lunedì 30 agosto 2010

Da Iraqi Freedom a New Dawn: fuga dalla sconfitta

Domani si conclude ufficialmente la missione Iraqi Freedom, iniziata nel Marzo 2003, e comincia l'operazione New Dawn (Nuova Alba).

Si completa il ritiro delle truppe combattenti USA, ma 52.000 soldati resteranno comunque in Iraq.

Un Paese distrutto fisicamente, economicamente, moralmente e che non ha ancora uno straccio di governo dopo sei mesi dallo svolgimento delle elezioni legislative.

Qui di seguito alcuni articoli sulle condizioni disastrose in cui si trova il Paese alla vigilia della cosiddetta Nuova Alba...


Goodbye Baghdad
di Michele Paris - Altrenotizie - 30 Agosto 2010

Con la propagandata uscita di scena di tutte le truppe di combattimento americane nel mese di agosto, a oltre sette anni dall’inizio della guerra, in Iraq rimangono circa 50 mila soldati che dovrebbero lasciare definitivamente il paese entro la fine del 2011.

Il piano di ritiro, già concordato da George W. Bush con il governo di Baghdad nel 2008, non segnerà tuttavia il disimpegno statunitense dall’Iraq. Se un certo numero di militari sarà destinato a rimanere più a lungo, il ritiro delle forze armate sarà in parte bilanciato dall’arrivo di un esercito di appaltatori e guardie di sicurezza private alle dipendenze del Dipartimento di Stato.

Lo spostamento della quarta brigata Stryker in Kuwait ha dato l’occasione al presidente Obama di annunciare trionfalmente l’obiettivo raggiunto e il mantenimento della promessa che aveva fatto durate le presidenziali di porre fine alla guerra voluta dal suo predecessore.

Nonostante la necessità di presentare la situazione irachena in termini positivi per motivi elettorali in vista del voto di medio termine tra un paio di mesi, dalla Casa Bianca ci si rende perfettamente conto delle gravi minacce che continuano ad incombere sull’Iraq del post-Saddam Hussein.

Oltre al persistere di una profonda crisi sociale ed umanitaria, negli ultimi mesi il tasso di violenza nel paese occupato ha raggiunto i livelli più alti da oltre due anni a questa parte. Una serie di sanguinosi attentati, che hanno colpito in particolare Baghdad e le principali città sunnite, mettono in discussione i progressi fatti segnare tra il 2007 e il 2008.

Il continuo stallo della situazione politica a quasi sei mesi dalle elezioni parlamentari non promette poi nulla di buono. Ciò che permette ai politici e ai media americani di diffondere un messaggio rassicurante circa le condizioni dell’Iraq è piuttosto il numero relativamente contenuto di decessi tra i soldati USA, da qualche tempo per lo più confinati all’interno delle loro basi.

In ogni caso, le truppe che restano tuttora sul territorio iracheno sono in grado di condurre operazioni di combattimento, anche se ufficialmente il loro compito è quello di provvedere alla transizione verso il pieno controllo del paese delle forze locali. Ai vertici del Pentagono, peraltro, sono in pochi a credere in un ritiro completo degli americani dall’Iraq anche dopo la data stabilita dal cosiddetto SOFA (Status of Forces Agreement).

Allo stesso tempo, proprio da Baghdad sono già giunti i primi segnali di una volontà di chiedere alle forze occupanti di rimanere nel paese ben oltre il 2011. Secondo il numero uno dell’esercito iracheno, generale Babaker Zerbari, ad esempio, i soldati americani dovrebbero prolungare la loro presenza almeno fino al 2020.

Saranno insomma le “condizioni sul campo” a decidere della durata dell’occupazione dell’Iraq, come stabilito dagli accordi con Washington. Tra le due parti, infatti, è prevista la costruzione di un “rapporto di lunga durata nel campo economico, diplomatico, culturale e della sicurezza”. Gli Stati Uniti, poi, avranno facoltà di impiegare ogni mezzo “diplomatico, economico o militare” contro eventuali minacce “interne o esterne” al governo di Baghdad.

Quel che è certo è che una parte dei compiti legati al mantenimento della sicurezza nel paese e all’addestramento delle forze di polizia e dell’esercito irachene saranno affidati a “contractors” privati sotto la responsabilità del Dipartimento di Stato USA.

Ad una schiera di privati, che si stima toccherà almeno le settemila presenze, toccherà anche, tra l’altro, occuparsi della difesa degli avamposti americani in Iraq, della conduzione dei voli di ricognizione senza pilota (droni) e dell’attivazione di squadre speciali per interventi in situazioni di crisi.

L’impiego massiccio di operatori a libro paga di aziende appaltatrici private rappresenta già un grave problema sia in Iraq che in Afghanistan, dove il presidente Karzai ha appena emanato un ordine per allontanare quasi tutti i contractors operanti nel paese. La situazione che si prospetta per l’Iraq nei prossimi anni rischia così di mettere nelle mani dei privati un numero ancora maggiore di delicate operazioni che possono avere profondi effetti sulla stabilità del paese.

Il Dipartimento di Stato, inoltre, non sembra avere la competenza necessaria per guidare un esercito di queste proporzioni, che si stima potrebbe costare alle finanze americane oltre due miliardi di dollari. “Il Dipartimento di Stato non ha mai operato in maniera indipendente dalle forze armate americane in una realtà così vasta e potenzialmente piena di rischi”, ha dichiarato al New York Times James Dobbins, ex ambasciatore presso l’UE e già inviato speciale in Afghanistan, Bosnia, Haiti e Somalia. “Si tratta di una situazione senza precedenti”, ha aggiunto.

Il presunto disimpegno promosso da Barack Obama ha ridotto di circa 90 mila unità la presenza delle forze armate americane in Iraq. Ciò non ha ovviamente decretato alcun attenuamento del militarismo a stelle e strisce in Medio Oriente e nel continente asiatico, dal momento che le truppe ritirate dall’Iraq sono state trasferite in Afganistan. Qui si è ormai superata quota 100 mila, in previsione di nuove operazioni che faranno aumentare ancora il numero di vittime civili e militari.

La strategia di Washington non è altro che un’operazione di facciata, diventata indispensabile in seguito alla crescente opposizione interna nei confronti dello sforzo bellico su più fronti. Un impegno militare giustificato dalla lotta al terrorismo islamico ma in realtà dettato dalla necessità di assicurarsi il controllo di un’area cruciale del pianeta per gli interessi geo-strategici americani che continuano ad essere gli stessi anche con un presidente democratico alla Casa Bianca.


Iraq, la grande fuga

di Christian Elia - Peacereporter - 19 Agosto 2010

Si ritira l'ultima unità combattente Usa, prima del 31 agosto, lasciando gli iracheni al loro destino

Lo spiegano tutti i manuali militari, per coloro che trovano interessanti un certo tipo di letture, come un grande esercito debba ritirarsi da un teatro di guerra. In silenzio, senza offrire punti di riferimento ai nemici che - dall'avvento della guerriglia - avrebbe un bersaglio molto facile nelle elefantiache colonne in ritirata.

Gli statunitensi, alla chetichella, hanno applicato alla lettera la tradizione bellica e ieri l'ultima unità combattente Usa ha abbandonato l'Iraq. L'operazione Iraqi Freedom, iniziata il 20 marzo 2003, chiuderà comunque i battenti il 31 agosto prossimo, come era già deciso dal 2008, ma per non esporre i militari a stelle e strisce ad agguati dei ribelli iracheni il ritiro è avvenuto in tempi diversi.

Restano 52mila uomini, con compiti di consulenza e addestramento per le truppe dell'esercito iracheno e della polizia, che saranno il motore della nuova operazione statunitense in Iraq, la New Dawn (Nuova alba), che inizia ufficialmente il 1 settembre prossimo ed è destinata a durare per tutto il 2011, ma con la possibilità di essere prolungata.

L'ansia della classe politica e dei militari iracheni non è servita a convincere l'amministrazione Obama a rinviare il ritiro delle truppe combattenti. L'accordo, del resto, è stato scritto nel 2008 dall'allora presidente Usa George W. Bush e dal premier iracheno Nouri al-Maliki.

Obama, vinte le elezioni, si è limitato a ereditarlo e a confermarlo. D'altronde, sempre più la politica militare Usa si affida in toto alle intuizioni del generale David Petraeus, ora comandante del fronte afgano.

Proprio la battaglia in Afghanistan, per il governo Usa, è quella determinante. A Washington sperano che, come in Iraq, Petraeus s'inventi quell'exit strategy che i politici repubblicani e democratici Usa non hanno saputo immaginare né per Baghdad né per Kabul.

Petraeus, in Iraq, ha preso in mano una situazione rovente. Nel 2006, dopo tre anni di conflitto, la medie delle vittime era di 3mila al mese. Ha avuto un'intuizione chiave, il generale. Coinvolgere i sunniti nella pacificazione del Paese. Non ci voleva un genio, ma dall'invasione del 2003 i sunniti erano stati purgati dalla società, dalla politica, dai ranghi militari.

L'arrivo dei combattenti del jihdaismo internazionale, sotto le insegne vere o presunte di al-Qaeda, avevano creato un ginepraio nel quale hanno perso la vita più di 4500 militari Usa e quasi un milione di iracheni. Petraeus tratta con i clan sunniti, affidando alle loro milizie, i Consigli del Risveglio (al-Sahwa), il compito di combattere i miliziani 'stranieri'. L'hanno fatto e la situazione è cambiata.

L'attentato dei giorni scorsi alle reclute dell'esercito iracheno, in fila davanti al ministero della Difesa a Baghdad, costato la vita ad almeno settanta persone, dimostra come la situazione sia tutt'altro che pacificata.

Solo che i ribelli, adesso, puntano su attentati singoli che facciano più danni possibile, mentre per anni lo stillicidio era quotidiano e terribile. Anche la classe politica irachena non è pronta e lo dimostra il fatto che il 7 marzo scorso si è votato, ma ancora non si è potuto formare un governo, tra sciiti moderati e filo-iraniani, curdi e sunniti da coinvolgere nel potere.

La realpolitik, però, non può fare soste e adesso l'Afghanistan è la priorità del governo Usa. E' là che serve Petreaeus, è là che serve il grosso della macchina militare Usa, sempre più costosa e sempre più tallone d'Achille di un'economia statunitense che fatica a riprendersi.

Nel periodo di massima espansione, il contingente Usa in Iraq contava 170mila uomini. Un'enormità. L'alba nuova di oggi è sorta sui marines, piegati sotto i loro zaini, che si dirigono verso il Kuwait e l'Arabia Saudita. Resta da da capire se anche per l'Iraq è un nuovo giorno.


L'addio dei marines senza vittoria. A Baghdad resta il fantasma del Libano

di Bernardo Valli - La Repubblica - 30 Agosto 2010

Invincibili ma non vittoriosi, gli americani lasciano l’Iraq. Senza un saluto, senza un addio. In sette anni più di un milione di soldati Usa si sono avvicendati in questo Paese. La gente non sa se essere soddisfatta o preoccupata della partenza delle truppe straniere per la situazione in cui la lasciano

Il primo soldato americano che ho incontrato sette anni fa non aveva più di vent'anni. Era di New York e aveva un'espressione smarrita. Forse soltanto stupita. Era appena entrato nella capitale nemica, l'aveva espugnata, ma non sapeva contro chi puntare il fucile automatico. Nessuno lo minacciava.

Sulla piazza, nel quartiere popolare allora chiamato Saddam City e poi ribattezzato Sadr City, c'erano soltanto centinaia di ragazzi preoccupati di mettere al sicuro il loro bottino: frigoriferi, armadi, ventilatori, seggiole, materassi, appena rubati nei ministeri, negli ospedali, nei commissariati di polizia, nelle caserme abbandonate.

Quei ragazzi non guardavano neppure quel soldato americano mandato in avanguardia nel labirinto di Baghdad. A loro importava che non ci fossero più poliziotti e soldati iracheni nei paraggi. Erano tutti scomparsi.

