricoprivano posizioni di alto grado presso i contractor che davano loro una responsabilità diretta per conquistare nuovi affari presso il Pentagono. James Marks, un generale a riposo dell’esercito e analista della CNN dal 2004 al 2007, si batteva per ottenere contratti nei settori dell’intelligence e della difesa in qualità di manager di alto rango della McNeill Technologies. Ancora, altri erano consiglieri di amministrazione di aziende militari che affidavano loro la responsabilità degli affari con il governo. Il generale McInerey, analista della Fox, per esempio, siede nei consigli di amministrazione di vari contractors militari, compresa la Nortel Government solutions, un fornitore di reti di comunicazione.

Diversi erano lobbisti dell’industria della difesa, come McCausland, che lavora per la Buchanan Ingersoll & Rooney, un peso massimo fra gli studi di lobbisti, presso cui svolge le funzioni di direttore di un team sulla sicurezza nazionale che rappresenta svariati contractor militari. «Ai clienti offriamo l’accesso alle persone in grado di prendere le decisioni chiave», recitava allettante il team di McCausland sul sito web aziendale. McCausland non era il solo analista a fare questa promessa. Un altro era Joseph W. Ralston, un generale dell’Air Force a riposo. Subito dopo aver firmato con la CBS, il generale Ralston fu nominato vice presidente del Cohen Group, una società di consulenza capeggiata da un ex segretario della difesa, William Cohen, ora a sua volta analista sulla politica mondiale per la CNN. «Il Cohen Group sa che arrivare al “sì” nel mercato dell’industria aerospaziale e della difesa, sia negli Stati Uniti sia all’estero, richiede che le società abbiano una comprensione sistematica e aggiornata del pensiero di chi prende decisioni a livello di governo», sostiene la società al cospetto dei clienti sul proprio sito web.

mercoledì 23 aprile 2008

Hai voluto la bicicletta? E ora pedala!

Il primo atto del governo Berlusconi che nascerà tra pochi giorni si è già compiuto ieri. E cioè il prestito ponte di 300 milioni di euro che Berlusconi ha chiesto a Prodi per dare ancora qualche settimana di vita ad Alitalia prima del suo quasi certo commissariamento.
Prodi voleva concedere solo 100 milioni ma, dal momento che tra poco Berlusconi sarà a Palazzo Chigi, ha accettato la richiesta dei 300 milioni per scaricare sul nuovo governo tutte le critiche che seguiranno al fallimento della compagnia aerea.

E anche se si tratta di una cifra notevole – l’UE comunque dovrà presto valutare se considerarla o meno come aiuto di Stato - che in teoria dovrà essere restituita entro il 31 Dicembre 2008, Prodi ha fatto bene a mettere Berlusconi con le spalle al muro impedendogli così di accampare qualsiasi scusa se la fantomatica “cordata patriottica” non verrà allo scoperto ed evitando soprattutto di essere additato come unico responsabile del fallimento di Alitalia per non aver concesso la cifra necessaria al nuovo governo atta a garantirsi i tempi tecnici per ricercare un nuovo acquirente.

Infatti Berlusconi, ottenuta la cifra richiesta, ha subito usato toni morbidi verso il governo Prodi scaricando tutte le responsabilità del fallito accordo con Air France sui sindacati dichiarando "I francesi non si sono ritirati perché ci sono state interferenze politiche. Da un lato la situazione si è chiusa perché il governo non ha accettato le condizioni imperative che erano state poste da Air France, tra le quali il prezzo che non era ritenuto congruo e il fatto che si dovesse rinunciare al trasporto delle merci. Ma la prima motivazione per cui Air France ha detto di no è il veto opposto dai sindacati, il grande, deciso, fermo no dei sindacati a ciò che Air France aveva proposto come riduzione del personale. Il governo ha dato i mezzi alla compagnia per sopravvivere per i prossimi mesi, che saranno impiegati da una compagine di imprenditori italiani, banche e compagnie aeree, per guardare i conti di Alitalia. Dopo la due diligence di 3-4-5 settimane questa compagine, coordinata da Bruno Ermolli, dovrà presentare un'offerta impegnativa, che comporterà dolorosi tagli di personale. Ci saranno meccanismi di assistenza da parte dello Stato per chi perderà il lavoro. L'obiettivo è portare la compagnia a chiudere i bilanci positivamente".

Oggi comunque in Borsa il titolo Alitalia ha perso ancora circa il 3% ma il prezzo sarà fissato solo a fine seduta in quanto già da ieri è stato sospeso “in attesa di comunicazioni”.

