venerdì 29 luglio 2011

Libia - update

Un aggiornamento sulla situazione in Libia, dove i quotidiani bombardamenti della Nato non contribuiscono affatto a modificare in favore dei cosiddetti ribelli l'esito di una guerra già persa fin dall'inizio.


L'assassinio di Younes, segno della debolezza dei ribelli
di Lorenzo Cremonesi - Il Corriere della Sera - 29 Luglio 2011

Vittima di un regolamento di conti interno o di sicari di Gheddafi. In ogni caso resta il problema politico

L’assassinio del generale Abdel Fattah Younes costituisce l’ennesimo, gravissimo segnale delle debolezze dei ribelli libici. Quasi certamente Younes è stato vittima di un regolamento di conti interno.

E se anche fosse stato ucciso da un sicario del regime ciò sarebbe il segno di quante carte Gheddafi ha ancora in mano.

Sospettato da tempo di continuare a collaborare segretamente con Gheddafi (la sua abitazione era stata vandalizzata e bruciata dalla folla durante le rivolte di febbraio a Bengasi), l’ex ministro della Difesa e degli Interni della dittatura era una figura estremamente controversa nel ruolo di responsabile delle forze militari tra i rivoltosi.

Una delle accuse più note era che la terza settimana di febbraio avesse lasciato fuggire a Tripoli i massimi dirigenti della repressione contro la rivoluzione prima di passare decisamente dalla parte dei ribelli.

Anche la sua evidente incapacità di coordinamento con la Nato, tanto da causare alcuni sanguinosi incidenti con vittime tra le sue truppe per «fuoco amico», era giudicata con crescente sospetto. Ma il problema ora diventa più politico che militare.

I ribelli non sono palesemente in grado di defenestrare il regime di Gheddafi con le loro forze. Necessitano della Nato, che non è disposta a fare la rivoluzione al loro posto. In più i ribelli sono divisi, frazionati.

La tribù di Younes ora chiederà giustizia. Cresce la possibilità di sanguinose vendette interne. La loro economia è in ginocchio. Non riescono neppure ad avanzare da Ajdabya sulla raffineria di Brega, un centinaio di chilometri che permetterebbe loro di cominciare a pensare seriamente a produrre e vendere petrolio.

Tra pochi giorni inizierà il Ramadan e con esso un mese di rallentamento delle attività militari. Lo stallo diventerà status quo. Ma il tempo ora non gioca più dalla parte dei ribelli. Il loro rifiuto a trattare con Gheddafi è frutto dell’ombrello offerto dalla Nato, che non durerà all’infinito. Settembre è alle porte. In Libia i giochi restano del tutto aperti.


Libia, ucciso Younis, capo dei ribelli
di Barbara Antonelli - Il Manifesto - 29 Luglio 2011

E’ ancora giallo sull’uccisione di Abdel Fattah Younis, il capo dei ribelli libici; a dare la notizia della sua morte, dopo che diverse voci si erano diffuse a Bengasi, è stato il portavoce del Consiglio di Transizione Nazionale (CNT) Mustafa Abdel Jalil, che ha aggiunto che il responsabile dell’omicidio sarebbe già stato catturato.

Diverse versioni circolano sulla sua uccisione e su quella di due suoi ufficiali, i cui corpi non sono stati ancora ritrovati; c’è chi parla di un arresto da parte dei ribelli libici, perché sospettato di aver tradito gli insorti e contrabbandato armi al regime del Colonnello Gheddafi; ma c’è anche chi parla di convocazione da parte del fronte di Bengasi per un interrogatorio relativo a “questioni militari” e poi di un successivo agguato, da parte di un gruppo armato; un vero e proprio regolamento di conti che metterebbe in luce le divisioni interne che sussistono all’interno dei gruppi di ribelli e la coesistenza di diverse anime nel CNT. Secondo altre fonti infatti, lo stesso CNT lo avrebbe più volte criticato per i suoi mancati successi militari.

Il capo di stato maggiore Younis (nominato a marzo) era stato il numero due di Gheddafi e suo amico personale; lo aveva accompagnato nel colpo di Stato del 1969, agendo di fatto come il suo braccio destro in tutti questi anni: il 22 febbraio era passato dalla parte degli insorti di Bengasi, cosa che gli aveva fatto guadagnare una taglia di 4 milioni di dollari voluta dallo stesso Colonnello.

Nel corso della conferenza stampa del CNT, all’hotel Tibesti, Jalil ha dato la colpa a Gheddafi di “voler rompere l’unità delle forze ribelli”; ma secondo altri testimoni, alcuni uomini armati del clan tribale di Younis (quella Abdiyat di Tobruk), avrebbero fatto irruzione nell’albergo, accusando il CNT di aver ucciso il loro capo.

In qualità di Ministro degli Interni del governo Gheddafi, Younis era stato in Italia nel mese di dicembre 2010, per incontrare al Viminale il suo omologo Maroni, per la firma di un Protocollo tecnico-operativo per il contrasto dell’immigrazione clandestina via mare, nell’ambito delle concessioni economiche e politiche fatte a Gheddafi in cambio dell’impegno a fermare il flusso di immigrati in partenza dal nord del paese verso l’Italia.

Ieri in serata , due forti esplosioni sono state udite a Tripoli. Mentre secondo le maggiori agenzie stampa, i ribelli avrebbero conquistato due località vicine ai confini con la Tunisia, Al Ghazaya, usata come base dalle truppe di Gheddafi per lanciare razzi ai ribelli nella vicina Nalut, e Umm Al Fau.


Gheddafi junior parla del ruolo di Parigi nella guerra di Libia da - www.elkhabar.com - 11 Luglio 2011 Traduzione a cura di Gianluca Freda

Intervista a Seif el Islam Gheddafi, dal giornale algerino El-Khabar

El-Khabar - Iniziamo la nostra intervista con quello che più interessa l'opinione pubblica internazionale ... a che punto sono le trattative con l'opposizione a Bengasi?

Seif el-Islam - In realtà le vere e proprie trattative le abbiamo in corso con la Francia e non con i ribelli. Abbiamo ottenuto tramite un inviato speciale che si è incontrato con il Presidente francese, un messaggio chiaro da Parigi.

Il presidente francese ha detto con franchezza al nostro corrispondente: "Siamo stati noi a creare questo consiglio [il Consiglio dei Ribelli di Bengasi, NdT] e senza il sostegno, il denaro e le armi della Francia, esso non esisterebbe".

Questi gruppi ci hanno contattato attraverso canali egiziani, ci siamo incontrati con loro al Cairo, dove abbiamo tenuto un ciclo di negoziati, ma appena i francesi hanno saputo della riunione hanno detto al gruppo di Bengasi: noi vi sosteniamo, ma se altri contatti con Tripoli avranno luogo senza che noi ne veniamo messi a conoscenza o alle nostre spalle, allora smetteremo immediatamente di sostenervi... tutte le trattative devono passare attraverso la Francia, hanno detto: noi non facciamo questa guerra per beneficienza o senza tornaconto, abbiamo interessi commerciali in Libia, e il governo di transizione dovrà approvare diversi contratti. Si riferiscono ai contratti relativi agli aerei Rafale e ad altri contratti che interessano la Total.

El-Khabar - Perché non avete resi noti al pubblico i documenti comprovanti il finanziamento da parte vostra della campagna elettorale di Sarkozy?

Seif el-Islam – Beh, noi non usiamo tutte le nostre armi in una sola volta, abbiamo più di una sorpresa e più di un'arma e le utilizzeremo al momento giusto ...

El-Khabar – Perciò mi sembra di capire che al momento state negoziando con Parigi e non con Bengasi?

Seif el-Islam – Sì, stiamo negoziando con Parigi e abbiamo aperto canali di comunicazione con la Francia. I francesi ci hanno detto: il Consiglio fa quello che diciamo noi, perciò quando arriveremo ad un accordo con voi a Tripoli, inizieremo a parlare di un cessate il fuoco con il Consiglio. Il Consiglio è quindi un fantoccio dei francesi.

Per farle un altro esempio delle interferenze francesi, a ovest della Libia, nelle zone montuose al confine con Algeria e Tunisia, sono arrivate forze speciali francesi con la missione di insegnare [ai ribelli] a pilotare l'aereo francese. Queste forze hanno anche lo scopo di reclutare e addestrare le milizie ribelli e hanno paracadutato armi sui monti della zona occidentale, sotto la supervisione di altre forze speciali a terra.

La stessa cosa è accaduta quando abbiamo catturato alcuni prigionieri a Misurata, i quali ci hanno detto che anche lì ci sono addestratori che insegnano a pilotare i velivoli francesi. Bengasi è diventata una provincia della Francia, controllata dai servizi d’intelligence francesi; quello che voglio dire è che la presenza francese a Bengasi è diventata evidente, non dimentichiamo che Parigi ha installato un sistema di monitoraggio e intercettazione delle comunicazioni mobili a Bengasi, controllato dagli stessi francesi. Non dimentichiamo neppure il famoso incidente di 40 giorni fa in cui un gruppo di contractors francesi è rimasto ucciso a Bengasi.

Le unità di sicurezza delle imprese francesi stanno combattendo insieme ai ribelli, e le dichiarazioni del gruppo che ha catturato i mercenari dimostrano che le aziende francesi sono responsabili per gli omicidi che stanno avvenendo a Bengasi. La guerra contro la Libia è di marca francese, è una crociata guidata dalla Francia.

El-Khabar – Sappiamo che nel parlamento francese si terrà lunedì prossimo un dibattito sulla guerra in Libia, cosa vorrebbe dire ai deputati del popolo francese?

Seif el-Islam - Quello che abbiamo saputo dai ribelli che hanno deciso di tornare a Tripoli è che si voleva porre fine al conflitto in Libia prima del 14 luglio, cioè prima della festa nazionale francese, perché Sarkozy voleva celebrare l'anniversario di quest'anno con la vittoria e l’occupazione della Libia.

Sarkozy lo ha annunciato anche sui media, ha detto che Muammar Gheddafi deve andarsene all’estero, il che significa che si vuole tornare ai giorni del colonialismo francese in Africa e in Algeria, quando i leader nazionali vennero scacciati dai loro paesi.

Il loro progetto era quello di portare a termine l’occupazione della Libia giusto in tempo per le celebrazioni della festa nazionale francese. Questo è il loro programma, e in più abbiamo rapporti di intelligence secondo i quali i francesi vorrebbero far sbarcare truppe di terra sulle zone dei monti occidentali controllate dai ribelli e attaccare Tripoli.

E’ una delle opzioni che sono state studiate a Parigi. Per questo, se devo parlare ai francesi, dico loro che questa stupida guerra, questa guerra basata su informazioni false, in cui si credeva che la Libia potesse essere occupata e sconfitta nell’arco di pochi giorni o poche ore, è andata in modo esattamente opposto alle previsioni, esattamente come quando si diceva che l'Algeria apparteneva di diritto ai francesi, i quali però alla fine hanno dovuto andarsene.

Se Dio vuole, la Francia uscirà dalla Libia a mani vuote e non sarà in grado di raggiungere il suo obiettivo. Dico che se la Francia vuole vendere i suoi aerei Rafale, se vuole firmare contratti petroliferi, se vuole ritornare in Libia con le sue aziende, allora deve parlare con il legittimo governo della Libia e con il popolo libico; e deve farlo con mezzi pacifici e diplomatici, perché dalla guerra e dai bombardamenti non otterrà nulla. Questo è il mio messaggio alla Francia.

El-Khabar – A che punto è la mediazione internazionale e cosa sta accadendo in questo momento? In particolare dopo la visita del mediatore russo che ha preso conoscenza della situazione, dopo l’incontro tra il presidente russo Medvedev e il presidente della NATO e dopo l'incontro tra Medevedev e il presidente sudafricano Jacob Zuma, che rappresenta l'altra parte della mediazione?

Seif el-Islam – In primo luogo vorrei chiarire alcune cose, e cioè che l’intero pianeta è stato preso in giro da articoli di giornale che hanno mentito al mondo, affermando che lo stato libico avrebbe ucciso migliaia di manifestanti e che noi avremmo bombardato la popolazione con gli aerei militari. Il mondo adesso sa che era tutta una menzogna, Human Rights Watch ha riconosciuto che le informazioni erano false, anche Amnesty International ha detto che erano false e lo stesso Pentagono ha condotto un'indagine interna concludendo che si trattava di false informazioni.

El-Khabar - Tornando alla questione delle mediazioni internazionali, a che punto sono?

Seif el-Islam - Per quanto riguarda le iniziative, vi è una road map africana su cui tutti sono d'accordo; noi vogliamo organizzare le elezioni e arrivare ad un governo di unità nazionale, siamo pronti a tenere le elezioni sotto la supervisione delle organizzazioni internazionali e a varare una nuova costituzione, ma i ribelli si rifiutano, e si rifiutano perché non abbiamo ancora raggiunto un accordo con Parigi.

El-Khabar - Il colonnello Gheddafi, nel discorso tenuto venerdì davanti ai suoi sostenitori di Sebha, ha minacciato di vendicarsi e di inviare attentatori suicidi in Europa, non avete paura di essere trattati come terroristi?

Seif el-Islam - In primo luogo, è nostro diritto attaccare gli Stati che ci attaccano e che uccidono i nostri bambini. Hanno ucciso il figlio di Muammar Gheddafi, distrutto la sua casa e ucciso i suoi parenti. Non esiste una sola famiglia in Libia che non sia stata vittima dell'attacco della NATO. E’ per questo che siamo in guerra, la NATO ha iniziato gli attacchi e ne affronterà le conseguenze.

El-Khabar - Seif el-Islam si candiderà alle elezioni della futura Libia?

Seif el-Islam – Io sono ufficialmente fuori dalla politica della Libia fin dal 2008 e da quella data e fino all'inizio della crisi sono rimasto fuori dalla Libia, ero in Cambogia ... sono tornato in Libia all’inizio degli avvenimenti, mi sono tenuto fuori dai giochi politici, ma dopo quello che è successo in Libia tutti i punti di riferimento sono cambiati. Dopo aver visto i tradimenti, gli interessi in campo e la nuova colonizzazione, tutti i dati sono cambiati, non escludo la possibilità di candidarmi, tutte le opzioni sono possibili.

El-Khabar – Come cambierà il sistema della Libia a seguito delle riforme in corso?

Seif el-Islam - Noi manterremo un sistema pubblico, ma esso avrà una nuova veste e un nuovo look. Ci sarà una seconda struttura amministrativa, che si aggiungerà alla prima; a Dio piacendo, stiamo gettando le basi di uno stato moderno. Abbiamo istituito una commissione costituzionale tre anni fa, cui partecipano i maggiori esperti locali ed internazionali e questo progetto dovrebbe essere sottoposto a tutte le tribù della Libia e discusso dal popolo. Se verrà approvato, lo attueremo.

El-Khabar - Alcuni pensano a una spartizione della Libia, il premier britannico David Cameron ha già dichiarato di avere intenzione di partizionare il Sahara libico, lei cosa ne pensa?

Seif el-Islam - C'è un piano britannico per lo smembramento della Libia, l’ovest e il sud alla Francia, l’est alla Gran Bretagna, e una base militare per gli inglesi a Tobruk ... questo non è un segreto, ma si tratta solo di velleità coloniali che equivalgono ad abbaiare alla luna.

El-Khabar – Crede che l’Algeria possa giocare un ruolo nell’ unire nuovamente tra loro i cittadini libici?