Se l'erano svignata. E lui, il giovane Marine di New York, era stupito di non imbattersi in qualche nido di resistenza. Invece della battaglia che si aspettava, assisteva ad un saccheggio. Forse, pensò, gli iracheni festeggiano cosi la fine della dittatura.

Comunque ai suoi occhi la guerra appariva ormai conclusa. Di questo era sicuro. Ed era altrettanto certo di averla vinta. E invece tutto stava per cominciare.

Dopo quel Marine, che fu tra i primi a entrare a Sadr City, nei sette anni successivi più di un milione di soldati americani si sono avvicendati in Iraq. Quasi tutti adesso sono partiti. E dopo avere raggiunto il vicino Kuwait sono ritornati in patria o sono stati smistati in Afghanistan. Ma se ne sono andati senza cantare vittoria, anche se con il piglio di soldati di un grande esercito potente e invincibile.

Nell'epoca dei conflitti asimmetrici una forza armata tradizionale (confrontata a realtà sociali e culturali ostili, da cui emergono guerriglie che agiscono nella clandestinità, e col terrorismo), può infatti essere militarmente invincibile ma non vittoriosa. L'avventura in cui è stata impegnata dal potere politico si rivela in tal caso fallimentare.

È accaduto altrove negli ultimi decenni, ed è accaduto in Iraq. Dove le bombe continuano ad esplodere, dove il nuovo esercito iracheno non è sicuro di garantire la sicurezza prima del 2020, e dove la gente non sa se essere soddisfatta per la partenza delle truppe straniere d'occupazione o essere preoccupata per la situazione in cui esse hanno abbandonato il Paese.

Molti dicono: "Hanno cominciato consentendo un saccheggio e ci lasciano nelle peste". Non pochi sono coloro che rimpiangono Saddam. Ma è un rimpianto dettato dalla collera o dalla paura. È il "si stava meglio quando si stava peggio" che non va interpretato alla lettera.

Non ci sono stati comunque sventolii di fazzoletti da parte della popolazione, e nessuno ha rivolto un saluto riconoscente ai soldati in partenza, che hanno portato un po' di democrazia. Il valore di quest'ultima, nei limiti in cui è stata realizzata, è giudicato dai più inferiore a quello della sicurezza.

Neanche un saluto! Eppure quel milione e più di soldati non erano fantasmi. I fantasmi non muoiono, e qui di americani ne sono morti quattromila quattrocento. E nei sette anni di loro presenza almeno centomila iracheni sono morti, secondo calcoli al ribasso. Probabilmente il doppio.

La stragrande maggioranza degli iracheni comuni non ha avuto contatti normali diretti con gli americani. Anche questo spiega la freddezza per la loro partenza. Li ha visti insaccati nelle loro tute, nascosti dietro lenti scure, con le armi puntate, che sfrecciavano a bordo di veicoli blindati (gli Humvees) nelle città e villaggi.

Nessuno si è mai imbattuto in un militare americano isolato, e ancor meno disarmato, in una strada di Baghdad. E ancor meno in un caffè in compagnia di una donna o di un amico autoctono. Lo impedivano tante cose: i costumi locali, la diffidenza, e anzitutto il rischio di essere presi di mira da un terrorista. Quindi uccisi o rapiti.

Un esercito di 160.000 uomini (quale era quello americano negli anni più intensi del conflitto) fa vivere un folto numero di persone addette ai servizi o di commercianti. Non è stato cosi in Iraq. Escluso un esiguo numero di iracheni, i civili impiegati nelle basi militari, o attorno ad esse, erano e sono stranieri: se non americani, provenienti da Paesi emergenti. Dalle Filippine all'India.

Oppure dall'America Latina e dall'Europa. Da fuori, dall'estero, venivano anche i viveri. Acqua minerale compresa. Sul piano dei normali contatti umani (e in gran parte anche di quelli economici) è stato un esercito di fantasmi.

Tra 48 ore ne rimarranno soltanto 50.000, non più ufficialmente "combattenti", ma nella veste di consiglieri. E con loro resta una Baghdad che sembra un campo trincerato. Una capitale sfregiata da centinaia di chilometri di muri di cemento armato, dietro i quali sono trincerati ministeri, caserme, alberghi, case private, interi quartieri. E strade sfondate, spesso sommerse dalle immondizie, ed edifici diroccati, feriti dalle autobombe dei kamikaze.

Al centro della metropoli la famosa Green Zone, città nella città dove sono rinchiusi vip politici e rappresentanze diplomatiche. Anzitutto quella degli Stati Uniti. Loro al sicuro, blindati, e noi fuori, esposti a tutte le insidie. È inevitabile, ma non suscita simpatia.

La situazione è paradossale, mi dicono i redattori di Al Sabah (Il Mattino), quotidiano governativo. Paradossale perché la parziale partenza degli americani è fonte al tempo stesso di soddisfazione e di paura. Il ritiro delle truppe di occupazione appaga l'orgoglio nazionale, ma accentua l'angoscia per la sicurezza. Ed anche la sfiducia nelle autorità nazionali, che non sono neppure in grado di assicurare acqua ed elettricità.

La raffica di attentati quasi simultanei di mercoledì scorso (56 morti e centinaia di feriti in 13 città, a nord e a sud del Paese) ha dimostrato che l'opposizione armata, ormai dedita soltanto al terrorismo, è in grado di promuovere operazioni a vasto raggio. E non è garantito che polizia ed esercito nazionali siano in grado di affrontarle o prevenirle.

Gli attentati del 25 agosto sono subito stati rivendicati da Al Qaeda (la versione irachena, che unisce varie organizzazioni clandestine), con un comunicato in cui si dice che "le ali della vittoria spazzeranno via anche il nuovo giorno".

Una frase che sembra una sfida alla "Nuova Alba", il nome dato dagli americani all'operazione che comincia il 1° settembre. Il Primo Ministro Nuri al-Maliki ha subito reagito, ordinando a esercito e polizia di intensificare la sorveglianza (ha dichiarato l'"allerta massima"), e con un messaggio televisivo ha invitato gli iracheni a tenere gli occhi aperti, a denunciare senza esitare qualsiasi movimento sospetto.

Mercoledi sarà un giorno cruciale. Il generale Odierno, comandante delle truppe Usa, passerà le consegne a un generale iracheno, e poi lascerà Baghdad. E da quel momento gli americani che restano non saranno più, almeno ufficialmente, dei "combattenti". Reale o fittizia, la transizione ha un forte valore simbolico.

In un ristorante sulla riva del Tigri, a tarda sera, alla fine del quotidiano digiuno del Ramadan, incontro un notabile politico della città di Falluja, dove si trovano numerosi appartenenti a Sahwa. Sahwa è la milizia creata dagli americani con i sunniti recuperati dall'insurrezione armata. Molti erano militari dell'esercito di Saddam.

In un primo tempo si sono alleati con Al Qaeda per opporsi al potere degli sciiti e agli americani, poi hanno finito per divorziare dagli integralisti religiosi che praticavano il terrorismo.

E si sono affiancati agli americani. Adesso, mi dice l'uomo di Falluja, i capi di Sahwa si preparano a formare gruppi di autodifesa autonomi. Si aspettano infatti un'influenza sempre più forte degli iraniani sulle autorità sciite che controllano esercito e polizia.

E quindi non si fidano. Pensano che Tehran colmerà il vuoto lasciato dagli americani, e spingerà i partiti sciiti ad inasprire l'ostilità nei confronti dei sunniti. Destinati ad essere ancor più emarginati. A Falluja sono convinti che gli iraniani agiscano sia a livello politico, sia nella clandestinità.

Chiedo al notabile di Falluja se l'Iran non sia diventata un'ossessione. E lui, per provare quel che afferma, mi dà elementi che non sono ovviamente in grado di verificare. All'Iran sono attribuiti, non sempre a torto, molti dei malanni che affliggono il Paese, mentre gli americani allentano la presa.

Sarebbero loro, gli iraniani, grazie ai rapporti con i partiti sciiti iracheni, a rendere ancora impossibile, o difficile, la formazione di un governo sei mesi dopo le elezioni legislative di marzo. E sarebbero sempre loro ad alimentare il terrorismo, attraverso gruppi clandestini su cui esercitano una forte influenza.

Tra i tanti paradossali effetti dell'intervento americano in Iraq forse il più ricco di conseguenze è l'emergere di una maggioranza sciita. Essa è senz'altro legittima, perché uscita dalle urne, ma è anche sconvolgente, perché ha risvegliato dopo secoli lo slancio di una comunità a lungo frustrata, che ora vive un clima risorgimentale. Ed essa esige il potere a Baghdad, ma è divisa, rissosa al suo interno, e non riesce a realizzare il suo secolare progetto. Lo slancio sciita iracheno favorisce per molti aspetti l'Iran, potenza sciita e principale nemico degli Stati Uniti.

Questo mette in allarme l'intero mondo sunnita. Arabia Saudita in testa. Insomma l'Iraq è diventato un campo di battaglia, in cui intervengono tante forze straniere, e sul quale gli americani, perlomeno in apparenza, limitano il loro intervento. Questo fa pensare al tragico Libano degli anni Ottanta. Ma assai più grande.


Il ritiro degli americani lascia alle spalle un Paese corrotto e diviso

di Alberto Negri - Il Sole 24 Ore - 20 Agosto 2010

«Sono preoccupato più dallo stallo politico che dal ritiro degli americani. Il problema principale non è il terrorismo di al-Qaeda ma la corruzione». Le parole di Saywan Barzani, 38 anni, ambasciatore in Italia e nipote del leader kurdo Mas’ud, riflettono la maggiore preoccupazione degli iracheni: un governo assente, politici indecenti, un'economia che galleggia sul petrolio ma non crea né posti di lavoro né servizi. Le truppe sfilano senza squilli di tromba oltre il confine con il Kuwait ma la battaglia non è finita.

A Tehran, Damasco, Riyadh, e Ankara, insidiosi vicini di Baghdad, tutti contrari all'invasione del 2003, sanno che il Paese è vulnerabile al gioco delle influenze: per gli Stati Uniti la posta era fare dell'Iraq un alleato occidentale, per gli altri l'obiettivo è farlo restare nel marasma del Medio Oriente. Ecco perché la guerra dei sette anni continuerà.

La prima domanda da farsi è se l'Iraq sia un posto migliore di prima. Per i kurdi e gli sciiti del sud massacrati da Saddam non c'è dubbio. Troppo facilmente si dimentica che le guerre del Raìs prima di tutto furono conflitti civili trasferiti all'esterno: l'attacco all'Iran nell'80 aveva come motivazione profonda soffocare l'opposizione sciita. I conflitti con i kurdi erano mirati a eliminare con i gas un'etnia che reclamava l'indipendenza.

Il Kurdistan è una regione autonoma che vorrebbe annettersi Kirkuk, la contesa città del petrolio. Gli sciiti occupano la maggioranza dei posti e dominano le province con le riserve di oro nero.

Eppure sono inquieti e turbolenti, pronti a farsi manovrare da personaggi come il mullah Muqtada Sadr, uno dei bracci operativi dei pasdaran iraniani. I sunniti non riescono invece a inghiottire l'amaro calice di avere perso il potere dopo secoli di predominio.

Il terrorismo continua soprattutto per questa ragione, resa ancora più incandescente dal fatto che il premier al Maliki non vuole cedere il passo a Iyad Allawi che ha ottenuto una risicata maggioranza mettendo insieme rappresentanti sciiti e sunniti.

«Al-Qaeda è ancora presente ma è pure un marchio di comodo sugli attentati perché la rete è in gran parte organizzata dal partito Ba’ath» dice Barzani, confermando involontariamente che se non ci sarà una cooptazione degli spezzoni del vecchio regime difficilmente l'Iraq avrà pace.

La seconda domanda è come sarà l'Iraq del dopoguerra. Sicuramente diverso da quello uscito dall'invasione del 2003.

