sabato 29 marzo 2008

La resa dei conti

Quella che si sta combattendo negli ultimi 5 giorni a Bassora, Baghdad, Kerbala, Nassiriya e Kut ha tutta l’aria di essere la resa dei conti finale tra le forze fedeli al governo di Al-Maliki, supportate dall’aviazione USA e GB, e l’Esercito del Mahdi di Moqtada al Sadr.

I combattimenti tra fazioni sciite, in particolare tra le milizie delle Badr Forces legate allo SCIRI (Consiglio Supremo della Rivoluzione Islamica) e i miliziani di Al Sadr, non sono certo una novità ed erano stati molto duri già nell’agosto scorso a Kerbala.
Ma questa volta l’impiego totale dell’esercito iracheno sotto il comando diretto del premier Al Maliki e i durissimi scontri in corso in tutto il centro e il sud del Paese lasciano supporre che si andrà avanti fino a quando una delle due parti non soccomberà in modo definitivo.

Finora sono centinaia i morti e i feriti, ma è naturalmente impossibile quantificarli con esattezza, vista anche la mancanza assoluta di giornalisti sul campo, tranne i soliti embedded al seguito delle truppe USA e i freelance rinchiusi nella Green Zone.

Oggi a Damasco si è riunito il vertice della Lega Araba, snobbato però dai leader di quei Paesi più succubi nei confronti degli USA, costretti infatti a inviare solo una delegazione di basso livello.
E proprio da questa città Moqtada al Sadr, in un'intervista ad Al Jazeera ha rivolto oggi un drammatico appello alla Lega Araba, all’Organizzazione della Conferenza Islamica e all’ONU, "Mi appello a costoro perché diano legittimità alla resistenza e stiano a fianco del popolo iracheno, e non contro, in quanto il popolo iracheno ha bisogno degli Arabi così come di chiunque altro. L’Iraq è ancora sotto occupazione e la popolarità degli Stati Uniti in Iraq si sta riducendo ogni giorno e ogni minuto. Attraverso Al Jazeera chiedo la partenza delle truppe occupanti dall’Iraq il prima possibile".

Cadrà nel vuoto questo appello? Rimarrà solo l’Iran a finanziare e armare le milizie di Al Sadr? Sta per arrivare finalmente il momento in cui le varie milizie, sciite e sunnite, si uniranno per combattere e cacciare una volta per tutte le truppe occupanti?

Le risposte non tarderanno ad arrivare…


venerdì 28 marzo 2008

Free Mumia!

Finalmente. Con la decisione di ieri della corte federale d’appello di Philadelphia che ha annullato la condanna a morte emessa nel 1982 per l’uccisione del poliziotto bianco Daniel Faulkner, si è rinvigorita la speranza di vedere Mumia Abu Jamal definitivamente fuori dal braccio della morte in cui è tenuto appunto da 26 anni.

Giornalista radiofonico e militante delle Black Panthers, Mumia è stato per anni un simbolo delle campagne internazionali contro la pena di morte. Chi lo ha sempre sostenuto è convinto che Mumia abbia subito un processo ingiusto e razzista.

Ora grazie a questa decisione l’accusa dovrà presentare nuovamente il proprio caso davanti a una giuria per chiedere ancora la pena di morte entro 180 giorni, altrimenti la pena verrà automaticamente commutata in ergastolo. Ed è molto probabile che lo stato della Penssylvania ricorrerà in appello.

La corte ha però respinto la richiesta di annullare la condanna per omicidio di primo grado presentata da Mumia, che aveva chiesto di avere un nuovo processo per poter provare la propria innocenza.

Comunque sia, un passo in avanti importante c’è stato mentre la strada per vederlo non solo fuori dal braccio della morte ma anche dal carcere è ancora lunga.

giovedì 27 marzo 2008

La “vecchio” gioventù del PD

Il PD per rafforzare l’immagine di novità e svecchiamento del panorama politico ha addirittura candidato come capolista alla Camera per il Lazio una ventisettenne, tale Marianna Madia.
Sconosciuta ai più per ovvi motivi, la “giovane” capolista sta recuperando terreno tra un’intervista e l’altra concessa a vari quotidiani nazionali.

Proveniente da una famiglia di celebri avvocati – lo zio vanta tra i propri clienti la famiglia Mastella – ha studiato a Roma allo Chateaubriand, scuola pubblica francese, si è laureata 4 anni fa in Scienze Politiche con 110 e lode e ora lavora presso l’Ufficio Studi dell'Arel, il think-tank democristiano fondato nel 1976 da Beniamino Andreatta e di cui è ora Presidente Francesco Merloni e Segretario Generale Enrico Letta.

La “ragazza” vanta anche frequentazioni importanti, come Cossiga – con cui condivide il fisioterapista - e il Presidente Napolitano, con il cui figlio ha avuto una relazione amorosa.

Insomma, è il prototipo della comune ventisettenne italiana…

Ma a prescindere da ciò, su cui si può sorvolare tranquillamente, sono alcune sue pubbliche dichiarazioni che lasciano esterrefatti e fanno accapponare la pelle.
Dopo aver esordito tempo fa con “Porterò la mia inesperienza in Parlamento” presentandosi come “candidata della generazione Erasmus”, l’intervista rilasciata oggi a Il Foglio avrà fatto rizzare i capelli a tutte le donne ex militanti del PCI che fu e comunque a tutte le donne che si definiscono “di sinistra” e si riconoscono oggi nell’attuale PD. Ma immagino che anche alla Bonino non sarà mancato un colpo allo stomaco, mentre la Binetti invece starà gongolando…

Ecco alcune perle della “ragazza” prodotte nel corso di questa intervista “L’aborto è il fallimento della politica, un fallimento etico, economico, sociale e culturale… sono certa che se si offrisse loro il giusto sostegno, le donne sceglierebbero tutte per la vita… L’essere umano va tutelato prima di tutto… Serve una convergenza di ideali, solo in un dibattito aperto si può arrivare a condividere questa concezione per cui la vita è vita dall’inizio alla fine”.

Dice però di non riconoscersi nella moratoria proposta da Ferrara ma aggiunge “non perché non condivida le analisi di Giuliano Ferrara, anzi: mi pare che quello che dice su questo tema vada proprio verso quella ‘riumanizzazione della vita disumanizzata’ che ritengo necessaria oggi. La richiesta di moratoria però non mi sembra l’approccio giusto per affrontare un problema che comunque sento anch’io come decisivo oggi… Io sono cattolica praticante, e credo che la vita la dà e la toglie Dio, noi non abbiamo diritto di farlo. Certo è che anche per esperienza personale mi sono resa conto di quanto sia sottile la linea di demarcazione tra le cure a un malato terminale e l’accanimento terapeutico nei suoi confronti. Quindi dico no all’eutanasia ma penso che l’oltrepassamento di quella linea sottile vada giudicato – in certi casi – da un’équipe di medici; comunque non dal diretto interessato o dai suoi parenti”.

Dunque un bel no all’aborto e all’eutanasia come presupposto di un’idea di famiglia che per la “ragazza” deve essere “lo strumento che ci proietta verso il futuro”.

Da queste perle si passa poi a dichiarazioni più banali come “molte logiche di sviluppo della nostra società sono al capolinea, vanno ridefinite. Bisogna capire quali strumenti possano garantire una ‘crescita qualitativa’ duratura. Un paese che non fa figli non ha futuro. La famiglia è il presupposto per questa crescita. Ecco perché la politica deve permettere di fare e crescere una famiglia, meglio se numerosa. Le politiche sulla casa e di lotta al precariato devono essere pensate in quest’ottica”.

La “ragazza” concede qualcosa sulle unioni civili “La libertà personale va rispettata sempre, per cui se due persone decidono di assumere pubblicamente diritti e doveri reciproci devono essere tutelate dalla legge”, precisando subito però “Ma certo è che se si parla di famiglia io penso a un uomo e una donna che si sposano e fanno dei figli. Scegliendo per la vita”. Tanto per chiarire la questione…

Ma tra le ricette per sostenere le giovani coppie sposate “la rappresentante del nuovo che avanza” non propone alcuna novità e infatti scopiazza l’ex ministro Maroni “Tra le nostre proposte c’è quella del ‘bonus bebè’ di 2.500 euro per ogni figlio che nasce”.

