venerdì 25 febbraio 2011

Libia: come sempre, petrolio e gas...

Ancora una serie di articoli sui fatti libici, con la lente puntata sulle sue ripercussioni nell'approvigionamento energetico e sulle ataviche lotte tra le varie multinazionali del petrolio e gas.

Ma non manca uno sguardo anche sugli altri Paesi dove a dettar legge è il petrodollaro.

P.S. Nel frattempo il prezzo del barile di petrolio ha già raggiunto i massimi da 28 mesi e il segretario generale della Nato, Anders Fogh Rasmussen, ha convocato per oggi una riunione d'emergenza sulla Libia....


Petrolio, cammelli e finanza
di Fabio Polese -www.agenziastampaitalia.it - 24 Febbraio 2011

Il mondo arabo è in rivolta, ha sete di giustizia sociale. Il popolo di quelle nazioni ha preso coscienza dei propri diritti e si vuole sbarazzare di tutti quei despoti, spesso auspicati e/o tollerati dall’Occidente.

E’ iniziato tutto dalla Tunisia, poi la protesta per il pane, ossia, al diritto ai bisogni primari, ha toccato l’Egitto per poi espandersi velocemente ad altre nazioni e comunità islamiche. Da qualche giorno anche la Libia, governata dal 1969 da Muhammar Gheddafi, è in rivolta, notizie si inseguono e non sempre sono attendibili o quantomeno verificabili.

Scorrono nei telegiornali le immagini di Bengasi e delle altre città coinvolte negli scontri violentissimi, senza che non si arrivi a vedere in prospettiva una soluzione politica che non sia troppo traumatica per le popolazione libica e per le nazioni come l’Italia che hanno relazioni tradizionalmente strette economiche e culturali.

Agenzia Stampa Italia ha incontrato Fabrizio Di Ernesto, giornalista e saggista, autore del libro “Petrolio, Cammelli e Finanza” edito da Fuoco Edizioni per porgli qualche domanda su quello che sta succedendo nel vicino Medio Oriente e per capire quali scenari futuri si potrebbero creare.

Per comprendere meglio gli affari e la storia tra Libia e Italia, lei ha scritto un interessante libro edito da Fuoco Edizioni dal titolo “Petrolio, Cammelli e Finanza”. Potrebbe questo testo aiutare ai lettori a comprendere quello che sta accadendo in questo momento in Libia? Spero proprio di sì. Il mio saggio racconta la storia della Libia dal 1911, anno in cui l’Italia iniziò la colonizzazione e quindi tratta anche in modo esauriente gli ultimi 40, ovvero quelli che hanno visto Gheddafi salire e consolidare il proprio potere. A più riprese tratto anche il ruolo politico e commerciale che gioca oggi Tripoli sullo scacchiere mondiale che, a mio parere, offre buoni basi geopolitiche per capire chi realmente può avere interesse a destabilizzare il Paese traendone il massimo profitto. L’ultimo capitolo del mio saggio inoltre appare quasi profetico essendo incentrato sugli scenari futuri del paese nordafricano ed in cui analizzo anche le possibile conseguenze di una caduta del Rais sia volontaria, con il potere affidata ai figli, sia più cruenta con fine contemporanea di Gheddafi e della Jamahiryya.


I rapporti Italia-Libia quali effetti potrebbero avere con questa cruenta rivolta?
La prima e più scontata conseguenza sarà un aumento di petrolio e gas, non a caso è proprio di oggi la notizia che l’Eni ha chiuso il condotto Greenstream che da Wafa a Gela, passando per Mellrtah e Bahr Essalam porta in Italia il gas libico. Ieri inoltre in borsa tutte le grandi società italiane che hanno interessi libici o che vedono la Lafico, il fondo d’investimento statale libico, importante azionista hanno subito dei bruschi cali. A breve termine i rapporti economici potrebbero subire una frenata ma a livello politico credo che, una volta normalizzata la situazione tutto tornerà come prima.


Per l’Italia la Libia ha un ruolo troppo importante per quanto concerne l’approvvigionamento energetico e nel contrasto all’immigrazione clandestina; sull’altro versante Tripoli non può fare a meno degli euro italiani e quindi se anche dovesse esserci un ribaltone Roma dovrà normalizzare quanto prima i rapporti.


Cosa potrebbe cambiare per gli Stati Uniti e per Israele?
Il Gheddafi odierno non è più il terrorista di Lockerbie. Oggi il Rais e la Libia sono stati pienamente inseriti nell’ottica occidentale. Nonostante ciò la caduta di un governo che dura ormai da oltre 40 anni farebbe il gioco di Washington e Tel Aviv. Gli Usa in particolare scottati da quando avvenuto nel 1979 in Iran ora sembrano più attenti nello scegliersi gli alleati ed hanno tutto l’interesse ad accerchiare Teheran.


A parole lottano contro il fondamentalismo religioso ed in favore degli stati laici eppure ci si dimentica che l’Iraq di Saddam era uno stato laico e che le divisioni religiose sono iniziate dopo l’invasione atlantica. Difficile che un eventuale cambiamento non sia a vantaggio di Usa ed Israele magari proprio fomentando un divide et impera, anche in nome della religione, tra Tripolitani e Cirenaica come avvenuto nell’ex Yugoslavia.

E la Cina? Attenta osservatrice delle vicende globali, come sta vedendo le vicende del Medio Oriente? La Cina per il momento osserva silenziosamente in disparte. A Pechino però sono preoccuparti da un eventuale aumento smisurato del petrolio che andrebbe ad incidere sui costi dei loro prodotti, oltretutto per il momento il bacino nordafricano rappresenta un’area, diciamo così, di influenza atlantica e la Cina pur interessandosene vuole evitare di entrare in rotta di collisione con Washington.

In Egitto Mubarak se n’è andato. I militari hanno confermato che rispetteranno i trattati internazionali, allora in pratica, la rivolta non ha cambiato nulla?

Non vorrei apparire troppo catastrofista ma l’Egitto mi ricorda il Cile di Pinochet: potere ai militari, scioglimento del Parlamento e asservimento dei diktat atlantici. I militari hanno promesso che la transizione durerà sei mesi, lo spero anche se ho paura che alla fine si arrivi ad una soluzione gattopardesca: cambiare tutto affinché nulla cambi.


Probabile che tutta la corte che circondava Mubarak nel frattempo si riorganizzi e torni in sella, magari nascondendosi dietro un volto più presentabile e poco compromesso con il passato, sempre che i militari non si facciano corrompere dal potere e decidano i tenerlo nelle proprie mani.


E’ stato il trentaduesimo anniversario della rivoluzione islamica iraniana. Secondo lei, questa ricorrenza, ha potuto incidere sulle vicende del vicino Medio Oriente?
Sinceramente non credo, gli Usa sono ormai molti anni che cerca di destabilizzare, con scarsi risultati, l’Iran ed ora hanno cambiato strategia cercando di isolare quel Ahmadinejad che viene regolarmente eletto dalla maggioranza degli iraniani ma che l’occidente considera un dittatore in quanto antepone gli interessi del suo paese a quello delle grandi lobby internazionali.


La rivolta del pane nei paesi arabi, la lotta per il lavoro in occidente e la crisi mondiale possano decretare la fine di un certo turbo capitalismo?

Il capitalismo è in crisi anche se purtroppo, temo avrà vita ancora lunga. Tutte le rivoluzioni cui abbiamo assistito negli ultimi anni, da quelle colorate nell’est europeo a quelle nel nord africa, avevano dietro le quinte i sponsor occulti del capitalismo, Soros in primis. La strada del cambiamento a mio parere viene da Paesi come il Venezuela o l’Iran che stanno rilanciando l’economia sociale e non a caso sono additati al mondo come paesi non democratici.


Purtroppo il turbo capitalismo, nonostante l’attuale crisi economica, sociale e politica, credo durerà ancora molti anni anche perché l’occidente è quotidianamente bombardato dal diktat capitalistico “cresci, consuma, crepa” con le menti, specie quelle più giovani che dovrebbero portare avanti le istanze di cambiamento narcotizzate da questo bombardamento.



Così la Libia mette in "trappola" l'Italia
da Il Sussidiario.net - 23 Febbraio 2011

Si può dire che l’Italia sia il Paese più esposto al rischio Libia, con possibili pesanti conseguenze negli scenari peggiori che si profilano. Intanto, tra Libia e Italia l’interscambio commerciale supera i 10 miliardi di euro e ha toccato punte di oltre 20 miliardi nell’ultimo triennio, con un centinaio di imprese italiane operanti nel Paese.

Ma questi sono numeri che, per quanto importanti, non rendono a sufficienza l’idea della nostra esposizione al rischio Libia, dal punto di vista economico e non solo. Perché in quell’interscambio commerciale c’è quasi un quarto del petrolio che importiamo, e soprattutto perché dietro a questo dato ci sono decine di miliardi di euro di investimenti di lungo periodo che l’Eni ha realizzato (e altrettanti programmati).

I Paesi produttori del Nord Africa (Libia in primis, poi in ordine: Algeria, Egitto e Tunisia) rappresentano appena un ventesimo della produzione mondiale di petrolio, ma contano per un terzo del petrolio prodotto dall’Eni. E di questo terzo, metà lo fa la Libia.

Per non dire poi delle riserve. Ecco allora che il Nord Africa, e in particolare la Libia, diventa una chiave fondamentale della nostra strategia di approvvigionamenti energetici: una strategia che non si cambia da un mese all’altro. E questo è il rischio più importante che si profila.

Poi naturalmente c’è il resto, dai progetti infrastrutturali alla presenza di tante Pmi, ma probabilmente questo danno economico passa in secondo piano… Anche gli investimenti diretti libici in Italia, a tutti noti, sono forse il minore dei problemi, benché in pochi si siano chiesti se i fondi sovrani alimentati di petroldollari siano tutti uguali o se piuttosto si portino dietro, sotto le vesti di investitori, un diversissimo grado di rischio Paese.

Tornando al rischio numero uno, c’è chi considera che tutto sommato, magari non ragionando nel brevissimo periodo, quale che sia il regime che seguirà quello di Gheddafi esso sarà dipendente dalle esportazioni di petrolio e gas tanto quanto il precedente, e che da questo punto di vista è del tutto razionale non preoccuparsi affatto.

Ci sono però differenze notevoli tra i Paesi del Nord Africa, differenze peraltro non nuove: la Libia non è l’Egitto, né la Tunisia. Il fatto che qualcuno pensasse e scrivesse - come si è letto durante la sollevazione egiziana sui nostri quotidiani - che la Libia potesse essere tutto sommato al riparo dal contagio dato il benessere da Pil procapite più alto del continente, offre la misura esatta di quanto miope possa essere l’analisi sociopolitica ai giorni nostri.

La Libia è rimasta in oltre quarant’anni di Gheddafi un Paese tribale, con le sue tribù, sottotribù, clan e famiglie allargate, con un livello di arretratezza dello sviluppo civile pari solo alla capacità del regime di blandire, cooptare e reprimere duramente entro questa struttura sociale arcaica.

Un contesto piccolo (i libici sono sei milioni) ma complesso, e soprattutto completamente diverso da quelli del Maghreb e abissalmente diverso dall’Egitto. In due aggettivi, estremamente chiuso e arretrato.

E così se l’ondata di rivolte nel mondo arabo, o almeno in Nord Africa, appare del tutto simile, se non per la diversità repressiva tra autocrazie e sistemi puramente dittatoriali, non lo sarà affatto per le conseguenze.