Se gli americani nel 2011 se ne andranno perderanno parte della loro presa. Già oggi i due maggiori partner economici sono l'Iran e la Turchia. Tehran ovviamente punta sullo sciismo, Ankara manovra sui due lati del Kurdistan: non è un caso che si siano messi d'accordo per controllare la frontiera.

I vicini, Siria e Arabia Saudita comprese, sono i più interessati ad avere ai confini un Paese debole e diviso. Per questo, nel malessere quotidiano iracheno, la tentazione dell'uomo forte è sempre viva. La figura del capo supremo sembra quasi irrinunciabile e oggi si chiede a uno Stato inefficiente di sostituirla: «In Kurdistan - dice Barzani - siamo 6 milioni e 1,6 prendono uno stipendio pubblico, i contadini hanno smesso persino di andare nei campi».

Sarà comunque un Iraq più povero, non sotto il profilo economico ma antropologico e culturale: minoranze come i cristiani sono state quasi annientate. «Io stesso - confessa Barzani - appartengo a una confraternita sufi che predica un Islam spirituale, estraneo agli affari terreni». E forse non c'è niente di più inattuale ma necessario di questo nell'Iraq settario del dopoguerra.


La milizia filo-occidentale in Iraq abbandonata alla vendetta degli insorti

di A. Terenzi - www.clarissa.it - 29 Agosto 2010

I Figli dell'Iraq, conosciuti come Sahwa (risveglio), la milizia filo-occidentale messa in piedi dagli Americani per sviluppare in Iraq le strategie di contro-insurrezione del gen. Petraeus, è arrivata a contare 113.000 uomini, nel momento della sua massima attività.

Prima sotto il diretto controllo degli Usa, dai primi mesi del 2009 è passata al governo iracheno, all'epoca guidato dagli sciiti, che ovviamente guardano con sospetto questa milizia, dato che per lo più i Figli dell'Iraq invece sono stati reclutati tra i sunniti - in tal modo contribuendo ad acuire lo scontro interreligioso ed interetnico.


Nell'aprile del 2009, il governo iracheno si era impegnato ad assorbirne almeno il venti per cento nella polizia e nelle forze armate, ma oggi ancora 50.000 Sahwa sono in attesa di una occupazione, mentre continuano a percepire tra i 255 e i 610 dollari al mese.

Con il disimpegno diretto degli Usa, gli Sahwa sono ovviamente atterriti dalla prospettiva di trovarsi in un completo isolamento, mentre sono continuo bersaglio di un numero crescente di attacchi terroristici, nella situazione di disintegrazione politica, etnica e religiosa cui l'Iraq sta assistendo da mesi, in assenza persino di un governo centrale.

"I terroristi dicono di noi: voi siete I figli dell'America e non lasceremo vivo neanche uno di voi, dopo il ritiro degli Usa", racconta un comandante Sahwa di Samarra. Il perché è facile da comprendere, come spiega Zuhair al-Chalabi, il funzionario del governo che si occupa degli Sahwa: "la guerra contro Al-Qaeda è una guerra di intelligence e molti capi di Al-Qaeda sono stati arrestati grazie alle soffiate degli Sahwa".

Come accaduto già in Vietnam, ora i collaboratori delle forze armate americane si trovano abbandonati alle ritorsioni delle forze insurrezionali ed è evidente che agli Usa interessa ormai ben poco dei Figli dell'Iraq, avendo a che fare con problemi ben più complessi, nella intricata partita mediorientale.


L'Iraq non sa quanti siano i suoi rifugiati all'estero

da www.osservatorioiraq.it - 30 Agosto 2010

Non abbiamo idea di quanti siano i rifugiati iracheni all’estero. Chi parla così non è uno qualunque, ma il ministro per le Emigrazioni e gli sfollati, che sottolinea che sarebbe importante saperlo, per poterli aiutare direttamente nei Paesi nei quali ora vivono.

Abdul Samad Sultan dice [in arabo] al quotidiano arabo al Sharq al Awsat che “né il ministero dell’Emigrazione né qualunque altra parte irachena ufficiale” sono in possesso dei numeri dei rifugiati all’estero.

Il motivo? Non esistono uffici del ministero nei Paesi in cui si trovano i rifugiati, spiega, nonostante una legge del ministero lo preveda. Noi, però, “non abbiamo colto questa opportunità”, sottolinea il ministro.

E così, aggiunge Sultan, il ministero per l’Emigrazione deve basarsi sui dati dell’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (UNHCR): numeri che non sono affatto precisi – dice.

Mentre sarebbe importante, continua il ministro iracheno, avere un quadro chiaro, per potere aiutare direttamente questi rifugiati “in cooperazione con i Paesi i cui si trovano e le organizzazioni umanitarie”.

Questo perché queste famiglie, dice Sultan, “attualmente non possono tornare in Iraq a causa della loro situazione”.

E così il suo ministero ha deciso di muoversi – inviando apposite commissioni in Siria, Giordania, e Libano (i tre Paesi dove vive la maggior parte degli iracheni che sono stati costretti a lasciare il loro Paese), per seguire la situazione.


Il Parlamento del Kurdistan discuterà del contrabbando di petrolio verso l'Iran

da www.osservatorioiraq.it - 30 Agosto 2010

Nuovi sviluppi nella vicenda del contrabbando di petrolio dal Kurdistan iracheno verso l’Iran.

Il governo della regione autonoma (KRG) si sarebbe impegnato a rendere pubblici tutti i documenti sulla vendita di greggio.

A dare la notizia è un esponente di Goran, il movimento di opposizione kurdo che sta incalzando le autorità (da quando la cosa è venuta fuori) affinché venga fatta chiarezza a riguardo.

Adnan Othman, il suo capogruppo nel Parlamento regionale, riferisce [in arabo] al quotidiano arabo al Sharq al Awsat che il governo del Kurdistan “si è impegnato a presentare al Parlamento i documenti e le ricevute relativi alle operazioni di esportazione e vendita del petrolio all’estero”.

A questo si è arrivati attraverso una serie di riunioni sulla questione – fra i vari blocchi politici rappresentati nel Parlamento kurdo e le autorità della regione autonoma. Tre riunioni, per la precisione: è stato proprio nel corso della terza, con il Consiglio dei ministri, che il governo regionale ha promesso di presentare la documentazione alla Presidenza del Parlamento.

Adesso, sottolinea Othman, “la palla è nel campo della Presidenza del Parlamento, perché si tenga una seduta speciale per discutere questa questione, e rivelare la verità di fronte all’opinione pubblica del Kurdistan”.

“Mettere i puntini sugli i”, così dice l’esponente del movimento di opposizione.

Sulla vicenda del contrabbando di petrolio dal Kurdistan verso l’Iran, Goran, che della trasparenza e della lotta contro la corruzione ha fatto una bandiera, sembra proprio deciso ad andare a fondo.


Bassora, una finestra sulle ambizioni e le disfunzioni dell'Iraq

di Ned Parker e Raheem Salman - 6 Agosto 2010 - Los Angeles Times

Traduzione di Luisa Bordiga per Osservatorio Iraq

Le compagnie petrolifere straniere intuiscono le opportunità del dopoguerra, ma sono spaventate dalla mancanza di sicurezza. Gli abitanti sperano nel loro arrivo; non credono più ai propri leader

Gli uomini della sicurezza in borghese attendono nella lobby dell’Hotel Mnawi Basha. Enormi orologi annunciano l'orario di New York e Dubai. Un inglese si vanta ad alta voce al cellulare di avere appena chiuso un contratto con il governo iracheno, poi esce di corsa, accompagnato da un manipolo di collaboratori in giacca e cravatta, verso un
convoglio di auto in attesa.

L'hotel a 5 stelle trasuda delle ambizioni e delle preoccupazioni di barracuda che non vedono l'ora di fare affari nel nuovo mercato in ascesa del sud dell'Iraq. I loro discorsi passano schizofrenicamente dai dollari ai disastri, e ancora dai disastri ai dollari.

"Questo è il momento giusto," dice un americano che lavora con un'azienda di servizi petroliferi. "L'anno prossimo sarà troppo tardi."

Il petroliere ha cominciato a cercare una villa da comprare, e ha ingaggiato una compagnia di sicurezza locale per la propria protezione. Si accomoda su una delle poltrone di pelle beige della lobby, e parla nervosamente con un collega a proposito del recente bombardamento dell'aeroporto di Bassora, dove si trovano le forze armate statunitensi e molti dei dipendenti delle società petrolifere.

A bassa voce dicono che la maggior parte delle compagnie petrolifere straniere ci stanno andando caute, perché il futuro incerto del Paese le spaventa.

"Non c'è sicurezza, non c'è ordine", dice l'amico del petroliere, che ha investito anche lui parecchi soldi in Iraq.

L'Iraq ha firmato 11 contratti con società petrolifere straniere allo scopo di aumentare la produzione giornaliera da 2,6 a 12,5 milioni di barili in sette anni. Ma l'ingente sforzo va sviluppandosi nel contesto di un governo paralizzato, con faide assai radicate fra i principali partiti, una proliferazione di gruppi armati clandestini, e una polveriera di rancori che aspetta solo una scintilla.

Bassora è una finestra sia sulle ambizioni dell'Iraq sia sulle disfunzioni che potrebbero sabotare il Paese. E' una città con due facce: l'una fatta di centri commerciali e supermercati di lusso, l'altra di baracche ed enormi discariche.

*
Dhia Jaffar, direttore della South Oil, parla con l'aria impostata di uno che è sopravvissuto ai suoi nemici.

Durante il regno di Saddam Hussein, la sua adesione al partito islamico Da’wa gli era valso il soggiorno nella famigerata prigione di Abu Ghraib, dove molti membri del partito sono scomparsi nel nulla.

Jaffar è sopravvissuto lì dentro cinque anni, e gli è stato permesso di tornare a lavorare per la South Oil, dove ha passato i successivi venti anni "sullo scaffale," come dice lui con un sorriso sornione. Ha aspettato, svolgendo impieghi periferici, e muovendosi con cautela, senza attirare l'attenzione.

Dopo anni ai margini, Jaffar è salito, nell'Iraq del dopo Saddam, insieme al partito Da’wa, guidato dal Primo Ministro Nuri al Maliki. Nel marzo del 2008, Maliki ha ordinato alle truppe di strappare il controllo della città alle bande armate e alle fazioni politiche che avevano praticamente distrutto Bassora.

Il Primo Ministro ha affermato il proprio controllo della South Oil, precedentemente di dominio dell'allora governatore di Bassora, Mohammed Waeli, appartenente al partito rivale sciita e fondamentalista Fadhila. L'estate scorsa, Jaffar ha ottenuto la responsabilità dell'azienda e dei più grandi giacimenti petroliferi dell'Iraq.

Jaffar ed il suo partito contano sul fatto che l'investimento nei giacimenti contribuirà a rompere la presa dei gruppi armati sciiti e delle bande criminali, in una provincia dove il tasso di disoccupazione è di almeno il 25 per cento. I contratti firmati dalle compagnie petrolifere prevedono una spesa di 5 milioni di dollari all'anno per la formazione degli iracheni nel settore energetico.

"Una delle cose più importanti è che i giovani abbiano lavoro," dice Jaffar. "Alla fine del mese, le loro tasche saranno piene di soldi...la situazione della sicurezza migliorerà".
Col tempo, dice Jaffar, Bassora potrà abbagliare come qualsiasi altra città del Golfo. "Se saremo intelligenti," dice, "staremo meglio di Dubai."

*
Dai quartieri di edilizia economica ai confini della città, gli abusivi possono vedere le fiamme intermittenti dei giacimenti.

L'abitazione di Qadhim Abdullah ha alle pareti poster di macchine sportive e colorati dipinti di Hussein, la figura che gli sciiti venerano, che tiene in braccio un bambino ferito.