Le “novità” poi straripano con “bisogna facilitare la conciliazione tra lavoro e famiglia: una donna deve poter lavorare non perché deve fare carriera, ma soprattutto per potere mantenere il figlio e far crescere la famiglia. Per questo serve maggiore flessibilità nel lavoro e meno precariato”.
Certamente….come direbbe il petomane di Ciprì & Maresco.

La “giovane” infine conclude “Occorre una cultura della vita che sia per davvero tutela della vita in tutte le sue fasi e condizioni. Dal concepimento fino alla morte naturale. Solo così nessuna donna, pur potendolo fare, sceglierà di non abortire. Bisogna riumanizzare la vita disumanizzata, e per farlo bisogna mettere l’individuo al centro”. Of course…soprattutto il riumanizzare la vita disumanizzata……direbbe sempre il personaggio di Ciprì & Maresco.

Questo esempio di “gerontogioventù” è il nuovo che avanza in Parlamento. Che Dio ce ne scampi.

mercoledì 26 marzo 2008

Moqtada al Sadr: luci e ombre

Pubblico qui di seguito un articolo che dipinge con efficacia il quadro cronologico delle vicende legate all’imam sciita Moqtada al Sadr, spuntato praticamente dal nulla subito dopo l’invasione USA in Iraq e che in poco tempo, grazie anche all’importante cognome che porta, si è guadagnato un grande sostegno popolare, in particolare tra gli iracheni più disagiati e senza futuro.

Luci e ombre contornano la sua figura di leader popolare, ma Al Sadr rimane sicuramente un protagonista - nel bene e nel male - di questi 5 anni di occupazione USA.
E lo sarà anche in futuro.


Vita, lotte e miracoli di Moqtada al Sadr il Masaniello di Najaf

di Paola Gasparoli – Osservatorio Iraq

18 giugno 2003, venerdì giorno di sermoni. Moqtada al Sadr sceglie la moschea di Najaf, città santa sciita, per presentarsi ufficialmente sul palcoscenico iracheno. Condanna l'occupazione, chiama "fantocci" i membri del Consiglio di Governo creato dall'allora governatore americano Lewis Paul Bremer III, annuncia la nascita della sua milizia: l'Esercito del Mahdi. In ottobre dalla sua moschea a Kufa annuncia la nascita di un governo ombra. Non se ne farà nulla ma fornirà l'occasione per il primo scontro, 13 ottobre a Kerbala, con le milizie sostenitrici del Grande Ayatollah Al Sistani, massima autorità dell'islam sciita, che a differenza di quello sunnita è organizzato gerarchicamente. Le ragioni non sono solo politiche: in palio il controllo dei luoghi santi sciiti e delle entrate finanziarie che ne derivano. Moqtada comincia così la sua ascesa attirando a sé giovani, disoccupati, sbandati, sciiti delusi dalla politica dei partiti religiosi entrati nel Consiglio di Governo, sciiti che non perdonano la promessa tradita degli Usa nella guerra del 1991 di sostenerli se si fossero sollevati contro Saddam. Il suo bacino principale è Thawra l'enorme quartiere proletario sciita subito ribattezzato Sadr City. Già alla fine del 2003 i suoi miliziani cominciano a dettare i comportamenti del "buon musulmano e della buona musulmana". A farne le spese, oltre le donne, sono i proprietari di negozi di alcolici, spesso curdi e cristiani; i parrucchieri da donna e quelli da uomo se fanno tagli alla occidentale; i negozi di musica e dvd.

Ma sono gli attacchi all'occupazione e l'appoggio alla resistenza armata che gli permettono di ingrossare le sue fila. L'aiuto più grande arriva dalla decisione statunitense di chiudere il suo giornale, arrestare un suo luogotenente accusandolo insieme allo stesso Sadr dell'assassinio del Grande Ayatollah Abd al-Majid al-Khoi avvenuto il 10 aprile 2003 davanti alla moschea di Najaf. Assassinio che ha creato un vuoto politico-religioso aprendo le porte alla divisione e alla lotta per il potere tra le componenti sciite irachene. La reazione è immediata. Sono migliaia i sostenitori vestiti di nero e fascetta verde alla fronte che riempiono le strade di Kut, Kerbala, Najaf. A Baghdad marciando da Sadr City raggiungono il centro dove vengono caricati, ricacciati nella loro roccaforte e attaccati dalle forze statunitensi per tre giorni. Siamo a marzo del 2004. Il 5 aprile le sue parole «terrorizzate il vostro nemico perché non possiamo rimanere in silenzio di fronte alle loro violazioni» passano di bocca in bocca. Sono i giorni del primo attacco a Falluja e il Mahdi combatte al fianco dei fratelli sunniti. Lo scontro diretto con le truppe statunitensi è solo rimandato. Il 5 agosto Moqtada invita a sollevarsi contro gli occupanti. Il campo di battaglia principale è Najaf orfana di Al Sistani a Londra per problemi di cuore. Tre settimane di battaglia condotta anche all'interno del cimitero uno dei luoghi più antichi e sacri per gli sciiti, dove ognuno di loro vorrebbe essere sepolto. La città vive giorni disperati. Sarà solo il rientro di Al Sistani a fermare i combattimenti costringendo Moqtada al tavolo della trattativa. Sadr comincerà la sua ambigua partita politica giostrandosi tra gli interessi di palazzo, la lotta per il controllo a Baghdad e nel sud ricco di petrolio e la sua base fortemente anti-americana e sempre più antisunnita grazie alla strategia statunitense di portare allo scontro interno gli iracheni e di rompere l'alleanza tra resistenza sunnita e sciita nella preparazione del secondo grande attacco di novembre a Falluja.

Il banco di prova saranno le elezioni del gennaio del 2005 che da una parte Moqtada rifiuterà e dall'altra riuscirà a far eleggere suoi rappresentanti al parlamento ottenendo tre ministeri. Intanto il Mahdi s'ingrossa: nel 2003 le voci parlavano di un migliaio di miliziani ora le stime parlano di 15-20mila uomini, ma le cifre in Iraq sono sempre un mistero. Il 2006 è l'anno dello scontro interno. L'attentato alla moschea sciita di Samarra scatena le violenze settarie e la battaglia per il controllo di Baghdad è senza limiti raggiungendo livelli di violenza e brutalità inimmaginabili. Il Mahdi sarà tra i protagonisti aggiungendosi alle operazioni degli squadroni della morte del ministero degli interni composte dalle Badr Forces, milizie del Consiglio Supremo della Rivoluzione Islamica (ora Consiglio Supremo Islamico Iracheno) partito sciita al governo con a capo Al Hakim. Tutti pagheranno un prezzo altissimo. Le zone miste verranno omogeneizzate. Interi quartieri cambieranno composizione. I sunniti perdono la battaglia per la capitale dalla quale fuggono in migliaia.Esecuzioni, torture, rapimenti, attacchi militari, esplosioni.

Le milizie di Moqtada non aspettavano altro e la sua zona di influenza si espanderà andando ben oltre Sadr City. Stessa tragedia in altre città del paese. Intanto giornalmente gli attentati mietono centinaia di vittime, così come aumentano quelli contro le forze multinazionali. La situazione diventa insostenibile e gli americani cambiano strategia: innalzano muri intorno ai quartieri considerati rifugio sicuro per miliziani, combattenti e terroristi; iniziano l'operazione surge (giugno 2007) dispiegando 30mila soldati più 20mila uomini dell'esercito iracheno; assoldano milizie sunnite con l'incarico di ripulire i quartieri dalla componente quedista; si accordano con leader tribali sunniti dando vita al Consiglio del Risveglio (Sahwa) e sembra tentino, senza successo, una "sahwa sciita" anti-Moqtada identificato come il peggiore dei mali. Gli spazi di manovra militare e politica diminuiscono e come spesso accade il momento di massima espansione corrisponde al più critico e pericoloso da gestire. Il Mahdi non è mai stato facile da controllare. Ripetuti gli episodi di disubbidienza e non rispetto degli ordini, capi militari sollevati dall'incarico se ne vanno con miliziani e armi dando vita a squadroni indipendenti.