Seif el-Islam - In tutta sincerità, se lei prende un cittadino libico qualunque, egli le dirà che gli algerini sono molto vicini ai libici. Purtroppo, come avete già visto, l'unico paese arabo a cui si guarda come un covo di criminali è l'Algeria. Abbiamo una cosa in comune con gli algerini. Voi avete combattuto in passato contro la Francia, noi stiamo facendo la stessa cosa oggi ... una mediazione dell'Algeria sarebbe la benvenuta. Essa ha sempre svolto un ruolo di unificazione. Tengo a precisare che le posizioni assunte dai paesi arabi sono indegne, l'Algeria è uno tra i pochi paesi arabi che abbia preso una posizione completamente diversa. Questo il popolo libico non lo dimenticherà mai ed è per questo che la mediazione dell'Algeria è la benvenuta per riavvicinare tra loro i fratelli libici.

El-Khabar - Ha qualcosa da aggiungere, una dichiarazione finale?

Seif el-Islam - Voglio che la comunità internazionale faccia attenzione a ciò che sta accadendo in Libia, dove ha avuto luogo una delle più colossali campagne di disinformazione e falsificazione della verità.

Questo viene ormai riconosciuto dagli europei e dagli stessi americani. Infatti, i media si sono inventati una quantità di scandali che non sono mai accaduti. Ci rivolgiamo alla comunità internazionale per avvertirla che le immagini che essa vede sui canali satellitari e su Internet sono truccate. La verità verrà fuori, un giorno!


Perdere in Libia di Craig Murray* - www.uruknet.info - 27 Luglio 2011 Traduzione per www.comedonchisciotte.org a cura di SUPERVICE

Gheddafi ora controlla il 20% del territorio in più di quanto facesse prima che fosse iniziata questa campagna odiosa di bombardamenti. È stato capace di fare manifestazioni più numerose e partecipate di genuini sostenitori negli ultimi giorni rispetto a quanto non avesse fatto prima dell’inizio dei bombardamenti.

Proprio come avevo previsto, l’effetto di questa distruzione della NATO è stato quello di coalizzare un sostegno nazionalista intorno a Gheddafi, che abbiamo messo in una posizione ancora più forte rispetto a quando doveva affrontare solamente la ribellione interna.

I francesi e i britannici sono arretrati e entrambi sono d’accordo che Gheddafi rimanga in Libia come controparte nella trattativa. Ciò comporterà accettare che egli rimanga al potere dietro le quinte.

Il problema è, naturalmente, che Gheddafi sta diventando più forte e la NATO più debole, con una volontà politica di demolire per quanto possibile l’economia e le monete della NATO.

Hague e Cameron si sono mossi da una posizione debolissima a una che permetta a Gheddafi di rimanere in Libia, cosa che avevano chiaramente rigettato tre mesi fa.

Allora, c’era la speranza che Gheddafi avrebbe potuto accettare una cosa del genere. Adesso, non ha alcun bisogno di sottostare a una trattativa per salvare la faccia alla NATO. Si può mettere al tavolo e osservarli mentre si incamminano verso la rovina.

Inoltre, si tratta di una proposta per salvare la propria faccia, che si fa beffe della Corte Penale Internazionale, rivelando alla perfezione come questa non sia altro che uno strumento da pilotare e utilizzare contro i nemici dell’alleanza occidentale, ma che viene semplicemente messa in un angolo nel caso si cambiasse idea.

Obama ha fatto un’astuta mossa per distrarre il pubblico dal fallimento totale nell’occupazione afghana, riuscendo a raggiungere uno dei suoi obbiettivi dichiarati, l’assassinio di Osama Bin Laden.

Aspettiamoci ora una simile cospirazione in Libia con il tentativo di uccidere Gheddafi con i bombardamenti o con altri mezzi, che verrà radicalmente intensificata per cercare di salvarsi dall’umiliazione con una qualche "vittoria".

* Craig Murray, ex ambasciatore britannico in Uzbekistan, licenziato nel 2004 per aver accusato la dirigenza Uzbeka di violazioni dei diritti umani.


Libia, la retromarcia Nato

di Michele Paris - Altrenotizie - 28 Luglio 2011

Nelle ultime settimane, un diverso atteggiamento sembra caratterizzare i governi che partecipano all’aggressione militare contro la Libia. Alla luce dell’impossibilità di rovesciare il regime di Tripoli tramite bombardamenti e aiuti di dubbia legalità agli insorti di Bengasi, le maggiori potenze della NATO sono cioè alla ricerca di una nuova exit strategy che pare non prevedere più necessariamente l’allontanamento dal paese di Gheddafi.

Le prime indicazioni di una possibile trattativa in corso per una soluzione diplomatica erano giunte lo scorso 11 luglio quando, in un’intervista rilasciata al quotidiano algerino El Khabar, Seif al-Islam Gheddafi, aveva rivelato che il suo governo stava negoziando con la Francia e non con i ribelli.

Il figlio del rais aveva aggiunto che il presidente Sarkozy era stato molto chiaro circa le capacità di Parigi di imporre il proprio volere agli insorti. L’inquilino dell’Eliseo aveva infatti riferito all’inviato di Tripoli che erano stati i francesi a creare il Consiglio dei ribelli, il quale “senza il nostro appoggio, il nostro denaro e le nostre armi, non sarebbe mai esistito”.

Nonostante il governo francese si fosse affrettato a sostenere che con Tripoli vi erano solo contatti e non vere e proprie discussioni, il Ministero della Difesa di Parigi aveva esortato pubblicamente il Consiglio dei ribelli a trattare con Gheddafi.

A conferma che una qualche trattativa era in corso da tempo, il 12 luglio Le Monde aveva rivelato che, circa un mese prima, Sarkozy aveva incontrato il capo di gabinetto di Gheddafi, Bachir Saleh.

Sul ruolo di Gheddafi in un’eventuale trattativa, il Ministro della Difesa francese, Gerard Longuet, aveva poi affermato che i colloqui potevano avvenire a patto che “[Gheddafi] fosse in una diversa stanza del suo palazzo con una diversa carica”.

In quell’occasione era giunto un immediato messaggio di disappunto da parte del Dipartimento di Stato americano, chiaramente poco disposto ad un simile compromesso.

Anche da parte del governo di Tripoli erano state mostrate simili aperture. Il primo ministro Baghdadi al-Mahmudi aveva infatti confermato a Le Figaro che “la Guida [Gheddafi] non avrebbe preso parte ai colloqui” con i ribelli.

Ancora più chiaramente, il 20 luglio il Ministro degli Esteri francese, Alain Juppé, nel corso di un’intervista ad un canale televisivo aveva ribadito che le potenze occidentali erano pronte ad acconsentire alla permanenza in Libia di Gheddafi, a condizione del suo ritiro dalla guida del governo.

Sulla posizione francese sembrano essere ora confluiti finalmente anche Gran Bretagna e Stati Uniti, i cui governi hanno evidentemente preso atto dell’impossibilità di raggiungere i propri obiettivi in Libia con i soli bombardamenti.

Lunedì scorso, così, il Ministro degli Esteri britannico, William Hague, proprio nel corso di un meeting a Londra con il suo omologo transalpino, ha spiegato che il destino di Gheddafi dipenderà dalla volontà del popolo libico.

Solo poche ore più tardi gli ha fatto eco da Washington il portavoce della Casa Bianca, Jay Carney, secondo il quale la permanenza in Libia di Gheddafi deve essere decisa dai libici.

L’inversione di rotta appare notevole, alla luce delle critiche inizialmente rivolte da entrambi i paesi alla Francia per aver mostrato eccessiva flessibilità nei confronti di Tripoli.

Sia per la Gran Bretagna che per gli USA, la rinuncia al potere di Gheddafi e il suo allontanamento dalla Libia fino a poche settimane fa apparivano infatti come condizioni necessarie per la fine delle operazioni militari e l’avvio di negoziati di pace.

Ad influire sul cambiato atteggiamento di Washington e Londra - e, ancor prima, di Parigi - è dunque la realtà sul campo.

Dopo aver tentato di assassinare Gheddafi in più occasioni, incoraggiato defezioni da parte di esponenti di spicco del suo governo e fomentato senza successo un colpo di stato interno al regime, le potenze NATO sembrano aver deciso di percorrere la via diplomatica.

Sulla decisione pesa anche l’impopolarità in Occidente della guerra contro la Libia, alimentata dal continuo stallo delle operazioni. Secondo un resoconto pubblicato mercoledì dal quotidiano inglese The Independent, infatti, il regime di Tripoli controlla oggi il 20 per cento in più di territorio libico rispetto ai giorni immediatamente successivi all’esplosione della rivolte a metà febbraio.

L’ammorbidimento della posizione di Hague, inoltre, riflette forse anche i malumori dello stato maggiore britannico per un conflitto che viene visto come una distrazione dal fronte afgano e uno spreco di risorse proprio mentre il governo sta adottando misure di austerity senza precedenti sul fronte domestico.

Da Tripoli, intanto, arrivano invece segnali di un qualche irrigidimento, conseguenza probabilmente di una maggiore confidenza da parte del regime di poter sopravvivere all’offensiva NATO.

Mentre un mese fa il governo libico aveva offerto un cessate il fuoco senza condizioni, facendo intendere che Gheddafi era pronto a lasciare, oggi viene richiesta la fine dei bombardamenti come condizione preliminare per iniziare un qualsiasi dialogo.

L’offerta a Gheddafi di abbandonare il ruolo di guida del paese sembra essere stata fatta dai diplomatici americani agli emissari del governo libico nel corso di un incontro avvenuto a Tunisi il 16 luglio scorso.

La proposta è vincolata all’accettazione di essa da parte dei ribelli di Bengasi, dai quali giungono però segnali contraddittori. Mercoledì, ad esempio, la Reuters ha citato una dichiarazione del leader del Consiglio Nazionale di Transizione, Mustafa Abdel-Jalil, nella quale si afferma che l’offerta americana è ormai da ritenersi superata.

I nuovi sviluppi della crisi in Libia sono giunti in concomitanza con la visita a Tripoli dell’inviato ONU, Abdul Elah al-Khatib, che ha incontrato i rappresentati di Gheddafi per trovare una soluzione pacifica. In precedenza, gli USA - seguiti dalla Gran Bretagna e da numerosi altri paesi - avevano proceduto a riconoscere ufficialmente il consiglio dei ribelli come rappresentanti legittimi della Libia, gettando le basi per lo sblocco di decine di miliardi di dollari appartenenti al regime e attualmente congelati su svariati conti bancari in America.

La ricerca di una via d’uscita diplomatica da parte dei governi che hanno orchestrato l’aggressione alla Libia e l’ipotesi di un compromesso con il regime di Tripoli testimoniano la falsità della pretesa di condurre una guerra in nome dei diritti democratici del popolo libico.

Un accordo con Gheddafi - anche nel caso dovesse includere la rinuncia di quest’ultimo ad un ruolo ufficiale, che peraltro ha già formalmente abbandonato già nel 1972 - manterrebbe uomini della sua cerchia in posizioni di potere, così come resterebbe intatta la struttura repressiva dello stato e dell’apparato di sicurezza.

Dopo cinque mesi, la NATO ha in definitiva dovuto fare i conti con l’incapacità degli insorti di conquistare terreno in maniera significativa e di provocare la caduta del regime, nonostante il massiccio appoggio militare occidentale. Sintomo questo della mancanza di un ampio seguito nel paese per il governo provvisorio di stanza a Bengasi.

Dove non sono riuscite le bombe, allora, potrebbe riuscire ora la diplomazia, purché si raggiunga sempre l’obiettivo di rimpiazzare un regime che si stava facendo troppo ostile verso gli interessi occidentali.

Che la soluzione includa un Gheddafi ancora in Libia e il mantenimento di un ruolo di primo piano per una parte del suo entourage non sembra ora preoccupare più di tanto Parigi, Washington e Londra, con buona pace delle aspirazioni cirenaiche.

giovedì 28 luglio 2011

Update italiota

Rinfreschiamoci un po' le idee con le ultime piccolezze italiote...


Da Kabul alla Valsusa alpini anti-sommossa
di Luca Galassi - Peacereporter - 25 Luglio 2011

Le ex penne nere protestano contro l'uso dei reduci dall'Afghanistan per proteggere il cantiere della Tav

Da Kabul al Chiomonte. Tornati dalla guerra, gli alpini della Taurinense hanno rimesso la mimetica e sono saliti in Valsusa per difendere il cantiere della Tav dagli assalti degli attivisti.

In base al decreto sicurezza del 2008, i militari italiani possono affiancare le forze di polizia nel controllo cittadino e di siti 'sensibili'. Risulta particolarmente anomala la tenuta anti-sommossa.

"L'impiego è stato assai strano - spiga Luca Marco Comellini, ex maresciallo e fondatore del Partito dei Militari -, direi singolare, se non avessi forti dubbi che sia stato legale. In generale ho forti dubbi sull'utilizzo delle forze armate per questo tipo di operazioni. Sono stati messi lì per la vigilanza al sito, non riesco a capire con quali compiti e con quali funzioni. Un conto sono le funzioni di polizia, un conto quelle di vigilanza, e sono solo queste ultime quelle riservate ai militari. La tenuta antisommossa non ci doveva proprio essere. Purtroppo sappiamo quali sono le idee del nostro ministro della Difesa e della sua propaganda. Questo è uno snaturamento delle forze armate, si sottraggono funzioni a coloro che le dovrebbero esercitare, ovvero le forze di Polizia".

Far la guardia alle ruspe è stata la consegna alla Maddalena: dar man forte a polizia e carabinieri nel respingere la protesta dei valsusini. Domenica erano 150 le penne nere. Oltre il doppio gli ex-alpini che li hanno contestati. 'Montanari' contro montanari. Veterani contro nuove leve, che qualcuno chiama già mercenari.

Da qui proveniva il glorioso battaglione Susa, e anche da queste valli partono gli alpini destinati alla Forza di intervento rapido della Nato. Ora che li hanno visti dar manforte a polizia e carabinieri, i valsusini si chiedono: dove è finito lo spirito degli alpini?

Walter Neirotti è di Bussoleno, e ha fatto l'alpino quasi quarant'anni fa. "Ma non sono iscritto all'Ana (Associazione Nazionale Alpini, ndr). L'alpino l'ho fatto da militare, quando andava fatto. Ma io sono sempre stato contro tutte le guerre e non ho amato molto la divisa. Nel fine-settimana eravano tantissimi, centinaia di ex-alpini. Mi chiedo come si fa, a mandare gli alpini a fare ordine pubblico in modo così pesante contro una popolazione. Buona parte sono reduci dall'Afghanistan, dove siamo andati a 'combattere il terrorismo'. Certo, ora siamo terroristi anche noi qui della Val Susa, è per questo che ci combattono. Ma combattono se stessi, perché in ogni paesino di queste valli ci sono metri di lapidi di caduti in tutte e due le guerre mondiali, ed erano tutti alpini. Mandare soldati che fanno ordine pubblico contro una popolazione che nei secoli ha dato il sangue per la patria è stato uno schiaffo, un insulto. Erano in tanti a protestare: ne ho visti centinaia col cappello da alpini, e soprattutto gente della mia età. Contro cosa protestavano? Contro i falsi alpini, quelli che avevano scudo e manganello, quelli in tenuta antisommossa. Al presidio vengono anche utilizzati per perlustrazioni, setacciano i boschi, fanno le ronde come nelle città. Solo che qui non siamo in città".

Ha turbato molti, la vista degli alpini contro i valligiani. Gli alpini No-Tav, quelli da questa parte delle barricate, gli hanno scritto una lettera: "Abbiamo sfilato fianco a fianco con voi all'adunata del 150° anniversario dell'Unità d'Italia e non ci piace vedervi lì. Ci sconforta vedere divise sempre onorate difendere simili interessi".