La figlia di 16 mesi giace con la febbre sul pavimento, in mezzo alla stanza, arrotolata in una stoffa arancione sporca e coperta di mosche. Certi giorni, Abdullah si mette in fila alle 6 del mattino, per saltare nel retro di un camion e lavorare nei cantieri per una giornata. Pensa alle società che stanno arrivando, e spera in un boom dell'edilizia.

"Se lavoriamo, la situazione sarà migliore," dice.

Il suo amico Qassem va in giro con il suo carretto trainato da un asino la mattina presto, alla ricerca di cavi e rottami da rivendere. Non ha tempo di pensare al governo o alle società petrolifere. Le sue preoccupazioni sono più pressanti.

Mentre un paio di ragazzini con magliette uguali mangiano del cioccolato sciolto, a pochi metri da alcune pozze di liquami a cielo aperto, Qassem ed i suoi parenti scherzano sulla vendita del rene dei loro bambini al mercato nero. Qassem è ossessionato dalla salute del suo asino, e dice, scherzando ma non troppo: "Preferirei che si ammalasse mio figlio invece che l'asino, perché l'asino è la nostra vita."

*
E' sera, e Waeli è nella sua villa di arenaria presa in affitto, vestito con jeans e una polo verde a maniche corte. Il giorno seguente, l'ex governatore volerà in Germania per firmare un accordo di cooperazione con uomini d'affari per facilitare gli investimenti a Bassora. Una sua foto gigante assieme all'ambasciatore tedesco uscente è in bella mostra su una mensola.

Una volta, Waeli era il politico più controverso di Bassora. Le forze armate britanniche, che controllavano la regione, consideravano spesso lui e i suoi parenti come i leader del racket del petrolio nel sud dell’Iraq e della violenza stile gang. Waeli ha respinto le accuse, e ha dato la colpa ai suoi nemici per aver instillato il sospetto. Stasera punta il dito contro il vicino Iran e i partiti politici rivali, dicendo che vogliono indebolire Bassora ed impedirne l'ascesa.

La percezione che il Consiglio Provinciale sia stato inefficace sotto la guida del partito di Maliki, ha fomentato la nostalgia per Waeli, che ha lasciato l'incarico nella primavera del 2009. Sembra che la gente abbia dimenticato le voci sui suoi collegamenti con la violenza legata alle fazioni. Al contrario, lo ricordano per aver piantato alberi lungo le autostrade, e approvato un quartiere di nuova edilizia popolare.

Oggi si definisce un uomo d'affari e un facilitatore. Possiede una flotta di 65 camion per aiutare nel trasporto di macchinari delle compagnie straniere. Gestisce una società di security di 70-80 uomini per proteggere gli stranieri.

Si siede su un divano con un bicchiere di succo. Su una TV a schermo piatto una sitcom kuwaitiana fa satira sull'ex Primo Ministro israeliano Ariel Sharon.

"Sono in questo business da un anno e mezzo," dice Waeli. "Perché so come gestire queste cose e so di cosa ha bisogno l'Iraq".

*

Abu Mariam, proprietario del parco divertimenti BassoraLand, pensa in grande.

Si vanta di aver importato nuove attrazioni dalla Germania e dalla Turchia. Ha aperto un ristorante che offre hamburger, fajita, e pizza.

Mariam ha comunque la sua parte di grattacapi. Gira per il parco lamentandosi dei capi tribù che dice vogliono estorcergli denaro, della mancata fornitura gratuita di elettricità da parte del governo, delle minacce dei gruppi religiosi armati. L'unica persona che ringrazia è il generale dell'esercito iracheno a capo del comando di Bassora, che ha lasciato un corpo di guardia fuori dai cancelli di BassoraLand.

Luci blu, rosse, e gialle lampeggiano dalle montagne russe e dalle attrazioni con nomi come Massima Adrenalina e la Piovra. Due giovani osservano senza perdere un particolare. Una donna ha dato buca a uno di loro, quindi stanno lì seduti a guardare le luci delle giostre e le ragazzine con vestiti verdi a balze che corrono via dai genitori.

Uno dei due, un impiegato statale di nome Wassem, dice che il parco è troppo caro per molte famiglie.

"Se la situazione rimane così, la gente non collaborerà o non rispetterà il governo", dice. "Quando non c'è elettricità, né acqua, né servizi pubblici, sorgono i problemi".

Il suo amico Sabah annuisce. "Speriamo che gli stranieri lavorino qui. Non ci fidiamo più della nostra gente, quindi che lavorino gli stranieri".

All'improvviso, un'interruzione di elettricità e il parco finisce al buio pesto. I bambini urlano dalla Piovra con i suoi tentacoli rotanti. La corsa rallenta, e i tentacoli si abbassano. La cagnara di voci si placa, e tutti aspettano nel buio.


Promemoria iracheno per Obama
di Christian Elia - Peacereporter - 30 Agosto 2010

I veterani della guerra in Iraq scrivono al presidente, per non ripetere gli stessi errori in futuro

''Mi firmerò John, perché il mio nome non è importante. La faccia la metto da quando ho aderito a Iraq Veterans Against The War, quindi non lo faccio certo per paura. Preferisco un'identità collettiva, che parli a nome di tutti noi che in Iraq ci siamo andati, con lo zaino carico di false certezze''.

Domani, 31 agosto 2010, finisce ufficialmente la missione Iraqi Freedom. Iniziata il 20 marzo 2003, quando una coalizione internazionale guidata dagli Stati Uniti d'America ha invaso l'Iraq per rovesciare il regime di Saddam Hussein. In pochi giorni l'esercito iracheno - già provato dalla guerra con l'Iran negli anni Ottanta e dalla Guerra nel Golfo del 1991 - va in frantumi.

La statua di Saddam Hussein a Baghdad viene tirata giù il 9 aprile 2003. E arriva la prima menzogna, quella che racconta di folle plaudenti, ma che a una più attenta analisi delle immagini originarie non rende la stessa situazione raccontata dai media internazionali.

Ne seguiranno mille altre di bugie. Le prime vittime, è sicuro, sono i civili iracheni. Ma anche tanti soldati Usa. Molti di loro hanno perso la vita, tanti altri resteranno invalidi per sempre. Altri ancora, come John, sono tornati a casa diversi, cambiati.

''Potrei essere un latinos o un asiatico, musulmano o cattolico, nero o indiano, non è importante. Sono uno di quelli che ha capito di essere stato usato per ammazzare degli innocenti, senza una ragione. Almeno apparentemente finisce Iraqi Freedom, ma questo non cancella l'inganno'', scrive John, rispondendo alla domanda di PeaceReporter: come racconteresti questa guerra, magari a tuo figlio? ''Rispondo come ti risponderebbero tutti quelli che, come me, hanno aderito all'associazione. E come molti altri, che magari hanno preferito tornare a casa, senza parlare dell'inferno che si portavano dentro.

Alcuni sono annegati in quell'inferno, molti - purtroppo - hanno portato con sé mogli e figli''. John e gli altri hanno scritto al presidente Barack Obama che ha mantenuto la promessa elettorale di ritirare le unità combattenti entro agosto 2010.

Ma Obama non è sincero fino in fondo. In primis perché l'accordo per il ritiro è stato siglato due anni fa, dall'amministrazione Bush. Secondo gli attivisti di Iraq Veterans Against The War mente anche su un altro punto.

''L'occupazione dell'Iraq continua e, più che di ritiro, si dovrebbe parlare di una redistribuzione delle truppe. Restano 50mila uomini, per non parlare dei 75mila contractors'', spiegano i veterani nella lettera aperta al presidente Usa. ''Abbiamo girato gli States in lungo e in largo, raccogliendo i pareri di tutti i ragazzi che hanno trovato nella nostra associazione un megafono per urlare la loro rabbia. Ragazzi avvicinati dai reclutatori, che ti promettono gli studi per te e i tuoi fratelli, che ti fanno vedere un futuro migliore.

Nessuno ci ha mai detto che lo dovevamo conquistare il nostro futuro - scrive John - lottando metro per metro con altri poveri, altri fanatici, altri disperati. Come noi''. Ecco che nasce questa specie di promemoria, spedito dai veterani a Obama, ma che sembra pensato per restare come monito a tutta la coscienza collettiva statunitense.

''Non abbiamo reso la vita degli iracheni migliore rovesciando la brutale dittatura di Saddam'', recita la lettera aperta indirizzata a Washington. ''Anzi, l'abbiamo peggiorata. Niente acqua, niente elettricità. Il servizio sanitario e il sistema scolastico sono stati distrutti. Un milione di iracheni sono morti, quattro milioni di loro hanno perso la casa e hanno abbandonato il Paese, ormai lacerato dalle divisioni etniche e religiose, con un carico di invalidi che peserà per anni sul futuro dell'Iraq''.

La fotografia impietosa della missione Iraqi Freedom - definita debacle nel titolo della lettera aperta - continua. ''Gli sfollati sono stati abbandonati in Siria, Giordania, Libano e in mille altri posti. Dove le persone non hanno nulla per sopravvivere, situazione che ha ridotto tante donne irachene nell'incubo della prostituzione''.

Non è solo il passato che indigna i compagni di John, ma anche il futuro appare un incubo.
''La situazione politica è paralizzata: si è votato il 7 marzo scorso, ma nessun governo è stato insediato. Per cosa sono morti 4400 militari americani? Per cosa sono rimasti invalidi decine di migliaia di ragazzi statunitensi? Se lo chiedono in molti, visto che solo nel 2009 sono stati 245 i veterani dell'Iraq a suicidarsi''.

I veterani chiedono che chi li ha mandati a uccidere e morire risponda al Paese: ''George Bush, Dick Cheney, Condoleezza Rice, Colin Powell, Karl Rove, Donald Rumsfeld...nessuno ha pagato per questo fallimento. Nessuno ha pagato per aver autorizzato la tortura. Nessuno di loro ha spiegato agli americani come e perché hanno speso 750 miliardi di dollari dei contribuenti Usa in Iraq''.

La lettera si chiude con un appello al Congresso e all'Amministrazione Usa: ''Ritiriamo tutte le truppe e i contractors dall'Iraq, chiudiamo le basi militari. Variamo un piano di sostegno allo sviluppo e alla ricostruzione irachena, per agevolare il rientro dei profughi.

Variamo un piano per utilizzare negli Usa i soldi spesi nelle guerre come quella in Afghanistan. Incriminiamo coloro che si sono macchiati di crimini contro i civili iracheni e contro l'America stessa''. L'appello è firmato da ventuno associazioni e, online, continua a raccogliere adesioni.

''Se penso di cambiare le cose? Certo che lo penso'', dice John. ''Almeno ci provo. Altrimenti cosa risponderò a mio figlio quando mi chiederà cosa abbiamo fatto in Iraq?''.


Iraq: Missione compiuta
da www.luogocomune.net - 27 Agosto 2010

Il 30 agosto si è conclusa "Iraqi Freedom". Inizia la missione "New Dawn" ("nuova alba"). Restano però 50mila militari USA iperarrmati, insieme a 72mila mercenari ("contractors"). Ora che i giornalisti possono tornare a parlare con i cittadini iracheni, cominciamo a capire quale sia la terribile realtà lasciata alle spalle.

Un video spiega la nuova situazione.

martedì 10 agosto 2010

Elezioni e poi ridateci la Prima Repubblica


A meno di impossibili novità, le strade di Berlusconi e Fini saranno per sempre separate.

Il can can mediatico sulla vicenda dell’appartamento monegasco è solo la goccia di un vaso ormai stracolmo di rancore, astio e soprattutto opposte visioni sul rispettivo futuro politico.


Sembra ormai chiaro che a settembre il governo prenderà atto di non avere più la maggioranza per andare avanti, Berlusconi sarà costretto a dimettersi e Napolitano verificherà l’esistenza di una maggioranza parlamentare che dia luogo a un governo a termine, prima di sciogliere le Camere e indire nuove elezioni.