Gli stessi sostenitori si lamentano di rapine, sfratti, ricatti, rapimenti, estorsioni, violenze, esecuzioni sommarie da parte di sedicenti sadristi che per la prima volta nella loro vita hanno potere e possibilità di forti guadagni. Iniziano scontri tra milizie sadriste, le divisioni interne si moltiplicano. La forza di Moqtada sta nell'appoggio popolare se lo perde si gioca il potere e il futuro politico che per i religiosi sciiti si basa sullo studio della religione all'interno di scuole riconosciute la più importante delle quali è l' Hawsa di Najaf. Nell'agosto del 2007 scoppiano violenti combattimenti nella città santa di Kerbala tra il Mahdi e le Badr Forces. Moqtada non aveva dato l'ordine, è imperativo riprendere il controllo e la decisione è presa: congelamento di tutte le attività dell'Esercito del Mahdy per sei mesi, scaduti e rinnovati il 22 febbraio scorso.

Non solo. Moqtada non reagisce all'arresto di suoi miliziani. Le aree sotto il suo controllo diminuiscono. Alcune sedi vengono perquisite. Ma nonostante le richieste della base l'ordine non cambia. Le mele marce le lascia volentieri alla repressione americana e irachena, sono coloro che non ubbidendo causano l'erosione del suo consenso che rimane comunque alto. In compenso chiede ed ottiene la liberazione di Hakim al-Zamili, uno dei suoi uomini di punta e del generale di brigata Hamed al-Shimari, ex capo della sicurezza del ministero della sanità, arrestati con l'accusa di abuso della loro posizione per facilitare esecuzioni settarie. Arriviamo così all'annuncio shock dell' 8 marzo: «Molti dei miei compagni più stretti hanno lasciato per ragioni terrene, alcuni di loro vogliono essere indipendenti», scrive Sadr in un comunicato diffuso a Najaf. «Questo non significa che non ci siano seguaci leali… Molti che ritenevamo fossero buoni seguaci non stanno ascoltando i loro leader religiosi… e sono coinvolti in conflitti politici… Giuro di vivere con voi e fra voi. Io sono parte di voi. Non cambierò, a meno che morte non ci separi... Il fatto che la presenza degli occupanti continui mi ha spinto ad assumere questo isolamento. E' un modo per esprimere la mia protesta…Non sono ancora riuscito a liberare l'Iraq e a renderlo una società islamica. Non so chi sia responsabile di questo fallimento o di questa incapacità io, la società, o entrambi?… La presenza dell'occupante e il fatto di non aver liberato l'Iraq, nonché la disobbedienza di molti e il fatto che abbiano deviato dalla retta via, mi hanno spinto all'isolamento per protesta…». E aggiunge che vuole obbedire al desiderio del padre e continuare gli studi religiosi, tornerà quando riterrà interessante farlo.

E qui sta la strategia futura di Sadr. Moqtada non ha studiato e nella tradizione sciita questo gli impedisce di diventare un riferimento religioso e politico importante. Ha potuto presentarsi come leader solo grazie alla storia della sua famiglia. Suo padre era il Grande Ayatollah Mohammed Sadiq Al-Sadr assassinato nel 1999 e simbolo della resistenza sciita al regime. Lo zio era il Grande Ayatollah Sayed Mohammed Baqir Al-Sadr fondatore negli anni '50 del partito Dawa al Islamya tutt'ora esistente, benché diviso in quattro fazioni, e al governo. Senza queste credenziali gli sarebbe stato molto difficile agire e non avrebbe avuto una sua moschea. L'appoggio popolare di oggi derivante dalle condizioni in cui versa il paese sa che non basterà. Senza la "laurea religiosa" rischia di non avere un ruolo importante nell'Iraq di domani dove dovrà far dimenticare anche gli orrori delle esecuzioni settarie. Altro neo il suo cambio di rapporti con l'Iran che lo ha armato e finanziato nell'ultimo periodo e dove si ritiene si sia ritirato con altri fedeli che sembra stiano frequentando corsi di addestramento, strategia e organizzazione militare. Neo perché uno dei leit motiv della sua propaganda era la sua indipendenza dall'ingombrante vicino a differenza dei suoi avversari Al Hakim e Al Sistani. Se ne avvantaggia al Fadhila che si ispira al padre di Moqtada rivendicando di essere l'unico partito sciita non filo iraniano. Si pensa al domani, ma l'oggi incalza. I fedelissimi di Moqtada faticano a tenere la base e allora si conferma la tregua ma si dà semaforo verde: rispondete se attaccati. In perfetto stile Moqtada.

martedì 25 marzo 2008

L’ennesima elemosina

La scampagnata elettorale continua e dopo la barzelletta di Berlusconi sulla cordata di imprenditori italiani intenzionati ad acquistare Alitalia al grido di “qui si fa Alitalia o si muore”, ecco che in giornata durante il suo tour in Sicilia Veltroni risponde con una promessa di aumento delle pensioni a partire dal Luglio prossimo.

Benissimo, nulla da obiettare. L’aumento delle pensioni – e dei salari, aggiungo – legato all’aumento del costo della vita è una questione cruciale per qualsiasi governo verrà fuori dalle urne del 13 e 14 Aprile.
Ma entriamo nel concreto. Veltroni ha dichiarato: “L'intervento riguarda i pensionati di oltre 65 anni e determina, a partire dal 1 luglio 2008, un incremento medio di quasi 400 euro l'anno per le pensioni fino a 25 mila euro l'anno (fino a circa 2 mila euro al mese) e un incremento fra i 250 e i 100 euro l'anno per le pensioni di importo compreso tra 25 mila e 55 mila euro l'anno”.

In soldoni, l’aumento di cui parla Veltroni andrebbe da un minimo di 8,33 euro a un massimo di 33 euro circa al mese. Spiccioli quindi, l’ennesima elemosina che comunque costerebbe intorno ai 2,5 miliardi di euro l’anno.

La proposta punta a innalzare le detrazioni previste per i redditi da pensione in funzione dell'età anagrafica, in modo da incrementare maggiormente "per ogni dato livello di pensione, le pensioni più vecchie, ossia le pensioni più distanti dalla data del pensionamento e quindi maggiormente erose dalla perdita di potere d'acquisto; modificando le regole con cui il montante contributivo viene trasformato in vitalizio, al fine di migliorare l’indicizzazione delle pensioni e legare l’indicizzazione ‘reale’ delle pensioni calcolate con il metodo contributivo all’andamento di un indice di sostenibilità dato dal rapporto tra spesa pensionistica e monte dei redditi da lavoro. Il fine è quello di permettere ai pensionati di partecipare ai frutti della crescita economica del Paese".

Ottimo, la crescita per quest’anno è prevista intorno allo 0,6% e i pensionati avranno di che rallegrarsi…

Naturalmente si è subito levata la voce di Silvio che ha banalmente replicato: "Il problema numero uno è quello di adeguare le pensioni ai prezzi, al caro vita, a partire dalle basse. Si tratta di un fatto di giustizia perchè i prezzi sono aumentati nell’ultimo anno del 4% in media e del 12 e 14% per i beni di prima necessità come pane e pasta mentre le pensioni dell’1,6%".
Non ha però avuto il coraggio di quantificare l'adeguamento, per non scadere anche lui nel ridicolo. Ma d’altronde non ne ha bisogno…

La proposta di Veltroni per essere seria e connessa con la realtà tragica dell’aumento indiscriminato del costo della vita avrebbe dovuto prevedere la parola ‘mese’ al posto della parola ‘anno’.
Infatti gli aumenti indicati da Veltroni, per non diventare elemosine, dovrebbero invece essere compresi tra i 100 e i 400 euro al mese e non all’anno.

E’ ovvio che ciò comporti una spesa notevole per lo Stato, ma volendo le risorse si trovano. Eliminando ad esempio enti di Stato obsoleti e costosi, a partire dalle Province, tagliando gli sprechi nella spesa pubblica e proseguendo con determinazione nella lotta all’evasione fiscale.
Così, solo per cominciare.

Ma tanto che lo dico a fare……

domenica 23 marzo 2008

Iraq: il perenne delirio dell’Idiota

Sono passati ormai ben 5 anni dall’inizio della guerra d’invasione in Iraq voluta a tutti i costi dall’amministrazione Bush.