In un contesto come quello libico lo scenario di gran lunga più probabile è quello di una lunga instabilità, guerre tribali tra pezzi armati dell’apparato, destrutturazione statuale, frammentazione del territorio. Uno scenario che, facendo le debite proporzioni, può fare della quarta sponda una Somalia nel Mediterraneo.

E in questo scenario le scelte sulle grandi risorse naturali del Paese possono anche sfuggire da un controllo centralizzato e razionale. Si tratta dello scenario peggiore, ma non del più improbabile. Ed è ovviamente uno scenario che ai rischi economici e di sicurezza degli approvvigionamenti energetici ne aggiunge molti altri di altra natura.



Libia: una guerra di petrolio tra Eni e Bp?
da www.comidad.org - 24 Febbraio 2011

Ci sono vari elementi che consiglierebbero di valutare con molta cautela le attuali "notizie" riguardanti la Libia.

A differenza dell'Egitto, la Libia non ha masse di disperati urbani, in parte perché il regime ha adottato un sistema paternalistico/assistenziale che evita gravi forme di miseria, ed in parte perché mancano proprio le masse, dato che si sta parlando di un Paese spopolato, in cui anche la cifra ufficiale di quattro milioni di abitanti risulta da stime demografiche piuttosto gonfiate per ciò che concerne le zone desertiche.

C'è anche da considerare che i milioni di manifestanti visti al Cairo si avvalevano della benevola neutralità dell'esercito, mentre le poche migliaia (?) di pacifici manifestanti libici, secondo i media si sarebbero trovati addirittura sotto bombardamenti aerei e di razzi: un particolare che risulta alquanto irrealistico, e non perché il regime non sarebbe capace di tanto, ma perché solo una rivolta armata - molto bene armata - potrebbe reggere a lungo ad un tale tipo di trattamento.

Quindi, più che di una rivolta si tratterebbe di un golpe, e con tanto di agganci in settori del regime libico. "Dittatore" è una di quelle parole in grado di mandare completamente in vacanza il senso critico dell'opinione pubblica "occidentale", ed ecco perché la narrazione mediatica di una rivolta popolare spontanea, che però si dimostra capace di occupare un'intera città come Bengasi, non ha suscitato sinora dubbi e perplessità.

Durante il natale del 1989 i media ci narrarono una "rivolta" rumena contro il dittatore Ceausescu con ventimila morti, ma poi si rivelò tutto falso, ovviamente a distanza di mesi, quando la notizia aveva perso centralità.

Un altro "dettaglio" di cui tenere conto riguarda il business del petrolio libico, un business di tale entità da aver comportato mezzo secolo di guerra senza esclusione di colpi tra l'ENI da un parte e le multinazionali anglo-americane dall'altra, in particolare la BP.

Persino il colpo di Stato di Gheddafi contro il re Idris, considerato un fantoccio dell'Italia, fu sicuramente favorito dalle multinazionali anglo-americane, anche se in pochi anni l'ENI recuperò in Libia il terreno perduto.

Che l'attuale "rivolta" libica possa costituire un ennesimo capitolo di questa guerra del petrolio non è un'ipotesi da scartare, poiché la notizia concreta di queste ore è proprio che l'ENI sta rischiando di perdere la sua principale fonte di petrolio: la Libia, appunto.

Come è stato già ricordato da alcuni in questi giorni, la Libia stessa è un'invenzione del colonialismo italiano. Nel 1911 l'allora Presidente del Consiglio, il liberale Giolitti, dichiarò guerra all'Impero Ottomano per strappargli due province nordafricane, la Tripolitania e la Cirenaica, che furono riunite a forza sotto il nome di "Libia", un termine dalle suggestive reminiscenze imperiali romane.

Il fomentare la tensione etnico-tribale tra le diverse popolazioni costituì anche uno degli strumenti di dominio del colonialismo italiano, la cui spietata brutalità è stata ampiamente documentata.

Non si può quindi escludere che la rivalità etnica sia ancora la leva con cui altre potenze coloniali oggi stiano cercando di destabilizzare il regime di Gheddafi, magari prospettando ai vari capi tribali la possibilità di cogestire il business del petrolio con le multinazionali anglo-americane.

In tal caso l'afganizzazione della Libia costituirebbe un esito molto probabile, e del resto ogni aggressione coloniale, ed ogni resistenza ad essa, implicano inevitabilmente anche fenomeni di guerra civile.

La cosiddetta "superpotenza" statunitense ha sempre mostrato limiti molto evidenti, ma il suo vero e duraturo punto di forza è dato dal costituire un punto di riferimento ed un alleato per i gruppi reazionari ed affaristici di tutto il mondo. In questo periodo i media tendono anche a sopravvalutare l'effetto della destabilizzazione libica sui flussi migratori verso l'Italia.

Le barche cariche di immigrati non costituiscono però il canale principale del traffico della migrazione clandestina, in quanto rappresentano soltanto un atroce diversivo per distogliere l'attenzione dalle vere porte d'ingresso di questo traffico, che sono le banchine dei porti sotto il controllo militare statunitense.

Nel porto di Napoli, ad esempio, la U.S. Navy controlla ormai più della metà delle banchine, gestite nel più assoluto segreto militare; tutto ciò per gentile concessione del governo D'Alema nel 1999.

Gheddafi ha accettato di enfatizzare il suo ruolo di poliziotto anti-immigrazione perché costituiva un modo per vantare pubblicamente benemerenze nei confronti dell'Italia e della Unione Europea, ma bisogna separare le esagerazioni della propaganda dalle effettive dimensioni di quel ruolo.

Le basi militari americane, da sempre, non svolgono soltanto una funzione militare, ma soprattutto di controllo dei traffici illegali, a cominciare dal traffico di eroina dall'Afghanistan.

Un elemento fisso di disturbo della comunicazione di questi giorni è costituito dal luogo comune della "amicizia", del rapporto personale condito di baciamano, fra Berlusconi e Gheddafi; perciò è divenuto uno scontato oggetto di polemica il lungo silenzio tenuto dal governo italiano circa la repressione che starebbe avvenendo in Libia.

In realtà, per tutto ciò che riguarda l'energia, è l'ENI, e soltanto l'ENI, il detentore esclusivo e storico di ogni iniziativa della politica estera italiana. Anche i colossi UniCredit, Impregilo e Finmeccanica, per i loro affari in Libia, si sono agganciati alla cordata dell'ENI.

L'effettiva capacità di Berlusconi di sostenere il suo presunto asse preferenziale con Gheddafi si è potuta verificare a Bruxelles, quando il non-ministro degli Esteri Frattini si è accodato supinamente ad una posizione di condanna verso il regime libico, ispirata per di più da un Paese in palese situazione di conflitto di interessi come la Gran Bretagna, che nella vicenda ha sposato ovviamente le tesi della sua multinazionale del petrolio, cioè la ex British Petroleum, oggi Beyond Petroleum.

Frattini e lo stesso Berlusconi si sono poi fatti ripetitori delle notizie di agenzia circa le repressioni che avverrebbero in Libia, nonostante che le testimonianze degli Italiani sfollati non le confermino affatto.

Dalle "rivelazioni" di Wikileaks è uscita l'immagine di un Berlusconi debole, nel ruolo passivo di yesman nei confronti degli Stati Uniti, pur di meritarsi pacche sulle spalle nei summit internazionali.

Le mezze verità rischiano però di veicolare menzogne intere, e cioè l'idea che gli Stati Uniti si limitino ad approfittare della inconsistenza umana e politica di Berlusconi, mentre invece la chiave del colonialismo è proprio quella di creare nei Paesi colonizzati delle leadership deboli ed iper-corrotte.

Il problema non riguarda solo la ricattabilità di Berlusconi, ma i ricatti paralizzanti a cui vengono sottoposti i suoi avversari, sempre timidi ed esitanti nei momenti decisivi. Persino "Il Fatto Quotidiano" oggi fa finta di dimenticarsi di aver denunciato per tre anni che la vera stampella del governo Berlusconi è stato in effetti il Presidente della Repubblica, e lo stesso quotidiano risulta ora allineato all'opera di santificazione mediatica di Napolitano, omettendo la storia dei suoi ambigui rapporti con gli USA già dall'epoca in cui militava nel Partito Comunista Italiano.

In questi decenni l'ENI ha usato la sua potenza finanziaria per imporre i propri affari ai governi di turno lasciando loro la vetrina mediatica, una vetrina di cui Berlusconi ha abusato più di tutti perché costituiva l'unico modo per mascherare la sua pochezza.

Ma la politica dell'ENI da tempo sta mostrando la corda, poiché risulta evidente che un governo fantoccio di servitù coloniale agli USA non soltanto non può difendere gli affari dell'ente in questi momenti di crisi acuta, ma addirittura costituisce un nemico in più.


E dopo la Libia...è l'ora di The Kingdom?
di Debora Billi - http://petrolio.blogosfere.it - 24 Febbraio 2011

E' il pensiero che fa tremare i polsi a mezzo mondo. Dopo Tunisia, Egitto, Yemen, Bahrein e Libia... perché non potrebbe succedere anche in Arabia Saudita?

In fin dei conti, si tratta di una monarchia assoluta di sapore medioevale, con un re talmente vecchio che al suo confronto Mubarak, Gheddafi e persino Berlusconi sembrano giovani leoni.

L'Arabia non brilla per democrazia, diritti umani, libertà religiosa, di stampa e di pensiero; frustano la gente e giustiziano gli apostati coi tribunali coranici, insomma è un Paese da cui si può comprare petrolio senza essere rimproverati ma senza alcuna plausibile ragione. E' una dittatura bella e buona e probabilmente assai peggiore delle altre dittature rovesciate in questi giorni.

Se in Arabia Saudita dovesse succedere quel che sta accadendo in Libia il mondo sarebbe nei guai in brevissimo tempo. Il mondo intero, e non soltanto qualche amico del giaguaro.

Qual è la situazione della popolazione laggiù, allora? Intanto, visto che ne siete appassionati, ecco i dati demografici:

demografiasaudita

Inquietante, nevvero? Soprattutto considerando che la mortalità è bassissima.

Il petrolio rappresenta il 75% del bilancio, e il 90% delle esportazioni. I proventi petroliferi, oltre a servire per il mantenimento delle migliaia di prìncipi e cortigiani, vengono da sempre ridistribuiti alla popolazione.

Questo ha determinato una situazione parassitaria, in cui i giovani sauditi hanno vissuto senza lavorare e l'economia è andata avanti grazie alla manodopera straniera (schiavizzata oltre ogni dire).

L'aumento della popolazione oggi vede una disoccupazione a due cifre. Non c'è lavoro, e soprattutto "non si usa" assumere sauditi, come se fosse disdicevole lavorare.

E l'Export Land Model, che non ci delude mai? A pieni giri anche qui, anche se ovviamente siamo lontani da un consumo interno che supera le esportazioni. Un report di CBC World Market indica che il 40% degli aumenti di produzione vengono assorbiti dalla domanda interna, e un recentissimo articolo Bloomberg ci racconta che le esportazioni petrolifere sono per la prima volta diminuite nel mese di Dicembre anche se la produzione è aumentata.

Entro il 2012, The Kingdom userà 1 milione e 200 mila barili al giorno solo per il proprio fabbisogno di energia elettrica, superiore del 30% al totale delle esportazioni verso gli Stati Uniti!