Alla Camera una maggioranza alternativa, dal punto di vista strettamente numerico, ci sarebbe già ora. Ma non al Senato, dove la situazione potrebbe mutare solo in caso di appoggio della Lega Nord all’eventuale nuovo governo di transizione. Cosa che ad oggi sembra impossibile, ma in politica si sa che “del doman non v’è certezza”…


Comunque, la strada per arrivare presto a elezioni anticipate sembra tutta in discesa.


A questo punto però sorgono alcune domande: l’Fli di Fini con chi si alleerà? Con l’Udc di Casini, l’Api di Rutelli e forse anche l’Mpa di Lombardo, si potrebbe rispondere.

E il Pd? Sarà costretto ad allearsi con Di Pietro e con spezzoni della cosiddetta sinistra radicale, verrebbe da replicare.


Ma se così fosse le elezioni vedrebbero con ogni probabilità, stante l’attuale legge elettorale, una vittoria al Nord del Pdl e della Lega mentre il centro-sud sarebbe spartito da tutti gli altri.

Ergo, si produrrebbero due diverse maggioranze alla Camera e al Senato con l’impossibilità di formare un governo, a meno di un governo di unità nazionale con dentro quasi tutti. Un’eventualità quantomeno tragicomica…


E allora il buon senso suggerirebbe che a queste elezioni anticipate Fli, Udc, Api, Italia dei Valori, Pd e sinistra “radicale” corressero insieme con tre soli obiettivi di programma:

1) Difendere la Costituzione

2) Mandare a casa per sempre la destra populista ed eversiva rappresentata da Berlusconi

3) Cambiare l’attuale legge elettorale


Ma la vera difficoltà è paradossalmente proprio quella di trovare un accordo comune sulla riforma della legge elettorale, da rendere pubblico naturalmente prima di andare a votare.

Si auspica che la pausa estiva possa essere di aiuto in tal senso…


Quindi se veramente si dovrà andare alle urne per la fine dell’anno o in primavera, la cosa più sensata sarebbe un fronte comune da Fini a Vendola che si presentasse agli elettori con quei tre punti di programma e che, una volta realizzati, si sciogliesse per riportare nuovamente gli italiani al voto in uno scenario politico normalizzato dall’uscita di scena dalle stanze del potere di Berlusconi e berluscones.


Ma per favore, ridateci una legge elettorale proporzionale pura - aggiungendo solo un leggero sbarramento - con la possibilità di sceglierci il candidato per Camera e Senato. Mettete in soffitta per sempre le attuali pseudo elezioni dirette del presidente del Consiglio, abolendo anche l’uso della parola premier perché non siamo in Inghilterra.


Ridateci la normalità e la tranquillità di una politica non urlata, seria e possibilmente efficace nel cercare di risolvere con concretezza i tanti problemi di una società complessa come quella italiana.


Insomma, riportate indietro il calendario al 1992 e ridateci la Prima Repubblica.

lunedì 9 agosto 2010

Islanda e Ungheria: come levarsi il cappio del debito

Qui di seguito qualche articolo su come un Paese può reagire ai suoi famelici creditori.


Backlash economy: il caso dell'Islanda ovvero una possibile risposta alla shock economy
di Pietro Cambi - http://crisis.blogosfere.it - 7 Agosto 2010

La Crisi vista dall'Islanda. Su una maglietta, a Reykjavik

Ebbene si. Confesso che, per la prima volta in dieci anni, ho fatto anche io il mio viaggettino all'estero, ho preso un aereo, ho dato il mio bastardo contributo all'aumento della CO2 etc etc. A titolo di discolpa posso solo dire che l'Islanda per un geologo è come la Mecca per un mussulmano ( no pun intended). Una volta nella vita tocca andarci.

Mettete poi la mamma di tutte le Crisi che ha fatto collassare il sistema bancario/finanziario locale e con esso la moneta, rendendo accessibile alle mie tasche sgarrupate quello che altrimenti sarebbe il paese più caro del mondo, tre amici con simili condizioni monetarie ed analoga curiosità et voilà. Siamo andati a zonzo in salsa decisamente pauperistica, tenda, fuoristrada vecchio di dieci anni e con 170.000 km sul groppone.

Niente di organizzato, tutto di auto(dis)organizzato.

Sul fascino del paese poco da dire: a parte vulcani, ghiacci, avifauna, è la mancanza di GENTE e la commovente permanenza di PERSONE, in paesaggi fieri ed implacabili, che colpisce. Gli islandesi, gente ovviamente fiera e tosta, sono rimasti parecchio male della scoppola che hanno rimediato.

Convinti dai media che le spericolate operazioni di finanzia creativa messe su dai principali istituti del paese fossero l'equivalente moderno delle incursioni vichinghe dell' IX secolo, di cui sono ancora alquanto fieri, al collasso della baracca, con tipica brutalità, hanno istituito una commissione di inchiesta DAVVERO indipendente, che in un anno e mezzo ha prodotto una relazione di un 700 pagine che inchodava, in pratica, gli interi vertici del paese alle proprie evidenti responsabilità, con contorno di lampanti connivenze, prestiti agevolatissimi allo 0% di interessi per dieci anni, mutui ipermilionari a ministri vari etc etc.

Tra quelli in vacanza permanente effettiva all'estero e quelli in soggiorno obbligato all'interno, la classe dirigente è stata spazzata via, il nepotismo, presente in modo quasi naturale in una comunità di 300.000 persone scarse, oltretutto per oltre metà concentrati nell'unica città/capitale ed il resto sparpagliato con una densità abitativa tra le più basse al mondo, è stato rapidamente esplicitato, nomi e cognomi, cosa facile in una nazione piccola e del resto facilmente verificabile da chicchessia.

Alle elezioni ha stravinto il "Beppe Grillo" locale, che è diventato il Sindaco di Reykjavik. Una sua "deputata anarchica" ( ossimoro davvero spettacolare) ha proposto una legge che avrebbe fatto diventare l'Islanda il paradiso della libera informazione. Nell'incredulità della stessa deputata il disegno di legge ">è stato approvato proprio mentre ero a Reykjavik, ALL'UNANIMITA'.Un segno del desiderio di voltare davvero pagina del paese.

Nel frattempo la comunità finanziaria internazionale chiedeva al Governo islandese di assumersi non solo la responsabilità politica, evidente, ma anche e sopratutto quella economica del crack multimiliardario delle istituzioni finanziarie del paese.

La cosa avrebbe comportato il collasso del sistema previdenziale del paese ed in pratica la totale distorsione del denaro dei cotribuenti nelle tasche degli istituti creditori.

Questa era, invero una novità: Questa volta, senza nemmeno provare ad indorare la pillola, si intendeva OBBLIGARE un governo, ovvero tutti i cittadini di un paese a pagare per gli errori e le nefandezze di pochi, oltretutto privati, speculatori.

La cosa non è semplice come la dipingo, ovviamente, il confine tra ciò che è pubblico e ciò che è privato è spesso sfumato, ad esempio nel caso di istituti con capitali di maggioranza pubblici, nomine politiche, etc etc, ma credo che capiate il punto.

Si è trattato, in realtà, del calo definitivo della maschera, delle forze reali del consesso internazionale, con la politica che nei paesi creditori si adattava a fare la parte del picciotto mandato a dare una sonora lezione al malcapitato comerciante non intenzionato a pagare il pizzo.

L'Inghilterra, in primo luogo, si è incaricata di fare la voce grossa, minacciando le solite "sever conseguenze" in caso di non ottemperanza ai piani di rientro definti dal fondo internazionale..bla bla.

E' stato però un grave errore. Un classico errore da delirio di onnipotenza ( unito ad una interiore paura della debolezza di questa pretesa onnipotenza).

Gli islandesi infatti, posti finalmente di fronte alla brutale realtà delle conseguenze devastanti per l'economia reale del collasso finanziario, si sono resi conto di non volere ne POTERE pagare il conto presentato. Badate bene NON si è trattato ne si tratta di un classico default.

Si tratta, invece del rovescio della medaglia del liberismo: tirando troppo la corda il micidiale "t oo big to fail" che sta condannando il sistema americano non vale più. La mano pubblica NON interviene perchè non può ne vuole farlo e lascia creditori e debitori a mazziarsi tra di loro, nazionali o internazionali che siano. Le conseguenze di operazioni troppo azzardate ed affidi troppo inconsapevoli ed imprudenti ricadono, alla buon'ora sui diretti interessati.

Ecco, secondo il sottoscritto, il germe della possibile uscita dal paradigma "macroeconomico" attuale: di fronte a due scelte, una "assai sgradevole", l'altra esiziale, tra il collasso locale e, forse, mondiale, del sistema finanziario, ovvero in ultima analisi, per i comuni cittadini, dei risparmi e della previdenza, ed uno della economia reale, che si tirerebbe dietro ANCHE il sistema previdenziale ed i risparmi, sia pure in uno slow motion crashing, la risposta può essere solo quella di accettare le perdite, contabilizzare i caduti e cercare di salvare il salvabile, nel processo riformando società ed economia su basi sostenibili.

Il tutto si esplica, l'Islanda l'ha fatto, rinviando al mittente le richieste di risolvere PRIMA le esigenze finanziarie dei creditori interni e, sopratutto, esteri.

Non ho ancora un nome definitivo per questo genere di risposte "a muso duro" che, per essere davvero efficace, andrebbe sistematizzato con la stessa spietata freddezza con cui si è sistematizzato la Shock economy ( Loretta se ci sei batti un colpo).

Provvisoriamente possiamo chiamarla "backlash economy", l'economia "di reazione" o "del colpo di coda", come preferite.

Passato il primo momento di sconforto gli islandesi hanno recuperato in fretta.

Come mi ha detto uno di loro, libraio a Reykjavik, quando hai una buona casa, energia quasi gratis e terra a volontà, non dovresti preoccuparti TROPPO.

In ogni caso - ha concluso con un mezzo sorriso - alle crisi ci siamo abituati. Per noi una VERA crisi è quando un vulcano si risveglia e minaccia di ricoprire un terzo del paese sotto una coltre di ceneri fumanti....


Crisi economica: l'Ungheria sfida il Fondo Monetario Internazionale
di Jerome Duval - www.mondialisation.ca - 3 Agosto 2010
Traduzione per www.comedonchisciotte.org a cura di Raffaella Selmi

L'Ungheria, che dal 1 ° gennaio 2011 assumerà per sei mesi la presidenza dell'UE , subisce pesantemente le conseguenze di una crisi finanziaria che sembra non finire. Pur non essendo così distante dai parametri di Maastricht in materia di deficit pubblico (3,8% nel 2008), l'Ungheria è il primo paese dell'Unione europea ad aver ottenuto il sostegno finanziario della Troika costituita da: Fondo Monetario Internazionale, Unione Monetaria e Bce (Banca Mondiale)

Nel mese di ottobre 2008 è stato concordato un piano di finanziamento di 20 miliardi di euro: 12,3 miliardi messi a disposizione dal FMI, 6,5 dall’Unione europea e uno dalla Banca Mondiale.

Lo stock del debito è cresciuto in maniera automatica: oltre alla perdita secca dovuta al pagamento degli interessi, che aggrava il deficit, alla popolazione sono state imposte pesanti condizioni, l'aumento di 5 punti percentuali di IVA, attualmente al 25%, l’innalzamento dell’età pensionabile a 65 anni, il congelamento per due anni dello stipendio dei funzionari, la soppressione della tredicesima per i pensionati, la riduzione degli aiuti pubblici all'agricoltura e al trasporto ...

L'estrema destra entra in Parlamento

In passato l’Ungheria, governata dai socialdemocratici, era riuscita a tenere in piedi un sistema di relative garanzie sociali, ma l'attuazione delle misure di austerità imposte dal FMI, ha scontentato la popolazione e giovato alla destra conservatrice, che nell’aprile 2010 ha vinto le elezioni legislative.