Ma l’Idiota che siede alla Casa Bianca continua a credere in una realtà virtuale che esiste solo nel suo cervello, e prosegue imperterrito nel descriverla a tutto il mondo con incredibile nonchalance.

Pochi giorni fa, in occasione appunto del quinto anniversario dell’invasione, Bush ha pronunciato un discorso al Pentagono che definire ridicolo è a dir poco un eufemismo.
Ha esordito infatti con: "I successi cui stiamo assistendo in Iraq sono innegabili". Certamente, anzi, of course…gli strabilianti successi sono sotto gli occhi di tutti.

Solo oggi per esempio, la zona verde di Baghdad (in teoria la più sicura di tutta la città) si e' svegliata sotto un martellamento di mortai e razzi (circa 18) e attacchi sanguinosi sono avvenuti nel resto del Paese, in particolare a Mosul con 13 soldati iracheni uccisi da un tir imbottito di esplosivo.
La guerra infatti continua quotidianamente senza sosta da 5 anni.

Ma per completare il quadro “vittorioso” dipinto da Bush è doveroso aggiungere i 4000 morti ufficiali tra i soldati USA, le centinaia di migliaia di morti tra i civili iracheni, i più di 4 milioni di iracheni che dal 2003 hanno dovuto abbandonare le proprie case e un Paese distrutto economicamente e socialmente.

Questa è per l’Idiota l’incontestabile vittoria USA in Iraq.

Proseguendo nel suo discorso/delirio al Pentagono Bush ha per un attimo intravisto la realtà affermando: “la battaglia in Iraq è stata più lunga, più dura e più costosa del previsto”.

Poi però è subito ritornato in sé: “Rimuovere Saddam Hussein dal potere era la cosa giusta da fare.…Per i terroristi l'Iraq era considerato il posto in cui Al Qaeda chiamava a raccolta le masse arabe per cacciare l'America. Invece l'Iraq è diventato il posto in cui gli arabi si sono uniti agli americani per cacciare al Qaeda… Stiamo aiutando il popolo iracheno ad instaurare una democrazia nel cuore del Medio Oriente. Un Iraq libero combatterà i terroristi invece di dar loro rifugio”.

Ma ovviamente l’Idiota sorvola sul fatto che proprio il Pentagono un anno fa in un rapporto riservato ha riconosciuto chiaramente che non c’era alcun legame tra Saddam Hussein e la galassia islamista denominata Al Qaeda, inesistente in Iraq prima del 2003.

Questo report doveva essere reso pubblico e diffuso, ma naturalmente l’Amministrazione Bush continua a tenerlo semi-nascosto.
Secondo questo dossier, Saddam ha sostenuto il terrorismo di Stato, ha intrecciato rapporti con formazioni radicali palestinesi, ma ha diretto le azioni eversive non contro gli Stati Uniti, ma contro i dissidenti iracheni.

Sono cose note, così come lo è l’assenza delle fantomatiche armi di distruzione di massa e il fatto, questo sì incontestabile, che l’Iraq dopo l’invasione USA è diventato un ricettacolo di miliziani islamici provenienti dall’estero e votati al martirio.

Mancano ancora 10 lunghi mesi alla fine del mandato presidenziale dell’Idiota e purtroppo dovremo ancora sorbirci i suoi deliri che saranno puntualmente propagandati dalla stragrande maggioranza dei mainstream media nei 5 continenti del pianeta.

Come direbbe Eduardo de Filippo….adda passà ‘a nuttata!

sabato 22 marzo 2008

L'oppio legale


Una notizia di fondamentale importanza è stata lanciata in queste ore da tutte le agenzie di stampa: Papa Ratzinger ha battezzato Magdi Allam durante la veglia pasquale nella basilica di San Pietro.

La prima reazione spontanea a tale news potrebbe/dovrebbe essere d’indifferenza unita ad un sonoro “echissenefrega”, ma invece c’è anche chi come l’imam Izzedin El Zir, portavoce dell’Unione delle Comunità e Organizzazioni Islamiche in Italia (Ucoii), si è sentito in dovere di rilasciare una pubblica dichiarazione su questo evento di portata storica…

El Zir ha affermato: "L'importante e' che ogni persona viva la sua religiosita' in modo pacifico e rispettando le altre religioni. (Allam) è un uomo adulto, libero di fare la sua scelta personale: in Italia ci sono diversi cristiani che abbracciano l'islam con la loro libera scelta, non credo ci sia concorrenza tra cristianesimo e islam a conquistare le persone".

Alla banalità di un atto religioso che avviene migliaia di volte nel mondo ogni giorno, si aggiungono parole altrettanto banali che, evocando poi la concorrenza tra le due religioni alla stessa stregua di quella tra due detersivi, rasentano anche il ridicolo.

Beati loro che ci credono……ogni tanto li invidio.

venerdì 21 marzo 2008

Genova 2001: per una memoria di ferro

Sulle gravi responsabilità penali delle forze dell’ordine per quanto accaduto durante il G8 di Genova nella caserma di Bolzaneto e nella scuola Diaz, il muro di silenzio eretto dalla gran parte dei mainstream media – per non parlare poi della classe politica - è purtroppo risaputo e vergognoso.

In attesa delle sentenze di condanna emesse dal tribunale di Genova, se si eviterà la prescrizione che scatterà nel gennaio 2009, un piccolo squarcio è stato aperto negli ultimi giorni grazie ad alcuni articoli degni di tale nome firmati da Revelli su Il Manifesto e D’Avanzo su La Repubblica.

Qui di seguito i testi integrali.


Il Manifesto, 13 Marzo 2008

La disumana non-notizia
di Marco Revelli

La parola impronunciabile - quella che dovrebbe far scattare chiunque, con un senso di allarme istintivo - è stata pronunciata, in un'aula di tribunale. E non dagli avvocati: dai Pubblici ministeri. Connessa a fatti specifici. A ben individuati imputati. Documentata. Certificata da testimonianze giurate e giudicate vere da una magistratura di solito avara, quando si tratta di «organi dello Stato».

«La tortura è stata molto vicina a Bolzaneto - ha detto la Pm Petruzziello - In quelle ore si è verificata una grave compromissione dei diritti umani». Nel nostro paese sono state praticate, a livello di massa, su oltre 200 persone, con continuità e ostentazione, sevizie, umiliazioni, crudeltà che rientrano tra gli atti previsti dalla Convenzione delle Nazioni Unite contro la tortura.

Non è una notizia, questa?No, a leggere i grandi quotidiani italiani. L'ho cercata a lungo, quasi incredulo, quella notizia - almeno un titoletto, qualche riga, un corsivo, un piccolo editoriale... - sulle prime pagine del Corriere e di Repubblica, che pure, il giorno prima, in un'anticipazione della requisitoria (a pagina 16!) aveva parlato di «trattamenti inumani e degradanti...., dita spezzate, pugni, calci, manganellate su persone inermi, bruciature con accendini e mozziconi di sigaretta, bastonate sulle piante dei piedi; teste sbattute contro i muri, taglio di capelli, volti spinti nella tazza del water...».

E che mercoledì non ne parla più - un compito già svolto, un fatto già archiviato -, mentre il Corriere la confina a pagina 23, come se si trattasse di cronaca nera, e la Stampa a pagina 20 (con almeno un piccolo richiamo in prima). Per i giovani di Bolzaneto, per i loro oltraggi subìti, non si scomodano gli opinion leader, i Panebianco, i Galli della Loggia, e nemmeno gli Scalfari o le Annunziata. De minimis non curat praetor. È più importante il gossip su Ciarrapico (prima pagina di tutti), sulle squillo del governatore di New York (in prima di Repubblica), sulla moglie di Mastella ...

Non è nemmeno un fatto politico? Ancora una volta no, a porgere l'orecchio al brusio che viene da questa orribile campagna elettorale, tutta all'insegna della virtualità e della simbolizzazione. Evidentemente quei corpi umiliati, quei ragazzi profanati alla loro prima esperienza d'impegno pubblico, non sono simboli sufficientemente maneggiabili, né utili nello spazio degradato della competizione senza principii.