Quindi Silvio, dopo aver vinto facilmente le elezioni, sta già avendo un assaggio di ciò che lo aspetta quando si sarà insediato a Palazzo Chigi. A questa patata bollente si aggiungerà presto quella dei rifiuti campani, di cui non si sa più nulla dal giorno del verdetto elettorale.

E anche per quanto riguarda la formazione del nuovo governo e l’obiettivo di incastrare tutti i pezzi del puzzle – che adesso sono solo 60 tra ministri, viceministri e sottosegretari – Berlusconi sta già penando per i veti incrociati di Lega e AN, per esempio sul ruolo da affidare a Formigoni che alla fine resterà alla Presidenza della Regione Lombardia per ridurre al minimo il numero degli scontenti.

Lo stesso Berlusconi ha infatti ammesso che "Questi sono stati giorni di afflizione e continueranno fino a quando non si sarà determinata la formazione di questo nuovo governo, perché si accontenta una persona e se ne scontentano tante altre".

Insomma sono passati solo 10 giorni dalla vittoria elettorale e Silvio ha già numerose gatte da pelare, e altre ben peggiori lo attendono nei prossimi mesi a partire dalla grave situazione economica del Paese con i salari e le pensioni che continuano a perdere potere d’acquisto e con il prezzo del petrolio e dei prodotti agricoli primari alle stelle.
Così, solo per cominciare con il lungo elenco dei problemi che si ritroverà sulla sua scrivania di Palazzo Chigi e che dovrà affrontare al più presto.

Quindi è proprio il caso che Silvio si stampi bene in mente il vecchio adagio “Hai voluto la bicicletta? E ora pedala!”.
E di corsa.

martedì 22 aprile 2008

Paraguay: vince il “Vescovo rosso”

Il Paraguay, con le recenti elezioni presidenziali vinte dall’ex vescovo vicino alla Teologia della Liberazione Fernando Lugo, chiude un capitolo della propria storia durato 60 anni.
Anni che hanno visto al potere quel Partito Colorado che appoggiò i 35 anni di feroce dittatura di Alfredo Stroessner e che riuscì a restare al vertice anche in democrazia dopo la fine della dittatura nel 1989.

Lugo, dopo aver lasciato il suo posto di vescovo di San Pedro, è stato sospeso dal Vaticano e ora scatterà l'esclusione a divinis dal sacerdozio. Lo stesso presidente della Conferenza episcopale paraguaiana, Ignacio Gogorza, ha detto che sara' il Papa in persona ad occuparsi della situazione del vescovo di San Pedro. Addirittura. Ma d’altronde ciò è la diretta conseguenza del fatto di essere stato accusato di essere troppo vicino a Hugo Chavez.

Lugo però non se ne preoccupa dichiarando “uno rimane per tutta la vita un uomo di chiesa, mi preparo a servire l'intero paese”.
Avrà di fronte comunque un compito molto difficile dovendo rimettere in sesto un Paese allo sfascio economicamente con 2 milioni di persone che sono emigrate - mentre 6 milioni sono restati in patria - e con l’assoluta necessità di una riforma agraria per distribuire la terra ai tanti contadini che ne sono privi.

Que le vaya bien!


Vince Lugo, avanza il nuovo Paraguay
di Maria Vittoria Orsolato - Peacereporter

Dopo 60 anni il Paraguay si sveglia finalmente libero. Fernando Lugo, l’ex vescovo di San Pedro, ha praticamente schiacciato gli avversari nella tornata elettorale che si è chiusa oggi alle 16. Con il 41% dei consensi, il candidato dell’Alianza Patriotica para el Cambio ha vinto la presidenza e soprattutto ha reso possibile, per la prima volta nella storia di questo Paese, un cambiamento nell’amministrazione senza spargimento di sangue e senza colpi di Stato.

I disordini paventati dal presidente uscente Nicanor Duart Frutos non si sono verificati e la tornata elettorale si è svolta nella massima tranquillità e trasparenza. Sono state infatti decine le denunce di irregolarità nei seggi che hanno portato gli osservatori, sia interni che internazionali, ad aggiustare il tiro su quelli che sarebbero stati i risultati.
Risultati che per i paraguayani sono stati chiari fin dalle 18, quando nelle strade delle maggiori città sono iniziati i caroselli degni di una calcistica vittoria mondiale e le manifestazioni di giubilo tipiche di chi sembra essersi liberato da un pesante fardello."Abbiamo scritto una pagina nuova nella storia politica del Paraguay – queste le prime parole del neopresidente della Repubblica – se oggi si sogna un Paese migliore, la responsabilità e il merito di questo sogno vanno solo a voi paragauayani, patrioti di questo 20 di aprile ed eroi di un nuovo Paese".
Ad accalamare il vescovo che da domani verrà apostrofato come presidente, una moltitudine indescrivibile di cittadini, si presume più di 100.000, che ha invaso le strade del centro della capitale, Asunciòn, bloccando il traffico sventolando il tricolore al ritmo di danza e dei canti “Se siente, Lugo presidente” e “Que se fue Nicanor”.