Per quanto riguarda l'indipendenza alimentare, ecco un altro illuminante grafico.

dipendenzacibo

Come potete vedere, anche se il grafico è di qualche anno fa (la popolazione nel frattempo è raddoppiata e il deserto non si è rinverdito), l'Arabia Saudita è tra i Paesi che maggiormente dipendono dall'estero per il nutrimento della popolazione, il che è comprensibile dato il territorio. Come abbiamo visto per l'Egitto, questa è una situazione assai precaria per qualsiasi Paese.

Il reddito medio dei Sauditi non è basso, e solo leggermente migliore di quello dei libici: 14.000$ contro 12.000$ l'anno. I libici non sono infatti quegli straccioni ridotti alla fame nera che noi crediamo, e godono anch'essi dei proventi del petrolio.

Cosa succederà allora in Arabia Saudita? Intanto, il re è tornato precipitosamente a casa dopo un'assenza di oltre tre mesi a curarsi in Marocco. Poi si è affrettato ad annunciare 37 miliardi di stanziamenti in aiuti alla popolazione, sotto forma di aumento degli stipendi, finanziamento per l'abitazione e welfare. Ha anche liberato 250 prigionieri politici.

Sembra che la (timida) opposizione gli abbia risposto che il Paese ha bisogno di riforme, e non di elargizioni. E che abbia fissato "il giorno della rabbia" per i sauditi all'11 Marzo. Mancano quasi venti giorni: riuscirà il re a sopire lo scontento, o diventerà l'ennesimo "grande vecchio" a finire down the drain tirandosi dietro, stavolta, il mondo intero?


Prossima fermata: la casa di Saud

di Pepe Escobar* - Asia Times - 19 Febbraio 2011

Traduzione per www.comedonchisciotte.org a cura di Elena

Ecco un corso intensivo su come uno dei “nostri” – monarchi – dittatori tratta il suo popolo in occasione della grande rivolta nel mondo arabo del 2011. Il re del Bahrein, Hamad al-Khalifa, si è macchiato le mani di sangue dopo che le sue forze mercenarie di sicurezza - pakistani, indiani, siriani e giordani – hanno attaccato alle 3 di giovedì notte, senza preavviso, manifestanti pacifici accampati in Piazza della Perla, versione ridotta del paese del Golfo di Piazza Tahrir al Cairo.

Durante questa brutale repressione, almeno cinque persone sono rimaste uccise – compreso un bambino – e 2000 ferite, alcune da colpi di arma da fuoco, due delle quali sono in condizioni critiche. Le squadre antisommossa hanno preso di mira medici e personale sanitario e hanno impedito ad ambulanze e donatori di sangue di raggiungere Piazza della Perla.

Un medico dell’ospedale Salmaniya ha detto ai microfoni di al-Jazeera di aver visto fuori dall’ospedale un furgone con cella frigorifera, che teme sia stato utilizzato dall’esercito per rimuovere altri cadaveri.

L’intraprendente Maryama Alkawaka del Centro per i diritti umani del Bahrein era sul posto:”[la polizia] era veramente violenta, e non mostrava alcuna pietà”. Una valanga di messaggi di cittadini del Bahrein su Twitter hanno denunciato un vile attacco in “stile israeliano” e con l’intento di uccidere.

Molti hanno rimproverato ad al-Jazeera di non aver trasmesso in diretta via satellite come aveva fatto al Cairo, e di aver parlato solo di una protesta degli Sciiti. Piazza della Perla è ora circondata da quasi 100 carri armati posizionati agli ingressi e alle uscite. Il centro di Manama si è trasformato in una città fantasma.

L’opposizione sciita ha descritto la situazione come “vero e proprio terrorismo”. Reem Khalifa, redattore capo del giornale d’opposizione al-Wasat, dice “Le forze di regime sono arrivate e hanno massacrato la folla nel sonno”. Stavano “cantando insieme, urlando ‘né sunniti, né sciiti, solo cittadini del Bahrein’.

Non si era mai visto prima. E ciò ha dato molto fastidio ai rappresentanti del governo, che fomentano continuamente divisioni all’interno della popolazione…E ora il regime sta diffondendo menzogne su di me e su altri giornalisti che cercano di descrivere cosa sta succedendo.”

Khalifa ha avuto il coraggio di alzarsi in piedi e confrontarsi duramente con il ministro degli Esteri del Bahrein durante una conferenza stampa, smontando completamente la sua versione degli eventi (in cui definiva “incresciose” le morti, ma insisteva sul fatto che i manifestanti erano parte di una setta e armati).

Il Gulf Cooperation Council – lo scandalosamente ricco gruppo di regni locali che detiene più di 1 trilione di dollari nascosti in fondi esteri e circa il 50% dei giacimenti di petrolio del pianeta non sono ancora sfruttati – ha pronunciato blande parole di sostegno nei confronti del Bahrein.

Uccideteli, ma con guanti di velluto

Washington si è minimamente indignato per tutto ciò? Le affermazioni parlano da sé. Il Segretario di Stato Hillary Clinton ha espresso “forte preoccupazione”, secondo quanto riferito dal Dipartimento di Stato, e “ha incoraggiato misure per fronteggiare la situazione”.

Il Pentagono ha affermato che il Bahrein è “un partner importante”; il Segretario alla Difesa Robert Gates ha poi chiamato il principe del Bahrein Salman – sicuramente per accertarsi che non ci fossero problemi per la 5a Flotta della Marina statunitense e i suoi 2250 uomini ospitati in un’area isolata di 24 ettari nel cuore di Manama.

Persino il New York Times ha dovuto riconoscere che il presidente statunitense Obama non “ha ancora espresso pubblicamente verso il governo del Bahrein le schiette critiche che aveva infine mosso nei confronti del presidente egiziano Hosni Mubarak – o che ha ripetutamente indirizzato ai mullah iraniani”.

Ma non può; dopo tutto, il re del Bahrein, che fa sparare sul suo popolo, è un altro solito sospetto, un “pilastro dell’architettura per la sicurezza americana in Medio Oriente”, e “un fedele alleato di Washington nel suo confronto con la teocrazia sciita iraniana”.

In queste circostanze strategiche, è difficile respingere le affermazioni sul sito web Angry Arab di As'ad AbuKhalil, blogger libanese ed esperto di politica, quando sottolinea, “gli Stati Uniti devono sostenere nell’ombra la repressione del Bahrein per pacificare l’Arabia Saudita e altri tiranni arabi infuriati con Obama per il fatto che non ha difeso Mubarak fino in fondo.”

Casualmente, il principe dell’Arabia Saudita Talal Bin Abdulaziz – padre del principe miliardario caro all’occidente Al Waleed bin Talal – ha affermato alla BBC che esiste il pericolo che le proteste in Bahrein si espandano anche all’Arabia Saudita.

Non si sottolinea mai abbastanza il fatto che il Bahrein sta proprio tra l’Iran e l’Arabia Saudita (vedi All about the Pearl roundabout Asia Times Online, 18 febbraio). La base navale americana a Manama è come un poliziotto nella zona di sorveglianza (del golfo Persico). Inoltre, il 15% della popolazione dell’Arabia Saudita è sciita e vive nelle province orientali dove c’è il petrolio.

Ciò rende molto difficile per gli abitanti del Bahrein – sciiti e anche sunniti – minacciare la dinastia regnante sunnita al-Khalif, poiché la casa di Saud interverrebbe all’istante con ogni sorta di supporto logistico e militare.

Per di più, l’Arabia Saudita ha una grande influenza per quanto riguarda il petrolio del Bahrein, che proviene dai giacimenti condivisi di Abu Saafa, esplorati dalla saudita Aramco e cogestiti da una raffineria del Bahrein. Il Bahrein è molto lontano dal nuotare nel petrolio.

Secondo il Fondo monetario Internazionale, nel 2010 l’Arabia Saudita ha prodotto 8,5 milioni di barili di greggio al giorno, gli Emirati Arabi Uniti 2,4 milioni, il Kuwait 2,3 milioni e il Bahrein solo 200.000 barili.

Secondo Moody’s (società di analisi e ricerche finanziarie n.d.r.), per equilibrare il suo bilancio il governo del Bahrein dovrebbe vendere il petrolio a 80$ al barile, “uno dei più alti punti di pareggio di bilancio della regione”, afferma il Financial Times.

Un rapporto della (banca n.d.r.) Barclay’s Capital traduce con il consueto contorsionismo corporativo “Gli annunci di proteste per le strade, concessioni dei governi a scapito di una difficile situazione fiscale e accese tensioni politiche hanno creato uno scenario che ha chiaramente indotto gli investitori a guardare al Bahrein con crescente cautela.” Quindi, se i manifestanti vogliono realmente colpire il punto debole degli al-Khalifa, dovranno mirare al nesso tra industria petrolifera e settore finanziario.

Sarà una sfida terribilmente ardua contro un pericoloso stato di polizia pieno di mercenari – in particolare consulenti militari giordani (il ”capo degli aguzzini” del Mukhabarat è un giordano) – e che ora conta anche sull’”aiuto” di carri armati e truppe dall’Arabia Saudita. Per di più, le truppe antisommossa e le forze speciali non parlano l’idioma locale e, in particolare, i Balochi del Pakistan non parlano neppure Arabo.

Le prospettive sono incerte. Notizie ufficiose a Manama parlano di rotture all’interno della famiglia reale. Il temibile settario Khalid bin Ahmed, incaricato della politica di naturalizzazione dei sunniti “importati” per alterare la bilancia demografica e indebolire ancor più i diritti di voto della popolazione indigena sciita, da un lato; e il re e l’erede al trono principe Salman, dall’altro.

Il re starebbe perdendo il controllo. E in questo caso l’Arabia Saudita farebbe pressioni su bin Ahmed per prendere il controllo e indurre uno dei figli del re, Nasir Bin Hamed, a diventare principe designato al trono. Ciò avrebbe senso dal punto di vista della brutale repressione.

Il momento di una svolta Ciò che gli sciiti del Bahrein possono sicuramente ottenere è indurre gli sciiti dell’Arabia Saudita a lottare per una maggiore uguaglianza a livello sociale, economico e religioso.

E’ impensabile che la Casa di Saud avvii delle riforme – non mentre gode di uno straordinario benessere dovuto al petrolio e mantiene un vasto apparato per la repressione, più che sufficiente per comprare o dissuadere ogni forma di dissenso. Tuttavia potrebbe esserci motivo di sperare che l’Arabia Saudita segua i venti del nuovo Egitto.

L’età media del trio di principi regnanti della Casa di Saud è 83 anni. Dei 18,5 milioni di abitanti indigeni del paese il 47% è sotto i 18 anni. Tramite YouTube, Facebook e Twitter, una concezione medievale dell’Islam ed una corruzione dilagante vengono sempre maggiormente criticate.

La classe media si sta contraendo. Il 40% della popolazione attuale vive sotto la soglia di povertà, non ha possibilità di accedere all’istruzione e risulta quindi inabile al lavoro (il 90% degli occupati sono sunniti “importati”).

Persino l’attraversare la strada sopraelevata di Manama è sufficiente per dare spunti al popolo. Ancora una volta si parla di una lotta estremamente difficile, in un paese senza partiti politici, sindacati o organizzazioni studentesche; dove ogni tipo di opposizione è vietata dalla legge e i membri del consiglio della shura vengono scelti dal re.