Meglio il faccione di Calearo, i fogli bianchi strappati da Berlusconi, le boutades sulla castrazione chimica di Veltroni, la rincorsa ai santini distribuiti da Ruini. Fanno più colore. «Funzionano», «tirano», come si dice adesso.Qualcuno ha sentito un solo fiato, al centro o da quello che si chiamava fino a ieri il centro-sinistra (lasciamo andare la destra, che quelle torture le ha favorite, le ha prodotte e le ha coperte...), sullo scandalo di Bolzaneto? Sul nostro senso civile finito sotto i tacchi degli anfibi dei medici aguzzini e dei secondini sadici, in una caserma della Repubblica? Quegli stessi che ancora pochi mesi fa guidavano la caccia ai mendicanti e ai lavavetri in nome della legalità, e si stracciavano le vesti di fronte a un migrante privo di permesso di soggiorno, hanno obiettato qualcosa per quegli uomini in divisa che colpivano le ferite aperte, minacciavano di stupro ragazzine minorenni, piegavano a colpi di bastone adolescenti ridotti all'impotenza?Eventi come questi non sono indolori. Scavano un solco. Tracciano un confine. D'ora in poi sarà sempre più difficile mantenere anche solo un terreno di discorso possibile, e aperto, tra queste due Italie: quella piccola, esile, minoritaria fin che si vuole, che non ci sta a digerire tutto, anche il disumano, e quella disposta ormai a passare su tutto e che tutto accetta come «normale». Sarà sempre più difficile continuare a credere anche solo a una riga delle infinite colonne di piombo, e delle stucchevoli prediche sulla nostra bella democrazia, che ci ammanniscono sui giornali. Sarà sempre più difficile, quasi impossibile, continuare ad affidare anche solo un brandello dei nostri progetti e delle nostre speranze a un qualche settore di questo ceto politico indifferente a tutto tranne che a se stesso.

Insomma, sarà sempre più difficile sentirsi parte, anche piccola, di un medesimo paese.Saremo apolidi, forse. O esuli mentali. Può darsi che sia questo l'estremo approdo del bradisismo che si è innescato in questa tormentata transizione italiana: la fuoriuscita dell'Altra Italia dall'Italia ufficiale.

La chiusura definitiva del ciclo apertosi col 1945, e protrattosi per oltre un sessantennio. Non lo so. Ma una cosa è certa: d'ora in poi nessuno si permetta più di farci, dall'alto di un qualche luogo «istituzionale» o da qualche organo di stampa, la predica sul «bene comune», sull'«impegno civile», e della «buona cittadinanza». Perché ogni legittimazione è finita.


La Repubblica, 17 Marzo 2008

Le torture a Bolzaneto e la notte della democrazia
di Giuseppe D'Avanzo

C´era anche un carabiniere "buono", quel giorno. Molti "prigionieri" lo ricordano. «Giovanissimo». Più o meno ventenne, forse «di leva». Altri l´hanno in mente con qualche anno in più. In tre giorni di «sospensione dei diritti umani», ci sono stati dunque al più due uomini compassionevoli a Bolzaneto, tra decine e decine di poliziotti, carabinieri, guardie di custodia, poliziotti carcerari, generali, ufficiali, vicequestori, medici e infermieri dell´amministrazione penitenziaria. Appena poteva, il carabiniere "buono" diceva ai "prigionieri" di abbassare le braccia, di levare la faccia dal muro, di sedersi. Distribuiva la bottiglia dell´acqua, se ne aveva una a disposizione. Il ristoro durava qualche minuto. Il primo ufficiale di passaggio sgridava con durezza il carabiniere tontolone e di buon cuore, e la tortura dei prigionieri riprendeva. Tortura. Non è una formula impropria o sovrattono. Due anni di processo a Genova hanno documentato - contro i 45 imputati - che cosa è accaduto a Bolzaneto, nella caserma Nino Bixio del reparto mobile della polizia di Stato nei giorni del G8, tra venerdì 20 e domenica 22 luglio 2001, a 55 "fermati" e 252 arrestati. Uomini e donne. Vecchi e giovani. Ragazzi e ragazze. Un minorenne. Di ogni nazionalità e occupazione; spagnoli, greci, francesi, tedeschi, svizzeri, inglesi, neozelandesi, tre statunitensi, un lituano.Studenti soprattutto e disoccupati, impiegati, operai, ma anche professionisti di ogni genere (un avvocato, un giornalista...). I pubblici ministeri Patrizia Petruzziello e Vittorio Ranieri Miniati hanno detto, nella loro requisitoria, che «soltanto un criterio prudenziale» impedisce di parlare di tortura. Certo, «alla tortura si è andato molto vicini», ma l´accusa si è dovuta dichiarare impotente a tradurre in reato e pena le responsabilità che hanno documentato con la testimonianza delle 326 persone ascoltate in aula.

Il reato di tortura in Italia non c´è, non esiste. Il Parlamento non ha trovato mai il tempo - né avvertito il dovere in venti anni - di adeguare il nostro codice al diritto internazionale dei diritti umani, alla Convenzione dell´Onu contro la tortura, ratificata dal nostro Paese nel 1988. Esistono soltanto reatucci d´uso corrente da gettare in faccia agli imputati: l´abuso di ufficio, l´abuso di autorità contro arrestati o detenuti, la violenza privata. Pene dai sei mesi ai tre anni che ricadono nell´indulto (nessuna detenzione, quindi) e colpe che, tra dieci mesi (gennaio 2009), saranno prescritte (i tempi della prescrizione sono determinati con la pena prevista dal reato).Come una goccia sul vetro, penosamente, le violenze di Bolzaneto scivoleranno via con una sostanziale impunità e, quel che è peggio, possono non lasciare né un segno visibile nel discorso pubblico né, contro i colpevoli, alcun provvedimento delle amministrazioni coinvolte in quella vergogna.

Il vuoto legislativo consentirà a tutti di dimenticare che la tortura non è cosa «degli altri», di quelli che pensiamo essere «peggio di noi». Quel "buco" ci permetterà di trascurare che la tortura ci può appartenere. Che - per tre giorni - ci è già appartenuta. Nella prima Magna Carta - 1225 - c´era scritto: «Nessun uomo libero sarà arrestato, imprigionato, spossessato della sua indipendenza, messo fuori legge, esiliato, molestato in qualsiasi modo e noi non metteremo mano su di lui se non in virtù di un giudizio dei suoi pari e secondo la legge del paese». Nella nostra Costituzione, 1947, all´articolo 13 si legge: «La libertà personale è inviolabile. È punita ogni violenza fisica e morale sulle persone comunque sottoposte a restrizione di libertà»La caserma di Bolzaneto oggi non è più quella di ieri. Con un´accorta gestione, si sono voluti cancellare i «luoghi della vergogna», modificarne anche gli spazi, aprire le porte alla città, alle autorità cittadine, civili, militari, religiose coltivando l´idea di farne un "Centro della Memoria" a ricordo delle vittime dei soprusi. C´è un campo da gioco nel cortile dove, disposti su due file, i "carcerieri" accompagnavano l´arrivo dei detenuti con sputi, insulti, ceffoni, calci, filastrocche come «Chi è lo Stato? La polizia! Chi è il capo? Mussolini!», cori di «Benvenuti ad Auschwitz». Dov´era il famigerato «ufficio matricole» c´è ora una cappella inaugurata dal cardinale Tarcisio Bertone e nei corridoi, dove nel 2001 risuonavano grida come «Morte agli ebrei!», ha trovato posto una biblioteca intitolata a Giovanni Palatucci, ultimo questore di Fiume italiana, ucciso nel campo di concentramento di Dachau per aver salvato la vita a 5000 ebrei.