Ed è stata probabilmente questa esplosione popolare di giubilo ad aver convinto la candidata Colorada, Blanca Ovelar, ad ammettere candidamente la sconfitta solo un paio di ore dopo la chiusura dei seggi : "Riconosciamo il trionfo del candidato Fernando Lugo e assumiano che i risultati della consultazione popolare sono irreversibili". Parole secche e incontrovertibili quelle della primadonna che, con il 31% delle preferenze, ha dato il volto, o meglio, la faccia alla clamorosa débacle del partito repubblicano più longevo del Sudamerica.
Sulla stessa lunghezza d’onda l’altro candidato, l’ex generale Lino Oviedo, allineatosi nelle congratulazioni al neopresidente affermando che "Il Paraguay era disperatamente bisognoso di un cambio alla sua guida. Io proponevo un’alternativa ma quella del senor Lugo è stata evidentemente quella preferita dall’amato popolo. Appoggerò la politica dell’ex vescovo ogni qualvolta questa rappresenti il bene del Paese".

Con la vittoria dell’ Alianza Patriotica para el Cambio - miscellanea di partiti e movimenti della sinistra e del centro-sinistra paraguayani - cade la penultima delle roccaforti latinoamericane alleate della Casa Bianca, già pronta a dirottare gli stealth espulsi dal nuovo Ecuador di Correa, nella cosidetta zona della Tripla Frontera, di cui il Paraguay fa parte assieme a Brasile e Argentina
Pare poi che il (mon)signor Presidente darà del filo da torcere proprio ai suoi grandi vicini. Se infatti, come da programma, pretenderà la rinegoziazione dei penalizzanti trattati energetici sulle due grandi dighe di Itaipù e Yaciretà, colossi dell’idroelettrica costruiti lungo il Rio Paranà, i rapporti diplomatici potrebbero incrinarsi bruscamente. Quello che è certo, ed emerge con forza da questa consultazione popolare è che il Paese segnato da una delle più cruente dittature della seconda metà del ‘900, cerca di rialzarsi e soprattutto di mantenersi sulle proprie gambe. La svolta socialista che ha trasformato la morfologia politica dell’America Latina ha toccato anche questa piccola, ma orgogliosa nazione. Che, paradossalmente, l’uomo che l’ha resa possibile sia anche, e prima di tutto, un uomo di Santa Madre Chiesa per i paraguayani non è altro che il “signo de Dios”.

lunedì 21 aprile 2008

Il tentativo di Carter: ennesimo fallimento?

L’ex Presidente USA Jimmy Carter è reduce da un tour mediorientale che lo ha visto protagonista di incontri con diversi esponenti di Hamas, tra cui il leader Khaled Meshaal in esilio in Siria. Naturalmente il suo tour è stato osteggiato da USA e Israele, ma ci sono state comunque alcune importanti eccezioni all’interno del governo e delle istituzioni israeliane.

E oggi, in un discorso al Consiglio Israeliano sulle Relazioni Estere all’hotel King David di Gerusalemme, Carter ha annunciato che Hamas è pronto ad accettare il diritto di Israele “di vivere in pace come un vicino della porta a fianco” e un accordo di pace negoziato dal presidente Abu Mazen, se sarà approvato dal popolo palestinese attraverso un referendum ad hoc.

Carter ha infatti dichiarato “(I leader di Hamas) hanno detto che accetteranno uno stato palestinese con i confini del 1967 se i palestinesi daranno la loro approvazione…..anche se Hamas potrebbe non essere d’accordo con alcuni termini dell’accordo. Ciò significa che Hamas non minerà gli sforzi di Abu Mazen per negoziare un accordo se i palestinesi lo sosterranno con un voto libero. Gli sforzi di pace sono regrediti dalla Conferenza di Annapolis e il problema non è che io ho incontrato Hamas in Siria. Il problema è che Israele e USA rifiutano di incontrarsi con qualcuno che deve essere coinvolto”.