In ogni caso, il giornale Arab News ha già messo in guardia sul fatto che i venti di libertà del nord Africa possano toccare l’Arabia Saudita. E potrebbe giocarsi tutto sulla disoccupazione giovanile, all’insostenibile tasso del 40%.

Non può essere altrimenti: la grande rivolta nel mondo arabo del 2011 non può raggiungere il suo obiettivo storico se non scuote le fondamenta della Casa di Saud. Giovani sauditi, sciiti e sunniti: non avete nulla da perdere se non la vostra paura.

*Pepe Escobar (autore di Globalistan: How the Globalized World is Dissolving into Liquid War (Nimble Books, 2007) e di Red Zone Blues: a snapshot of Baghdad during the surge. Il suo nuovo libro, appena pubblicato è Obama does Globalistan (Nimble Books, 2009). Può essere contattato a pepeasia@yahoo.com.)


Peak oil, cambiamenti climatici, disordini politici: la lezione dell'Egitto

di Mattew Wild - www.countercurrents.org - 15 Febbraio 2011
Traduzione per www.comedonchisciotte.org cara di Micioga

E’possibile che il popolo egiziano che è coraggiosamente sceso in strada per rovesciare il regime tirannico abbia preso parte alla prima rivoluzione del picco del petrolio?

Sembra una vera iperbole, in un primo momento. Hosni Mubarek ha gestito il paese sotto un costante stato di emergenza in cui ha bloccato la libertà di parola, intimidito ogni persona percepita come una minaccia e gestito un sistema sfacciatamente corrotto che ha lasciato milioni di Egiziani in povertà.

I tiranni sono stati rovesciati alla fine e i manifestanti nelle strade dell’Egitto stavano chiaramente esercitando il loro diritto a fare una scelta politica – rimuovere Mubarak. Dopo tutto, è una così romantica storia che vogliamo leggerci: la gioventù diseredata che ha superato in astuzia le spie del governo, twittando su Facebook per organizzare la sommossa, una ribellione eccezionalmente pacifica.

Ora, con il paese saldamente nelle mani dell’esercito, che si è impegnato ad indire elezioni nel giro di sei mesi, i commentatori dei media parlano di lieto fine – dipende comunque da quanto siate lieti riguardo la legge marziale. Ma se ci fosse qualcosa in più di questo?

E se i problemi dell’Egitto andassero ancora più in profondità?

Senza voler rovinare la festa, alcune ulteriori informazioni mettono gli eventi sotto una luce differente:

* il picco del petrolio in Egitto risale al 1996 e con una produzione diminuita del 26 percento da allora, la nazione è oggi un importatore netto di petrolio
* il debito pubblico è attorno al 89,5 percento del PIL
* la popolazione – 27,8 milioni nel 1960 e attualmente stimata in 79,94 milioni – è destinata a raddoppiare ogni 35 anni
* autosufficiente a livello alimentare nel 1960, la nazione dipende ora dall’importazione di cibo, che è al momento a prezzi record
* i prezzi in Egitto si sono impennati del 17 percento a seguito del balzo a livello globale dei prezzi delle materie prime (mentre circa il 40% dei cittadini egiziani vive con meno di 2 dollari al giorno).

Ecco che, allora, abbiamo un conflitto tra diminuzione delle entrate del governo, pressione demografica, povertà, prezzi del cibo in aumento e sistema politico corrotto che era indifferente a chiunque fosse estraneo all’élite. L’Egitto, ex esportatore di petrolio e autosufficiente a livello alimentare e ora importa entrambi – e non può permettersi di alimentare se stesso.

Un resoconto su “Le Monde Diplomatique”, intitolato Tunisia, Egitto e il crollo prolungato dell’Impero Americano allarga lo sguardo su ciò:

La produzione di petrolio dell’Egitto ha raggiunto il suo picco nel 1996 e da allora è diminuita del 26 percento. Dagli anni ’60 l’Egitto è passato dalla completa autosufficienza alimentare ad un’eccessiva dipendenza dalle importazioni, sovvenzionate dai ricavi del petrolio. Ma come i ricavi del petrolio egiziano sono costantemente diminuiti a causa del crescente consumo interno di petrolio in costante diminuzione, così è stato per i sussidi alimentari, portando ad un’impennata dei prezzi del cibo. Contemporaneamente i livelli del debito pubblico sono mostruosi – circa l’80,5% del PIL, molto oltre la maggior parte degli altri paesi della regione [il dato più recente rivela 89,5% ]. Le disuguaglianze sono largamente diffuse, intensificatesi nell’ultimo decennio sull’onda delle riforme neoliberiste di “aggiustamento strutturale” – largamente attuate nella regione dal 1980 con effetti debilitanti, inclusi la contrazione dello stato sociale, la riduzione dei salari e la mancanza di investimenti nelle infrastrutture. Di conseguenza oggi il quaranta percento degli Egiziani vive al di sotto della soglia di povertà fissata dalle Nazioni Unite in meno di 2 dollari al giorno.

Con i politici e i media aderenti al racconto fiabesco, i commenti recenti del Segretario di Stato americano Hillary Clinton riguardo una “tempesta perfetta” di agitazioni che attraversa il Medio Oriente, sembrano particolarmente sinceri. Riferendosi alle proteste in Tunisia, Giordania, Yemen ed Egitto, ha parlato di una “necessità strategica” per un cambiamento democratico.

Secondo la BBC:


Il Segretario ha detto che con la scarsità di acqua e il petrolio in esaurimento, i governi dovrebbero essere in grado di frenare l’ondata del cambiamento per un po’ ma non per lungo tempo.

“Alcuni leaders possono credere che i loro paesi siano un’eccezione – che la loro popolazione non richiederà maggiori opportunità politiche o economiche o che essa potrà essere calmata con mezze misure”.

“Nel breve termine ciò può essere vero, ma nel lungo termine è insostenibile”.

L’Egitto è anche nel mezzo di una disputa sulle acque del fiume Nilo, che scorre attraverso Etiopia, Uganda, Kenia, Tanzania e Ruanda prima di raggiungere la diga di Assuan, dove serve alle necessità dell’agricoltura egiziana.

Scarsità di acqua e petrolio in esaurimento – non avrei mai pensato di sentire un politico statunitense di alto livello ammettere ciò – mentre i prezzi del cibo sono ai massimi storici. La FAO, che traccia un indice dei prezzi alimentari, ha evidenziato che i costi vanno oltre “il precedente record del 2008 che ha visto l’accendersi di sommosse dovute a tali aumenti in diversi paesi”. L’economista dell’organizzazione, Abdolreza Abbassian ha detto che a causa dell’”imprevedibilità del tempo” i prezzi potrebbero continuare ad aumentare.

Le condizioni meteo fuori dalla norma in tutto il mondo hanno ridotto drasticamente la produzione di cibo: incendi in Russia lo scorso anno (e il conseguente divieto alle esportazioni di grano), siccità in Argentina, inondazioni in Australia, gelate improvvise in Messico e nella parte sud degli USA, raccolti distrutti in Canada.

I mercati predatori delle materie prime, un crescente gusto e conseguente richiesta di carne attraverso tutta l’Asia e la concorrenza dei biocarburanti stanno a loro volta spingendo in alto i costi, ma sembra che il principale problema sia il clima (gli speculatori saltano sul carro solo quando l’offerta è scarsa, poiché non ci sono soldi da fare scommettendo sul mercato dei compratori. La speculazione sui futures delle materie prime può essere condannata perché rende peggiori le cose per miliardi di persone nel mondo ma non ha scatenato i problemi).

Perciò, è solo un momento di sfortuna o stiamo vedendo cambiamenti climatici all’opera? Tornando al resoconto de “Le Monde Diplomatique”:

Molta dell’attuale scarsità alimentare è stata inflitta da eventi climatici sempre più imprevedibili e da disastri naturali, su cui i climatologi hanno da tempo messo in guardia come sintomatici del riscaldamento globale di origine antropica. Le siccità esasperate dal riscaldamento globale in regioni-chiave per la produzione hanno già portato ad un crollo del 10-20% nella produzione di riso nell’ultimo decennio. Per la metà del secolo la produzione mondiale di riso potrebbe crollare del 20-40% a causa dei soli cambiamenti climatici.

Scrivendo sul New York Times la scorsa settimana l’editorialista Paul Krugman ha affrontato la questione in un articolo meravigliosamente scritto dal titolo Siccità, Alluvioni e Cibo. Egli osserva che “la crisi mondiale del cibo – la seconda nel giro di tre anni” può non avere un enorme impatto sull’inflazione degli USA ma sta avendo un “brutale impatto sui poveri del mondo”.

Cita la rabbia corrente verso i regimi repressivi del Medio Oriente – dicendo che la questione non è tanto perché stia accadendo, quanto perché ora – come ampiamente innescata dai crescenti aumenti dei prezzi alimentari. Continua:

Cosa c’è dietro all’impennata dei prezzi? La destra americana (e i Cinesi) condannano le politiche di denaro facile alla Federal Reserve, con almeno un commentatore che dichiara che c’è del “sangue sulle mani di Bernanke”. Nel frattempo il presidente francese Sarkozy condanna gli speculatori, accusandoli di “estorsione e saccheggi”.

Ma le prove raccontano una storia differente, molto più inquietante. Mentre diversi fattori hanno contribuito all’impennata dei prezzi alimentari, quello che davvero risalta è la misura con cui gli estremi eventi meteorologici hanno mandato in frantumi la produzione agricola. E tali eventi estremi sono esattamente ciò che ci aspetteremmo di vedere a causa del cambiamento climatico indotto dall’aumento dei gas serra – il che significa che l’attuale ondata di prezzi del cibo potrebbe essere solo agli inizi.

Krugman scrive che non c’è un singolo evento meteorologico che si possa attribuire al cambiamento climatico causato dall’uomo, “ma il modello che stiamo vedendo, con estremizzazioni nelle temperature e nel tempo in generale sta diventando molto comune ed è quello che ci si aspetterebbe dal cambiamento climatico”.

Naturalmente ci sono sempre commentatori politicamente opportunistici in fila per negare ogni aspetto del cambiamento climatico si abbia cura di menzionare – e che, abbastanza stranamente, viene tutto ricondotto al Big Oil (le grandi compagnie petrolifere, n.d.t.). E’ il loro lavoro rendere le cose il più possibile confuse e caricate di valenza politica.

L’Egitto è una lezione di insostenibilità, ma non la sola al momento (ho visto speculazioni sul futuro del Messico, un altro produttore di petrolio che ha superato il picco, insieme a domande sul futuro a lungo termine della casa Saudita). Chris Martenson, del famoso Crash Course, ha scritto che gli eventi in Egitto erano “emblematici di ciò che ci potremmo aspettare in qualsiasi altro posto, specialmente nei mercati finanziari”. Continua:

Il mio intento qui non è di sottolineare le difficoltà future che l’Egitto affronterà, non importa chi sia in carica, ma di usare il cambiamento avvenuto lì come un avviso che, dall’Egitto, ci ricordi semplicemente che tutto ciò che è insostenibile un giorno cambierà. Si tratta di un emblema per il mondo.

Con abbondanza di energia e di cibo, siamo immersi piacevolmente in economie stabili ed ampie in cui ognuno ha una possibilità di guadagno.