Enzo Chiappusso, ex-artigliere alpino, ora operaio, è di Novalesa e ha 57 anni. "Oggi sono un volontario della protezione civile. Giro l'Italia, e do una mano per sistemare i disastri che soprattutto i nostri politici hanno combinato. Quest'anno darò indietro la tessera dell'Ana, perché le dichiarazioni del presidente non mi sono andate giù".

Il presidente dell'Ana, Corrado Perona, ha scritto, in una lettera ai veterani della Valsusa, di non farsi strumentalizzare e coinvolgere in manifestazioni 'di carattere politico'. "Gli associati dell'Ana - si leggeva nel documento - non possono utilizzare il cappello alpino per manifestazioni di carattere politico, a maggior ragione in presenza di così evidenti tentativi di strumentalizzazione".

Chiappusso ci è rimasto male, così come il gruppo degli alpini 'No Tav', che hanno rispedito al mittente le 'farneticazioni' di Perona, scrivendo una contro-lettera in cui affermano che "ci hanno pensato altri a 'strumentalizzare e sporcare la nostra storia e tradizione', ovvero quelli che decidono e sostengono l'utilizzo delle truppe alpine come truppe di invasione e occupazione di uno Stato sovrano quale l'Afghanistan, che non ha mai avuto problemi con il nostro Paese, utilizzo che, oltre a violare l'art. 11 della Costituzione viola totalmente lo spirito alpino e provoca inaudite sofferenze alla popolazione locale".

"Con tutto il rispetto per chi ha dato la vita in Afghanistan - spiega infine Chiappusso - i nostri alpini non vanno a portare aiuti con zappe e badile nelle cosiddette 'missioni di pace', ma anzi, vanno armati fino ai denti. Perona deve venire a informarsi in mezzo alla gente. Io vado nel Caucaso la settimana prossima a fare un cinquemila metri. Mi porto il cappello degli alpini. I veri alpini siamo noi. Gli altri sono solo militari professionisti".

Gli alpini non hanno partecipato alle azioni di contenimento dei manifestanti. Lo spiega l'avvocato Emanuele D'amico, presente in Valsusa ieri: "Sono equipaggiati per farlo ma non l'hanno fatto".

Perché hanno scelto proprio gli alpini? "Per 'far numero', probabilmente, in vista di una futura dichiarazione dell'area 'sito strategico e militare', e perché costano meno rispetto a polizia e carabinieri.

Certo, sarebbe inquietante, o meglio, tra l'inquietante e il ridicolo, in un futuro non troppo lontano vedere i blindati Lince, quelli che dovrebbero resistere agli ordigni in Afghanistan, essere impiegati in una zona come la Valsusa, che non è esattamente un teatro di guerra".


Il partito del signorsì

di Emmezeta - www.campoantimperialista.it - 28 Luglio 2011

Il voto bulgaro sul rifinanziamento delle «missioni» di guerra

Duecentosessantanove sì, dodici no (quelli dell’Idv), un astenuto: la «piccola guerra» tricolore, al servizio della Guerra Infinita a stelle e strisce, può così proseguire. Sarà felice il presidente di questa repubblichetta fondata sul signorsì, che in questi mesi ha più volte indossato l’uniforme del portavoce Nato.

Lo ha fatto a marzo per assicurarsi la partecipazione all’aggressione alla Libia, lo ha fatto nelle settimane scorse per prevenire le marachelle della Lega, le cui minacce si sono risolte come sempre nel nulla.

Dodici no su 330 senatori equivale al 3,63%. Riflettiamo su quella che è, ad esempio, l’opposizione nel paese alla guerra in Afghanistan o a quella alla Libia e avremo la impressionante misura del tasso di (non) rappresentatività dell’attuale parlamento. Un consenso di oltre il 96%: altro che «spirito bipartisan», qui siamo in piena sindrome bulgara!

Non che ci fossero dubbi sull’esito del voto, ma alla vigilia qualche novità sembrava all’orizzonte. Del resto, l’occupazione dell’Afghanistan si avvicina al compimento del decimo anno, mentre i bombardamenti sulla Libia – che avrebbero dovuto essere «risolutivi» nell’arco di qualche giorno, massimo qualche settimana – sono ormai nel quinto mese. Sembravano dunque esserci le premesse per una qualche differenziazione.

Niente di tutto questo: non solo i leghisti si sono ricompattati (in cambio di 150 metri quadri di uffici ministeriali distaccati in quel di Monza?), ma il Pd ha ritenuto necessario imporre la più ferrea delle discipline ad una quindicina di dissidenti che erano orientati a votare contro.

I quali, naturalmente, si sono lasciati piegare senza troppa fatica. La qual cosa non stupisce, basti pensare alle figuracce dei pacifisti falcemartellati (Prc e Pdci) durante l’ultimo ed inglorioso governo Prodi, ogni qual volta si trattava di votare l’ennesimo rifinanziamento.

I leghisti, da parte loro, avevano motivato il loro dissenso solo in base a considerazioni di budget, ed oggi si dicono soddisfatti sol perché nel secondo semestre si prevede una spesa di 694 milioni di euro, contro gli 812 milioni del primo semestre.

Il risparmio (teorico) di 118 milioni verrebbe da una riduzione di militari impegnati all’estero, che dovrebbero passare da un totale attuale di 9.250 a quello di 7.222 previsto a fine anno.

Questo calo di circa duemila unità deriverebbe da una riduzione del contingente inquadrato nell’Unifil in Libano, e dal ritiro dal teatro libico della portaerei Garibaldi, il cui equipaggio è di circa mille uomini.

In realtà, la riduzione del contingente in Libano era già prevista da tempo, in cambio dell’accresciuto impegno italiano in Afghanistan. Maggior impegno non solo per il numero dei militari schierati – 4.200, tutti confermati anche per il secondo semestre – ma soprattutto per la più intensa partecipazione alle azioni di guerra, come dimostrato anche dal crescente numero di caduti.

Se sull’Afghanistan il partito trasversale del signorsì, in pratica l’intero parlamento, non ha ritenuto di dover davvero discutere, fatte salve le solite dichiarazioni di rito sulla necessità di «riflettere», la stessa cosa vale per la Libia.

Che i piani iniziali degli aggressori siano saltati, non induce ancora al minimo ripensamento, come se la delega a pensare (oltre a quella a decidere) fosse in realtà assegnata ai soli comandi Nato. Proprio per questo, anche il ritiro della Garibaldi appare assai incerto, legato agli sviluppi della guerra ed alle trattative in corso, non certo al parere del parlamento del signorsì.

Il voto bipartisan sul rifinanziamento delle «missioni», viene dopo quello sulla Libia e dopo il lasciapassare al massacro sociale della manovra economica. Insomma, quando si tratta di economia e di politica estera (tanto più nei suoi aspetti militari) il parlamento è monocolore.

Un fatto che dovrebbe far riflettere coloro che pensano che il male del paese si chiami solo Berlusconi. Un fatto che ci dice con chiarezza quale sia la natura del Pd, un partito confindustriale ed atlantico, che non ammette su questo il minimo dissenso.

Spesso il Pd viene descritto come un partito incerto ed ondivago. Molto spesso lo è davvero, ma non quando si tratta di partecipare alle guerre imperialiste, di cui ama invece farsi vanto.

Un «particolare» di cui fingono di scordarsi coloro che, da sinistra, si apprestano all’ennesima alleanza con il partito di Bersani. «Alleanza democratica», sembra che la chiameranno. Sì, «democratica» e filo-imperialista.


Strategie da Camusso: il voto invisibile
di Luca Telese - Il Fatto Quotidiano - 27 Luglio 2011

Domanda: come fa una importante organizzazione sindacale che consulta i lavoratori su un accordo impopolare ad occultare un risultato (prevedibilmente) sgradito? Risposta: con un referendum secretato.

Ovvero disegnando un omissis, come nei documenti dei servizi segreti. Non ci credete? Per ulteriori precisazioni chiedere all’ideatrice di questo ennesimo paradosso del burocratese sindacale, Susanna Camusso.

Per quanto possa sembrare incredibile, infatti, la segretaria generale della Cgil ha avuto una pensata da manuale, per disinnescare con un trattamento “bulgaro” ogni possibile dissenso all’ultimo accordo che ha sottoscritto: ha preso carta e penna, e ha scritto alle organizzazioni del suo stesso sindacato incaricate di organizzare le consultazioni nelle fabbriche, di tenere segreti i risultati dei lavoratori non iscritti. Ancora una volta non ci credete?

Questo il passaggio testuale: “Il voto eventualmente espresso da non iscritti o da lavoratori iscritti ad altre Organizzazioni – scrive la Camusso – non potrà in nessun modo essere preso in considerazione”. Compresa la comunicazione dei risultati finali.

Ovviamente anche questo ennesimo pasticcio del burocrate-sindacalese ha una spiegazione che rende comprensibile, non tanto la scelta suicida, ma almeno la logica che l’ha guidata.

La Camusso, infatti, si prepara a fronteggiare il presumibile dissenso all’accordo che ha appena firmato insieme alla Cisl e alla Uil con Confindustria: questo accordo, che abbiamo definito il “porcellum sindacale”, annulla il voto dei lavoratori sui contratti (già questa una bella pensata) quando la maggioranza dei rappresentanti sindacali lo sottoscrive.

In pratica: se il 50% più uno dei rappresentati sindacali firma un contratto (a seconda delle fabbriche bastano anche due sole organizzazioni) non si vota.

In virtù di questo accordo, poi, i sindacati firmatari sono vincolati a non scioperare. Un patto oneroso per la Cgil, soprattutto per quella parte dell’organizzazione (la Fiom, ma non solo) che aveva fatto del consenso la bandiera delle ultime battaglie (a partire dai referendum alla Fiat).

Quindi si prepara a fronteggiare il sindacato di Maurizio Landini (che fa votare iscritti e non iscritti) predisponendo un protocollo quasi brezneviano. In virtù del regolamento interno e delle intepretazioni che la stessa Camusso sollecita alla Commissione di garanzia, l’unico organismo dirigente che si può pronunciare sulla materia è il direttivo: in tutte le sedi e in tutte le assemblee, si potrà illustrare una sola posizione. Indovinate quale? Quella della Camusso.

Ma anche la Fiom adotta le sue contromosse. Il sindacato dei metalmeccanici sceglie di stampare il testo, senza commenti e di diffonderlo, così almeno i lavoratori sapranno che cosa votano.

Certo, questa volta a temere il voto non sono la Confindustria e gli altri sindacati, ma gli stessi dirigenti Cgil. Così, la burocratja sindacale partorisce: il voto invisibile.

Secondo la segretaria della Cgil, infatti, si possono consultare i lavoratori, solo a patto di non divulgare il loro verdetto.

Sarebbe come far vedere la partita solo agli spettatori delle tribuna, sarebbe come fare le primarie in America consentendo il voto solo agli agit prop dei comitati elettorali democratici o repubblicani, sarebbe come fare le elezioni e limitare lo scrutinio solo agli iscritti ai partiti.

L’ultima ciliegina? “L’invito – scrive ancora la segretaria – è a dare puntuale attuazione alle modalità di consultazione definite dal Comitato direttivo nazionale della Cgil affinché tutti i voti delle iscritte e degli iscritti siano considerati e concorrano ad approvare l’Accordo”.

Quelli che votando, insomma, concorrono solo ad approvarlo. Una bella idea della democrazia diretta. Ma si sa, nel tempo in cui tutto cambia, chi ha paura di essere sconfitto preferisce nascondere i fatti piuttosto che incassare una bocciatura.



Solidarietà a Mario Borghezio
di Miguel Martinez - http://kelebeklerblog.com - 27 Luglio 2011

”Spiace sentir qualificare come ‘farneticazioni’ le stesse idee forti, sulla realta’ del pericolo islamista che, ovviamente al netto della violenza e piu’ che mai di quella contro persone innocenti come le vittime della strage di Oslo, per non fare che un solo straordinario esempio, persone coraggiose e lungimiranti come Oriana Fallaci hanno espresso con grande chiarezza”.

Mario Borghezio

Circa una volta la settimana, i media ci indicano il capro espiatorio di turno. Da ieri, e per qualche ora ancora, è il solito Mario Borghezio della Lega.

Mario Borghezio, in un intervento (a La Zanzara, programma di Radio 24) che merita di essere ascoltata attentamente, ha detto la stessa cosa che abbiamo scritto qui. Eccolo qui, il Borghezio che parla, ascoltate bene e non limitatevi alle citazioni fuori contesto dei media.

Borghezio ha parlato in maniera pacata, nonostante un giornalista incalzante, dalla voce non si sa se più isterica o viscida, che non ascoltava minimamente il suo discorso, ma cercava di fargli dire una battuta autoincriminante sui Templari.

Mario Borghezio dice di condividere le idee di Anders Breivik, che ritiene ottime; mentre non condivide l’azione commessa da Breivik.

E dice che le idee di Breivik (non le azioni) sono condivise da partiti che “vincono le elezioni in tutta Europa” e prendono il 20% dei voti in molti paesi; e quindi sono condivise da circa cento milioni di europei.

Io aggiungo (non li ha citati Borghezio) che le idee di Breivik, tolta qualche punta personale, sono le stesse di Oriana Fallaci, di Magdi Cristiano Allam, di Marcello Pera, di Vittorio Feltri, di Fiamma Nirenstein, e di tutti gli altri “nemici del multiculturalismo” di cui abbiamo parlato spesso su questo blog.

E all’estero, sono le idee di Geert Wilders, di Filip Dewinter, di Thilo Sarrazin, ad esempio.

Chiaramente, più uno scrive, più ci mette di personale e quindi siamo sicuri che nelle 1.500 pagine degli scritti di Breivik, ci saranno tante piccole divergenze con tutte le persone citate; ma il nucleo del discorso è quello. E ovviamente stiamo parlando delle idee, non della strage. Le persone che abbiamo citato apprezzano le stragi solo se commesse in divisa, e preferibilmente dall’aria.

Borghezio viene attaccato per i soliti due meschini motivi: da parte della sinistra (in senso ampio) per segnare un punto (“amico di un killer pazzo che ha fatto notizia”) contro la destra. E da parte della destra per non permettere alla sinistra di segnare il piccolo punto mediatico.

Da nessuna parte, ovviamente, la minima attenzione a ciò che Borghezio ha realmente detto; né tantomeno a ciò che Anders Breivik ha realmente detto (se non altro, a differenza dei propri compagni di partito, Borghezio dimostra di saper leggere l’inglese).

E quindi nessuna attenzione a ciò che bolle realmente nella grande pentola europea. Tutti a condannare con tanta violenza il sintomo, da vietare ogni menzione della malattia.



Decentramento, Rotondi imita Bossi. Sedi del ministero ad Avellino e Milano
di Carlo Tecce - Il Fatto Quotidiano - 26 Luglio 2011

Dopo la proposta di Michela Vittoria Brambilla di spostare alcuni uffici del ministero del Turismo a Napoli, ora anche il ministro per l'Attuazione del programma imita la Lega Nord e spiega: "Costi zero, saremo ospiti delle Prefetture irpine"

L’idea più fantasiosa per celebrare i 150 anni dell’Unità d’Italia è del ministro Gianfranco Rotondi, democristiano di origine controllata, secolarizzato al berlusconismo.