Hamas comunque non ha accettato l’invito di Carter a fermare i lanci di razzi sulle cittadine israeliane vicine al confine ma si è dichiarata d’accordo nell’incontrare il vice premier israeliano, Eli Yishak, per uno scambio di prigionieri. Inoltre Meshaal ha dichiarato anche che Hamas "rispetterà la volontà dei palestinesi anche se questo andasse contro le sue convinzioni".
Qualche spiraglio di luce potrebbe perciò aprirsi anche se Carter ha ripetuto più volte di non avere alcun mandato ufficiale per assicurare un accordo di pace tra Israele e Palestina. Quindi tutti i suoi sforzi potrebbero risultare vani e non sarebbe certo una novità l’ennesimo fallimento su questa annosa questione.
La guerra intanto prosegue indisturbata tra raid aerei, lanci di razzi e attentati suicidi.

Qui di seguito un articolo che sintetizza il tour mediorientale di Carter.

Jimmy Carter incontra Hamas
di Elle Emme - Altrenotizie

Una riunione in un luogo segreto a Damasco, senza giornalisti e sotto strette misure di sicurezza: l'ex presidente americano Jimmy Carter ha incontrato Khaled Meshal, leader di Hamas in esilio in Siria. I due hanno discusso per cinque ore a porte chiuse di tutti i punti scottanti del conflitto israelo-palestinese: il controllo dei confini di Gaza, il negoziato per la liberazione del soldato rapito Gilad Shalit, la fine dell'embargo che Israele impone da dieci mesi alla Striscia, un cessate-il-fuoco tra Israele e Hamas a Gaza. L'incontro è il culmine del viaggio di Carter, che come un tornado sta attraversando il Medioriente per rompere lo stallo in cui si sono arenate le iniziative diplomatiche. "Non v'è alcun dubbio che, se Israele vorrà raggiungere pace e giustizia nelle relazioni con i vicini Palestinesi, Hamas dovrà essere incluso nel processo". Con questa dichiarazione d'intenti, Carter ha creato il subbuglio nell'amministrazione americana e nel governo israeliano, la cui strategia di isolare Hamas sembra forse mostrare qualche cedimento.

Jimmy Carter, premio Nobel per la pace nel 2002, è famoso in Medioriente, e soprattutto in Israele, come negoziatore del trattato di pace tra Israele ed Egitto nel 1978 che normalizzò le relazioni tra i due stati dopo le guerre del '67 e del '73 e portò al ritiro israeliano dal Sinai. La pubblicazione nel 2006 del suo libro “Israele: pace non apartheid” ha suscitato un coro di indignazione quasi unanime sia nello stato ebraico che in patria, per aver paragonato l'Occupazione dei Territori Palestinesi al regime di segregazione razziale sudafricana.

La sua visita attuale in Israele si è rivelata piena di difficoltà, per il boicottaggio che il governo Olmert sta esercitando nei suoi confronti. Lo Shin Bet, il servizio di sicurezza israeliano, ha negato assistenza all'ex-presidente, che si è dovuto affidare per la propria sicurezza agli agenti della CIA venuti con lui da Washington. Il rifiuto dello Shin Bet è uno schiaffo senza precedenti: è costume che presidenti in carica ed ex-presidenti americani in visita in Israele siano protetti dai servizi locali e lo stesso trattamento viene riservato a personalità israeliane in visita in USA. Ma questa volta, lo Shin Bet ha dichiarato Carter persona non gradita, per la sua volontà di incontrare i leader di Hamas.

Nonostante il ministro delle difesa Barak e il premier Olmert abbiano boicottato la visita, Carter ha incontrato tre leader politici israeliani: il presidente Peres, ma soprattutto Avigdor Lieberman e Eli Yishai. Mentre Lieberman gli ha illustrato il suo piano per annettere le colonie illegali in West Bank scambiandole con l'espulsione dei “triangolo arabo” dallo stato ebraico, il colloquio con Yishai ha rappresentato una novità nel panorama israeliano. Yishai, vicepremier e capo del partito ultra-ortodosso dello Shas, si è offerto volontario per aprire un negoziato con Hamas ed incontrare personalmente i leader del movimento islamico, con lo scopo di liberare il caporale dell'IDF Shalit all'interno di un accordo per lo scambio di prigionieri. Questo sorprendente risultato della visita di Carter rappresenta il primo segnale di cedimento della strategia israeliana di isolamento di Hamas e potrebbe portare ad inaspettati sviluppi.