Non che tutti ci riusciranno, sia chiaro, ma la possibilità esiste. In un mondo vincolato dall’energia, ciò che in passato era possibile non è più fattibile, le cose non vanno per il verso giusto e sembra esserci una carenza permanente di tutto, dalla crescita al denaro, al cibo, ai valori. Quello che funzionava, non funziona più. E’ a questo punto che gli stress accumulati e i disequilibri hanno maggiori probabilità di esplodere e cambiare improvvisamente il mondo.

Se è un’iperbole dire che gli eventi in Egitto siano una rivoluzione del picco del petrolio o un evento legato al cambiamento del clima, non è distorcere i fatti trasformare la storia in una fiaba sulla democrazia. La rabbia per i costi alimentari ha giocato il ruolo predominante nel far scendere il popolo nelle strade.

Il petrolio dell’Egitto ha raggiunto il picco, questo non può essere negato. Nemmeno può esserlo il ruolo del cambiamento climatico nell’impennata dei prezzi, per quanto mi riguarda.

Chiaramente ci sono altri fattori che operano oltre al picco del petrolio e ai cambiamenti climatici, ma voi tutti dovreste chiedervi se le proteste avrebbero avuto inizio in un Egitto ricco di petrolio ed importatore di grano a buon mercato.

E se credete che ci sia spazio per il picco del petrolio e per i cambiamenti climatici nell’insieme degli eventi in Egitto, allora quei disordini sono veramente emblematici di cosa aspettarci in qualsiasi altro luogo.

Con la popolazione mondiale in aumento a sette miliardi, l’allarme delle Nazioni Unite per rivolte in tutto il mondo se i prezzi del cibo non calano, il prezzo del petrolio di nuovo in crescita sulla scia della crescente domanda mondiale e il riscaldamento globale a peggiorare il tutto, gli elementi sono tutti in posto per un disastro umanitario.

Nonostante le azioni di tutti i negazionisti, credo che nei prossimi anni vedremo i risultati del picco del petrolio e dei cambiamenti climatici. Gli avvertimenti sono tutti in posto.

giovedì 24 febbraio 2011

Libia update

Torniamo sui drammatici eventi libici di queste ore, cercando di capire cosa sta effettivamente accadendo.

Soprattutto dietro le quinte...


Rosso sangue, il futuro della Libia
di Nicola Sessa - Peacereporter - 23 Febbraio 2011

Uno stato in frantumi e le infiltrazioni del fondamentalismo islamico sono il vero incubo dell'Occidente ancora incapace di fermare il massacro in corso

La guerra civile in atto con il caos che ne consegue lascia poco spazio a previsioni su futuri scenari politici. Il primo obiettivo, adesso, è fermare il massacro della spietata repressione libica ordinata da Muammar Gheddafi, il cui folle discorso non ha fatto che aggravare la situazione.

Il leone ferito è uscito allo scoperto e la rabbia cieca del dittatore rischia, con tutta probabilità, di cancellare, polverizzare la nazione libica fondata su delicati equilibri di natura tribale-clanistica.

Il grande incubo europeo, ancor prima che lo sbarco di centinaia di migliaia di disperati sulle sponde del Vecchio Continente, è la "balcanizzazione" della Libia con la conseguente costituzione di un emirato islamico in Cirenaica, ai confini con l'Egitto.

Lo stesso Muammar Gheddafi, ieri, ha fatto leva sulla questione del fondamentalismo islamico, non si sa se per terrorizzare di più l'Occidente o la popolazione libica cui è stata paventata un'occupazione degli Stati Uniti sul modello afgano e iracheno.

È solo retorica strategica o si tratta di un pericolo reale? Khaled Fouad Allam, docente di Islamistica e Sociologia del mondo musulmano - interpellato da PeaceReporter - ritiene che la minaccia sia concreta, sebbene vi sia anche una strumentalizzazione di fondo da parte di Ue, Italia e dello stesso Gheddafi.

Secondo il professore Allam, gruppi di integralisti - anche della cintura sub sahariana - non aspetterebbero altro: approfitterebbero subito per infilarsi tra le macerie di una Libia in frantumi e costituire uno stato regolato dalla Sharia, la legge coranica.

Il panorama libico è completamente diverso da quello tunisino o egiziano dove esiste una discreta articolazione politica, una rete di associazioni per i diritti umani e soprattutto un esercito (addestrato dagli Stati Uniti) capace di guidare una fase di transizione.

In Libia, non è individuabile un personaggio di caratura internazionale che possa prendere in mano un processo di rifondazione e l'esercito - come spiega Allam - è costruito su base etnica, su linee tribali. È molto probabile che assisteremo dunque a profonde spaccature anche all'interno della compagine militare con due o più eserciti che si faranno la guerra.

L'Unione Europea ha molte responsabilità per non essere stata in grado di prevedere gli eventi di queste settimane. La totale assenza di una politica europea è, per Fouad Allam, il sancito fallimento della Dichiarazione di Barcellona (27-28 novembre 1995) e di diciassette anni di una falsa cooperazione.

Bruxelles dovrebbe fare i conti con questo fallimento e avviare una "Conferenza Euroaraba" se davvero tiene alla pacificazione di quella parte di mondo.

Il futuro prossimo del popolo libico è rosso. Rosso sangue: "Questa rivolta è cominciata con il sangue - ci dice il professore Allam - e molto sangue scorrerà ancora. Dopo la rivoluzione arriva sempre il terrore".


Qaddafi, l'ultima mossa: dividere la Libia per contrattaccare
di Lorenzo Adorni - www.lorenzoadorni.com - 23 Febbraio 2011

Entrato nella storia nel 1969, con un colpo di stato pressoché incruento, oggi è ad un passo dall’uscirne come uno dei tanti brutali e sanguinari dittatori africani. Nel mezzo, in più di quarant’ anni di dittatura, tutto e il contrario di tutto.

Certamente Qaddafi ( italianizzato in “Gheddafi” ) era a conoscenza che queste rivolte, sulla scia di quelle negli altri paesi del Mediterraneo, sarebbero sorte anche in Libia. Si trattava solo di una questione di tempo, ne era consapevole.

Le sue minacce di violente repressioni sono iniziate ancor prima che i manifestanti scendessero in piazza. Quello a cui assistiamo in queste ore non è nient’altro che il suo piano sanguinario, ben calcolato, per contrastarle.

Sapendo di non poter mantenere il controllo sull’intero paese, e in particolare sulla zona a lui più ostile la Cirenaica, ha lasciato che queste potreste sorgessero e si diffondessero proprio in quell’ area , per utilizzare successivamente la Tripolitania, tradizionalmente più stabile, come retroterra per contenerle e contrastarle.

Infatti, le proteste sono giunte nella capitale Tripoli ma, non si sono diffuse nel resto della Tripolitania dove lo stesso Qaddafi può trovar rifugio. Anche se con ogni probabilità ora si trova ancora nel suo bunker .

Nei suoi piani vi è proprio l’intento di ripartire da Tripoli, per riconquistare una seconda volta la Libia, riportando cioè la Cirenaica sotto il suo controllo.

In principio ha lasciato che le proteste si diffondessero anche nella capitale,per alcuni giorni, in modo da intervenire successivamente, proprio in una fase avanzata delle stesse, dando l’ordine di massacrare i manifestanti.

Una volta condotta a compimento questa folle azione, Qaddafi pensa di poter liberare Tripoli dai manifestanti, farvi ritorno e successivamente estendere un’azione violenta, di duro contrasto, anche ai manifestanti nella Cirenaica.

Nel mentre qualche comparsa in televisione, con messaggi video registrati chissà quando, sullo stile di Saddam Hussein durante le guerre del Golfo, per dimostrare la sua presenza e la sua capacità di mantenere il controllo.

Qaddafi ha saputo porre i manifestanti di Tripoli in una condizione assai difficile da mantenere.

Da una parte l’esercito pronto a sparare sulla folla, come ha già ampiamente fatto nelle scorse ore, dall’altra un’eventuale resa dei manifestanti stessi porterebbe Qaddafi al rientro nella capitale, alla sua ripresa dei poteri e con ogni probabilità ad una ulteriore azione di rappresaglia nella Cirenaica.

Nel mezzo di questo piano esistono però molte incognite.

Il potere di Qaddafi oggi si basa unicamente sulla sua forza militare.Essendo a conoscenza del fatto che il suo esercito avrebbe registrato alcune defezioni, ha fatto giungere preventivamente, e già da alcune settimane, mercenari dall’Africa sub-sahariana, assoldati con il compito di massacrare i manifestanti nel caso in cui l’esercito libico o parte di esso si sarebbe rifiutato.

Defezioni che negli effetti si sono registrate,con anche casi di fucilazioni di soldati ma, che nel complesso non hanno ancora visto emergere un leader in grado di contrastare quella parte dell’ esercito rimasta fedele a Qaddafi.

Vi è poi l’ulteriore eventualità che il supporto di quelle aree tribali, fedeli al leader libico, possa venir meno, lasciando Qaddafi sprovvisto di quel retroterra su cui si basa oggi la sua strategia.

Mentre la crisi libica sembra sempre più acutizzarsi, le potenze straniere stanno intervenendo con un ampio lavoro messo in atto dai servizi segreti occidentali presenti in Libia.

Da una parte il tentativo di allontanare i mercenari stranieri presenti in Libia, eliminando parte del supporto militare a disposizione del dittatore libico, dall’altra il tentativo di favorire un colpo di stato militare.

Nel complesso, questa crisi libica andrà presto delineandosi come la peggiore fra quelle che ad oggi hanno investito i paesi del Mediterraneo.La condanna da parte delle Nazioni Unite, votata in queste ultime ore, è poco più che un atto formale.

Nelle prossime ore se i massacri continueranno, verrà aumentata la pressione militare sul paese, inviando sempre più navi da guerra al largo delle coste libiche, cercando di esercitare la massima pressione possibile sui vertici militari libici per porre in essere un colpo di stato.

Se la divisione all’interno della Libia fra Cirenaica i Tripolitania dovesse persistere, la comunità internazionale dovrebbe valutare attentamente quali azioni porre in essere,anche militari, per evitare che si verifichi una guerra interna, e il relativo rischio concreto che l’esercito libico giunga ad effettuare un vero e proprio massacro in Cirenaica.



La prossima mossa di Gheddafi: sabotare il petrolio o scatenare il caos?
di Robert Baer* - www.time.com - 22 Febbraio 2011
Traduzione per www.comedonchisciotte.org a cura di AF

Non ci sono praticamente informazioni attendibili da Tripoli, ma una fonte vicina al regime di Gheddafi che sono riuscito a contattare mi ha detto che la terribile situazione in Libia andrà peggiorando.

Tra le altre cose, sembra che Gheddafi abbia ordinato ai servizi di sicurezza di iniziare a sabotare i pozzi di petrolio. Cominceranno facendo saltare in aria diversi oleodotti, per interrompere il flusso nei porti del Mediterraneo. Il sabotaggio, secondo la mia fonte, dovrebbe servire come un messaggio per le tribù ribelli della Libia: “o con me o il caos.”

Due settimane fa, la mia fonte libica mi aveva detto che le rivolte in Tunisia ed Egitto non avrebbero mai toccato la Libia. Gheddafi, mi riferiva, ha un forte controllo su tutte le maggiori tribù, gli stessi che lo hanno mantenuto al potere negli ultimi 41 anni. Le informazioni di quest’uomo si sono rivelate sbagliate, e quindi tutto ciò che ora ha da dire circa le intenzioni di Gheddafi deve essere preso con molta cautela.