Il suo ministero per l’Attuazione del programma, nonostante l’agonia del governo, accorcerà le distanze come l’Autostrada del Sole cinque decenni fa. Un po’ su, un po’ giù, un po’ al centro: uffici divisi tra Milano, Roma e Avellino.

Il Fatto ha raccontato che i collaboratori di Rotondi, per un dicastero che costa 8 milioni di euro l’anno, casualmente sono avellinesi come lui. Anche se eletto tanti chilometri più a Nord, a Milano, l’ex segretario di Democrazia cristiana per le autonomie, passato al Pdl nel 2009, ha arruolato amici di liceo e di famiglia, dirigenti e funzionari di partito (il suo).

Ecco che Rotondi, armato di invidiabile sarcasmo, scrive al nostro giornale per ringraziarci di un suggerimento a nostra insaputa: “Ogni promessa è debito e io sono qui a onorare quella che ho fatto. Ironizzando sui miei molti consulenti avellinesi e milanesi, mi avete provocato chiedendomi perché non trasferissi il ministero ad Avellino o a Milano. Ci siamo: ho riunito i miei collaboratori e appena comunicato al segretario generale della Presidenza del Consiglio che disporrò, d’accordo con il mio sottosegretario Daniela Santanchè, l’apertura di due sedi di rappresentanza a Milano e ad Avellino”.

Attenzione. La casta prima agita le forbici e poi si riproduce? Il ministro assicura che l’operazione “città che vai, ministero che trovi” costa zero: “Non spenderemo un euro perché saremo ospiti delle Prefetture”.

Passi per l’ospitalità, ma che farà un pezzo del governo in Irpinia? “Non saranno generiche sedi sul territorio – e qui l’esperto democristiano infila una stoccatina ai leghisti per la farsa di Monza – ma due gruppi di lavoro che entro ottobre annunceranno una proposta su due temi: la razionalizzazione dei costi della politica con riordino delle autonomie locali e alcune proposte cogenti da inserire nel piano per il Sud. A Milano ci sarà la commissione sui costi e ad Avellino quella per il Mezzogiorno”.

Curiosa la prima riforma avellinese-milanese: la Santanché dovrà lasciare la Capitale con le telecamere annesse e uno studio enorme che affaccia su piazza Montecitorio.

La fuga di Rotondi è una fotografia che definisce la salute del governo e la resistenza di alleanze ormai logore: il ministro campanilista fa un dispetto ai leghisti che sbraitano contro Roma e anche al duo Gianni Alemanno-Renata Polverini che, spesso silenziosi, urlano appena una scrivania inutile abbandona il cupolone.

Un ministero in Irpinia è la prova fisica di un governo all’ultimo atto. Quando le comiche finali tirano giù il sipario.


Nitto Palma, un falco alla Giustizia. Amico di Previti, favorito per il dopo Alfano
di Mario Portanova - Il Fatto Quotidiano - 26 Luglio 2011

Il magistrato entrato in politica con Forza Italia è un pasdaran dell'immunità parlamentare e vicino all'ex avvocato di Berlusconi condannato per corruzione. Alla Procura di Roma seguì inchieste scottanti, da Moro a Vermicino

Potrebbe essere vicina la scelta di Nitto Palma come prossimo ministro della Giustizia. Il magistrato romano è in pole position – tra i suoi avversari più quotati al momento c’è Donato Bruno, presidente della Commissione affari costitituzionali della Camera – e la sua candidatura potrebbe essere ufficializzata nella giornata di giovedì.

Romano, 61 anni, entrato in parlamento nel 2001 con Forza Italia, dal 2008 sottosegretario all’Interno, il possibile successore di Angelino Alfano “promosso” segretario del Pdl è innanzitutto un pasdaran dell’immunità parlamentare.

Suo, nel 2002, un emendamento che prevedeva il blocco totale di indagini e processi sui parlamentari per tutta la durata del loro mandato. In pratica, un lodo Alfano esteso a un migliaio di politici italiani.

Dovrà ritirarlo, anche per le pressioni interne alla stessa maggioranza di centrodestra, di Udc e An in particolare. Anche perché rischia di sembrare un favore troppo sfacciato all’”amico” Cesare Previti, imputato in diversi procedimenti per corruzione.

E’ lo stesso Palma a prendere il telefono e a informare Previti, che ha una reazione furibonda: “E’ chiaro che ci stiamo facendo ricattare dai democristiani”. Due anni più tardi, la stessa accusa di legiferare ad personam gli viene rivolta apertamente nel dibattito parlamentare sulla riforma della prescrizione, detta anche “salva-Previti”.

Nel 2007, un articolo dell’Espresso lo annovera tra i frequentatori delle cene con diversi parlamentari forzisti organizzate dallo stesso Previti nell’attico di pazza Farnese. Dove l’avvocato di Berlusconi si trovava agli arresti domiciliari.

Un falco, insomma. Chi lo conosce racconta che non ama affatto la categoria a cui appartiene, che detesta Magistratura democratica e vede come fumo negli occhi un altro magistrato sceso in politica sul fronte opposto, Antonio Di Pietro.

Palma, tra l’altro, è stato sposato con Elvira Dinacci, figlia di Ugo, capo degli ispettori del ministero della giustizia nei primi anni bollenti di Mani pulite. E fino al 1996, lo stesso Palma ha lavorato in via Arenula come vicecapo di gabinetto del ministro Filippo Mancuso, nemico feroce dei magistrati che indagano su Tangentopoli.

Prima di entrare in politica, Nitto Francesco Palma ha lavorato a lungo alla Procura della Repubblica di Roma, alle prese con casi scottanti: l’arresto del mafioso italoamericano Frank Coppola “tre dita”, i Nar, le Brigate Rosse, il processo Moro Ter, l’inchiesta sui fondi sovietici al Pci.

Pezzi di storia, come la tragedia di Vermicino, quando, nel 1981, Palma fece arrestare il proprietario del terreno dove si trovava il pozzo artesiano che aveva inghiottito il piccolo Alfredo Rampi.

Da magistrato si è occupato anche di mafia, alla Dna, e dopo la strage di Capaci si è scagliato, in un’intervista al Corriere della Sera, contro quelli, sinistra compresa, che “non volevano Giovanni Falcone superprocuratore, perché era amico di Claudio Martelli (all’epoca ministro della giustizia per il Psi, ndr)”.

Grande appassionato di calcio, Palma è stato anche membro del Comitato organizzatore di Italia Novanta, per i mondiali di quell’anno, nonché vicecapo dell’ufficio indagini della Figc. I rumour romani gli attribuiscono amicizie altolocate e varie, da Luigi Abete a Francesco De Gregori, fino al vicecapo della polizia Nicola Cavaliere.


Gentile on. Bersani, il guaio è il rapporto tra politica e affari
di Marco Travaglio - Il Fatto Quotidiano - 27 Luglio 2011

Gentile on. Bersani, grazie per aver raccolto alcuni degli interrogativi che le abbiamo posto sul Fatto Quotidiano. E anche per esser uscito dalle generiche declamazioni di principio, entrando per la prima volta nel merito delle questioni che La riguardano. Credo che gliene siano grati, oltre ai nostri lettori, anche i suoi elettori.

La invitiamo fin d’ora a un confronto più diretto nella nostra redazione, magari davanti alle telecamere della nostra nascente web-tv, come abbiamo già fatto con l’on. D’Alema. Infatti non tutte le Sue argomentazioni mi hanno convinto e provo, in estrema sintesi, a spiegarLe perché.

1. È vero che ai politici, oltre a condotte che dovrebbero essere scontate come rispettare la magistratura, fare un passo indietro se indagati o imputati di reati gravi, applicare la presunzione di innocenza e così via, “tocca produrre riforme che tolgano la possibilità alla corruzione”. Le domando, siccome Lei è stato due volte ministro nei sette anni dei governi di centrosinistra, quando mai ne avete prodotta una: io ricordo solo controriforme che hanno agevolato la corruzione e garantito l’impunità per corrotti e corruttori, come la depenalizzazione dell’abuso d’ufficio non patrimoniale, il nuovo 513 Cpp, la legge costituzionale abusivamente detta “giusto processo”, la riforma penale tributaria che prevede amplissime soglie di non punibilità per gli evasori fiscali, l’indulto extralarge del 2006 esteso a corrotti e corruttori.

2. Lei invoca giustamente “meccanismi di garanzia e limitazione del rischio nei partiti”. E rivendica il draconiano “codice etico” del Pd, “più stringente di un normale percorso giudiziario”. Siccome però il Suo partito ha portato in Parlamento due pregiudicati (Carra per falsa testimonianza e Papania per abuso d’ufficio), più vari inquisiti e imputati, ed è riuscito l’anno scorso a candidare a presidente della Regione Campania e poi a sindaco di Salerno un signore imputato per corruzione e concussione, Le domando: quel codice prevede deroghe così generose, o ha maglie così larghe da lasciar passare simili soggetti?

E in base a quale codice etico, due anni fa, avete mandato al Senato Alberto Tedesco, il vostro assessore alla Sanità della giunta Vendola che si era appena dimesso perché indagato per corruzione? Senza quel gesto, epico più che etico, Tedesco sarebbe agli arresti, come i suoi coindagati che non hanno avuto la fortuna di rifugiarsi in Parlamento: è questa la “parità dei cittadini davanti alla legge”?

3. Nella “triangolazione Gavio-Bersani-Penati” c’è poco di suggestivo. Se Lei raccomanda Gavio a Penati, Penati coi soldi dei milanesi acquista il 15% delle azioni della Milano-Serravalle a 8,9 euro l’una da Gavio che le aveva appena pagato 2,9 euro, Gavio intasca 176 milioni di plusvalenza e subito dopo ne investe 50 nella scalata di Unipol a Bnl sponsorizzata dal Suo partito, che dobbiamo pensare? A una sfortunata serie di coincidenze?

4. Nel 2004, quando “favorì l’incontro” Gavio-Penati, Lei non era ministro delle Attività produttive, visto che allora governava Berlusconi: Lei era un semplice europarlamentare. A che titolo “favoriva l’incontro” fra un costruttore privato e il presidente della Provincia? E perché l’incontro avvenne in gran segreto?

Non c’è nulla di male se un costruttore e il presidente della Provincia, soci in un’autostrada, s’incontrano: purché lofaccianoallalucedelsole,negliuffici della Provincia, e al termine diramino un comunicato per informare i cittadini del tema trattato e delle decisioni prese. Nella massima trasparenza.

Invece Penati incontrò Gavio in un hotel romano, tra il lusco e il brusco. E se sappiamo di quell’incontro, e del Suo ruolo di facilitatore, è solo grazie alle intercettazioni dei pm di Milano. Le pare normale?

5. Su Pronzato non ho scritto inesattezze, come del resto Lei finisce per ammettere nella sua onesta autocritica. Il signore in questione fu Suo consigliere al ministero, poi il Pd lo indicò nel Cda dell’Enac e contemporaneamente lo nominò responsabile per il trasporto aereo del partito. Non è questione di “doppio incarico inopportuno”, ma di conflitto d’interessi tra incarico pubblico e di partito.

Un conflitto d’interessi che gli ha consentito con una mano di favorire l’azienda aeronautica dei Paganelli all’Enac e con l’altra di spartirsi la tangente con Morichini, procacciatore di fondi per la fondazione Italianieuropei di D’Alema.

6. Se davvero Lei vuole “allestire nei partiti meccanismi di garanzia e di limitazione del rischio”, è proprio sicuro che il compito di un politico sia quello di patrocinare scalate e fusioni e acquisizioni bancarie o societarie, anziché scrivere regole severe e poi farle rispettare dagli organi di garanzia, restando fuori dalla mischia? Non ritiene pericoloso che l’arbitro si metta a giocare la partita con una delle squadre? 7.

Qui non si tratta di “alludere a combine poco chiare o addirittura a illeciti” da Lei commessi, onorevole Bersani. L’ho scritto e lo penso. Qui si contesta una concezione malata dei rapporti tra affari e politica. La stessa che nel 1999 portò D’Alema e Lei a sponsorizzare i “capitani coraggiosi” che s’ingoiarono la Telecom a debito, coi soldi delle banche, riducendola a un colabrodo.

La stessa che nel 2004 portò Lei e Fassino, come rivelò ai magistrati Antonio Fazio mai smentito né querelato, a recarvi dall’allora governatore di Bankitalia per patrocinare la fusione tra Montepaschi e Bnl.

La stessa che nell’estate 2005 portò Lei, D’Alema, Latorre e Fassino a sostenere, in pubblico e in privato, l’allegra brigata dei furbetti del quartierino che con metodi illeciti e banditeschi tentavano di saccheggiare un bel pezzo del sistema bancario ed editoriale, e a difendere fino alla fine il loro indifendibile padrino Antonio Fazio.

Tutte queste vicende, a mio modesto parere, spiegano come mai la sinistra italiana se n’è sempre bellamente infischiata delconflittod’interessidiBerlusconi.Eappaionopure in lieve contrasto con la Sua fama di “liberalizzatore”: ricordano piuttosto i pianificatori da Gosplan dei piani quinquennali sovietici.

Trent’anni fa a domani, Berlinguer rilasciava la celebre intervista a Scalfari sulla questione morale: “I partiti hanno occupato lo Stato e tutte le sue istituzioni… gli enti locali, gli enti di previdenza, le banche, le aziende pubbliche, gli istituti culturali, gli ospedali, le università, la Rai, alcuni grandi giornali…”. Io una ripassatina gliela darei.


Polverini, la bulletta del peperoncino
di Loris Mazzetti - Il Fatto Quotidiano - 28 Luglio 2011

Che Renata Polverini fosse un bluff, purtroppo lo si è capito in ritardo e solo quando si è seduta sulla poltrona da presidente della Regione Lazio: ha impiegato sei mesi per fare la giunta, ha riempito la regione di consulenze d’oro, ha fatto tagli drammatici alla sanità. Che responsabilità ha la tv!

La “Bulletta di San Saba” (così la chiamano nel palazzo), deve la sua fortuna alle tante apparizioni in tv che l’hanno lanciata quando era il capo di un sindacato dalla scarsa rappresentanza nel mondo del lavoro.

Ha saputo, sapientemente, usare il servizio pubblico come trampolino verso il potere. Bella presenza, disponibilità al dialogo, riflessiva, moderata nelle risposte. Una donna di destra non aggressiva che non parla su copione, persino critica, a volte, nei confronti del governo.

Essere spigliati e simpatici di fronte alla telecamera non sempre è sinonimo di sostanza.

Il primo a cadere nel trappolone è stato Walter Veltroni (allora segretario del Pd), che tentò di candidarla nel 2008. All’inizio della campagna elettorale laziale accade il primo impaccio: Roma viene tappezzata di manifesti che comunicano che a fianco della Polverini, si sarebbe candidato (poi ritirato solo dopo le polemiche), il fondatore, assieme a “Caccola” Delle Chiaie, di Avanguardia nazionale, Adriano Tilgher, capolista di La Destra di Storace, uno che va in giro a dichiarare: “Non nego l’Olocausto, ma il problema è capire se l’ordine della soluzione finale venne dall’alto”.

“Epifani in gonnella” (la definizione è di Vittorio Feltri), aveva dimenticato che il suo mentore, Gianfranco Fini, nel 2008, mentre B. trattava con Fiore, lo stesso Tilgher e si faceva fotografare con la moglie di Gaetano Saya (allora in galera per attività eversiva), era intervenuto molto duramente: “No a candidature che gettano discredito”.