Ma il nodo cruciale della visita di Carter è il giro di colloqui con i vari leader palestinesi sparsi per il Medioriente. Dopo aver visto il presidente palestinese Abu Mazen, Carter ha incontrato a Ramallah Naser Shaer, ex vicepremier del deposto governo di Hamas, con cui ha discusso della possibilità di un cessate-il-fuoco e della ripresa del dialogo intra-palestinese tra Hamas e Fatah. Determinato ad incontrare i dirigenti di Hamas a Gaza, Carter ha cercato di accedere alla Striscia, ma l'IDF gli ha vietato l'ingresso, così l'ex presidente è volato al Cairo per incontrare Mahmoud az-Zahar, leader dell'ala radicale di Hamas nella Striscia di Gaza.

L'aspetto più importante del viaggio di Carter è senz'altro il meeting con Khaled Meshal a Damasco: il primo contatto tra establishment americano e leader di Hamas dai 2006, quando Jesse Jackson fece visita a Meshal. Accusato di rompere l'isolamento di Hamas, classificato come movimento terroristico secondo la legge americana, Carter ha voluto sedere ad un tavolo con Meshal per affrontare le questioni mediorientali e conoscere le strategie di Hamas, certo che aprire al movimento e coinvolgerlo in un dialogo sia l'unica strada da percorrere. E anche per consegnare a Meshal l'offerta di Eli Yishai, ministro dello Shas, per iniziare i negoziati per lo scambio di prigionieri. Meshal si è riservato alcuni giorni per decidere sull'apertura israeliana.

In un'intervista sulla televisione israeliana Carter ha spiegato il suo punto di vista. Alla domanda “Perché mentre a fine anni Settanta la strategia della sua amministrazione era di ostracizzare l'OLP per convincerla a riconoscere Israele, ora con Hamas ha deciso di dialogare?”, Carter risponde che il suo tour non è un contatto diplomatico ufficiale, quindi non si tratta di negoziati ma di un viaggio esplorativo, sperando che i leader israeliani, che non si sono degnati di riceverlo prima, ne vogliano discutere in seguito. "Parlare direttamente con Hamas è l'unica soluzione. A Washington è in atto da otto anni una politica senza precedenti: tagliare tutti i contatti diplomatici. Ma questo isolamento porta ad una esasperamento delle posizioni estreme". Sabato Carter è ripartito dopo due giorni di incontri con i leader di Hamas, mentre in patria il presidente Bush e il segretario di stato Rice censuravano le iniziative dell'ex presidente democratico. Ma il suo tour mediorientale, di tappa in Arabia Saudita, può ancora riservare sorprese al suo ritorno in Israele.

sabato 19 aprile 2008

Era ora

Finalmente una buona notizia per milioni di persone. Da una collaborazione pubblica globale nasce il farmaco anti-malaria a prezzo di costo, l’ASMQ, presentato ufficialmente due giorni fa a Rio de Janeiro. Qui di seguito ne parla Emanuele Giordana in un articolo uscito ieri su Il Manifesto.

Mezzo mondo spera nell'«Asmq»
Di Emanuele Giordana

Dietro la battaglia per i farmaci essenziali e la lotta alle pandemie di solito di battaglia ce n'è anche un'altra. Quella contro le multinazionali farmaceutiche e, per dirla tutta, contro chi fa profitti sulla salute, anzi le malattie altrui. Così che la novità rappresentata da un nuovo trattamento contro la malaria (che in soldoni è la razionalizzazione di cure già esistenti) ha un doppio valore perché il nuovo preparato - già registrato e disponibile in Brasile - è il prodotto di una collaborazione pubblica «globale», dove in questo caso la globalizzazione è davvero un elemento...salutare.

Questa partnership innovativa nasce dal rapporto tra l'azienda farmaceutica pubblica brasiliana, Farmanguinhos/Fiocruz, e l'organizzazione no-profit per la ricerca e lo sviluppo di farmaci, Drugs for Neglected Diseases initiative (Dndi). Che ieri hanno lanciato Asmq, nuova dose combinata di artesunato e meflochina, principi attivi antimalarici già noti da tempo alla comunità scientifica, ma che adesso arrivano ai pazienti in un un solo preparato: un'unica pastiglia blu che semplifica il trattamento per adulti e bambini, garantendo la riduzione del numero di pillole e un'assunzione nelle corrette proporzioni.