Il mio uomo mi ha rivelato della disperazione di Gheddafi il fatto che egli ora può contare solo sulla fedeltà della sua tribù, i Qadhadhfa. E per quanto riguarda l'esercito, come Lunedi scorso ha solo la lealtà dei circa 5.000 soldati.

Sono le sue forze d'elite, gli ufficiali tutti selezionati con cura. Tra di loro c’è la 32a Brigata. (La forza totale dell'esercito regolare libico è di 45.000) L'unità comandata dal suo secondo figlio più giovane Khamis.

La mia fonte mi ha riferito che Gheddafi ha detto alla sua gente che lui sa che non può riprendere la Libia con le forze che possiede. Ma quello che può fare è rendere le tribù ribelli e fomentare gli ufficiali dell'esercito a tradire, per trasformare la Libia in un altro Somalia. "Ho i soldi e armi per lottare per un lungo tempo", avrebbe detto Gheddafi.

Come parte dello stesso piano per rovesciare la situazione, Gheddafi ha ordinato la scarcerazione dei prigionieri militanti islamici del paese, sperando che agiranno per conto loro seminando il caos in tutto il paese. Il rais prevede che attaccheranno gli stranieri e le tribù ribelli. Questi ultimi avendo anche con una carenza di scorte alimentari non potranno far cadere Gheddafi.

La mia fonte libica ha affermato che al fine di comprendere lo stato d'animo di Gheddafi dobbiamo capire che il leader libico si sente profondamente tradito dai media, che lui biasima per aver dato via alla la rivolta.

In particolare, egli accusa l'emittente televisiva del Qatar al-Jazeera, ed è convinto che è stato colpito per motivi puramente politici. Gheddafi si sente tradito dall'Occidente perché ha solo incoraggiato la rivolta. Durante il fine settimana, ha avvertito parecchie ambasciate europee che, se cadrà, le conseguenze saranno una moltitudine d’immigrati africani che si riverseranno in Europa.

Incalzato, la mia fonte libica ha riferito che Gheddafi è un uomo disperato e irrazionale, e la sua minaccia di trasformare la Libia in un altro Somalia, a questo punto può essere anche un bluff. D'altra parte, se Gheddafi infatti pensa di avere la fedeltà delle truppe potrebbe portar il paese sul baratro della guerra civile, se non oltre.

*Robert Baer, scrittore ed ex ufficiale della CIA dal 1976 al 1997 statunitense. Nel 1976 entra alla University of California a Berkeley e decide di entrare nel Directorate of Operations ("Direttorio delle operazioni") della CIA come ufficiale. urante la sua carriera di 20 anni alla CIA è stato assegnato a Madras e Nuova Delhi in India, a Beirut in Libano, a Dushanbe in Tajikistan e a Salah al-Din in Iraq.


Libia, il leone ferito: ma non è detta l'ultima parola...
di Claudio Moffa - ComeDonChisciotte - 23 Febbraio 2011

Per mancanza di tempo l'articolo che segue è stato compilato in due fasi: il primo paragrafo e l'inizio del secondo risalgono – integrazioni e aggiornamenti a parte – a sabato e domenica scorsi.

Il resto l'ho concluso oggi. Lascio invariato il testo iniziale, perché ritengo che non confligga con l‘apparizione delle prime foto e video citati da me come inesistenti: la mia tesi è che è stata l'enfatizzazione e invenzione mediatica ad aver prodotto i fatti reali di cui ad alcuni servizi televisivi di stamane.

La partita sembra però ancora aperta: il discorso di Gheddafi alla TV, in cui si invita il popolo a schiacciare i rivoltosi sta ribaltando l'incertezza dei primi giorni, anche se la repressione frontale costituisce un segnale più di debolezza che di forza del rais.

Tutto può ancora accadere in Libia, la cui crisi presenta come scrivo nell'articolo un segno di tipo diverso rispetto agli eventi egiziani. Una sorta di risposta-pendant alla deriva in fieri pro-palestinese (e non ostile all'Iran: vedi il passaggio delle navi di Teheran a Suez) de Il Cairo.

1) C'è qualcosa che non torna nel racconto delle vicende libiche: le stragi, gli aerei, i cecchini, i mercenari, le notizie che si susseguono ci dicono che la crisi del regime è profonda quanto mai era stata in quarantuno anni di potere di Gheddafi.

Ma quel che non si capisce è quale sia la percentuale di informazione “drogata” che punti a favorire una soluzione vincente della crisi secondo le aspettative dei ribelli e dei loro potenti sostenitori esterni.

C'è infatti uno scarto non indifferente fra le unità di notizia e i video da una parte, e le cifre sparate con titoli cubitali dalla stampa e dai telegiornali di mezzo mondo. Tutti i video mostrano in genere non più di alcune decine di persone nelle strade: perché non c'è nemmeno una foto di cellulare con almeno una ventina-trentina cadaveri a terra, delle centinaia di ammazzati dal regime?

Testimoni riferiscono, scrive la BBC, di aerei Testimoni riferiscono, scrive la BBC, di aerei che bombardano i civili, e di mercenari che fanno strage di manifestanti: sono uomini di Gheddafi o sono terzi soggetti che alimentano la guerra civile secondo il modello delle proteste elettorali in Iran di due estati fa?

E poi ancora: alcune finestre in fiamme, senza che si veda l'edificio nella sua interezza non si sa dove e quando sono state riprese. Il filmato con alcuni orribili cadaveri carbonizzati è curioso, di nuovo un capannello di persone e poi i resti delle vittime come trasportati ed esposti su teloni militari.

Su Al Jazira, un altro post che sembra un filmato, ma in realtà è una foto con nel sottofondo un anonimo libico di Tripoli che dice che Gheddafi e i suoi sono “mostri”. Ancora, foto di feriti in ospedale ma non si sa quale ospedale e feriti quando. E video di mercenari africani che non dicono nulla, pochi fotogrammi forse girati addirittura su un aereo.

Leggete poi i giornali: i titoli sparano bombardoni, gli articoli parlano in genere di “testimoni” (che) “riferiscono”, e sono infiorati da condizionali e da forse: vedi la fuga di Gheddafi in Venezuela. Vedi i prima due poi quattro piloti disertori e atterrati a Malta,che nessuno ha ancora intervistato; vedi i tre ministri che si sarebbero dimessi.

La cautela dunque sembrerebbe d'obbligo, come del resto si deduce dall'intervista dell'ambasciatore libico all'ONU di Ginevra che, abbandonato il regime di Gheddafi, ha dichiarato a Rai News ieri mattina che “la situazione è estremamente critica”, che si è di fronte all' “estrema crisi del regime”, che “Gheddafi non ha più nulla in mano”, senza fornire però una sola cifra delle vittime vere o presunte.

Un lavoro “sporco” da affidare all'anonimato mediatico in rete, nelle tv e sulla stampa, non da compiersi da parte di un alto diplomatico con aspirazioni probabili a diventare ministro nell'era post-gheddafiana.

2) Si è di fronte dunque ad uno scarto notevole fra i dati di fatto certi e quella che potrebbe essere chiamata una sovraesposizione mediatica, onde per cui ponderare la profondità della crisi del regime libico è molto difficile.

Attenzione però, è la stessa enfatizzazione mediatica a far crescere le difficoltà di Gheddafi: è un lavorio intelligente, che va a combinarsi con il pressing antiGheddafi dell'Europa e soprattutto – a fronte di un Obama silenzioso negli ultimi giorni - di Hillary Clinton, ministro degli esteri di quella stessa potenza che per iniziativa di Obama ha avallato o contribuito alla defenestrazione del presidente-dittatore del vicino Egitto.

Ecco dunque i segnali concreti di sgretolamento del regime ai suoi vertici, i tre ministri e il diplomatico di cui sopra e probabilmente alcuni ufficiali e soldati dell'esercito. La partita è ancora aperta fra voci di diserzioni o di ammutinamenti diffuse in Occidente senza veri riscontri fattuali, e la possibilità che tutto precipiti con un colpo di mano o un attentato mirato.

L'incognita non è solo l'esercito, ma gli equilibri fra i diversi apparati politico-militari, ad esempio i Comitati rivoluzionari costruiti nella fase più radicale della “rivoluzione” gheddafista.

3) Un dato però sembra certo: nella crisi del regime hanno operato fino ad oggi più fattori esterni che interni, e all'interno meno le contraddizioni sociali (la Libia ha un reddito procapite alto) che quelle regionali, a cominciare dall'antica contrapposizione fra Cirenaica e Tripolitania, con Tripoli epicentro della parte più moderna, laica e “occidentalizzata” del paese e la Cirenaica tradizionalista e pervasa da tendenze islamiste.

Una contrapposizione che può esser fatta risalire addirittura all'epoca precristiana, con l'ovest gravitante verso Cartagine e l'est colonizzato dai Greci collegato all'Egitto, e che ha attraversato nei secoli la storia libica.

Bengasi è quasi sempre stata la roccaforte del conservatorismo e della reazione: persino l'eroe della resistenza libica all'occupazione italiana, il senussita e signore del deserto Omar al Mukhtar, ebbe a dire nel corso del processo del 1931 che lo avrebbe condannato all'impiccagione: “Io disprezzo e odio le genti di Bengasi, che del resto mi disprezzano e mi odiano”.

In questi giorni, lo sventolio della bandiera di re Idriss su un edificio del capoluogo cirenaico la dice lunga sul segno dell'opposizione della parte orientale del paese al governo di Tripoli; e sulla sua radicalità, perché lo spettro che si profila è una secessione, una spaccatura del paese in due.

Problema anche questo drammaticamente attuale dopo la sciagurata secessione del sud del Sudan da Karthum, ma allo stesso tempo di vecchia data: già all'indomani della seconda guerra mondiale, i confini sedimentatisi con la conquista italiana del 1911 e poi con l'espansione nell'interno desertico degli anni Trenta, erano stati messi in discussione: mentre l'Italia sosteneva il mantenimento dello status quo confinario della sua ex colonia, la Francia aspirava alla separazione del Fezzan dalla costa, recuperabile al controllo della sua colonia ciadiana; e l'Inghilterra all' “indipendenza” della Cirenaica, da raccordare all'Egitto.

Vinse l'opzione sostenuta da Roma, ma i rapporti tra Tripoli e Bengasi sarebbero rimasti sempre problematici e negli ultimi due decenni resi più difficili dalla diffusione, come già detto, di un islamismo avversario della laicizzazione del paese promossa da Gheddafi fin dal colpo di stato antimonarchico del 1969.

4) Chi dentro e fuori la Libia sta cercando di rovesciare Gheddafi? Internamente oltre al fattore Cirenaica e ai nostalgici del vecchio regime monarchico, e oltre alle antiche contrapposizioni etniche e di clan, ci sono le nuove espressioni sociali e politiche della svolta di mercato avviata da Gheddafi stesso con la cosiddetta “primavera” della fine degli anni Ottanta, secondo una tendenza e uno schema di cui è noto il modello-tipo cinese: vale a dire, le forze più o meno “borghesi” liberate dall'apertura al mercato chiedono cambiamenti anche di tipo istituzionale, cercando di introdurre modelli di stampo occidentale nel paese.

Ecco dunque il pesante e decisivo fattore esterno, esplicitamente richiamato nel discorso di Gheddafi di ieri dai riferimenti all'Afghanistan e a Tien An men: è l'oltranzismo occidentale, quello che pretende di esportare con la violenza delle armi la democrazia in tutti i paesi non graditi, come già tentato senza successo in Iran e in parte in Egitto, ad essere estremamente attivo nell'opera di destabilizzazione della Libia di Gheddafi.