La vittoria del nuovo primo ministro conservatore, Viktor Orban, è stata accolta con favore dall’agenzia Fitch Ratings secondo la quale il partito di Orban, Fidesz, che ha ottenuto la maggioranza necessaria per modificare la Costituzione "rappresenta un'opportunità per introdurre riforme strutturali”. (1)

I socialdemocratici hanno riportato una sconfitta storica aprendo la strada all’estrema destra (Jobbik) che per la prima volta è entrata in parlamento con la percentuale del 16,6%.

Non appena insediatosi, il governo ha diffuso dichiarazioni allarmistiche sulla situazione finanziaria del paese, chiamando in causa una sottostima dei conti da parte del precedente esecutivo che, in realtà, avrebbe portato al 7,5 % il rapporto tra il deficit e il PIL, ben al di sopra quindi del 3,8% previsto dal Fondo monetario internazionale. Bluff o falsificazione dei conti?

In seguito a queste dichiarazioni, il 5 giugno 2010, il panico fa crollare le Borse di Londra, Parigi, Budapest ... e l'euro si deprezza nel timore di una crisi simile a quella della Grecia. Il governo sotto pressione, nel tentativo di recuperare, diffonde comunicati per tentare di calmare gli speculatori.

Tassazione del capitale o del lavoro?

Per contenere il deficit al 3,8% del PIL nel 2010, come concordato con il Fondo monetario internazionale e l'UE, il governo sta lavorando all’approvazione di una tassa straordinaria sull’intero settore finanziario, che permetterebbe di prelevare lo 0,45% dell’attivo dichiarato dalle banche (calcolato non sul profitto, ma sul fatturato), di tassare fino al 5,2% le entrate delle compagnie assicurative e fino al 5,6% quelle degli altri istituti finanziari (borse, agenti finanziari, gestori di fondi d’investimento ...).

L’Ungheria supera così Obama che ha annunciato una tassa sulle banche dello 0,15% solamente. Ma questo provvedimento, che dovrebbe garantire un gettito di 650 milioni di euro l'anno per due anni (2010 e 2011), circa lo 0,8% del PIL secondo le stime del governo, non piace alle banche che fanno pressione minacciando di ritirare gli investimenti in Ungheria.

Il Fondo monetario ha dal canto suo sospeso i negoziati avvertendo che chiuderà il rubinetto del credito concesso nel 2008, e questo nonostante che il piano di finanziamento, con scadenza inizialmente prevista a marzo 2010, fosse stato prorogato a ottobre dello stesso anno.

E’ evidente che il piano di tassazione delle banche, vero pomo della discordia tra l'Ungheria e Fmi, costituisce l’ostacolo al proseguimento del prestito. Il Fondo ritiene che il paese dovrebbe adottare misure in linea con il dogma corrente neoliberista: col che s’intende tassare i poveri prima delle banche. Certamente i poveri hanno pochi soldi…ma ce ne sono tanti!... A qualcuno sfugge il cinismo?

Inoltre, la previsione di un tetto agli stipendi dei dipendenti pubblici, compreso il governatore della banca centrale, è in netto contrasto con le raccomandazioni del Fondo che preferisce un livellamento “dal basso” attraverso la riduzione o il congelamento dei salari, com’è avvenuto in Grecia o in Romania. Attenzione a non farsi illusioni su un partito di governo che già nel 1990 aveva favorito l’ingresso del neoliberismo...

«O la tassa sulle banche, o l’austerità»

Christoph Rosenberg, capo della delegazione del Fmi in Ungheria, riporta la richiesta di maggiori dettagli sul bilancio del prossimo anno da parte dell'organizzazione internazionale: "Quando torneremo, sempre che non sia la settimana prossima, il governo avrà proseguito nella definizione del bilancio 2011 e sarà un bilancio molto importante". (2).

Ancora una volta il Fondo monetario internazionale si appresta a riesaminare la copia del governo e interviene direttamente nella definizione del bilancio ungherese a dispetto dalla sua sovranità. Nell’attesa, il FMI stima che il paese dovrà prendere "misure supplementari" di austerità per raggiungere gli obiettivi di disavanzo che si è dato.

Dal canto suo il ministro dell'Economia, Gyorgy Matolcsy ha dichiarato in un’intervista che: "Abbiamo detto (ai nostri partner N.d.T.) che non c’è modo di aggiungere ulteriori misure di rigore a quelle già prese [...].: da cinque anni stiamo applicando un piano di austerità , e quindi è fuori questione”. "Applicheremo la tassa sulle banche, sappiamo che si tratta di un fardello pesante, ma sappiamo anche che possiamo raggiungere (l'obiettivo), del 3,8% di disavanzo ". “O la tassa sulle banche, o l'austerità" Ha anche aggiunto (3).

Per contenere un’estrema destra in continua ascesa, la destra conservatrice al potere vuole evitare misure impopolari in vista delle prossime elezioni comunali previste per ottobre e respinge qualsiasi ulteriore negoziato con il Fondo.

Rottura delle trattative tra Ungheria e FMI?

Il 17 luglio il FMI ha sospeso le trattative e, di conseguenza, l’utilizzo della parte residua del credito. La reazione dei mercati non si è fatta attendere, e il fiorino, la moneta nazionale, ha perso circa il circa il 2,4% in apertura, mentre la Borsa ha subito una perdita di oltre il 4%.

Il primo ministro, Viktor Orban, ringraziando il FMI per il suo "aiuto durante i tre anni" ha indicato che "l’accordo sul prestito è scaduto nel mese di ottobre, e quindi non c'era niente da sospendere.” "Le banche sono all’origine della crisi mondiale, è normale che contribuiscano a ripristinare la stabilità", ha sottolineato (4).

Il 22 luglio la nuova legge della tassa sulle banche, che prevede inoltre la riduzione del prelievo fiscale sulle piccole e medie imprese (PMI) dal 16 al 10 %, è stata approvata con una larga maggioranza (301 voti a favore e 12 contrari) dal Parlamento guidato dal Fidesz di Orban. Non sorprende che il giorno dopo, le agenzie di rating Moody's e Standard and Poor's abbiano messo sotto osservazione l’Ungheria per un possibile declassamento del rating.

Il ruolo di queste agenzie, giudici e parti di un sistema speculativo strangolatore, è presto detto: si alza il rating del governo conservatore salito al potere che aderisce al programma di austerità capitalista, si abbassa quando ci si rende conto che le misure non sono in linea con il dogma neoliberista.

Il quotidiano “Le Monde” sostiene i creditori

Diversamente da quanto sostiene il quotidiano francese Le Monde (5) nella sua edizione del 20 luglio, occorre appoggiare l’insubordinazione manifesta del governo ungherese al FMI,e sostenere l'idea che anzi deve fare lo stesso con l’altro suo creditore, l'Unione europea.

Prendere le distanze da tali creditori non è un torto al popolo ungherese, per il quale pagare un debito alle condizioni imposte dal FMI e dalla UE è già un pesante fardello.

Naturalmente occorre andare oltre una semplice rottura diplomatica, proponendo, ad esempio, un fronte dei paesi a favore della cancellazione del debito, perché, come ha detto giustamente San Kara , ex presidente del Burkina Faso, pochi mesi prima di essere assassinato: "Il debito non può essere rimborsato innanzitutto perché ,se non paghiamo , i nostri creditori non moriranno, stiamone pur certi. Mentre, se paghiamo, siamo noi che moriremo .E anche di questo possiamo essere certi…(... ) Se solo il Burkina Faso si rifiuta di pagare il debito, non sarò qui alla prossima conferenza. Ma, con il sostegno di tutti, di cui ho bisogno (applausi), con il sostegno di tutti possiamo evitare di pagare. Ed evitando di pagare potremo impiegare le nostre scarse risorse per il nostro sviluppo." (6)

Solo una mobilitazione popolare che pretenda la verità sulla destinazione del denaro preso in prestito così come anche la soddisfazione delle richieste in termini di salari, occupazione o garanzie sociali, potrà ottenere che i veri responsabili della crisi ne paghino il costo.

Perciò è di vitale importanza per i popoli d'Europa e altrove, contestare questi debiti macchiati d’illegalità e rifiutarne il pagamento. E’ un primo passo verso la sovranità che permetterebbe di dirottare gli enormi fondi dedicati al rimborso del debito verso i bisogni reali della popolazione, la salute, l'istruzione, le pensioni, e (permetterebbe) di tutelare il servizio pubblico e non delegarlo ad aziende private.

Note

[1] « Hongrie : Fitch salue le résultat électoral », Le Figaro, 26 avril 2010
[2] « L’UE et le FMI suspendent les consultations avec la Hongrie », par Krisztina Than et Marton Dunai, Reuters, 18 juillet 2010.
[3] « La Hongrie exclut de nouvelles mesures d’austérité », par Gergely Szakacs et Krisztina Than, Reuters, 19 juillet 2010.
[4] « Hongrie : la taxe sur les banques est "juste et nécessaire" selon le Premier ministre », AFP, 22 juillet 2010.
[5] « En Hongrie, les curieuses manières de M. Orban », éditorial du Monde, 19 juillet 2010.
[6] Discours de Thomas Sankara à Addis-Abeba, le 29 Juillet 1987, quelques mois avant sa mort.



La rivolta d'Ungheria
di Gianluca Freda - http://blogghete.blog.dada.net - 24 Luglio 2010

“Le istituzioni finanziarie devono fare la loro parte nella distribuzione più equa degli oneri fiscali, almeno temporaneamente, per il periodo necessario a far riprendere quota all’economia e a stabilizzare la situazione finanziaria. La tassa imposta alle banche è necessaria, giusta ed efficace ed è utile agli interessi del paese e delle persone in condizioni particolarmente difficili”.

A pronunciare queste eretiche parole è il Primo Ministro ungherese Viktor Orban, leader del partito Fidesz , il “rinnegato” che giovedì scorso ha osato far approvare dal Parlamento magiaro una legge che impone alle banche ungheresi, alle compagnie assicurative e ad altri istituti finanziari una folle tassa sugli attivi (dello 0,45% per le banche e del 5,2% per le compagnie assicurative), destinata a durare per almeno tre anni a partire dalla fine del 2009. Il provvedimento, stando alle dichiarazioni di Orban, dovrebbe servire a contenere il deficit ungherese entro il 3,8% del PIL.

Tristemente, la legislazione è stata pure approvata con una maggioranza che, se non stessimo parlando dell’Ungheria, potremmo definire bulgara: 301 voti favorevoli contro 12 contrari. Pressoché unanime, com’è comprensibile, lo sdegno che l’iniziativa ha suscitato presso i creditori internazionali dell’Ungheria, le istituzioni europee e il Fondo Monetario Internazionale.

“Questo è populismo!”, si sono lagnati all’unisono i tapini defraudati. “Così si blocca la crescita del paese! Si mina la fiducia degli investitori! E poi, sul lungo periodo, è una misura che si rivelerà poco utile al contenimento del deficit”. Sante parole.

Un paese, come è noto, non è composto dai suoi cittadini, dalle loro esigenze, dalle loro iniziative commerciali e culturali, ma solo ed esclusivamente dai suoi operatori finanziari, astro sfolgorante intorno al quale deve ruotare e di fronte al quale deve essere pronta ad annullarsi ogni residua velleità nazionale.

Quando uno Stato ha problemi di budget, come è di lapalissiana evidenza, l’unica misura possibile è quella di smantellare scuole e ospedali, tagliare i finanziamenti alle forze di sicurezza, ridurre gli stipendi dei dipendenti pubblici, fare il deserto delle strutture di assistenza, in modo che gli operatori finanziari e le società da essi controllate possano sostituirsi alle attività pubbliche così rase al suolo o acquistare ciò che ne resta per un boccon di pane, ricavandone enormi profitti con poca spesa.

Ad assicurarsi che tutto si svolga secondo queste regole è il FMI, esattore e cane da guardia delle istituzioni finanziarie, che minaccia ritorsioni economiche e sospensioni di prestiti ogni volta che un paese prova a smarcarsi da questo meccanismo suicida.