Non dovrebbe sorprendere che la Polverini per andare alla festa del peperoncino, organizzata da Guglielmo Rositani (che figura per uno che sta nel cda della Rai e dovrebbe essere un esempio, il video con le minacce fisiche al cronista Carlo Tecce è una macchia indelebile), per fare 60 chilometri tra Roma e Rieti abbia usato l’elicottero antincendio (costo 15 mila euro pagati dai contribuenti).

sora Renata, quella di “Io sono io e voi…”, dovrebbe sapere che in Inghilterra il ministro dell’Interno Jacqui Smith, per aver fatto pagare allo Stato 67 sterline per due film porno acquistati dal marito, si è dimessa.


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Son contento
di Andrea Scanzi - Il Fatto Quotidiano - 28 Luglio 2011

Son contento, ragazzi. Dico davvero. E non è perché ho appena fatto trampling con Anna Torv, Rosario Dawson e Cècile de France. Quella è routine.

Son contento perchè è Grande Italia. Viviamo un momento storico che regna, redime, signoreggia, soverchia e tiranneggia.

Son contento perché discutere se Marco Travaglio indossi mutande o bermuda quando registra Passaparola è un bel passo avanti intellettuale. Di questo passo potremo tutti compiere serie esegesi sulla Lettera ai Filippesi di San Paolo: è acclarato.

Son contento perché Libero, Giornale e Unità (toh: le affinità elettive tra destra e “sinistra”) hanno tutti giustamente rimbrottato il vicedirettore del Fatto. «La coraggiosa penna di inchiesta si trasforma da eroe in comune fifone» (Libero). «Il coraggio se uno ce l’ha non se lo può dare» (Giornale). «Qualcuno è riuscito a mettere in mutande il giustiziere senza macchia. Il guaio per lui è che ora non può mica chiedere l’arresto del terremoto» (quei guasconi dell’Unità – ah ah ah).

Che fifone, quel Travaglio lì. Ha perfino paura dei terremoti. Roba da vergognarsi. Mica come Belpietro, che quando ci sono le scosse del sesto grado Richter sfida ardimentoso gli smottamenti tellurici, riprendendo con una mano i libri che cadono dagli scaffali e con l’altra disegnando arabeschi maya di pregevolissima fattura.

Oltretutto Belpietro è uno che è scappato perfino da un attentato che si era fatto da solo: come fai a dubitare del coraggio di uno così? Ci fosse stato lui, in quel video di Passaparola, il terremoto lo avrebbe fermato con la sola imposizione della mascella.

Son contento perché Vittorio Feltri è uno figo. Veramente. Dopo aver cannato, con tutti i suoi amichetti pseudogiornalisti, la paternalità degli attentati norvegesi, incolpando Al Qaeda (eh?) e scoprendo un attimo dopo che il carnefice era un personaggio tutto sommato ideologicamente vicino ai dettami del centrodestra nostrano, non è che ha chiesto scusa. No. Mica chiede scusa, uno come Feltri.

Al contrario, il Gran Maestro delle caricature di Sherlock Holmes ha accusato i ragazzi ammazzati di essere stati – pure loro – delle mammolette. Di non essersi opposti abbastanza. Ha ragione. Farsi ammazzare da uno che ti mitraglia quando sei disarmato e pietrificato, è roba da smidollati laburisti.

E del resto anche Feltri, come Belpietro, è uomo che del coraggio (fisico e morale) ha fatto un vanto personale. Feltri è così coraggioso che, se fosse donna, si stuprerebbe da solo. Senza opporre peraltro resistenza.

Son contento perché Borghezio mi piace. Ogni volta che parla, capisco chi ponga perplessità attorno alla pertinenza del suffragio universale in Italia.

Son contento perché Gabriella Carlucci esiste. E’ l’unica a stimare Giovanardi e la teoria secondo cui col centrosinistra al potere ci sarebbero più Amy Winehouse è un capolavoro a cui, urge ammetterlo, non sarebbe arrivato neanche Red Ronnie.

Son contento perché anche a Viterbo Brunetta ha ribadito d’esser convinto che i cretini siano gli altri.

Son contento perché Nitto Paola è l’uomo giusto al posto giusto. Se lo conosci, lo Previti (cit).
Son contento perché Madama Bernini mi affascina. Da sempre. E’ una che usa il latino a caso, affezionata in maniera commovente alla parola “iato”. Ha quel look vedovile di chi fa della medietà bruttina un tratto distintivo.

E poi quegli occhi. Ah, quegli occhi. Perennemente sgranati come – ho già avuto modo di scriverlo - una che si trova sempre davanti a una erezione monumentale di Mike Tyson. Da qui lo stupore e sbigottimento eterno di cornea e iride. Suo e della Carfagna.

Son contento di avere sottovalutato il Pd. Che partito meraviglioso, il Partito Disastro. In neanche due mesi, dopo quelle amministrative e quei Rerefendum delle cui vittorie si era pateticamente appropriato, è riuscito a sprecare tutto.

Ci vuole talento assoluto
per disboscare dalle fondamenta ogni speranza. Occorre abnegazione encomiabile nel salvare ogni volta dall’oblio politico il loro amico prediletto: Priapino da Arcore.

Che statista sublime, Bersani. E’ perfino riuscito a superare l’exemplum di Veltroni, con la sua Versione Remix della Questione Morale Irrisolta. Class action, macchina dal fango, querele.

E quel tic delle labbra in fuori quando è nervoso, come il compulsivo sbatter d’occhi di Fassino o il soffiarsi tra le mani di D’Alema: son nati proprio brutti, i grigi compagni del Pci. O perlomeno tutti finiscono così (cit).

Son contento, caro Bersani, perché quando alza la voce e minaccia a casaccio in conferenza stampa, fa ridere i polli (di allevamento) e assurge a perfetto emblema di tutta quella inutile sicumera, quella fastidiosa supponenza e quella risibile “pretesa superiorità morale” che costituisce il bagaglio mesto (e colpevole) di chi ha ammazzato la sinistra in Italia.

Son contento perché peggio di così non si può andare. Eppure scaveranno ancora. E ancora li voteranno.

mercoledì 27 luglio 2011

Il puzzle di Oslo

Una serie di articoli utili a mettere insieme altri pezzi di un puzzle piuttosto intricato, ma che forse non lo è neanche più di tanto...


Chi erano i giovani laburisti di Utøya?
di Pino Cabras - Megachip - 26 Luglio 2011

Quali erano i valori dei ragazzi e delle ragazze norvegesi dell’isola di Utøya, teatro della strage del 22 luglio 2011? I nostri media non ne hanno fatto cenno.

Nel pieno del seminario estivo del movimento giovanile laburista Arbeidernes Ungdomsfylking (AUF), il suo leader Eskil Pedersen, il 19 luglio, aveva rilasciato un’intervista all’importante quotidiano «Dagbladet».

E cosa leggiamo di così clamoroso in questa intervista? Proprio alla vigilia dell’incontro con il ministro degli esteri di Oslo, il laburista Jonas Gahr Store, quali temi di politica internazionale va a proporre Pedersen?

Il giovanissimo politico della sinistra di governo norvegese, in modo inequivocabile, punta tutto su un solo tema: no al dialogo con Israele, sì all’embargo. Vi proponiamo qui di seguito la traduzione dell’intervista.

I lettori potranno così vedere sotto un’ulteriore luce il massacro perpetrato da Anders Behring Breivik, alias ABB, con i suoi complici. Si potranno porre domande fin qui sopite soprattutto se si accenderà poi un’altra luce, quella sul lungo documento di Breivik, che proclama in molti punti una viscerale fedeltà alla causa sionista, e quando si riveleranno i contatti organici di ABB con l'estrema destra sionista europea.

L’«anti-islamico» ABB non ha consumato il suo piombo in una moschea. Ha invece sterminato le giovani leve di un'intera nuova classe dirigente sgradita. Lui sarà pazzo.

Ma i pazzi come lui spesso sono in mano a manovratori e agenti d’influenza con una visione precisa. Qualunque cosa per adesso si possa pensare, intanto buona lettura.

«Il Dialogo non serve, Jonas!»

Il leader dell’AUF, Eskil Pedersen, ritiene che sia l’ora di misure più forti contro Israele.


Intervista a cura di Alexander Stenerud - www.dagbladet.no - 20 Luglio 2011

Questa settimana circa un migliaio di membri dell’organizzazione dei Giovani Laburisti (AUF) si sono radunati all’isola di Utøya per discutere di temi politici. Giovedì a Utøya verrà Jonas Gahr Store per dibattere di Medio Oriente.

Il ministro degli esteri crede nel dialogo in merito al conflitto tra Israele e Palestina, ma il leader dell’AUF Eskil Pedersen ha un chiaro messaggio per il ministro.

«Ci piace che si parli ma, da come abbiamo visto, Israele non è interessata, e non ha ascoltato nessuna delle rimostranze che le sono state fatte. Il processo di pace è un vicolo cieco, e sebbene il mondo intero strepiti affinché gli israeliani vi si conformino, loro non lo fanno. Noi della Gioventù Laburista vogliamo un embargo economico unilaterale contro Israele da parte norvegese», dichiara Pedersen.

Il leader dei giovani laburisti sostiene che il dialogo non ha più nulla da offrire di fronte a Israele, e ritiene che sia l’ora che si adottino nuovi tipi di misure. Pedersen considera che le autorità israeliane si sono spostate così tanto a destra che risulta impossibile avere alcun colloquio con loro.

«La Norvegia ha poche opportunità di esercitare in qualche modo un’influenza, e non siamo vicini ad alcuna pace in questo conflitto. Semmai il contrario. Israele si è spostata estremamente a destra, il che fa sì che scarseggino i partner dialoganti. Oserei dire che perfino i responsabili della politica estera del Partito del progresso (la formazione conservatrice liberale norvegese, NdT) faticheranno assai per trovare interlocutori in Israele. Non c’è più alcun filo diretto. Quel che intendo dire è che dovremmo parlare con chiunque, ma non possiamo sacrificare i nostri principi e le nostre politiche tanto per parlare».

La Gioventù Laburista è stata a lungo in favore del boicottaggio di Israele, ma la decisione all’ultimo congresso, che richiedeva che la Norvegia imponesse un embargo economico unilaterale del paese, era più netta che in precedenza.

«Riconosco che questa sia una misura drastica, ma ritengo che essa dia una chiara indicazione del fatto che siamo stanchi del comportamento di Israele. Larghe parti del mondo reagiscono in ogni momento, ma Israele non ascolta. Penso che la decisione sia un segno che noi dell’AUF diffidiamo di Israele, semplicemente».

Traduzione dal norvegese a cura di Padore Eltili.


Massacro in Norvegia: la connessione con le destre ebraiche

di Gilad Atzmon - www.gilad.co.uk - 25 Luglio 2011

Traduzione per www.comedonchisciotte.org a cura di SUPERVICE

Grazie allo stimato antisionista Jeff Blankfort (che mi ha fornito un link fondamentale) ho ora appreso che, solo un giorno prima del massacro di venerdì in Norvegia, l’ex trozkista ora neo-con David Horowitz ha pubblicato un articolo di Joseph Klein sulla sua rivista Front Page intitolato "I collaborazionisti in Norvegia", che potrebbe aver fornito all’omicida seriale Anders Behring Breivik tutte le motivazioni per commettere il suo crimine.

Vi consiglio di leggere l’intero articolo qui.

Potete trovare alcune delle “perle” prodotte da questa rivista della destra ebraica bellicista solo poche ore prima che Behring Breivik avesse preso i suoi fucili e iniziato il suo viaggio letale:

“L’infame collaborazionista norvegese Vidkun Quisling, che ha aiutato i nazisti tedeschi a invadere il suo paese, dovrebbe essere riverito sulla tomba […] Nell’ultimo esempio di collaborazione norvegese col nemico degli ebrei, il Ministro degli Esteri norvegese Jonas Gahr Stoere ha dichiarato la scorsa settimana in una conferenza stampa, a fianco del presidente palestinese Mahmoud Abbas, che “la Norvegia ritiene perfettamente legittimo che il presidente palestinese si rivolga alle Nazioni Unite” per ottenere il riconoscimento della Palestina come stato indipendente.”

“Durante l’occupazione nazista della Norvegia, quasi tutti gli ebrei furono deportati nei campi della morte o spediti in Svezia o altrove. Oggi la Norvegia è in effetti occupata dalla sinistra antisemita e dai radicali musulmani e sembra voler rendere effettiva la distruzione dello stato ebraico di Israele.”

“Il parlamentare norvegese del Partito Laburista Anders Mathisen è andato oltre e ha pubblicamente negato l’Olocausto. Ha detto che gli ebrei “hanno esagerato i loro racconti” e che “non ci sono prove che le camere a gas e le fosse comuni siano mai esistite.” Anche se l’establishment politico e gli opinionisti potrebbero non aver raggiunto questo livello di follia, hanno comunque la tendenza a considerare i musulmani vittime dell’oppressione israeliana, come se i musulmani fossero nelle stesse condizioni delle vittime ebree e i nazisti di oggi fossero gli israeliani.”

“La leader socialista Kristin Halvorsen sta guidando il boicottaggio nei confronti di Israele. Quando era ministro delle Finanze della Norvegia, era tra i dimostranti di una protesta anti-israeliana, nella quale fu esposto un cartello (tradotto): “Il più grande asse del male: USA e Israele”. Tra gli slogan gridati più volte alla manifestazione c’era (tradotto) “Morte agli ebrei!”

“Lo scorso anno il governo norvegese ha deciso di interrompere gli investimenti con due organizzazioni israeliane che lavorano nella West Bank. Il fondo sovrano norvegese ha tolto il finanziamento all’impresa israeliana Elbit perché stava lavorando sul muro di sicurezza israeliano che tiene a distanza gli attentatori suicidi. A Israele è stata anche impedito di fare offerte sui contratti per la difesa norvegese.”

[…] Parte della motivazione per questo antisemitismo è l’afflusso in Norvegia negli ultimi decenni di masse di musulmani dal Pakistan, Iraq e Somalia tra gli altri. Il multiculturalismo ha insegnato all’élite norvegese ad avere un approccio acritico, talvolta ossequioso, verso ogni aspetto della cultura e delle credenze musulmane. Quando i leader musulmani si scagliano contro Israele e gli ebrei, la risposta incondizionata dell’élite multiculturalista è quella di unirsi alle loro farneticazioni. Questa viene chiamata solidarietà.”

La verità che sta alla base di tutto questo è ben chiara: sono i palcoscenici della destra bellicista israeliana come FrontPage Magazine, Daniel Pipes, Harry’s Place e altri che seguono il loro esempio, che coscientemente, apertamente e in modo ambiguo coltivano una cultura di odio e di islamofobia.

Behring Breivik era un seguace di FrontPage Magazine o dell'ugualmente odioso e adescante Harry’s MAS Place? Non ne siamo sicuri, ma speriamo di scoprirlo al più presto.

Comunque, il messaggio dovrebbe essere urgente e chiaro a tutti noi: la polizia, i servizi di intelligence e le forze dell’ordine di tutto il mondo dovrebbero certamente investigare e reprimere immediatamente questi fomentatori d’odio. Le loro motivazioni, intenzioni e attività devono essere scrutinate e poste sotto osservazione.

Per il bene della pace e della sicurezza di tutti, i legislatori in Europa e in America farebbero bene a istituire velocemente le misure necessarie per restringere le attività di questi guerrafondai sionisti che sono in mezzo a noi.