In pratica, e nonostante la dichiarata difesa di Mubarak da parte del rais di Tripoli nei giorni della rivolta in Egitto, gli eventi libici costituiscono una sorta di pendant, di controtendenza rispetto a quelli de Il Cairo: qui non solo la partita è aperta, ma è caduto un leader nettamente pro israeliano, da cui la prospettiva di una potenziale deriva “pro-palestinese” del corso degli eventi della quale il passaggio per Suez di due navi militari iraniane, su concessione del Cairo, costituisce un segnale chiaro.

In Libia, la Clinton sta cercando di riequilibrare in senso opposto, dando in pasto a Israele e all'oltranzismo occidentale un loro nemico storico, appunto la testa di Gheddafi. Un obbiettivo non da poco, perché la Libia svolge un ruolo importante in almeno tre decisivi scacchieri: nel Mediterraneo con la sua funzione di filtro dell'immigrazione senza regole in Italia e in Europa, e di tampone nei confronti di quello che viene definito rischio “fondamentalista”, un fenomeno sociale e religioso che dovrebbe essere articolato e compreso meglio ma che in Libia ha i contorni certi dell'oscurantismo reazionario.

C'è poi l'Africa, continente nel quale Gheddafi si è impegnato dopo le delusioni subite nel mondo arabo e dove la Libia, cofondatrice assieme al Sudafrica dell'Unione africana, ha una voce autorevole in capitolo, fino a denunciare con forza – un paio di anni fa – il ruolo di Israele nella nelle tante guerre del continente (vedi Qui)

Infine il Medio Oriente: la campagna feroce di una parte della stampa araba contro Tripoli proprio in questi giorni indica che Gheddafi – un leader nato, al seguito di Nasser, convinto panarabista - ha molti nemici nella sua naturale regione di appartenza.

Ma la Libia fu anche fra i paesi che parteciparono a fianco del rappresentante di Hamas, al vertice panarabo successivo alla guerra di Gaza del 2008-2009. Nonostante dunque il suo “moderatismo” Gheddafi ha dato segnali di sensibilità rinnovata nei confronti della causa palestinese.

Come si concili poi questo quadro complesso con l'alleanza di ferro con il governo Berlusconi è apparentemente difficile a capirsi: ma le vie della politica ufficiale e “visibile” non sono sempre quelle dei fattori strategici più o meno “nascosti”: ci sono enormi interessi economici in ballo – la Libia, paese marginale per i rifornimenti petroliferi all'Italia ai tempi di Mattei risulta oggi il primo fornitore di greggio dell'ENI, senza contare il gas e altri prodotti strategici –, c'è il nodo chiave dell'immigrazione, ci sono le partecipazioni dirette di Tripoli a settori chiave dell'economia italiana (UniCredit ad es.) e c'è anche da ricordare probabilmente qualche aneddoto italiano: come lo sgarbo di Gheddafi a Fini che lo aspettava al Campidoglio durante la sua visita di stato del 2009, una sorta di anticipazione “parallela” del futuro scontro fra il Presidente del Senato e il Presidente del Consiglio. Da leggere attentamente anch'esso, al di là dei contenziosi a sfondo personalistico.


Fessi comuni
di Gianluca Freda - http://blogghete.altervista.org/joomla/ - 24 Febbraio 2011

Come già evidenziato nel blog di Debora Billi (che, una tantum, ringrazio) e come riportato da alcuni lettori anche in questo sito, le famose “fosse comuni” di Tripoli, in cui il crudele regime di Gheddafi avrebbe nascosto in fretta e furia i cadaveri dei manifestanti uccisi durante le fantomatiche repressioni, probabilmente non sono altro che l’ennesima bufala dei media.

Una bufala, peraltro, stravecchia, già utilizzata diverse volte in passato – ad esempio in occasione della “rivoluzione” fasulla in Romania e delle finte stragi di kosovari ad opera dei serbi - per criminalizzare altri governi che gli Stati Uniti intendevano rovesciare con la complicità dei media da essi controllati.

I servizi segreti USA avranno anche un’ottima organizzazione, ma sono del tutto privi di fantasia, quando si tratta di raccontare fregnacce con cui suscitare l’indignazione dell’opinione pubblica occidentale.


Ciò che si vede con chiarezza dalle immagini di queste “fosse comuni” farlocche, è che esse tutto sono tranne che “comuni”. Si tratta infatti di buche singole, scavate con calma e perfino con una certa cura.

I siti dei principali quotidiani parlano di “cimitero improvvisato” sulla spiaggia. Cimitero senz’altro, improvvisato no di certo. Si tratta infatti del noto cimitero di Sidi Hamed, che si trova in prossimità della spiaggia vicino al quartiere residenziale di Gargaresh, a Tripoli.


Le immagini provengono dal sito OneDayOnEarth.org, aperto nell’ottobre 2010 da due studenti di Los Angeles di nome Kyle Ruddick e Brandon Litman. E' una sorta di “social network” delle immagini video, finanziato da una sessantina di ONG, nonché dal Programma per lo Sviluppo delle Nazioni Unite.

Una provenienza a dir poco sospetta, come sospetto è il tempismo con cui il sito è stato messo online poco prima dell’inizio delle rivolte nordafricane. Inoltre, i giornali e la TV hanno accettato a scatola chiusa che si trattasse di immagini girate nei giorni scorsi, senza citare la minima prova a sostegno.

In mancanza di fonti e di notizie attendibili, è perfino lecito sospettare che non si tratti affatto di immagini riprese di recente, bensì della documentazione di una delle numerose “sepolture collettive” dei migranti africani le cui imbarcazioni si capovolgono di frequente in prossimità delle coste libiche e i cui corpi vengono poi sospinti sulla spiaggia dalla marea.

In particolare, proprio il cimitero di Sidi Hamed ha dovuto spesso occuparsi di questi incresciosi compiti, vista la frequenza di tali incidenti. Il fatto che nel filmato l’atmosfera appaia rilassata, che non si vedano manifestanti furenti o esagitati, né donne, né parenti piangenti o urlanti, fa pensare che si tratti appunto dei lavori di sepoltura di queste vittime sconosciute.



Se Repubblica e gli altri fogliacci della stampa nazionale hanno elementi e fonti citabili che possano smentire quest’ipotesi, allora li presentino e sciolgano ogni dubbio. Altrimenti la smettano di aizzare contro il governo libico gli animi dei poveri fessi che ancora danno retta alle loro panzane.

Se non non possono sostenere con prove fotografiche o documentali le accuse gravissime che vanno rivolgendo ad un legittimo governo straniero, tengano la ciabatta chiusa e ammettano che i massacri di cui vanno ciarlando esistono solo nella loro fantasia e che hanno l’unico scopo di preparare la strada, per via propagandistica, alle nuove carneficine – vere, in questo caso – che i loro padroni statunitensi hanno in serbo per il mondo.


Affittasi rivoluzione
di Simone Santini - www.clarissa.it - 15 Giugno 2005

Non esiste solo la guerra. Nell’ultimo decennio abbiamo assistito ad un fenomeno di espansione della sfera di influenza imperiale americana con metodologie più o meno morbide di estrema efficacia.

Spesso si è trattato di semplici strategie diplomatiche ed economiche che hanno trasformato vecchi nemici in volenterosi alleati. Ci riferiamo in particolare a nazioni che aderivano al tramontato Patto di Varsavia, come Polonia, Romania, Bulgaria, o le Repubbliche baltiche, che senza colpo ferire da parte americana, rappresentano ora dei veri bastioni filo-occidentali nel cuore dell’Europa.

Da un lato vigili guardiani nei confronti di un’integrazione europea che non sia troppo indipendente, dall’altro dei cuscinetti (o spine nel fianco) verso il colosso russo ancora in fibrillazione e con rinnovate propensioni bipolari sotto la presidenza Putin.

È interessante notare che, in quasi tutti i casi sopra citati, sono stati governi o presidenti di derivazione neo-comunista a presiedere a tali svolte. In chiave storiografica sarebbe interessante e utile comprendere se si sia trattato di un fenomeno del tutto nuovo o frutto di un disegno strategico complessivo risalente nel tempo.

In queste pagine vogliamo approfondire un fenomeno complementare a quello sopra indicato, ovvero le cosiddette “rivoluzioni di velluto”, che negli ultimissimi anni stanno ridisegnando la mappa politica dell’Europa orientale e Asia centrale, con una puntualità e precisione che sembra smentire sia la casualità, sia la auspicata (da taluni) contagiosità della democrazia.

Il parto primigenio di questa nuova strategia è avvenuto in Serbia, alla fine degli anni ’90. La Repubblica Federale di Jugoslavia si era sfaldata drammaticamente dietro le spinte secessioniste di Slovenia, Croazia, Bosnia Erzegovina, con una cruda guerra civile nel cuore dell’Europa.

Solo la Serbia (allora formalmente ancora Jugoslavia) sembrava ricordare (sebbene come una sorta di spettro) quell’esperimento economico, sociale, ed interetnico che fu la Repubblica socialista di Tito.

La crisi economica e politica assediava il regime di Belgrado, e il suo presidente, il tristemente noto Slobodan Milosevic. Nasceva in quegli anni il movimento popolare Otpor (Resistenza) una organizzazione giovanile di opposizione civile e politica che faceva del movimentismo e della protesta di piazza nei grandi centri urbani i suoi cavalli di battaglia.

Il regime di Milosevic resistette, anche grazie al consenso elettorale. Lo scossone definitivo venne determinato solo dalla crisi e dalla guerra del Kosovo. Nel 2000 Milosevic ricorse alle urne come ultimo tentativo per sfuggire all’assedio della società civile e della comunità internazionale. Ma, quella volta, la pressione della piazza che gridava ai brogli travolse il regime.

L’opera di Otpor fu determinante in quei giorni di ottobre, i ragazzi della resistenza serba diventarono simbolo e motore della rivoluzione morbida di Belgrado, al grido di “E’ finito” (Gotov je) e “E’ ora” (Vreme je). Anni di lotte avevano portato l’originario spontaneismo di Otpor ad affinare sempre più le armi e le tecniche per il raggiungimento dei propri scopi politici.

La mobilitazione di piazza, per essere efficace, richiede raffinate strategie di pianificazione, organizzazione, tecniche di comunicazione, nonché, ovviamente, disponibilità finanziaria. Otpor aveva senza dubbio dimostrato di possedere per intero il know how.

Oggi l’organizzazione Otpor non esiste più, si è ufficialmente sciolta nel settembre 2004 dopo il fallito tentativo di entrare attivamente nel palazzo trasformandosi in partito politico. Ma la sua eredità è vitale più che mai. Dalle ceneri di Otpor sono nate diverse organizzazioni, piccole e grandi, che continuano con la stessa combattività il lavoro svolto nel passato.

La più nota di queste si chiama “Centro per la resistenza non violenta”, ed è stato fondato da alcuni dei leader storici di Otpor, in particolare Stanko Lazendic e Aleksandar Maric, e l’attività di questi esponenti è stata fondamentale per il successo dei movimenti di massa che hanno portato ai mutamenti di regime in Georgia e in Ucraina.