Questo genere di terapie combinate sono considerate dall'Organizzazione Mondiale della Sanità i trattamenti migliori per curare casi non complicati della diffusissima malaria da Plasmodium falciparum e rappresentano un elemento essenziale della strategia globale di controllo della malattia. La combinazione delle due sostanze deriva dalla razionalizzazione di terapie a base di artemisinina (principio attivo estratto dalla pianta officinale Artemia Annua) che dal 2001 sono raccomandate dall'Oms come trattamento di prima linea. Ma il successo vero sta anche nel metodo che fa dell'Amsq il primo nuovo farmaco contro le «malattie dimenticate» ad essere sviluppato e registrato in Brasile mentre costituisce la seconda combinazione antimalarica resa disponibile grazie all'attività di ricerca dei partner coinvolti nel consorzio del progetto Fact (Fixed-Dose Act), guidato da Dndi, e in cui figurano università e centri studi europei, asiatici e africani in coerenza con una strategia di collaborazione fondata sui tratti di forza dei vari partner, compresi quelli dei paesi in via di sviluppo.

Realizzata da un'azienda farmaceutica pubblica, la medicina diventa così un «bene pubblico», disponibile a prezzo di costo nel settore pubblico dei paesi endemici (2 dollari e mezzo circa). Dicono al Progetto Fact, che il nuovo trattamento sarà presto disponibile per bambini e adulti in tutti i paesi dell'America Latina e dell'Asia sudorientale nel corso del 2008 e del 2009. Con la collaborazione del progetto infatti, il trasferimento della tecnologia è già stato concordato tra la casa brasiliana e l'azienda farmaceutica generica indiana Cipla, così da garantire ai pazienti asiatici un produttore locale. In una parola, fate da voi: non ci sono brevetti capestro da rispettare, leggi da aggirare, sentenze del Wto da ossequiare.

La malaria è la maggiore causa di malattia e di mortalità nel mondo e si stima rallenti la crescita economica dell'1,3% ogni anno nei paesi endemici. È presente in oltre cento nazioni e minaccia la metà della popolazione mondiale: ogni anno si registrano infatti dai 300 ai 500 milioni di casi di malaria nel mondo, con oltre 1 milione di morti. Il 99% dei casi di malaria in Brasile sono localizzati nel bacino amazzonico, dove le autorità del programma di controllo nazionale hanno condotto lo studio di intervento con Asmq.

Lettera 22

giovedì 17 aprile 2008

Pdl-Lega: alleati o cani e gatti?

Come era facilmente prevedibile, la Lega farà vedere i sorci verdi … agli alleati del futuro governo, a cominciare proprio da Berlusconi, e i segnali sono già evidenti. Ieri c’è stato il vertice a Roma tra i leader dei partiti usciti vittoriosi dalle elezioni e Bossi alla fine della riunione aveva dichiarato con estrema nonchalance “Non si è combinato niente. Me ne torno in Insubria” costringendo Berlusconi ad abbozzare una risposta raffazzonata “Nessun contrasto nella riunione. Bossi parla un linguaggio paradossale, iperbolico e metaforico”.
Oggi invece si è tenuta la riunione della Segreteria Politica della Lega a Milano e il comunicato finale non lascia spazio ad alcun dubbio, altro che “linguaggio paradossale, iperbolico e metaforico”.

Infatti il testo recita “Dopo l'inutile vertice romano, la Segreteria ha deciso che, per quanto riguarda la Lega Nord, le prossime riunioni saranno tenute solo con il leader del Popolo della Libertà, Onorevole Silvio Berlusconi. La Segreteria Politica ha ribadito che la Lega Nord ha ricevuto l'imperativo mandato dagli elettori di risolvere le questioni legate al Federalismo e alla Sicurezza. Pertanto, visto lo straordinario risultato ottenuto su questi due temi, non è possibile derogare dall'assoluto rispetto dello stesso. Il momento nel Paese è talmente grave che è necessario vengano prese decisioni rapidissime. E’ pertanto utile nell'interesse di tutti, pur nel rispetto delle prerogative del Presidente della Repubblica, che il Presidente del Consiglio in pectore, On. Silvio Berlusconi, proponga, così come vuole la Costituzione, nel più breve tempo possibile la composizione del Governo”. Più chiaro di così…

Inoltre, sta incontrando ostacoli anche la richiesta della Lega di avere la Presidenza della Regione Lombardia con Castelli. Maurizio Lupi, ex di Forza Italia e ora del Pdl, ha infatti avanzato la candidatura dell’ex sindaco di Milano Albertini per il Pirellone a cui però Castelli ha risposto così “Ha ragione Lupi. Albertini è autorevole, e il Pdl ha preso tanti voti. Diciamo che c'è una partita aperta su varie questioni. Ma io continuo a pensare che Roberto Formigoni rimarrà in Regione. Quindi si sta parlando di una questione virtuale”.