Il massacro in Norvegia è una reazione per il boicottaggio a Israele?

di Gilad Atzmon - www.gilad.co.uk - 24 Luglio 2011

Traduzione per www.comedonchisciotte.org a cura di SUPERVICE

Ho appreso la scorsa notte da un quotidiano israeliano online, che due giorni prima del massacro dell’isola di Utoya, il leader dell’AUF (il movimento giovanile del Partito Laburista) Eskil Pedersen ha rilasciato un’intervista a Dagbladet, il secondo tabloid più diffuso in Norvegia, dove rivela quello che pensa di Israele.

Nel corso dell’intervista, Pedersen ha affermato che “crede sia venuto il tempo per misure più drastiche contro Israele […] e vorrei che il Ministro degli Esteri imponesse un boicottaggio economico contro quel paese.”

Pederson ha proseguito, dicendo: “Il processo di pace non va da nessuna parte e, anche se il mondo intero si aspetta che Israele si adegui, non lo farà. Noi nel Partito Laburista istituiremo un embargo economico unilaterale di Israele dal lato norvegese.”

Il movimento giovanile del Partito Laburista AUF è stato tra i più accesi promotori della campagna di boicottaggio a Israele, e il giornale The Dagbladet riporta che “l’AUF è da tempo un sostenitore del boicottaggio internazionale nei confronti di Israele, e al suo ultimo congresso è stato deciso di richiedere che la Norvegia imponga un embargo economico unilaterale e che debba essere più rigido di quanto avvenuto sinora.”

“Riconosco che si tratta di misure drastiche”, ha affermato Pedersen, “ma credo che dia una chiara indicazione del fatto che siamo stanchi del comportamento di Israele, molto semplicemente”.

Ieri abbiamo anche appreso che l’omicida seriale Anders Behring Breivik era apertamente entusiasta di Israele. In base a una serie di pubblicazioni su Internet, Behring Breivik postava regolarmente su alcuni siti web norvegesi, principalmente sul blog document.no, che era gestito da Hans Rustad, un giornalista prima schierato a sinistra. Hans Rustad è ebreo, estremamente pro-sionista e mette in guardia su “islamizzazione”, violenza e altri problemi sociali che ritiene siano collegati all’immigrazione musulmana.

Allo stesso modo dell’infame islamofobo Harry’s Place e di altri blog sionisti a favore delle guerre, gli osservatori che sono tra noi stanno diventando sempre più preoccupati di una tendenza sempre più pervasiva presenti nei quotidiani Internet di Gerusalemme che, apparentemente, sembrano dare l’impressione di “riunirsi per la preservazione della cultura occidentale” e per la “difesa dei valori democratici”.

Per la più ovvia delle ragioni, queste pagine dei blog sono quasi esclusivamente concentrate sul “problema dell’Islam” e sulle comunità di migranti musulmani “agitate e reazionarie” quando per tutto il tempo, simultaneamente, inesorabilmente e decisamente sostengono la propaganda per il sionismo.

Da notare che altri immigranti vengono ciclicamente tratteggiati sulle pagine di questi blog come “indifesi” o come “fattivi collaboratori della società”; non troverai Hans Rustad o Harry Place criticare le lobby ebraiche, quelle di Lord Levy o l’impatto disastroso degli oligarchi russi sulla “cultura occidentale” e sui “valori democratici”.

Gordon Duff ha scritto ieri su “Veterans Today” che “l’ordigno piazzato in un’auto porta la firma di un’agenzia di intelligence. Nessun altro si occupa di queste cose.”

È dopo tutto è abbastanza chiaro che un attentato di queste dimensioni, e un’operazione così sofisticata non è esattamente quello che un profano può riuscire a realizzare con apparente semplicità: ci vuole sicuramente qualche conoscenza specifica, e la questione è chi possa fornire conoscenze di questo tipo, e una tale quantità di esplosivo letale?

Non sono al momento nella posizione di poter puntare il dito contro Israele, i suoi agenti e i suoi sayanim, ma radunando le informazioni e considerando tutte le possibilità potrei suggerire che Anders Behring Breivik potrebbe in effetti essere un Sabbath Goy.

Nel contesto della società mondana giudaica, il Sabbath Goy è presente per eseguire compiti di minore importanza che gli ebrei non possono realizzare durante il Sabbath.

Ma, all’interno della realtà sionizzata in cui tragicamente dobbiamo in gran parte vivere, il Sabbath Goy uccide per lo stato ebraico. Lo potrebbe fare anche volontariamente.

Da ammiratore di Israele, Behring Breivik sembra aver trattato i suoi conterranei allo stesso modo in cui l’IDF si comporta con i palestinesi.

È abbastanza allucinante far notare che Behring Breivik, in Israele, ha trovato una serie di seguaci entusiasti che hanno lodato la sua iniziativa contro la gioventù norvegese. In un articolo in ebraico che parlava di come il campeggio dell’AUF fosse pro-palestinese e a sostegno della Israel Boycott Campaign, ho trovato i seguenti commenti tra i tanti che sono a favore del massacro:

24. “I criminali di Oslo hanno pagato”

26. “È stupido e malvagio non desiderare la morte per quelli che vogliono boicottare Israele.”’

41. “I Giovani Hitleriana uccisi nei bombardamenti in Germania erano anche loro innocenti. Dobbiamo tutti piangere per i terribili e perfidi bombardamenti degli Alleati […] C’era mucchio di gente che si era riunita per odiare Israele in paese che odia Israele in una conferenza per appoggiare il boicottaggio. Non è una cosa bella, non è carina, davvero una tragedie per le famiglie, e noi condanniamo l’atto in sé, ma piangere per una cosa del genere? Forza. Siamo ebrei, non siamo cristiani. Nella religione ebraica non c’è l’obbligo di amare o di mettere il lutto per il nemico.”

Tutti gli aspetti della tragedia norvegese sono ancora sconosciuti, ma il messaggio dovrebbe essere sufficientemente chiaro e trasparente per tutti noi: le agenzie di intelligence occidentali devono immediatamente reprimere gli agenti israeliani e sionisti che sono intorno a noi e, riguardo i terribili eventi di questa fine settimana, deve essere assolutamente evidente chi è che ha fatto diffondere l’odio e chi ha sostenuto questo terrore, e per quali precise ragioni.


Il massacro del 22 Luglio: Norvegia e Israele
di María José Lera e Ricardo García Pérez* - http://europeanphoenix.com - 26 Luglio 2011

Il massacro commesso il 22 Luglio in Norvegia si è sviluppato in un contesto verso il quale merita la pena prestare attenzione. Ci sono stati due attentati, uno contro la sede del governo e un altro nell’isola di Utoya, con una differenza di due ore tra i due.

Nell’isola di Utoya si celebrava un campo-riunione della Lega Giovanile dei Lavoratori del Partito Laburista (Arbeidaranes Ungdomsfylking, AUF secondo le sue sigle norvegesi) il cui rappresentante, Eskil Pedersen, è uno dei difensori più importanti del boicottaggio di Israele in Europa, e con posizioni di grande importanza.

Boicottare Israele

L’implicazione della Norvegia nel boicottaggio di Israele è fondamentale. Il boicottaggio universitario venne guidato da una delle istituzioni accademiche più importanti della Norvegia, l’Università di Bergen, che ha l’intenzione di imporre un boicottaggio accademico contro Israele per un comportamento che qualifica simile a quello dell’apartheid (YNET, 24 gennaio 2010); la accompagnò il rettorato dell’Università di Trondheim, dove venne si discusse e votò se unirsi o meno al boicottaggio accademico contro Israele.

Soltanto alcuni mesi fa, in aprile, questo boicottaggio universitario diede i suoi frutti e lo stesso Alan M. Dershowitz si trovava in Norvegia e si offrì di impartire conferenze su Israele nelle tre università più importanti, sebbene tutte rifiutarono la sua offerta, nonostante fossero stati invece invitati lì Ilan Pappé o Stephen Walt.

Il reclamo di Desrhowitz contro il «boicottaggio della Norvegia degli oratori pro-israeliani» si può trovare nel seguente collegamento: http://soysionista.blogspot. com/2011/04/el-boicot-de- noruega-los-oradores-pro.html.

Il Ministro degli Affari Esteri del Norvegia, Jonas Gahr Støre, disse quanto segue il giorno precedente il massacro: “L’occupazione deve terminare, il muro deve essere demolito e bisogna pretenderlo ora»… e lo fece nello stesso campo dove è avvenuta la strage (fonte: http://tinyurl.com/3zhsj4w).

Nella foto: La AUF chiede di boicottare Israele. Jonas Gahr Store, Ministro degli Affari Esteri della Norvegia, è stato ricevuto giovedì nel campo estivo della AUF che si teneva a Utoya, dove ha affermato che la Norvegia vuole riconoscere lo Stato palestinese.

Mercoledì scorso Eskil Pedersen ha affermato che la Lega Giovanile dei Lavoratori (AUF) vuole che la Norvegia imponga un embargo economico unilaterale a Israele.

La Lega Giovanile dei Lavoratori avrà una politica più attiva nel Vicino Oriente e dobbiamo riconoscere la Palestina. ‘Il denaro solo è denaro”, ora dobbiamo spingere il processo di pace verso un’altra strada”, ha dichiarato Pedersen.

Le azioni di BDS (boicottaggio, disinvestimenti e sanzioni) sono state appoggiate nel gennaio del 2006 dal Ministro dell’Economia (http://www.elreloj.com/ article.php?id=16385) e sono state rese effettive nel ritiro di investimenti. Concretamente, il 23 di agosto del 2010 la Norvegia comunicò che il Fondo Petrolifero Norvegese (Norway Oil Fund) ritirava i suoi investimenti dalla compagnia costruttrice internazionale Danya Cebus, che appartiene al fondo di investimenti Africa-Israele.

Nelle parole del Ministro dell’Economia: “Il Consiglio di Etica enfatizza che la costruzione di colonie nei territori occupati costituisce una violazione della Convenzione di Ginevra relativa alla Protezione di Civili in Tempo di Guerra”.

Varie risoluzioni del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite e pareri del Tribunale Internazionale di Giustizia hanno concluso che la costruzione di insediamenti israeliani nei territori occupati palestinesi è proibita da questa Convenzione”, affermò il Ministro dell’Economia Sigbjoern Johnsen in una dichiarazione». (http://www.nocturnar.com/ forum/economia/427216-fondo- noruego-retira-inversiones-de- companias-israelies.html)

Il ritiro di investimenti è inoltre stato esteso al commercio di armi, e nel settembre del 2009 venne cancellato l’investimento nell’Elbit, impresa di armamenti israeliana (http://www.haaretz.com/news/israel-summons-norway-envoy-to-protest-divestment-from-arms-firm-1.8535).

E non solo è stata vietata la vendita di armi a Israele, ma nel giugno del 2010 il Ministro dell’Educazione norvegese fece un invito internazionale affinché questa posizione di boicottaggio delle imprese di armamenti israeliane fosse condivisa dal resto della comunità internazionale (http://www.swedishwire.com/ nordic/4809-norway-calls-for- boycott-on-arms-to-israel), di fronte all’assassinio da parte di Israele di nove attivisti turchi nell’attacco alla Flottiglia.

Il boicottaggio norvegese è appoggiato massicciamente dalla popolazione e, secondo fonti israeliane, nell’anno 2010 il 40% dei norvegesi dichiarava di non acquistare prodotti israeliani (http://www.ynetnews.com/ articles/0.7340.L-3898052.00. html).

Appoggio al popolo palestinese

Se la Norvegia si è messa in evidenza nel boicottaggio di Israele, lo ha fatto anche nel dichiarare e riconoscere lo Stato palestinese. Il 19 Luglio scorso il presidente dell’Autorità Palestinese Mahmud Abbas ha visitato la Norvegia e il Ministro degli Affari Esteri norvegese, Jonas Gahr Støre, ha dichiarato al notiziario di TV2 che la Norvegia è disposta a riconoscere lo Stato palestinese.

Queste parole sono le stesse che ha poi ripetuto durante il discorso di Utoya: “Siamo disposti a riconoscere lo Stato palestinese. Sono in attesa del testo concreto della risoluzione che i palestinesi presenteranno davanti all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite nel mese di Settembre” (fonte: http://english.ruvr.ru/2011/ 07/19/53408557.html).

In autunno si attende che il presidente palestinese Mahmud Abbas esponga la questione davanti alle Nazioni Unite, dove chiederà l’ingresso nell’organizzazione ed il riconoscimento dello Stato palestinese secondo le frontiere precedenti la guerra del 1967 e con capitale a Gerusalemme Est. Né gli Stati Uniti né l’Europa hanno appoggiato la creazione di uno Stato palestinese indipendente.

L’ex Ministro degli Affari Esteri, Kare Willoch, ha inoltre ricevuto recentemente un passaporto palestinese ed ha espresso il suo appoggio ai palestinesi ed alla loro situazione: “Mi sono reso conto dell’ingiustizia particolarmente grave alla quale è sottoposto il popolo palestinese e che realmente tutto il mondo occidentale ha responsabilità in ciò” (fonte: http://theforeigner.no/pages/ news/abbas-to-meet-norwegian- foreign-minister/).

Reazioni di Israele

Israele non ignora queste azioni. Di fatto, il 15 di Novembre del 2010 la stampa israeliana pubblicò che la “Norvegia incita all’odio contro di noi” (fonte: ynetnews.com), dando luogo ad un grave conflitto diplomatico. Israele accusò il governo norvegese di finanziare e fomentare l’istigazione spudorata contro Israele.

In questo caso la protesta era per il finanziamento e la partecipazione della Norvegia nella diffusione di opere che informavano sulla sofferenza infantile a Gaza. Questo era il testo completo della notizia:

Secondo le informazioni ricevute dal Ministero degli Affari Esteri a Gerusalemme, il municipio di Trondheim finanzia un viaggio a New York per gli studenti che partecipano nell’opera “Monologhi di Gaza” ‘che tratta della sofferenza dei bambini di Gaza come conseguenza dell’occupazione israeliana’”.

L’opera, scritta da un palestinese di Gaza, sarà presentata nella sede delle Nazioni Unite. L’iniziativa si aggiunge ad una esposizione di un artista norvegese esibita a Damasco, Beirut e Amman con la collaborazione delle ambasciate della Norvegia in Siria, Libano e Giordania.

L’esposizione mostra bambini palestinesi morti insieme a caschi dell’Esercito di Israele che ricordano i caschi dei soldati nazisti e una bandiera israeliana intrisa di sangue.

I norvegesi inoltre hanno contribuito a distribuire nei festival del cinema di tutto il mondo un documento intitolato “Tears of Gaza” («Lacrime di Gaza»). Secondo il Ministero degli Affari Esteri [israeliano], la pellicola tratta della sofferenza dei bambini di Gaza senza menzionare Hamas, i razzi sparati su Israele e il diritto di quest’ultimo a difendersi.

Nella pellicola appaiono abitanti di Gaza cantando Itbah al-Yahud, ma la traduzione norvegese dice “uccidere agli israeliani” invece di “uccidere i giudei”.

E’ inoltre stato pubblicato recentemente un libro scritto da due medici norvegesi che furono gli unici stranieri a Gaza a concedere interviste durante l’Operazione Piombo Fuso. Il libro, che accusa i soldati dell’Esercito di Israele di uccidere deliberatamente a donne e bambini, è un successo di vendite in Norvegia ed è stato calorosamente raccomandato niente di meno che dal ministro norvegese degli Affari Esteri Jonas Gahr Støre.

L’ambasciata israeliana in Norvegia ha protestato energicamente contro l’implicazione delle autorità nella demonizzazione di Israele. “La politica ufficiale e manifesta della Norvegia parla di comprensione e riconciliazione – ha detto domenica notte un’autorità israeliana – ma dalla guerra di Gaza, la Norvegia è diventata una superpotenza per quel che concerne l’esportare materiale multimediale orientate a delegittimare Israele mentre utilizza il denaro dei contribuenti norvegesi a produrre e diffondere questo materiale”.