Non è un mistero che dal 2000 i vertici di Otpor abbiano partecipato ad una serie di seminari intensivi tenutisi in Ungheria sui “metodi di combattimento non violento” e presieduti dall’ex colonnello dell’esercito americano Robert Helvy.

Lo stesso Helvy ha dichiarato alla stampa serba di essere stato assoldato dall’Istituto internazionale repubblicano di Washington per addestrare i giovani di Otpor alla battaglia che li attendeva.

In quei mesi del 2000 le autorità serbe rilevarono un “sorprendente numero di giovani che andavano a visitare il monastero ortodosso di Sent Andrej in Ungheria” mentre la loro meta era l’Hotel Hilton di Budapest, dove si tenevano i seminari di addestramento.

Lo stesso Stanko Lazendic ammette esplicitamente: “Allorché l'Otpor ha rovesciato Milosevic ed è divenuto celebre nel mondo intero, ci hanno contattato organizzazioni di tutti i paesi dell'Europa dell'est. Come formatori dell'Otpor, noi abbiamo partecipato a numerosissimi seminari. A titolo individuale. Io sono andato in Bosnia e in Ucraina, Maric è stato in Georgia e in Bielorussia […] Quello che lui ci ha insegnato [riferendosi al colonnello Robert Helvy, n.d.r.] noi ora lo insegniamo ad altri. Come creare un movimento d'opinione contro il regime attraverso il materiale di propaganda o le manifestazioni di piazza”.

Lo stesso Lazendic nega di aver mai pensato o saputo che Helvy lavorasse per la CIA. Ma certo, dopo queste rivelazioni, non appaiono peregrine le voci delle autorità ucraine e bielorusse che hanno tacciato i membri dell’organizzazioni di essere provocatori professionisti al servizio di interessi stranieri.

“Istigatori di colpi di stato” e “pericoli pubblici” secondo l’ex presidente ucraino Leonid Kouchma e l’attuale bielorusso Alexander Lukashenko. Non dissimile il giudizio che dava su di loro ai tempi del suo potere il regime di Milosevic: “agenti stranieri e traditori della patria”.

È evidente che chi lavora per cambiare il volto di un paese e allontanarne la classe dirigente non sia visto di buon occhio dall’establishment. Non di meno, le azioni e le metodologie dei leader di Otpor lasciano molti dubbi sull’argomento, i training da loro organizzati sono poi sfociati in autentiche rivolte di piazza in due paesi fondamentali della scacchiera internazionale: Georgia e Ucraina.

In interviste alla stampa (una di queste trasmessa da Rai3 ad opera dell’inviato Ennio Remondino) i dirigenti che vengono da Otpor fanno di tutto per minimizzare il loro ruolo ed il loro intervento in quelle zone calde.

Salvo ammettere tranquillamente, poi, che in Georgia la piazza ha perfino utilizzato i simboli e le canzoni di Otpor, senza nemmeno tentare soluzioni autoctone, e che dopo l’insediamento del nuovo presidente Mikhail Saakashvili ai danni del defenestrato Eduard Shevarnadze, nessuno di loro ha più sentito il bisogno di recarsi in Georgia.

Ciò che detta sospetto è che le due citate non sono nazioni qualsiasi, al contrario, sono paesi strategici e con caratteristiche piuttosto simili. La Georgia è uno snodo fondamentale in quel crogiuolo etnico che è il Caucaso, nonché passaggio obbligato per gli oleodotti e gasdotti che dal Mar Caspio sfociano in Turchia.

La repubblica caucasica ha altresì una posizione geografica che permette il controllo di tutte quelle regioni nel sud della Russia (in primo luogo la Cecenia) in continua ebollizione.

Non dissimile la situazione dell’Ucraina, a metà strada tra occidente e oriente (culturalmente oltre che geograficamente), fondamentale nelle rotte commerciali est-ovest, che abbraccia il Mar Nero, a cui già Zbigniew Brzezinski nel suo studio “La grande scacchiera” aveva dato un ruolo di massimo rilievo come ago della bilancia per il controllo sulla Russia.

Ultimo, ma fondamentale aspetto, che accomuna i due paesi, è la presenza militare, simultanea, sia degli Stati Uniti che della Russia, i primi come ospiti recenti, i secondi come retaggio dell’Impero sovietico. Ma i nuovi regimi di Saakashvili e Yushenko sembrano aprire la porta ad un controllo non più condiviso, ma semplicemente unilaterale, delle forze armate a stelle e strisce su Georgia e Ucraina.

Mentre Bush è acclamato come una sorta di liberatore dalla folla oceanica di Tblisi durante il suo recente viaggio in Georgia, altrettanto esemplare è il caso dell’Ucraina: già si sussurra di un ingresso di questo Paese nella Nato, già sembrano destinate allo smantellamento le navi da guerra (ormai arrugginite, a dir la verità) della storica flotta dell’Armata rossa nei porti della Crimea, a Sebastopoli. L’Unione Sovietica è finita da tempo, perché mai dovrebbe controllare militarmente il Mar Nero? Putin dovrà mettersi il cuore in pace.

Ma se questi Paesi vogliono democrazia e libertà alla occidentale, e riescono a conquistarle in modo, addirittura, non violento… dov’ è il problema?

Scrive il giornalista ed eurodeputato Giulietto Chiesa: “L'ingerenza sovietica di un tempo era grossolana, palese. Quella di oggi, invece, ha l'aria di una spontanea e massiva protesta popolare. Sembra che avvenga per caso, come effetto di una lunga sedimentazione democratica autonoma e autoctona. Naturalmente non è vero niente.

In Bielorussia, come in Ucraina, come in Georgia, come nella ex Jugoslavia, scorrono fiumi di denaro, a sostegno degli oppositori; si organizzano a centinaia, a migliaia, borse di studio; si pagano viaggi e soggiorni, si finanziano giornali e radio; si inaugurano fondazioni , si stampano bollettini, si promuovono campagne”.

Che la propagazione della democrazia in questi paesi non sia casuale, sembrano dimostrarlo in maniera lampante altri due casi recenti e opposti.

Lo scenario è quello delle Repubbliche dell’Asia centrale, nate anche loro dalla dissoluzione dell’Unione Sovietica, centrali per il controllo dell’Heartland, quello spazio che fin dai tempi dell’imperialismo britannico consentiva di dominare simultaneamente le potenze regionali di allora (che di fatto sono le stesse di oggi): Russia, Cina, Iran.

Il primo teatro di scontro è stato il Kirghizistan, uno stato piccolo e povero ma strategicamente centrale. Questo paese ospita due basi, a pochi chilometri l’una dall’altra, la prima americana e la seconda russa.

Il presidente Askar Akayev ha però giocato una partita troppo pericolosa: tenere i piedi su due staffe e cercare di ottenere profitti su entrambi i tavoli da gioco. Le mosse di riavvicinamento a Mosca dopo un periodo più marcatamente filo-atlantico non sono evidentemente piaciute a qualcuno.

Scrive il giornalista Maurizio Blondet: “Con l’annuncio, il 5 giugno 2003, dell’estensione di tre anni per l’affitto della base Usa in Kirghizistan, con la decisione russa di stazionare le proprie forze a Kant (la base aerea a soli 20 chilometri da quella americana) e con il nuovo interesse della Cina ad accrescere i legami militari con Bishkek, il Kirghizistan è divenuto il centro delle rivalità delle grandi potenze in Asia […]

Nel febbraio scorso, il ministro degli Esteri kirghizo Aitmatov annuncia che Washington non avrà il permesso di far partire dalla base kirghiza i grandi aerei radar AWACS, con cui da quella zona si può spiare comodamente la vastissima area della Cina meridionale, e tenere sotto controllo ogni mossa russa e iraniana.

Peggio: lo fa dopo un viaggio a Mosca, in cui viene deciso che Putin potrà rafforzare pesantemente di equipaggiamenti militari la sua base kirghiza a Kant.

In cambio, apparentemente, dell’appoggio di Putin per le imminenti “libere elezioni” parlamentari kirghize del 27 febbraio, e per le ancor più cruciali votazioni presidenziali di ottobre prossimo. Insomma Akayev il presidente dittatore è tornato a porsi sotto l’ala della Russia”.

Questo ondivagare deve essere sembrato inaccettabile. Sfruttando le rivalità tribali tra le componenti del sud e quelle nordiche del clan di Akayev, la democrazia è arrivata anche in Kirghizistan sulle ali di una rivolta popolare che contestava i risultati delle elezioni.

Di nuovo Blondet è netto nel giudizio e rivela senza mezzi termini il carattere dei rivoltosi: “Si tratta di gruppi criminali, enormemente arricchitisi (grazie agli Usa) con l’inoltro e lo spaccio mondiale dell’oppio prodotto nel confinante Afghanistan”.

Akayev si è trovato di fronte ad una scelta: scatenare la repressione e trascinare il Kirghizistan nella guerra civile, oppure ritirasi a Mosca in attesa di tempi migliori per una eventuale rivincita. La scelta, evidentemente su consiglio di Putin, è andata sulla seconda ipotesi.

In un paese confinante, l’Uzbekistan, le cose sono andate in modo profondamente diverso. Nel mese di maggio i ribelli islamici hanno assediato la prigione e i palazzi istituzionali della cittadina di Andijan, nella valle di Fergana. La reazione di uno dei tanti presidenti padroni di quelle zone non si è fatta attendere. Il presidente Islam Karimov ha dato ordine di reprimere la rivolta.

Le truppe speciali hanno sparato sulla folla con centinaia di morti. Nessuna fonte ufficiale ha potuto verificare i fatti, la stampa internazionale è stata allontanata, le voci dissenzienti messe a tacere. A livello internazionale si è udita qualche debole critica, ben presto dimenticata.

Alla base di tutto sta il rapporto privilegiato tra il presidente Karimov e gli Stati Uniti, ai quali sono state concesse basi e piena disponibilità del territorio uzbeko. Forte di ciò, qualunque rivolta interna può essere bollata come tentativo insurrezionale di “terroristi islamici” e repressa nel sangue.

Continuerà questa strategia? I due prossimi banchi di prova appaiono vicini. Tra pochi giorni si svolgeranno le elezioni in Iran, momento che gli Stati Uniti attendono con trepidazione per dare il via alla spallata finale al regime degli ayatollah.

In questi giorni pre-elettorali si è assistito ad attentati terroristici con numerosi morti e l’accendersi di rivalità tra le componenti etniche iraniane che storicamente hanno convissuto tranquillamente. Strategia della tensione? Prime avvisaglie dello smembramento dell’Iran?

Un’altra area, la Bielorussia di Lukashenko, il fascista rosso che non si rassegna al declino della Nazione russa panslava, è sotto l’occhio attento della comunità internazionale. Contro il presidente padrone ha tuonato Condoleeza Rice.

La Bielorussia è, secondo il Segretario di Stato americano, “l’ultima dittatura rimasta in Europa”. Presto la democrazia potrebbe andare a bussare anche alle porte di Minsk.


Fonti dell’articolo:

Osservatorio sui Balcani, in particolare gli articoli:
http://www.osservatoriobalcani.org/article/view/3579 http://www.osservatoriobalcani.org/article/articleview/3684/1/49/
http://www.osservatoriobalcani.org/article/view/3621

ComeDonChisciotte per gli articolo di Giulietto Chiesa e Maurizio Blondet:
http://www.comedonchisciotte.org/site/modules.php?name=News&file=article&sid=916
http://www.comedonchisciotte.org/site/modules.php?name=News&file=article&sid=814