E’ il metodo sperimentato con successo in Italia dopo la stagione di Mani Pulite, che spazzò via la vecchia classe politica legata alla concezione pubblica della fornitura dei servizi per sostituirla con un branco di avvoltoi ammaestrati che diroccarono e svendettero a prezzi di liquidazione quasi ogni struttura che garantisse sicurezza e autonomia alla nazione.

Per essere più certe che il marchingegno funzioni, sono le stesse banche centrali a creare i problemi di budget che metteranno in moto lo smantellamento e la svendita, vendendo agli stati il denaro di cui hanno bisogno in cambio dell’emissione di titoli del debito pubblico gravati da interesse, che produrranno di anno in anno un indebitamento esponenziale.

Si tratta di una strategia di comprovata efficienza, i cui capisaldi nessun governo sano di mente si sognerebbe di mettere in discussione.

Ogni tanto, però, salta fuori dal cappello un primo ministro un po’ folle come Orban che ha l’ardire di chiedere alle banche la restituzione di una piccola frazione del maltolto e di rispondere in malo modo al FMI, invitandolo a cavarsi fuori dai maro dalle questioni di politica nazionale.

All’Ungheria era stato imposto dal FMI l’obiettivo del 3,8% del rapporto deficit/PIL entro la fine di quest’anno. Detto fatto, il governo ha deciso di tassare le banche per raggiungere tale obiettivo senza affamare e straziare ulteriormente i cittadini, già provati da cinque lunghi anni di austerity.

“Il nostro accordo non diceva nulla sui metodi che avremmo dovuto adottare per raggiungere questo obiettivo”, ha detto Orban in un incontro con una schiumante Angela Merkel. “La scelta degli strumenti e dei tempi della loro applicazione attiene alla nostra esclusiva responsabilità nazionale. […] Con queste misure, l’Ungheria avrà entro la fine dell’anno un deficit non superiore al 3,8%. E con questo il nostro rapporto con il FMI è concluso. Da quel momento in poi, non dovremo più confrontarci con il FMI, ma con l’Unione Europea”.

Ah ah ah!

Deridetelo tutti, schiavi!

Scelta degli strumenti? Responsabilità nazionale? Chiudere i rapporti con il FMI? Ma cosa dice questo pazzo?

Il poveretto è convinto di poter agire nell’interesse della nazione senza pagare dazio agli organi di controllo internazionali, che utilizzano le attività finanziarie e i ricatti economici come un randello per tenere in riga i paesi europei sotto l’occhio vigile delle strategie geopolitiche statunitensi.

Il governo ungherese ha perfino osato approvare un provvedimento che pone un tetto all’entità dei salari dei dipendenti pubblici, compreso quello dei dirigenti della Banca Nazionale d’Ungheria e del Consiglio per le Politiche Monetarie, facendo inviperire il governatore della banca centrale, Andras Simor, che si è visto tagliare del 75% la principesca retribuzione di 8 milioni di fiorini mensili (circa 27.000 euro, 40 volte il salario medio di un lavoratore ungherese) ed ha iniziato per questo ad urlare alla lesa indipendenza dell’istituzione bancaria.

Anziché infierire su chi produce ricchezza materiale per il paese, come fanno tutti i governi perbene, il governo ungherese ha ridotto di 9 punti (dal 19 al 10%) la tassazione per le aziende con un fatturato annuo inferiore ai 500 milioni di fiorini (1,7 milioni di euro), per di più con effetto retroattivo al 1° luglio.

Si è spinto fino al punto di vietare i mutui in valuta straniera (euro e franchi svizzeri) che facevano concorrenza ai mutui in valuta nazionale, creavano un’impennata del debito verso l’estero e incrementavano l’esposizione del mercato immobiliare interno all’alea dei rapporti di cambio valutario.

Tutto questo ha l’aspetto inquietante di qualcosa di cui in Europa non si sentiva più da tempo né l’odore né il sapore: sovranità nazionale! Politiche elaborate nell’interesse della crescita del paese anziché per compiacere i potentati bancari internazionali! Deficit ripianati sottraendo risorse alle improduttive e velenose attività finanziarie anziché ai servizi e alla ricchezza reale della nazione.

Di questo passo il governo ungherese potrebbe prima o poi mettersi in testa, che so, di progettare una propria politica del lavoro, adottare programmi pensionistici potenziati, perfino stampare esso stesso moneta anziché prenderla a prestito dalla banca centrale!

E facendo questo, potrebbe fungere da esempio per altri paesi della prigione monetaria europea, che pretenderebbero di adottare gli stessi sistemi! Dove andremo a finire, signora mia?

Per questo motivo, i secondini del carcere comunitario sono corsi immediatamente ai ripari. Dapprima hanno scatenato le opportune campagne di stampa antiungheresi sugli appositi organi d’informazione economica del regime, facendo strepitare ad insigni editorialisti apocalittiche previsioni su crolli degli investimenti e blocco della crescita (crescita di che??).

La BCE si è mostrata fortemente risentita per la temerarietà con cui le decisioni sul tetto ai salari dei banchieri sono state prese senza prima attendere il suo ponderato parere, che sarebbe stato ovviamente del tutto spassionato e scevro da qualsivoglia sospetto di connivenza con gli omologhi della BNU.

Andras Simor, disponendosi eroicamente al martirio, ha minacciato le proprie dimissioni da governatore della BNU, prospettiva dinanzi alla quale il governo di Orban non ha palesato eccessiva disperazione.

Il capo dell’austriaca Raiffeisenzentralbank (RZB), Walter Rothensteiner (chissà perché tutti i banchieri hanno cognomi così?), ha avvertito a denti stretti che “l’Ungheria sta giocando col fuoco”, sottolineando il proprio disappunto nei confronti di un paese così folle da tassare i propri istituti bancari anziché tappare le loro falle con il denaro dei cittadini. Come si può fare una cosa così brutta?

Perché gli ungheresi non prendono esempio dall’Austria, che nel solo 2009 ha regalato alle sue banche 6 miliardi di euro per colmare i loro crateri di bilancio e naturalmente non ha intenzione di fermarsi qui?

Rothensteiner ha “consigliato” alle banche ungheresi di recuperare il denaro della tassazione imponendo ai loro clienti costi di gestione più alti e altri oneri vari ed eventuali. Gli ha fatto eco Wilibald Cernko, amministratore delegato di Bank Austria, minacciando tra i 5.000 e i 10.000 licenziamenti nel settore della finanza austriaca.

Il FMI, per bocca del suo direttore Strass Khan, ha minacciato di congelare il prestito di oltre 20 miliardi di euro con cui si proponeva di “aiutare” la nazione magiara a ripianare i propri debiti, in cambio della prona accettazione dei regolamenti comunitari – che equivalgono, come noi tutti dovremmo ormai aver capito, ad una completa e definitiva rinuncia ad ogni forma di sovranità nazionale.

Alla fine, non riuscendo ad ottenere alcuna marcia indietro, il FMI e l’UE hanno diramato un comunicato stampa in cui notificavano all’universo mondo di aver rotto ogni trattativa col governo di Budapest poiché quest’ultimo avrebbe rinunciato a rispettare i programmi d’austerità promessi negli accordi.

Cosa non vera, come si è visto, dato che le misure adottate dal governo Orban potrebbero risanare i deficit di bilancio molto più efficacemente di qualunque forma di prestito a strozzo offerta dal FMI.

Chissà se questo accerchiamento riuscirà a far desistere il governo ungherese dai propri più che auspicabili propositi? Va tenuto presente che l’Ungheria è fra i paesi dell’ex oltrecortina quello che tradizionalmente destina le più ampie risorse all’investimento nel settore pubblico e nei servizi, e questo non solo per il suo passato socialista, ma perché i governi, dovendo tenere a freno la disoccupazione e la destabilizzazione economica esplose dopo l’apertura al capitalismo, hanno ritenuto opportuno potenziare la domanda interna con appropriati interventi dello stato e sopperire con il lavoro nelle amministrazioni pubbliche all’assenza di livelli occupazionali accettabili nel privato.

Le misure “lacrime e sangue” che i governi hanno dovuto imporre negli ultimi cinque anni per entrare di diritto nell’esclusivo club europeo sono dunque non solo malviste dagli elettori, ma anche estranee ad una tradizione di forte presenza dello Stato nella vita quotidiana che gli ungheresi non sono preparati ad abbandonare; soprattutto se la rinuncia non comporta altro che un trasferimento di risorse dal parassitismo burocratico di stato al vampirismo finanziario delle istituzioni bancarie, mille volte più voraci e prepotenti delle antiche istituzioni socialiste, mille volte più inefficienti e incapaci di garantire ai cittadini, in cambio dei sacrifici senza fine a cui lo costringono, altro che sacrifici ed indebitamento ulteriore.

L'ultima barzelletta di Berlusconi

Oggi, con la lettera indirizzata ai Club della libertà, il cosiddetto premier si è prodotto in una delle sue migliori performance come barzellettiere di vecchia data.

Eccone qualche stralcio:

"Siamo giunti alle meritate vacanze al termine di un anno difficile nel quale il governo ha affrontato con determinazione, con efficacia e con competenza le sfide per un'Italia più moderna e sicura. In questi ultimi dieci giorni, mentre altri producevano le solite chiacchiere, noi abbiamo approvato quattro importanti provvedimenti [...] la manovra economica, che mette in sicurezza i conti dello Stato [...] la riforma del Codice della strada, la più importante dai tempi della patente a punti, determinante per rendere le nostre strade più sicure e fermare quella mattanza che costa ogni anno quasi 5.000 vite umane".

La barzelletta prosegue poi con l'invito agli iscritti ai Club della libertà ad "essere il megafono dell'azione di Governo sul territorio".

Ma è nel seguente passaggio che la risata esplode "La mobilitazione permanente è necessaria per contrastare i disfattismi e i personalismi di chi antepone i propri particolari interessi al bene di tutti, al bene del Paese". Certamente....

domenica 8 agosto 2010

Incendi, inondazioni, siccità, carestie: cause naturali oppure no?

La Russia da alcuni giorni sta bruciando senza sosta e per fortuna è stato spento l'incendio che minacciava la centrale nucleare di Sarov, 500 chilometri a est di Mosca.

Ma l'emergenza non è affatto rientrata. La capitale russa resta ancora avvolta in una micidiale nube di fumo e smog, nelle ultime 36 ore i roghi intorno alla città si sono moltiplicati e il livello di monossido di carbonio resta 6,6 volte oltre i livelli di guardia.

Finora il bilancio ufficiale delle vittime registra 52 morti, numero destinato sicuramente ad aumentare per il combinato disposto caldo torrido-inquinamento atmosferico.

Ma siamo veramente di fronte a una catastrofe esclusivamente naturale?

E la stessa domanda potremmo rivolgerla anche alla luce delle recenti inondazioni in Pakistan che hanno già causato almeno 1.600 morti e l'evacuazione di 500.000 persone.

Idem dicasi davanti a quelle del Kashmir indiano dove si contano finora 137 morti e 400 dispersi.
Oppure ancora di fronte alle frane e smottamenti causati dalle pioggie torrenziali nel nord-ovest della Cina, dove almeno 127 persone sono morte, oltre 2000 sono disperse e 50.000 circa evacuate per l'esondazione del fiume Bailong.
In Cina il maltempo e le piogge torrenziali, dall'inizio dell'anno, hanno già provocato oltre 2.100 morti in tutto il paese, l'evacuazione di 12 milioni di persone e danni per oltre 30 miliardi di euro.

Tempo fa avevamo parlato del programma HAARP e di armi climatiche, un argomento inquietante su cui ritorniamo.



Incendi russi: quali cause umane?
di Pino Cabras - Megachip - 8 Agosto 2010

8 agosto 2010. Mentre Mosca è paralizzata da quasi un mese di canicola e ora da una densa coltre tossica, sospinta dai tanti smisurati incendi, colpisce leggere quanto ha scritto Andrej Arešev, un politologo di «International Affairs», la rivista pubblicata da quella parte dell’establishment russo più istituzionalmente legata alla politica internazionale.