Daniel Avalon, vice-ministro degli Affari Esteri, ha dichiarato in una riunione con membri del parlamento norvegese che “questo tipo di attività allontana le possibilità di riconciliazione e favorisce una radicalizzazione della posizione palestinese che gli impedisce di negoziare”.

I norvegesi hanno risposto alle critiche israeliane dicendo che il governo appoggia la libertà di espressione e che non interverrà per alterare il contenuto di opere d’arte. (Fonte: http://www.ynetnews.com/ articles/0,7340,L-3984621,00. html ).

La stampa israeliana ha pubblicato più articoli evidenziando che le relazioni tra i due Stati non vivono il loro migliore momento. C’è da aggiungere che la Norvegia ha sempre mantenuto colloqui con Hamas dalla fondazione di un governo di unità nel 2007, distanziandosi così dalla posizione statunitense ed europea (http://www.norway.org.ps/ News_and_events/Press_Release/ Facts_about_Norway%E2%80%99s_ position_with_regard_to_Hamas/ ) e molestando profondamente Israele, come c’era da attendersi (http://news.bbc.co.uk/2/hi/ 6470669.stm).

Le cattive relazioni hanno raggiunto un apice con le dichiarazioni dello stesso Presidente di Israele, Shimon Peres, che nel maggio del 2011 ha affermato che dialogare con Hamas equivale ad appoggiare questa “organizzazione terrorista”, al quale Jonas Gahr Støre -Ministro degli Affari Esteri norvegese- rispose: “condanniamo le organizzazioni che sono implicate nel terrorismo, ma la Norvegia considera l’avere alcune liste nelle quali includere ad un’organizzazione per qualificarla come terrorista non serve ai nostri obiettivi” (http://www.newsinenglish.no/ 2011/05/06/peres-criticizes- norway-on-hamas/).

Curiosamente, il “terrorista” norvegese accusato di questo massacro, Anders Behring Breivik, è stato segnalato come titolare di un blog chiamato «Fjordman» ed i suoi messaggi appaiono da tempo con collegamenti in “Jihad Watch” e “Gates of Vienna” (http://www. wakeupfromyourslumber.com/ blog/joeblow/zionists-admit- breivik-fjordman-breivik- rightist-mass-murderer-atlas- shrugged-contribut).

Se fosse così, il blog di Fjordman mostra che Breivic è un estremista neocon che odia gli immigrati e specialmente i musulmani e, oltre ad essere pro-israeliano; cfr. il blog “perché la lotta di Israele è anche la nostra lotta” (http://vladtepesblog.com/?p= 21434).

Potrebbe essere che, alla fine, i tentacoli dello Stato di Israele non siano tanto lontani da questa strage; alla fine non sarebbe stata la prima che commette né, purtroppo, sarà l’ultima. La Lega Giovanile dei Lavoratori Norvegese (AUF), il Ministro degli Affari Esteri norvegese e il suo governo al completo hanno ricevuto un tremendo colpo.

Chi si è schierato nel rifiuto della politica genocida di Israele verso il popolo palestinese è ovviamente chi più soffre, precedentemente avvertiti da Israele del loro “grande coraggio”…qualcosa che nel linguaggio israeliano significa che ne pagheranno le conseguenze.

*María José Lera è professoressa presso l’Università di Siviglia e Ricardo García Pérez è traduttore.


Davanti al dramma di Oslo non abbiamo certo bisogno di editoriali violenti

di Massimo Ragnedda - http://notizie.tiscali.it - 26 Luglio 2011

Ancora non era certo il numero delle vittime, il sangue ancora caldo versava a terra, ancora molti ragazzi per sfuggire alla furia omicida erano nascosti e molti corpi dovevano ancora essere recuperati.

Dicevo, ancora niente era chiaro, erano passate solo poche ore e nessuna rivendicazione era arrivata, eppure Il Giornale titolava in prima pagina “Sono sempre loro. Ci attaccano”.

Loro sono gli islamici. Il “Ci” sta per noi, vittime inermi di una guerra che i fanatici islamici stanno portando avanti contro l’occidente e il mondo libero. Ci stanno attaccando.

Implicitamente diceva: dobbiamo difenderci da questa aggressione, dobbiamo far qualcosa. Una prima pagina sbagliata per almeno tre ragioni: sbagliata tecnicamente perché riporta una notizia falsa; una prima pagina sbagliata deontologicamente perché non assolve al compito del giornalista di spiegare e verificare le fonti; una prima pagina sbagliata perché incita all’odio e riproduce lo stereotipo dell’Islam come una religione dell’odio.

In quella prima pagina (in parte ritirata quando dopo solo poche ore si è capito cosa effettivamente era successo e dunque, a seconda delle zone di distribuzione, il Giornale si presentava con due prime pagine diverse) vi è un editoriale dell’onorevole Fiamma Nirenstein, colmo d’odio e disprezzo verso l’Islam.

Un editoriale (in parte anch’esso corretto nella nuova copertina, quando si era capito che non era stata la furia ceca del fondamentalismo islamico, ma di quello cristiano a compiere gli attentati) che esordisce dando per scontato che siano stati i fondamentalisti islamici a scatenare l’inferno nella pacifica Norvegia: “Non ha nessuna importanza se sia stato a causa delle vignette su Maometto riprese anche in Norvegia nel 2006 dal giornale danese che primo le pubblicò o a causa della presenza di un piccolo contingente in Afghanistan e uno ancora minore in Libia….”.

Non importano le ragioni, sostiene indignata l’onorevole Nirenstein, ciò che importa è che la guerra dell’Islamismo contro la nostra civiltà è feroce e aggressiva ed è diretta contro noi tutti. Poco più avanti aggiunge ancora: “Mentre da parte nostra diventa sempre più grande la difficoltà ad accettare che una vasta fetta della popolazione mondiale possa non volerci bene, e non per ragioni sociali o economiche ma per ragioni di ideologia, non per reazione a un nostro eventuale comportamento riprovevole ma per rifiuto del nostro stesso modo di esistere...”.

Parlare, in riferimento a quegli attentati, di guerra dell’Islamismo è da irresponsabili e significa gettare benzina sul fuoco; significa contribuire a creare quel clima d’odio che, nelle mente più feroci, può “culturalmente” giustificare azioni simili.

Breivik non ha agito in preda ad un raptus omicida, ma in base ad un pensiero razionale che ha portato avanti per anni e che ha messo nero su bianco su 1500 pagine (in buona parte frutto di citazioni).

Era lucidissimo mentre in maniera spietata giustiziava i ragazzini inermi. Portava avanti un chiaro progetto ideologico/politico: non si sente in colpa per ciò che ha fatto ma lo ritiene necessario, per quanto atroce.

Ripeto: era una lucida follia la sua. Breivik vuole essere un templare, un cavaliere e riconduce alla Bibbia il fondamento della sua azione criminale e parla del cristianesimo come identità culturale obbligatoria per tutti i paesi d’Europa.

A nessuno, però, nel mondo occidentale, leggendo le sue deliranti ragioni, verrebbe in mente di credere che Breivik sia un buon cristiano. Il cristianesimo è una religione dell’amore, ci ripetiamo continuamente.

Allo stesso modo e seguendo lo stesso ragionamento, a nessuno dovrebbe venire in mente di parlare di bin Laden come di un buon islamico, eppure i nostri giornali quasi ogni giorno lo fanno. Breivik sta al cristianesimo quanto bin Laden sta all’Islam.

Ovvero nulla. Oppure tutto, dipende dal punto di vista e da come lo si presenta. Se l'attentatore fosse stato islamico la religione sarebbe stato tutto, ma l'attentantore è cristiano e allora la religione non conta nulla.

Eppure la prima pagina del Giornale e le parole gonfie d’odio dell’onorevole Fiamma Nirenstein non sono né un bell’esempio di giornalismo, né di analisi o voglia di capire, ma un triste esempio di editoriale violento atto ad aizzare gli animi.

Il compito del giornalismo è quello di raccontare, provare a capire o magari fare qualche domanda e azzardare qualche previsione, ma non attaccare qualcuno pregiudizialmente identificato come il nemico.

È questo odio che genera mostri. È questo odio che fa da substrato culturale alla lucida follia di un esaltato che crede di combattere per una giusta causa.

Perché in fondo, questi editoriali violenti ci dicono, contro l’Islam il buonismo non paga. Così titolava Libero l’indomani della strage. E così avrà pensato Breivik.


Lezioni d'odio

di Nicola Sessa - Peacereporter - 25 Luglio 2011

È ora di badare molto bene a ciò che si dice, a ciò che si scrive, a ciò che si insegna

Anders Behring Breivik ha ricordato a tutto l'occidente evoluto e civile che si può fare una strage anche in nome del Dio dei cristiani, che il terrorismo non è ad appannaggio esclusivo dei seguaci di Allah.

Ecco, c'è una differenza: dato che Breivik è, in fondo, uno dei nostri si parla di strage (derubricando il fatto in "cronaca nera") e non di attentato, di pazzo squilibrato e non di terrorista. Bisogna essere chiari e tutti dovrebbero sapere che come nessun cristiano spirituale si riconosce nel terrorista fondamentalista Breivik, così nessun musulmano ha nulla a che vedere con i militanti dell'estremismo islamico.

È qualcosa da cui esula la religione, tramite di congiunzione tra differenti culture. Per scopi politici o trasversali, questa separazione concettuale viene sempre rinnegata dai seminatori di disprezzo cosicché anche sul terreno del terrorismo islam e occidentali pari non sono (ma c'è quasi da tirare un sospiro di sollievo perché, altrimenti, la logica vorrebbe che si invada il Vaticano!).

L'errore più grande che si possa commettere adesso, in queste ore, è quello di catalogare Breivik come "mostro", come "incidente". Il norvegese alto, biondo e cristiano fondamentalista fa parte della nostra società, è un prodotto di una crociata culturale guidata da cattivi maestri.

Il testo che il killer di Utoya ha scritto per preparare l'ultima crociata contro l'islam e gli spalleggiatori "marxisti propugnatori di una società multiculturale" è intriso di riferimenti a scrittori, politici e giornalisti che spargono odio.

Ciò che preoccupa è che alcune teorie trovino sponda in partiti politici di estrema destra che affondano le radici nel populismo e nella xenofobia raccogliendo maggiori consensi non solo nel nord Europa, ma anche in Francia, Germania, Austria, Ungheria, Polonia e Italia.

È questo emisfero politico a concorrere con i moderati, che - vedi David Cameron nel Regno Unito e Angela Merkel in Germania - devono competere sullo stesso terreno per tenersi stretti il proprio bacino elettorale e quindi dichiarano morta, respingendola, la società multiculturale.

Non si possono dimenticare le parole usate da Oriana Fallaci nei suoi ultimi scritti in cui si additavano i musulmani, l'altra metà del mondo, come un branco di barbari incivili che hanno nel mirino l'occidente, "casa nostra".

Dovremmo ricordarci però, per quante volte siamo andati e da quanto tempo abbiamo messo radici a casa dei barbari incivili, a uccidere, saccheggiare le loro risorse, a violentarne la cultura.

Oggi, a usare le parole pericolosissime della Fallaci c'è una moltitudine di presunti eredi italiani che in nome di Dio o di Jahvè dispensano lezioni d'odio.

Fiamma Nirenstein, deve essersi fregata le mani quando ha scritto il suo editoriale "Oslo in guerra?": "la guerra dell'islamismo contro la nostra civiltà, se verrà confermata l'ipotesi che nel corso della giornata è divenuta sempre più robusta, è feroce ed aggressiva", scriveva poche ore dopo l'attentato. Ci sarà rimasta male quando si è scoperto che l'autore dell'attentato non era un barbaro.

E ci sarà rimasto male, anche di più, il direttore de Il Giornale (per il quale le Nirenstein aveva preparato l'editoriale) che, stando alle rivelazioni del sito web Linkiesta, ha dovuto cambiare il titolo d'apertura all'ultimo momento, passando da un liberatorio "SONO SEMPRE LORO, CI ATTACCANO", a un meno accattivante "Strage in Norvegia".

Ci saranno rimasti male anche gli altri cattivi maestri: Maurizio Belpietro, Giuliano Ferrara e il columnist Magdi Cristiano Allam che - alla pari di Breivik nel suo documento - dalle colonne de Il Giornale, ha più volte attaccato il Vaticano e il cardinale di Milano Tettamanzi per essere troppo aperti nei confronti dell'Islam.

Lo stesso Allam, il giorno di Pasqua (e in piena campagna elettorale per il comune di Milano) lanciava l'allarme dell'invasione musulmana a Milano (che avrebbero sfondato ogni resistenza con il candidato Pisapia a Palazzo Marino): "La voce del muez­zin, in lingua araba, rimbomba da un altoparlante collocato su una torre di metallo eretto a minareto nella moschea di Cascina Gobba al civico 366 di via Padova alle ore 13.09 di venerdì scorso 22 aprile 2011".

Molti dettagli precisi, al minuto, ma peccato che il minareto in via Padova, 366 non esiste; che la torre cerchiata nella foto di corredo all'articolo sul cartaceo non è altro che un ripetitore della compagnia telefonica Wind; che nonostante il pubblico invito dell'avvocato Luca Bauccio - che tutela gli interessi e l'immagine della comunità islamica di Cascina Gobba - Allam non abbia dato spiegazioni.

Il prodotto di certe parole spericolate è rinvenibile nei commenti inviati dai lettori che incitano alla guerra santa e all'abbattimento di tutti i luoghi di culto musulmani.

Ad aprile (il reportage quartieri d'Europa è sul numero di luglio), E-il mensile ha viaggiato in Europa per verificare lo stato di salute della società multiculturale. Se c'è qualcuno che vuole distruggere la difficile arte della convivenza, quel qualcuno è il nostro sistema politico che ha deciso di costruire cento barriere.

È ora di badare molto bene a ciò che si dice, a ciò che si scrive, a ciò che si insegna. Anders Behring Breivik non è un pazzo, né un caso isolato. È solo un ottimo allievo di tanti cattivi maestri. Inserisci link


Breivik, l'attentatore di Oslo. Un'ideologia identitaria ma non fondamentalista

di Massimo Introvigne - www.cesnur.org - 24 Luglio 2011

L’orribile tragedia di Oslo chiede anzitutto rispetto e preghiera per le vittime, quindi una riflessione sulle misure di vigilanza che anche società, come quelle scandinave, che tengono al loro carattere «aperto», oggi non possono mancare di adottare a fronte delle numerose e molteplici forme di terrorismo.

Tra queste misure, però, non ci può e non ci dev’essere una stigmatizzazione dei «fondamentalisti cristiani», dipinti come criminali e potenziali terroristi.

È veramente sfortunato che la polizia norvegese, subito ripresa dai media di tutto il mondo, abbia inizialmente presentato l’attentatore, Anders Behring Breivik, come un cristiano fondamentalista, e che in Italia alcuni media lo abbiano definito perfino – falsamente – un cattolico.

L’incidente mostra semplicemente come oggi «fondamentalista» sia una parola usata in modo generico e impreciso per indicare chiunque abbia idee estremiste o genericamente «di destra», e un riferimento, anche se vago, al cristianesimo.