Castelli poi polemizza anche con La Russa che alla richiesta della Lega sulla Presidenza della Lombardia aveva replicato due giorni fa con la necessità di tenere delle elezioni primarie per scegliere il candidato unitario. Castelli gli risponde così “Si vede che c'è qualcuno che ama parlare delle questioni virtuali. Lei sa che tutti gli psicologi dicono che la mente può occuparsi di un problema alla volta? Secondo lei è il caso di occuparsi dei problemi che non ci sono e tralasciare quelli che ci sono? Stiamo parlando di una questione di lana caprina”.

Non c’è che dire, siamo già a questo livello dopo soli 3 giorni dalla vittoria elettorale. Ci sarà da divertirsi…

Gli aiuti della NATO...ai talebani

In Italia non si parla quasi più di Afghanistan e di quanto succede quotidianamente in quel Paese. Sappiamo però che nei giorni scorsi la Francia ha deciso di aumentare il proprio contingente portandolo a 3000 uomini e tra poche settimane vedremo come risponderà il nuovo governo italiano alle reiterate richieste provenienti da USA e NATO di aumentare l’impegno militare, sia in termini numerici che soprattutto operativi.

Intanto ieri altri due soldati della forza ISAF-NATO sono morti (più altri due feriti) in un’esplosione nel sud del Paese ma non si conoscono ancora le rispettive nazionalità. Dall'inizio dell'anno sono 42 i soldati della ISAF-NATO che hanno perso la vita, contro i 220 del 2007.

Qui di seguito c’è un articolo firmato da Enrico Piovesana di Peacereporter che rivela le conseguenze di un episodio, ignorato ovviamente da tutti i media nostrani; ma forse è stato ignorato proprio perché non fa notizia e non rappresenta una novità di cui meravigliarsi. La NATO commette spesso questo genere di “errori”…e nel frattempo l’annuale offensiva di primavera dei talebani è cominciata.


16.4.2008
Afghanistan, la Nato arma i talebani?
Casse piene di armi paracadutate in territorio talebano

La commissione Sicurezza Interna del parlamento afgano ha formalmente accusato la Nato di armare la guerriglia talebana, dichiarando non veritiera la versione dei fatti fornita dai comandi alleati riguardo un grosso rifornimento di armi caduto “per errore” in mano ai ribelli.

Un piano Nato per devastare l’Afghanistan”. Secondo Zalmai Mujaddedi, presidente della commissione, nella notte tra il 27 e il 28 marzo scorsi elicotteri kazachi affittati dalla Nato hanno caricato all’aeroporto militare di Kandahar casse contenenti centinaia di kalashnikov, lanciarazzi e mezzo milione di munizioni, per poi paracadutarli in territorio talebano nel distretto di Arghandab, provincia di Zabul. La commissione parlamentare afferma che il comandante talebano locale, mullah Muhammad Alam, aveva predisposto misure di sicurezza nel luogo esatto della consegna, tali da escludere la tesi alleata dell’errore. “E’ stupefacente che il comandante mullah Alam, proprio quella notte, si trovasse in una casa a cento metri dal luogo in cui sono state paracadutate le casse dagli elicotteri. Se si fosse trattato di un errore, allora spiegatemi chi ha avvertito mullah Alam di recarsi esattamente in quel luogo. Non è la prima volta che sentiamo parlare di forniture di armi ai talebani da parte della Nato. Le forze d’occupazione straniere stavano operando per i propri interessi sulla base di piani volti a devastare l’Afghanistan”. L’onorevole Hamidullah Tokhi, parlamentare eletto nella provincia di Zabul, ha confermato le dichiarazioni di Zalmai Mujaddedi.

Versione ufficiale: casse cadute per errore. La commissione parlamentare si è espressa dopo che il portavoce della missione Nato Isaf, il generale Carlos Branco, era stato costretto domenica a commentare le notizie che circolavano da giorni su armi Nato cadute in mano ai talebani, ammettendo che la cosa era effettivamente accaduta, ma per un errore sul quale si sta investigando.
La presa di posizione dell’organo parlamentare afgano ha subito suscitato la reazione degli Stati Uniti. L’assistente del segretario di Stato Usa, Richard Boucher, ha dichiarato che le affermazioni della commissione sono “infondate” e “prive di logica”.
Il direttore dei servizi segreti afgani, Amrullah Saleh, è intervenuto spiegando che le casse di armi erano destinate a una postazione dell’esercito afgano nella zona di Ghazni, molto più a nord, e che durante il viaggio una delle casse è accidentalmente caduta da uno degli elicotteri in territorio talebano.