Quel giorno, era venerdì 20 luglio, l´ambiente è diverso e il clima di piombo. Dopo il cancello e l´ampio cortile, i prigionieri sono sospinti verso il corpo di fabbrica che ospita la palestra. Ci sono tre o quattro scalini e un corridoio centrale lungo cinquanta metri. È qui il garage Olimpo. Sul corridoio si aprono tre stanze, una sulla sinistra, due sulla destra, un solo bagno. Si è identificati e fotografati. Si è costretti a firmare un prestampato che attesta di non aver voluto chiamare la famiglia, avvertire un avvocato. O il consolato, se stranieri (agli stranieri non si offre la traduzione del testo). A una donna, che protesta e non vuole firmare, è mostrata la foto dei figli. Le viene detto: «Allora, non li vuoi vedere tanto presto...». A un´altra che invoca i suoi diritti, le tagliano ciocche di capelli. Anche H.T. chiede l´avvocato. Minacciano di «tagliarle la gola». M.D. si ritrova di fronte un agente della sua città. Le parla in dialetto. Le chiede dove abita. Le dice: «Vengo a trovarti, sai». Poi, si è accompagnati in infermeria dove i medici devono accertare se i detenuti hanno o meno bisogno di cure ospedaliere. In un angolo si è, prima, perquisiti - gli oggetti strappati via a forza, gettati in terra - e denudati dopo. Nudi, si è costretti a fare delle flessioni «per accertare la presenza di oggetti nelle cavità». Nessuno sa ancora dire quanti sono stati i "prigionieri" di quei tre giorni e i numeri che si raccolgono - 55 "fermati", 252 "arrestati" - sono approssimativi. Meno imprecisi i «tempi di permanenza nella struttura». Dodici ore in media per chi ha avuto la "fortuna" di entrarvi il venerdì. Sabato la prigionia "media" - prima del trasferimento nelle carceri di Alessandria, Pavia, Vercelli, Voghera - è durata venti ore. Diventate trentatré la domenica quando nella notte tra 1.30 e le 3.00 arrivano quelli della Diaz, contrassegnati all´ingresso nel cortile con un segno di pennarello rosso (o verde) sulla guancia. È saltato fuori durante il processo che la polizia penitenziaria ha un gergo per definire le «posizioni vessatorie di stazionamento o di attesa».

La «posizione del cigno» - in piedi, gambe divaricate, braccia alzate, faccia al muro - è inflitta nel cortile per ore, nel caldo di quei giorni, nell´attesa di poter entrare «alla matricola». Superati gli scalini dell´atrio, bisogna ancora attendere nelle celle e nella palestra con varianti della «posizione» peggiori, se possibile. In ginocchio contro il muro con i polsi ammanettati con laccetti dietro la schiena o nella «posizione della ballerina», in punta di piedi. Nelle celle, tutti sono picchiati. Manganellate ai fianchi. Schiaffi alla testa. La testa spinta contro il muro. Tutti sono insultati: alle donne gridato «entro stasera vi scoperemo tutte»; agli uomini, «sei un gay o un comunista?» Altri sono stati costretti a latrare come cani o ragliare come asini; a urlare: «viva il duce», «viva la polizia penitenziaria». C´è chi viene picchiato con stracci bagnati; chi sui genitali con un salame, mentre steso sulla schiena è costretto a tenere le gambe aperte e in alto: G. ne ricaverà un «trauma testicolare». C´è chi subisce lo spruzzo del gas urticante-asfissiante. Chi patisce lo spappolamento della milza. A.D. arriva nello stanzone con una frattura al piede. Non riesce a stare nella «posizione della ballerina». Lo picchiano con manganello. Gli fratturano le costole. Sviene. Quando ritorna in sé e si lamenta, lo minacciano «di rompergli anche l´altro piede». Poi, gli innaffiano il viso con gas urticante mentre gli gridano. «Comunista di merda». C´è chi ricorda un ragazzo poliomielitico che implora gli aguzzini di «non picchiarlo sulla gamba buona». I.M.T. lo arrestano alla Diaz. Gli viene messo in testa un berrettino con una falce e un pene al posto del martello. Ogni volta che prova a toglierselo, lo picchiano. B.B. è in piedi. Gli sbattono la testa contro la grata della finestra. Lo denudano. Gli ordinano di fare dieci flessioni e intanto, mentre lo picchiano ancora, un carabiniere gli grida: «Ti piace il manganello, vuoi provarne uno?». S.D. lo percuotono «con strizzate ai testicoli e colpi ai piedi». A.F. viene schiacciata contro un muro. Le gridano: «Troia, devi fare pompini a tutti», «Ora vi portiamo nei furgoni e vi stupriamo tutte». S.P. viene condotto in un´altra stanza, deserta. Lo costringono a denudarsi. Lo mettono in posizione fetale e, da questa posizione, lo obbligano a fare una trentina di salti mentre due agenti della polizia penitenziaria lo schiaffeggiano. J.H. viene picchiato e insultato con sgambetti e sputi nel corridoio. Alla perquisizione, è costretto a spogliarsi nudo e «a sollevare il pene mostrandolo agli agenti seduti alla scrivania». J.S., lo ustionano con un accendino.

Ogni trasferimento ha la sua «posizione vessatoria di transito», con la testa schiacciata verso il basso, in alcuni casi con la pressione degli agenti sulla testa, o camminando curvi con le mani tese dietro la schiena. Il passaggio nel corridoio è un supplizio, una forca caudina. C´è un doppia fila di divise grigio-verdi e blu. Si viene percossi, minacciati. In infermeria non va meglio. È in infermeria che avvengono le doppie perquisizioni, una della polizia di Stato, l´altra della polizia penitenziaria. I detenuti sono spogliati. Le donne sono costrette a restare a lungo nude dinanzi a cinque, sei agenti della polizia penitenziaria. Dinanzi a loro, sghignazzanti, si svolgono tutte le operazioni. Umilianti. Ricorda il pubblico ministero: «I piercing venivano rimossi in maniera brutale. Una ragazza è stata costretta a rimuovere il suo piercing vaginale con le mestruazioni dinanzi a quattro, cinque persone». Durante la visita si sprecano le battute offensive, le risate, gli scherni. P.B., operaio di Brescia, lo minacciano di sodomizzazione. Durante la perquisizione gli trovano un preservativo. Gli dicono: «E che te ne fai, tanto i comunisti sono tutti froci». Poi un´agente donna gli si avvicina e gli dice: «È carino però, me lo farei». Le donne, in infermeria, sono costrette a restare nude per un tempo superiore al necessario e obbligate a girare su se stesse per tre o quattro volte. Il peggio avviene nell´unico bagno con cesso alla turca, trasformato in sala di tortura e terrore. La porta del cubicolo è aperta e i prigionieri devono sbrigare i bisogni dinanzi all´accompagnatore. Che sono spesso più d´uno e ne approfittano per "divertirsi" un po´. Umiliano i malcapitati, le malcapitate. Alcune donne hanno bisogno di assorbenti. Per tutta risposta viene lanciata della carta da giornale appallottolata. M., una donna avanti con gli anni, strappa una maglietta, «arrangiandosi così». A.K. ha una mascella rotta. L´accompagnano in bagno. Mentre è accovacciata, la spingono in terra. E.P. viene percossa nel breve tragitto nel corridoio, dalla cella al bagno, dopo che le hanno chiesto «se è incinta». Nel bagno, la insultano («troia», «puttana»), le schiacciano la testa nel cesso, le dicono: «Che bel culo che hai», «Ti piace il manganello». Chi è nello stanzone osserva il ritorno di chi è stato in bagno.

Tutti piangono, alcuni hanno ferite che prima non avevano. Molti rinunciano allora a chiedere di poter raggiungere il cesso. Se la fanno sotto, lì, nelle celle, nella palestra. Saranno però picchiati in infermeria perché «puzzano» dinanzi a medici che non muovono un´obiezione. Anche il medico che dirige le operazioni il venerdì è stato «strattonato e spinto». Il giorno dopo, per farsi riconoscere, arriva con il pantalone della mimetica, la maglietta della polizia penitenziaria, la pistola nella cintura, gli anfibi ai piedi, guanti di pelle nera con cui farà poi il suo lavoro liquidando i prigionieri visitati con «questo è pronto per la gabbia». Nel suo lavoro, come gli altri, non indosserà mai il camice bianco. È il medico che organizza una personale collezione di «trofei» con gli oggetti strappati ai "prigionieri": monili, anelli, orecchini, «indumenti particolari». È il medico che deve curare L.K.A L.K. hanno spruzzato sul viso del gas urticante. Vomita sangue. Sviene. Rinviene sul lettino con la maschera ad ossigeno. Stanno preparando un´iniezione. Chiede: «Che cos´è?». Il medico risponde: «Non ti fidi di me? E allora vai a morire in cella!». G.A. si stava facendo medicare al San Martino le ferite riportate in via Tolemaide quando lo trasferiscono a Bolzaneto. All´arrivo, lo picchiano contro un muretto. Gli agenti sono adrenalinici. Dicono che c´è un carabiniere morto. Un poliziotto gli prende allora la mano. Ne divarica le dita con due mani. Tira. Tira dai due lati. Gli spacca la mano in due «fino all´osso». G.A. sviene. Rinviene in infermeria. Un medico gli ricuce la mano senza anestesia. G. A. ha molto dolore. Chiede «qualcosa». Gli danno uno straccio da mordere. Il medico gli dice di non urlare. Per i pubblici ministeri, «i medici erano consapevoli di quanto stava accadendo, erano in grado di valutare la gravità dei fatti e hanno omesso di intervenire pur potendolo fare, hanno permesso che quel trattamento inumano e degradante continuasse in infermeria».