Ne nasce facilmente il fenomeno sociale della «colpevolezza per associazione», per cui qualunque cristiano che sia, per esempio, contro l’aborto o il riconoscimento delle unioni omosessuali diventa un fondamentalista e, dal momento che l’attentato di Oslo è stato attribuito a un adepto del fondamentalismo, anche un potenziale terrorista.

Proprio pochi giorni prima dell’attentato di Oslo l’Osservatorio sull’Intolleranza e la Discriminazione contro i Cristiani di Vienna aveva inviato ai responsabili del progetto RELIGARE, un’indagine sull’Europa multireligiosa finanziata dalla Commissione Europea, un corposo memorandum sui pericoli di un uso del termine «fondamentalismo» che diventa strumento di discriminazione anticristiana.

L’espressione «cristiano fondamentalista», beninteso, ha un significato preciso. Risale alla pubblicazione negli Stati Uniti tra il 1910 e il 1915degli opuscoli The Fundamentals, una critica militante delle teologie protestanti liberali, del metodo storico-critico nell’interpretazione della Bibbia e dell’evoluzionismo biologico.

Un fondamentalista è un protestante – di solito, tra l’altro, molto anti-cattolico – che insiste sull’interpretazione letterale e tradizionale della Bibbia, rifiutando qualunque approccio ermeneutico che tenga conto delle scienze umane moderne, e da questa interpretazione deduce principi teologici e morali ultra-conservatori.

Anders Behring Breivik non è un fondamentalista. Possiamo sapere parecchie cose delle sue idee dal suo profilo su Facebook – cancellato, ma non prima che qualcuno lo avesse salvato e messo online –, da oltre sessanta pagine d’interventi sul sito anti-islamico norvegese document.no, disponibili anche in lingua inglese e soprattutto dal suo libro di 1.500 pagine 2083 – Una dichiarazione d’indipendenza europea, firmato «Andrew Berwick», mandato a una serie di amici e di giornali il 22 luglio, a poche ore dalla strage, e postato su Internet il 23 luglio da Kevin Slaughter, un ministro ordinato nella Chiesa di Satana fondata in California da Anton Szandor LaVey (1930-1997), che ha oggi nel mondo il numero maggiore di adepti in Scandinavia.

Già dalla sua pagina di Facebook, emerge come un interesse principale di Breivik sia costituito dalla massoneria. Chi visitava il profilo di Breivik su Facebook era colpito da una fotografia che lo rappresenta con tanto di grembiulino massonico come un membro di una loggia di San Giovanni, cioè di una delle logge che amministrano i primi tre gradi nell’Ordine Norvegese dei Massoni, la massoneria regolare della Norvegia. Breivik fa parte della Søilene, una delle logge di San Giovanni di Oslo di questo Ordine, che naturalmente non ha di per sé niente a che fare con l’attentato.

Queste logge praticano il cosiddetto rito svedese, che richiede ai membri la fede cristiana. Ma nessun fondamentalista protestante diffonderebbe sue fotografie in tenuta massonica: il fondamentalismo, al contrario, è fortemente ostile alla massoneria.

Né si tratta di un interesse del passato: la fotografia è stata postata nel 2011 e ancora nel 2009 su document.no Breivik proponeva una raccolta di fondi «nella mia loggia».

Aggiungiamo che anche la passione di Breivik per il gioco di ruolo online World of Warcraft e per una serie televisiva di vampiri piuttosto scollacciata, Blood Ties, nonché la dichiarata amicizia per il gestore del principale sito pornografico norvegese, «nonostante la sua morale sfilacciata» – per non parlare del fatto che uno dei destinatari del suo memoriale è un satanista –, sono tutti tratti che sarebbero assurdi per un cristiano fondamentalista.

I toni ricordano semmai Pim Fortuyn (1948-2002), l’uomo politico omosessuale olandese fondatore di un movimento populista anti-islamico.

Se una parte del libro apprezza la famiglia tradizionale, altrove Breivik dichiara di considerare ammissibile l’aborto – sia pure in un numero limitato di casi – e rivela anche di «avere messo da parte duemila euro che intendo spendere per una escort di alta qualità, una vera modella, una settimana prima dell’esecuzione della mia missione [terroristica]».

I testi – che rivelano ampie anche se disordinate letture – non appaiono quelli di un semplice folle, anche se ci sono tratti di megalomania e contraddizioni evidenti. L’interesse principale di Breivik non è la religione, ma la lotta all’islam che rischia, a suo dire, di sommergere l’Europa – e tanto più un Paese piccolo come la Norvegia – con l’immigrazione.

Queste idee non sono, naturalmente, particolarmente originali – e alcuni degli autori che Breivik cita, e di cui propone nel libro 2083 una sorta di lunga antologia, sono del tutto rispettabili –, ma la tesi è declinata con toni che talora diventano razzisti e paranoici.

Lo scopo primo di Breivik è fermare l’islam – di qui la sua avversione per il governo norvegese, percepito come favorevole a un’indiscriminata immigrazione islamica –, e per questo cerca alleati dovunque.

Racconta di avere scelto volontariamente di essere battezzato e cresimato nella Chiesa Luterana norvegese a quindici anni – la famiglia, ricca e agnostica, gli aveva lasciato libera scelta – ma di essersi convinto che le comunità protestanti sono ormai morte e hanno ceduto alle ideologie multiculturaliste e filo-islamiche.

In un primo momento, scrive, i protestanti dovrebbero confluire nella Chiesa Cattolica. Ma anche la Chiesa Cattolica si è ormai venduta all’islam quando l’attuale Pontefice ha deciso di continuare il dialogo interreligioso con i musulmani.

Breivik minaccia Benedetto XVI, scrivendo che «ha abbandonato il cristianesimo e i cristiani europei e dev’essere considerato un Papa codardo, incompetente, corrotto e illegittimo».

Una volta eliminati i protestanti e il Papa, potrà essere organizzato un «Grande Congresso Cristiano Europeo» da cui nascerà una «Chiesa Europea» completamente nuova, identitaria e anti-islamica.

Se Breivik ha un nemico, l’islam, ha anche un amico – immaginario, perché non sembra ci siano stati grandi contatti diretti –: il mondo ebraico, che considera il più sicuro baluardo anti-musulmano.

Il terrorista mostra un vero culto per lo Stato d’Israele e per le sue forze militari, cui corrisponde una viva avversione per il nazismo.

«Se c’è una figura che odio – scrive – è Adolf Hitler [1889-1945»: e fantastica di viaggi nel tempo per andare nel passato e ucciderlo. È vero che s’iscrive a un forum Internet di neo-nazisti, ma lo fa per cercare di convincerli che, se alcune idee del führer sul primato etnico degli occidentali erano giuste, l’errore clamoroso è stato non capire che gli occidentali più puri e nobili sono gli ebrei, e che se avesse voluto sterminare qualcuno il nazismo avrebbe dovuto piuttosto andare a prendere i musulmani nel Medio Oriente.

Un riferimento frequente è del resto all’inglese English Defence League – con cui sembra ci siano stati anche contatti diretti –, un movimento anti-islamico «di strada» che è regolarmente accusato di essere razzista e altrettanto regolarmente contesta questa accusa e critica il neo-nazismo.

Breivik scrive che il multiculturalismo è una forma di razzismo e che «non si può combattere il razzismo con il razzismo».

Il nazismo, il comunismo e l’islam sono per Breivik tre volti della stessa dottrina anti-occidentale, e tutti e tre andrebbero messi fuorilegge. Ma l’enfasi è sempre sulla lotta all’islam.

Chiunque sia nemico, attuale o potenziale, dei musulmani diventa un possibile alleato: così gli atei militanti, piuttosto diffusi in Norvegia, che Breivik invita a combattere l’islam e non solo il cristianesimo; così gli omosessuali, cui fa presente che in un mondo dominato dai musulmani saranno perseguitati.

Non è sorprendente neppure il contatto con la Chiesa di Satana, che predica una forma di satanismo «razionalista» che inneggia al predominio dei forti sui deboli e alle virtù del capitalismo selvaggio secondo le teorie della scrittrice americana Ayn Rand (1905-1982), citata spesso anche dal terrorista, e che in Scandinavia se la prende volentieri con gli immigrati.

Perfino i rom, secondo Breivik, sarebbero stati resi schiavi in India e ridotti alla loro attuale misera condizione non da popolazioni indù – come insegna la storiografia maggioritaria – ma da musulmani.

Pertanto – un altro tratto che lo distingue da molta estrema destra europea – Breivik si mostra piuttosto favorevole ai rom, li incita a combattere l’islam e promette loro nella sua nuova Europa perfino uno Stato libero e indipendente.

Un tono «religioso» si può ritrovare semmai nelle sue ferventi difese degli ebrei e dello Stato d’Israele. Questo è un tema che emerge anche in qualche gruppo protestante fondamentalista – sulla base dell’idea che Israele sia uno Stato voluto da Dio in vista della fine del mondo – ma gli accenti di Breivik sono diversi.

Anche se mancano riferimenti diretti, ricordano irresistibilmente l’ideologia anglo-israelita, nata nel secolo XIX in Gran Bretagna e molto diffusa in Scandinavia, specie negli ambienti massonici, secondo cui gli abitanti del Nord Europa sono anche loro «ebrei», discendenti delle tribù perdute d’Israle: il nome «danesi», per esempio, indicherebbe la tribù di Dan.

Il movimento anglo-israelita si è scisso nel secolo XX in due tronconi. Quello maggioritario, talora violento e responsabile di attentati negli Stati Uniti, sostiene che gli europei del Nord sono oggi i soli «ebrei» autentici.

Quelli che si fanno chiamare ebrei, in Israele e altrove, non sono tali etnicamente, giacché sarebbero in maggioranza khazari, membri di una tribù centro-asiatica convertita all’ebraismo nei secoli VIII e IX. Di qui un’avversione del «movimento dell’identità» di origini anglo-israelite contro Israele e i suoi legami con gruppi antisemiti e neo-nazisti.

Ma – se questo filone dell’anglo-israelismo domina negli Stati Uniti – nel Nord Europa è ancora presente un filone più antico, per cui gli ebrei così come oggi li conosciamo sono veri eredi della tribù di Giuda, in attesa di ricongiungersi con i fratelli anglosassoni e scandinavi delle tribù perdute.

Chi mantiene questa visione considera dunque i nord-europei fratelli degli ebrei e, ben lungi dall’essere antisemita, difende in modo molto acceso l’ebraismo e lo Stato d’Israele.

Secondo il suo libro, il terrorista nel 2002 avrebbe fondato con altri a Londra un ordine neo-templare che si affianca ai tanti che già esistono, i Poveri Commilitoni di Cristo del Tempio di Salomone (PCCTS), ispirato non solo ai templari cattolici del Medioevo ma soprattutto ai gradi templari della massoneria – un’organizzazione di cui Breivik cui loda il «ruolo essenziale nella società», pur considerandola incapace di passare alla necessaria azione militare – e aperto a «cristiani, cristiani agnostici e atei cristiani», cioè a tutti coloro che riconoscono l’importanza delle radici culturali cristiane, «ma anche di quelle ebraiche e illuministe» nonché «nordiche e pagane», per opporsi ai veri nemici che sono l’islam e l’immigrazione.

Tra questi riferimenti eclettici, il cristianesimo non è dominante. Cita moltissimi autori, ma il suo padre spirituale è l’anonimo blogger norvegese anti-islamico «Fjordman», che nel 2005 aveva un milione di lettori ma che chiuse il suo blog senza essere mai identificato.

Breivik ripubblica un suo scritto secondo cui dopo il Medioevo il cristianesimo – i cui unici aspetti positivi erano di origine pagana – è diventato per l’Europa «una minaccia peggiore del marxismo».

I «giustizieri templari» di Breivik dovrebbero operare in tre fasi di «guerra civile europea». Nella prima (1999-2030) dovrebbero risvegliare la coscienza addormentata degli europei mediante «attacchi shock di cellule clandestine», scatenando «gruppi di individui che usano il terrore»: gruppi piccoli, anche di una o due persone.

Nella seconda (2030-2070) si dovrebbe passare alla guerriglia armata e ai colpi di Stato.

Nella terza (2070-2083), alla vera guerra contro gli immigrati musulmani. Breivik è consapevole che gli attacchi della prima fase trasformeranno coloro che li compiranno in terroristi odiati da tutti: ma questa è la forma di «martirio templare» cui si dice disposto.

Obiettivi degli «attacchi shock» sono i partiti politici: i laburisti norvegesi anzitutto, ma sono segnalati anche quattro partiti italiani (PDL, PD, IDV, UDC) che boicotterebbero in modo diverso la guerra all’islam e all’immigrazione.

In Italia ci sarebbero sessantamila «traditori» da colpire, anche attraverso attacchi alle raffinerie per sconvolgere l’assetto energetico italiano. Sedici raffinerie italiane, da Trecate (Novara) a Milazzo, sono indicate come obiettivi strategici. Anche su Papa Benedetto XVI ci sono frasi minacciose.

Sempre secondo il libro 2083, il numero di potenziali simpatizzanti italiani sarebbe pure di sessantamila: ma questi non si troverebbero né nella Lega né ne La Destra, che Breivik ha esaminato ritenendo le loro critiche anti-immigrazione troppo timide e dunque alla fine «controproducenti».

Poiché ne sono uno dei Rappresentanti, mi inquieta anche la riproduzione di un articolo che indica l’OSCE (Organizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa) come un organismo internazionale particolarmente filo-islamico e pericoloso.

La domanda forse più importante è se quando Breivik riferisce che il suo ordine di giustizieri templari conta membri in vari Paesi europei ed è in contatto con quelli che il mondo chiama «criminali di guerra» serbi seguaci di Radovan Karadzic, che per lui invece sono eroi che hanno cercato di liberare i Balcani dall’islam, sta scrivendo un romanzo nello stile dello svedese Stieg Larsson (1954-2004) o descrivendo una realtà.

Altri particolari autobiografici del libro che sembravano improbabili – la presenza nella sua famiglia di diplomatici, la frequentazione da ragazzo di scuole di élite – sono stati confermati dalla polizia norvegese.

La stessa polizia dovrà verificare se la nascita dell’ordine neo-templare, i contatti con i criminali di guerra serbi e un viaggio in Liberia per farsi addestrare da uno di loro, «uno dei più grandi eroi europei», prima di fondare l’ordine con otto compagni a Londra nel 2002 sono frammenti dell’immaginazione di Breivik o episodi realmente accaduti.

Quello che è certo è che un buon terzo del suo libro – un vero e proprio manuale del terrorista, corredato da un diario sulla preparazione dell’attentato – rivela dettagliate conoscenze in materia di armi, esplosivi, la nuova tecnica terroristica chiamata «open source warfare», che può essere messa in opera anche da gruppi piccolissimi, e l’abbigliamento antiproiettile – calzini compresi, dettaglio spesso trascurato e cui Breivik dedica parecchie pagine – difficili da ottenere, anche se Internet fa miracoli, da parte di qualcuno che non ha fatto neppure il servizio militare.

Breivik scrive sempre in tono paranoico. Ma – se vogliamo, come si dice, trovare un metodo nella sua follia – dobbiamo cercarne il filo conduttore principale in un populismo anti-islamico che finora aveva conosciuto raramente forme violente, e uno secondario in una solidarietà pressoché mistica fra l’identità nordica e quella ebraica e israeliana, che ha le sue radici in antiche teorie esoteriche e massoniche di cui Breivik è un cultore.

L’unica cosa certa è che il cristianesimo – «fondamentalista» o no – c’entra ben poco, se non come uno fra i tanti improbabili alleati che il terrorista immaginava di reclutare per la sua battaglia violenta contro l’immigrazione islamica.