A proposito di armi per l’esercito afgano. Da mesi la Nato, o meglio gli Stati Uniti, hanno imposto all’esercito afgano di dimettere i fucili kalashnikov, rifornendo tutti i battaglioni di fucili M-16 made in Usa, con annesse munizioni.

mercoledì 16 aprile 2008

AAA cercasi Sinistra

Qui di seguito un articolo di Bifo sulle cause del disastroso risultato elettorale della sinistra con la sua conseguente scomparsa dal Parlamento.

La bufera ha spazzato via i detriti del ventesimo secolo
di Franco Berardi "Bifo" da www.rekombinant.org/

Non c'è di che rallegrarsi. Il Novecento fu un secolo tremendo di violenza e di guerra, ma aveva per lo meno un orizzonte al quale guardare, una speranza da coltivare. Oggi non vi è più nessun orizzonte, solo paura dell'altro e disprezzo di sé. Questo è l'argomento del quale dobbiamo occuparci, non del risultato delle elezioni. La scomparsa della sinistra e la vittoria definitiva dei razzisti e della mafia è un fatto prevedibile e previsto. La sinistra ha preparato accuratamente questo rovescio. Timorosa di ripetere l'errore del 1998 ha accettato tutto quello che la Confindustria e la Banca Europea hanno imposto, e il risultato è quello che ora vediamo. Come se due errori di segno contrario potessero mai fare una cosa giusta.

Gli operai hanno rifiutato di votare (come non capirli?) oppure hanno votato per i peggiori tra i loro sfruttatori (come non compatirli?). Ma occuparci delle elezioni passate o di quelle future sarebbe pura perdita di tempo. La democrazia rappresentativa da tempo non ha più niente da dare. Ora ha chiuso ufficialmente i battenti.

Olindo e Rosa hanno vinto le elezioni politiche. E allora? Si tratta di curare la malattia, se ne siamo capaci, non di restaurare vecchi apparati. Dobbiamo occuparci della malattia psichica che si manifesta in Italia con l'emergere di un esercito maggioritario di zombie assetati di sangue.

E' già successo in Francia qualche tempo fa. La vittoria di Sarkozy è stata accompagnata dalla scomparsa della sinistra dalla scena politica parlamentare. Perché disperarsi se ora accade in Italia? La sinistra, che avrebbe dovuto essere strumento di organizzazione dell'autonomia della società dal capitale, nel corso del Novecento si è trasformata in un ceto parassitario che succhia il sangue dei movimenti per tradirli in maniera sistematica. Nella versione bolscevica quel ceto politico ha massacrato le avanguardie intellettuali e operaie.

Nella versione socialdemocratica ha venduto le conquiste operaie in cambio di potere economico per le burocrazie. Nella sua attuale versione americanizzata si illude di poter condividere il potere con gli aguzzini. Non si accorgono gli americanoidi all'amatriciana che l'America dei loro sogni sta sprofondando, sconfitta dalla resistenza regressiva dei popoli islamici, e sommersa da una recessione senza vie d'uscita. L'Occidente sprofonda in una recessione che annuncia guerra civile planetaria. Questo lo scenario, questo l'orizzonte.

Ora la società non ha più difese, in compenso non c'è più il ceto politico che la parassitava. Lasciamo perdere l'idea di ricostruire la sinistra, perché la sinistra non ci serve. E' un concetto vuoto, che si può riempire soltanto di passato. La società non ha bisogno di un nuovo apparato di mediazione politica. Non ci sarà mai più mediazione politica. Il capitale ha scatenato la guerra contro la società. Non possiamo far altro che adeguare ad essa i nostri strumenti e i nostri linguaggi.

Non possiamo combattere quella guerra sul piano della violenza, per la semplice ragione che la perderemmo. La società deve costruire le strutture della sua autonomia culturale: dissolvere le illusioni che sottomettono l'intelligenza al lavoro al consumo e alla crescita, curare lo psichismo collettivo invaso dai veleni della paura e dell'odio, creare forme di vita autonoma autosufficiente, diffondere un'idea non acquisitiva della ricchezza. Non abbiamo altro compito. Ed è un compito gigantesco.