Arešev sospetta che la gigantesca anomalia che oggi sta colpendo l’immenso e disomogeneo territorio da Kalingrad alla Kamčatka sia l’effetto di una qualche arma climatica di nuovo tipo.

È lo stesso tipo di armi evocate dal generale Fabio Mini in un articolo di qualche anno fa (vedi: La guerra ambientale c'è già).

L’analisi è solo un tassello della complessa riflessione che ci dovrà imporre questa sconcertante catastrofe, che per le sue dimensioni si presta subito a diverse letture.

In un’intervista su «Le Monde», ad esempio, Marie-Hélène Mandrillon, una storica e specialista dell’ambiente russo, nonché ingegnere del CNRS (la più grande e prominente organizzazione di ricerca pubblica in Francia), non fa sconti a Vladimir Putin: per lei il disastro ha sì cause umane, ma per via dello smantellamento dell’efficiente corpo degli agenti forestali ereditato dall’era sovietica.

«Con l’implosione del regime e la crisi economica che è seguita, il mezzo trovato per assicurare il loro sostentamento è consistito nell’autorizzarli a vendere il bosco assegnatogli», ricorda la Mandrillon.

«Questa funzione ha presto prevalso sulle altre. Dal 1990, nessuno sul terreno si è più preoccupato di protezione, di manutenzione. La soppressione del ministero dell’ambiente nel 2000 e l’incorporazione, nel 2004, dell’agenzia federale della forestazione al ministero delle risorse naturali, che ha il compito dello sfruttamento e non della protezione dell’ambiente, hanno consolidato questa evoluzione».

Dunque: una gestione scellerata del territorio, concepito come deposito di materiali e non più come sistema dai delicati equilibri, combinandosi con un cambiamento climatico brusco e drammatico, avrebbe creato le premesse dell’attuale calamità, dove tutti fronteggiano scenari mai visti prima.

Si tratta di una spiegazione che calca la mano sulle responsabilità umane, ma non richiama uno scenario di guerra. Che invece è quanto fa Andrej Arešev. Per questo abbiamo tradotto di seguito l’articolo in cui si affaccia questo atroce sospetto.

Qualunque sia la causa dei fatti, con il diverso grado di implicazioni di ciascuna causa ipotizzata, rimane la sensazione che l’impatto dell’uomo sulle risorse ambientali si stia scontrando con problemi di crescente drammaticità, negli stessi giorni in cui si misura l’ampiezza inaudita dello scioglimento dei ghiacci artici e un iceberg vasto quattro volte Manhattan si stacca dalla Groenlandia.

Buona lettura.


Armi climatiche: solo un'ipotesi di complotto?

di Andrej Areshev - http://en.interaffairs.ru - 27 Luglio 2010

Il tempo così insolitamente caldo nelle regioni centrali della Russia ha già causato pesanti danni economici. Ha distrutto i raccolti in circa il 20% dei terreni agricoli del Paese, con l’effetto di far sì che i prezzi alimentari aumenteranno questo autunno. Come se non bastasse, i roghi si sono accesi nelle torbiere attorno a Mosca.

In questi giorni, gran parte delle previsioni relative al clima sono allarmanti: siccità, uragani e inondazioni saranno ancora più frequenti e gravi.

Il direttore del programma energetico e climatico del Wildlife Fund, Aleksey Kokorin, sostiene che l’attuale tendenza non sia un fenomeno casuale e che non ci si deve attendere che debba diminuire d’intensità (1).

In questo particolare contesto, la credibilità delle proiezioni emanate dal Wildlife Fund, un influente organizzazione internazionale che svolge in tutto il mondo operazioni caratterizzate come programmi di protezione ambientale, è fuori discussione (2).

Il motivo è che il riscaldamento globale, che è oggetto di infervorati dibattiti accademici (o, talvolta, del tutto non accademici) non è necessariamente un processo incontrollato. O perlomeno, l’incidenza delle attuali temperature insolitamente elevate esclusivamente in Russia e in alcuni territori adiacenti, induce a delle spiegazioni alternative.

Andando indietro fino agli anni settanta, Zbigniew Brzezinski invocava nel suo libro Between Two Ages (“Tra Due Ere”, ndt) il tema del controllo del tempo atmosferico, che considerava una forma di più ampia regolazione sociale.

Senza dubbio i pesi massimi del pensiero geopolitico degli Stati Uniti si sono dovuti interessare non solo alle implicazioni sociali immediate, ma anche alle potenziali implicazioni geopolitiche di un’influenza sul clima.

Non fu l’unico autore a cimentarsi sull’argomento ma, in ragione di ovvie cautele, le informazioni sui progressi nella sfera delle armi climatiche è improbabile che fuoriescano dalle barriere della segretezza, nel prevedibile futuro.

Michel Chossudovsky, un professore di economia presso l’Università di Ottawa, scriveva nel 2000 che, in parte, il cambiamento climatico in corso potrebbe essere innescato dall’uso di armi non letali di nuova generazione. Gli USA stanno certamente esplorando le possibilità di controllare il clima in varie regioni del mondo.

La relativa tecnologia è stata sviluppata nel quadro del ‘High-Frequency Active Aural Research Program’ (HAARP) (3), stante l’obiettivo di costruire la capacità di provocare siccità, uragani, inondazioni e terremoti.

Dal punto di vista militare, si ritiene che HAARP dia vita a un nuovo tipo di armi di distruzione di massa, e sia uno strumento di politiche espansionistiche che può essere usato per destabilizzare selettivamente sistemi agricoli e ambientali di determinati paesi obiettivo (4).

Tecnicamente, si sa che il sistema è un insieme di sorgenti di radiazioni elettromagnetiche che concernono la ionosfera. Esso include 360 fonti e 180 antenne aventi un’altezza di 22 metri (5).

Complessivamente, la stazione emette 3.600 kW verso la ionosfera, il sistema di questo tipo più potente al mondo (6). Il programma, aperto nel 1990, è finanziato congiuntamente dallo US Office of Naval Research e dallo US Air Force Research Laboratory, ed è messo in opera da diversi laboratori universitari.

Ipotesi che vanno molto lontano si presentano in modo naturale in una tale situazione. Il leader venezuelano Hugo Chavez è stato ridicolizzato per l’attribuzione del terremoto di Haiti all’impatto di HAARP ma, per esempio, un simile sospetto si è fatto strada a seguito del terremoto nel 2008 nella provincia cinese del Sichuan.

Inoltre, vi sono prove che il programma USA di influenza sul clima non si estenda solo a un certo numero di paesi e regioni, ma risieda anche in parte nello spazio. Per esempio, del veicolo senza pilota X-37B, messo in orbita il 22 aprile 2010, si riferisce che trasporti nuovi tipi di armamenti laser.

Secondo il «New York Times», il Pentagono smentisce qualsiasi legame tra l’X-37B e una qualunque arma meteorologica, ma riconosce che il suo scopo è quello di sostenere le operazioni di terra e di gestire un certo numero di compiti ausiliari (7).

Il veicolo è stato costruito 11 anni fa, come parte di un programma della NASA che è stato rilevato dall’US Air Force, 6 anni fa, e completamente sottoposto a classificazione (8).

Le domante volte a far svelare i dettagli del programma sperimentale messo in pratica in Alaska sono state reclamate sia negli Stati Uniti che in diversi altri paesi.

La Russia non si è unita al coro, ma l’impressione è che gli sforzi intesi a modificare il clima deliberatamente, non siano un mito, e che in un futuro più vicino, la Russia – insieme con il resto del mondo – dovrà affrontare una nuova generazione di minacce.

Al momento, le armi climatiche potrebbero raggiungere le loro capacità obiettivo ed essere utilizzate per provocare siccità, cancellare coltivazioni e indurre diversi fenomeni anomali in certi paesi.

Le Note

(1) Odnako 2010, 28, p. 33.

(2) Per dettagli riguardanti la Wildlife Foundation, si veda: http://www.globoscope.ru/content/articles/2892/

(3) Sito del programma: http://www.haarp.alaska.edu/. La stazione HAARP si trova in Alaska, 250 chilometri a nord-est di Anchorage.

(4) Chossudovsky M., Washington’s New World Order Weapons Can Trigger Climate Change: http://www.mindfully.org/Air/Climate-Change-Weapons.htm

(5) http://www.haarp.alaska.edu/haarp/gen.html

(6) http://www.kp.ru/daily/24494/648410/

(7) Surveillance Suspected as Spacecraft’s Main Role, William J. Broad, http://www.nytimes.com/2010/05/23/science/space/23secret.html?_r=1&hp

(8) Il Times ha affermato che il veicolo senza equipaggio segreto potrebbe sperimentare armi laser: http://www.newsru.com/world/24may2010/kosmorazved.html.


Grano russo e speculazione
di Gabriele Battaglia - Peacereporter - 6 Agosto 2010

Siccità e carestia abbattono la produzione e fanno salire i prezzi. La finanza aumenta l'effetto rincaro

La Russia ha annunciato il blocco temporaneo delle esportazioni di grano.
In una dichiarazione all'agenzia Interfax, il Primo ministo Putin ha dichiarato che la misura si è resa necessaria a causa "delle temperature molto alte e della siccità" e che riguarderà "grano e prodotti agroalimentari derivati".

Quello che sta affliggendo il Paese è il periodo secco più lungo degli ultimi cinquant'anni, a cui si aggiunge il danno ambientale degli incendi che hanno già distrutto oltre 712mila ettari di bosco (oltre 2500 chilometri quadrati), con il corollario di almeno 50 morti.

E così, secondo stime ufficiali, la produzione russa passerà quest'anno dai consueti 90 milioni di di tonnellate a 70-75 milioni, determinando un aumento dell'inflazione 2010 fino a 7-7,5 punti percentuali contro i 6,3 previsti.

Ma il calo dell'export russo ha forti ricadute anche sui mercati internazionali.
A luglio si è già registrato un aumento del prezzo del grano del 40 per cento; a breve anche per le decisioni annunciate da Putin, si prevede un'ulteriore balzo in alto.
Soffrono soprattutto i Paesi che dipendono dall'import per nutrirsi.

L'Egitto, il maggiore importatore di grano al mondo, ha appena acquistato 180mila tonnellate di grano russo al prezzo di 270 dollari alla tonnellata. Il 31 luglio costava 238 dollari.
A livello globale, gli analisti prevedono un rincaro di tutti i prodotti alimentari da qui a fine anno.

Questa è l'economia tradizionale: quando c'è scarsità di un bene, il suo prezzo aumenta.
Ma non tutti sanno che il grano, come del resto tutte le commodities, movimenta il mercato finanziario nella sua veste più speculatrice.

Stiamo parlando di "prodotti derivati", intesi qui non come pasta o pane, bensì come strumenti finanziari che "scommettono" sul fatto che un titolo o - come nel caso del grano - un bene, aumenti o cali di prezzo in un determinato periodo. E' quasi certo che queste "scommesse" moltiplicano l'effetto rialzo.

Sul mercato dei derivati non si scambia solo il grano che esiste effettivamente, bensì anche il grano ipotetico - cartaceo come i titoli che lo rappresentano - e questo determina la volatilità dei prezzi al di là della domanda e dell'offerta reali.

Sul sito di Nouriel Roubini, l'economista-guru salito all'onore delle cronache per aver previsto la crisi finanziaria con un anno di anticipo, si ipotizza per esempio che dopo i primi rialzi alcuni investitori istituzionali come gli hedge fund si siano trovati "corti", cioè con pochi titoli a disposizione.

Sono quindi corsi a comprarne altri e il prezzo è salito una prima volta. Se però un autorevole fondo speculativo (gestito magari da una nota banca d'affari) fa incetta di un determinato titolo, tutti corrono a fare lo stesso. E così si scatenano ulteriori rialzi.

Nessuno sa quantificare esattamente il peso della componente finanziaria nei rincari del grano.
Ma sta di fatto che la carestia è un fatto per lo più naturale, la speculazione no.