Non c´è ancora un esito per questo processo (arriverà alla vigilia dell´estate). La sentenza definirà le responsabilità personali e le pene per chi sarà condannato. I fatti ricostruiti dal dibattimento, però, non sono più controversi. Sono accertati, documentati, provati. E raccontano che, per tre giorni, la nostra democrazia ha superato quella sempre sottile ma indistruttibile linea di confine che protegge la dignità della persona e i suoi diritti. È un´osservazione che già dovrebbe inquietare se non fosse che - ha ragione Marco Revelli a stupirsene - l´indifferenza dell´opinione pubblica, l´apatia del ceto politico, la noncuranza delle amministrazioni pubbliche che si sono macchiate di quei crimini appaiono, se possibile, ancora più minacciose delle torture di Bolzaneto.

Possono davvero dimenticare - le istituzioni dello Stato, chi le governa, chi ne è governato - che per settantadue ore, in una caserma diventata lager, il corpo e la «dimensione dell´umano» di 307 uomini e donne sono stati sequestrati, umiliati, violentati? Possiamo davvero far finta di niente e tirare avanti senza un fiato, come se i nostri vizi non fossero ciclici e non si ripetessero sempre «con lo stesso cinismo, la medesima indifferenza per l´etica, con l´identica allergia alla coerenza»?


La Repubblica, 19 Marzo 2008

I silenzi sul Garage Olimpo di Bolzaneto
di Giuseppe D’Avanzo

Il processo per i fatti di Bolzaneto, scrivono i pubblici ministeri nella memoria consegnata ieri al tribunale di Genova, è «un processo dei diritti». Le testimonianze, le fonti di prova raccolte, le timide ammissioni degli imputati, la ricostruzione di quel che è accaduto in una caserma italiana diventata, per tre giorni, un argentino Garage Olimpo parlano della dignità della persona umana, della libertà fisica e morale del cittadino detenuto. Ci ripetono che anche una democrazia è capace di torturare. Che anche la nostra giovane democrazia può avvitarsi, senza preavviso, in una spirale autoritaria, e non solo i regimi che si nutrono dell´annientamento dell´altro per sopravvivere.Ci ricordano che l´umiliazione di un uomo prigioniero e indifeso, abbandonato a un deserto di regole, garanzie e umanità apre un solco profondo tra il cittadino e lo Stato. Ci annunciano come può collassare la cultura stessa della nostra convivenza civile. L´indignazione non può bastare per quel che accaduto a Genova Bolzaneto. Non è sufficiente un sentimento.

Occorrono ragione e intelligenza delle cose. E´ necessario interrogarci con radicalità sulla debolezza delle nostre istituzioni; sui deficit culturali di chi - in alto o in basso - li rappresenta; sulla qualità delle prassi di governo e comando di quelle istituzioni; sulla peculiarità dei meccanismi di selezione dei ceti dirigenti di quelle amministrazioni, sulla loro permeabilità a una volontà - politica, burocratica - che può capovolgere i valori costituzionali. «Bolzaneto è un "segnale di attenzione"», hanno ragione i pubblici ministeri di Genova. E´ «un accadimento che insegna come momenti di buio si possono verificare anche negli ordinamenti democratici, con la compromissione dei diritti fondamentali dell´uomo per una perdurante e sistematica violenza fisica e verbale da parte di chi esercita il potere».

I magistrati sembrano chiedere ascolto, più che al tribunale, a chi ha il dovere di custodire gli equilibri della nostra democrazia. Bolzaneto, sostengono, insegna che «bisogna utilizzare tutti gli strumenti che l´ordinamento democratico consente perché fatti di così grave portata non si verifichino e comunque non abbiano più a ripetersi». E´ un´invocazione, ci pare. Quei magistrati, con misura e rispetto, dicono alla politica, al Parlamento, alle più alte cariche dello Stato, alla cittadinanza consapevole: attenzione, gli strumenti offerti alla giustizia per punire questi comportamenti non sono adeguati. Non esiste una norma che custodisca espressamente come titolo autonomo di reato «gli atti di tortura», «i comportamenti crudeli, disumani, degradanti».

E comunque, il pericolo non può essere affrontato dalla sola macchina giudiziaria perché quando si mette in moto è troppo tardi. La violenza già c´è stata. I diritti fondamentali sono stati già schiacciati. La democrazia ha già perso. I segnali di un incrudelimento delle pratiche nelle caserme, nelle questure, nelle carceri - dove i corpi vengono rinchiusi - dovrebbero essere percepiti, decifrati e risolti prima che si apra una ferita che non sarà una sentenza di condanna a rimarginare, anche se quella sentenza - e non è il nostro caso - fosse effettiva. L´invito della magistratura di Genova dovrebbe indurre tutti - e soprattutto le istituzioni - a guardarsi da ogni minima tentazione d´indulgenza, da ogni relativizzazione dell´orrore documentato dal processo.

Ora se si prova a esaminare gli umori delle amministrazioni dello Stato, coinvolte nel plumbeo affresco di violenze ricostruito a Genova, si raccoglie soltanto un imperturbabile disinteresse. Non un fiato. Al più, spallucce. In qualche caso, un sorrisetto di disprezzo. Quel che, a buona parte dell´opinione pubblica, appare a ragione una lesione e una grave ipoteca, non lascia traccia nelle istituzioni. Non è nemmeno un amaro ricordo. E´ soltanto un nulla di cui non vale più la pena occuparsi. Non deve essere nemmeno un fatto politico, una questione pubblica - come si doleva qualche giorno fa Marco Revelli - perché la politica guarda da un´altra parte. Distratta? Complice? Inconsapevole? Senza dubbio sorda ai coerenti argomenti di Valerio Onida: «Uno Stato che vessa e maltratta le persone private della libertà non è uno Stato democratico. Una polizia che usa la forza non per impedirne reati, ma per commetterne, non può essere considerata "forza dell´ordine". Fatti di questo genere distruggono la credibilità delle istituzioni più di tanti insuccessi dei poteri pubblici».

Forse non si possono usare formule più preoccupate, e tuttavia anche le parole del presidente emerito della Corte costituzionale sono cadute nel vuoto. Il governo in carica tace come se l´affare non lo interpellasse e riguardasse gli altri che governavano nel 2001. Tace il centro-destra, dimentico che quelle violenze si consumarono nel giorno in cui si presentò alla scena del mondo mentre un vice-presidente del Consiglio (Fini) era ospite della "sala operativa" in questura e un ministro di Giustizia (Castelli), nel cuore delle notte, visitava la caserma di Bolzaneto bevendosi la storiella che i detenuti erano nella «posizione del cigno» contro un muro (gambe divaricate, braccia alzate) per evitare che gli uomini molestassero le donne. Tace Bertinotti, tace Veltroni come se la promessa di un´Italia «nuova» potesse fare a meno di chiedersi: perché c´è stato l´inferno di Bolzaneto? E quale garanzie abbiamo che non accada più?

giovedì 20 marzo 2008

Alitalia, oggi le comiche


Alitalia sta per fallire ed è cosa nota a tutti. Dopo quasi un anno e mezzo dalla decisione del Governo Prodi di vendere la compagnia di bandiera, l’unica proposta di acquisto rimasta in piedi è quella di Air France che prevede 2100 esuberi tra il personale e l’uscita da Malpensa facendo di Fiumicino il suo unico hub.

Il Governo è stato accusato dal centrodestra di gestione dilettantesca e frettolosa della trattativa, ma se dopo un anno e mezzo non è stata ancora attuata concretamente la vendita ci vuole un bel coraggio a definire frettolosa la trattativa….ma si sa, siamo in Italia e dar fiato alla bocca è lo sport preferito della nostra classe “dirigente”.

Ma nelle ultime 24 ore questa vicenda sta assumendo quei contorni (tragi)comici tipici del nostro Belpaese. Infatti solo ieri, dopo appunto un anno e mezzo dall’inizio dell’asta di acquisto, Silvio Berlusconi si è ricordato di essere uno degli uomini più ricchi del mondo dichiarando: “Dopo l'annuncio della mia contrarietà, Air France rinuncerà alla partita su Alitalia lasciando spazio all'ingresso di Air One, la cui regia nell'operazione considero indispensabile. Tale operazione sarà sostenuta dall'aiuto di una cordata di banche, tra le quali potrebbe esservi Banca Intesa, e di altri imprenditori, tra i quali vi potrebbero essere anche i miei figli…Io non credo che se uno è tra i primi dieci gruppi italiani non entra, che figura ci fa...?…Anche io sarei disponibile ad un sacrificio, ma mi accuserebbero subito di avere un interesse. Potrei partecipare alla pari degli altri, ed anche i miei figli credo che non direbbero di no. La regia dell'operazione resterebbe ad Air One, che potrebbe sfruttare le sinergie con Alitalia. Dietro di lei altri imprenditori e naturalmente delle banche, tra le quali Banca Intesa, che domani, mi dicono, terrà un cda in cui dovrebbe dare via libera all'operazione.”
Ma la sua perla finale è questa: ''Di Alitalia ho parlato stamattina a Romano Prodi ed ho chiesto che faccia un prestito ponte in grado di far partire la cordata degli imprenditori italiani''.
Incredibile.....

Un paio di domande sorgono spontanee: dov’era Silvio fino a ieri sera? Perché ha aspettato tutto questo tempo?
Si potrebbe pensare all’ennesima sua boutade da campagna elettorale, buttata lì durante la festa di compleanno di Maroni in un ristorante romano, con l’aiuto magari di qualche bicchiere di champagne.

Ma la faccenda è terribilmente seria e alle dichiarazioni di Berlusconi, il Cda di Banca Intesa che si riunisce oggi risponde così: “Alitalia non è all’ordine del giorno”, smentendo categoricamente quanto detto ieri dal leader del centrodestra.
Lo stesso presidente di Alitalia, Maurizio Prato, ha dichiarato: ”Ma dove sono poi queste cordate strillate sulla stampa e mai pervenute all'azienda?”, aggiungendo che: “le possibili cordate appoggiate dalle banche poi farebbero gravare il debito sull'azienda. Se l'offerta di Air France dovesse essere rifiutata, Alitalia porterebbe subito i libri in tribunale”.

In conclusione, le parole del Ministro Bersani: "Resto allibito di fronte a cordate improvvisate di notte dopo un anno e mezzo che è in corso la vicenda Alitalia. La vicenda Alitalia dimostra che siamo un paese di irresponsabili in senso tecnico, nel senso che nessuno si prende le responsabilità e chi se le prende viene massacrato".

Si attende la prossima puntata di questa (tragi)comica pantomima, e cioè il fallimento di Alitalia.

venerdì 14 marzo 2008

Scampagnata elettorale 2008


Dopo due mesi e mezzo di latitanza per una serie di motivi si riprende a scrivere e ovviamente non potevano mancare due parole su questa campagna elettorale che sto seguendo molto distrattamente e senza alcun interesse.

Che dire quindi?

Il linguaggio finora usato è piuttosto soft nei toni, a differenza di quello delle campagne elettorali tra il 1994 e il 2006. Finalmente hanno capito che il disgusto per questa classe “dirigente” da parte della stragrande maggioranza dei cittadini italiani non può che crescere a dismisura se si continua ad assistere al gioco delle parti in cui ci si insulta in tv, non si parla delle soluzioni concrete ai problemi economici del Paese e degli italiani e poi, spente le telecamere, si va a braccetto a cena in un buon ristorante.

Solo negli ultimissimi giorni Berlusconi ha rispolverato il suo repertorio di battutacce e con il polverone sulla candidatura di Ciarrapico ha dato un po’ di pepe a questa stanca e noiosa campagna elettorale.
Immagino che, man mano ci si avvicinerà alla data delle votazioni, il clima si riscalderà ma neanche più di tanto.

E’ evidente che Berlusconi e Veltroni si rispettano e si “aiutano” reciprocamente. Infatti, visti i sondaggi che danno il Pdl in vantaggio sul PD, Silvio sta cercando di dare una mano a Walter ripescando le sue solite battute e candidando persone col fine di irritare i vertici del Partito Popolare Europeo e perdere voti in favore dell’UDC.

Sembra chiaro poi che i due partiti “a vocazione maggioritaria” vogliano proprio governare insieme, fare alcuni cambiamenti alla Costituzione e, si spera, cestinare l’attuale legge elettorale. Riportando quindi gli italiani a votare di nuovo tra due-tre anni in un quadro bipartitico.

Riusciranno nel loro intento? Beh, se al Senato si ripeterà un altro semipareggio come nel 2006 un governo Pdl-PD sarà quasi inevitabile.

Comunque sia, si andrà a votare con 11 candidati premier presenti in tutta Italia: Stefano Montanari (Per il bene comune), Bruno De Vita (Unione democratica per i consumatori), Daniela Santanche' (La Destra), Fausto Bertinotti (Sinistra arcobaleno), Flavia D'Angeli (Sinistra critica), Stefano De Luca (Pli), Marco Ferrando (Pcl), Silvio Berlusconi (Pdl), Pier Ferdinando Casini (Udc), Walter Veltroni (Pd), Enrico Boselli (Ps), Renzo Rabellino (Lista dei grilli parlanti).
Quest'ultima lista ha pero' dei ricorsi pendenti. Forza Nuova ha raccolto le firme ed ha presentato le sue liste in quasi tutta Italia, eccetto Liguria, Toscana, Basilicata Senato e Piemonte 2, Trentino Alto Adige, Liguria Camera. Giuliano Ferrara ha presentato la lista 'Aborto? No, grazie' solo alla Camera. Il Partito di Alternativa comunista (candidato premier Fabiana Stefanoni), Meda - Movimento europeo diversamente abili (candidato premier Sergio Riboldi) e Il Loto (candidato premier Luigi Ferrante) sono presenti in pochissime circoscrizioni.

Non c'è che dire, è un bel calderone tipicamente italiota.

Due parole infine su una persona che è stata “massacrata” da tutti e che invece ha dimostrato una grande serietà e dignità: Romano Prodi.
La sua uscita di scena dalla politica è stata esemplare e dovrebbe essere fonte d’ispirazione per Nonno Silvio. E non solo.

giovedì 13 marzo 2008

Thailandia: un futuro incerto dopo le elezioni


27 Dicembre 2007

Il 23 Dicembre scorso si sono svolte le elezioni politiche in Thailandia dopo 15 mesi di governo ad interim insediatosi dopo il colpo di Stato militare del settembre 2006, che ha costretto all’esilio l’ex premier Thaksin Shinawatra, magnate delle telecomunicazioni e uomo più ricco del Paese.

Ha vinto il People Power Party (PPP) - il partito nato dalle ceneri del Thai Rak Thai di Shinawatra sciolto dalla Corte Suprema nel maggio scorso - che si è aggiudicato 233 seggi su 480 sconfiggendo così il suo acerrimo rivale, il Partito Democratico, a cui spettano invece solo 165 seggi.

Il PPP ha già annunciato che presenterà ufficialmente il 4 gennaio il suo nuovo governo in coalizione con alcuni partiti minori, contando su una maggioranza di almeno 254 seggi, anche se non sono ancora del tutto chiare le vere intenzioni di tutti i piccoli partiti, fondamentali per formare un nuovo governo a guida PPP o a guida Democratica e perciò tendenti ad alzare il prezzo per la loro partecipazione a qualsiasi coalizione di governo.
Inoltre sono all’orizzonte alcuni ricorsi alla Commissione Elettorale per compravendita di voti su vari seggi assegnati al PPP, il quale a sua volta mette in dubbio i seggi vinti dal Partito Democratico a Bangkok, storica roccaforte Democratica.

Finora però tutti, dai partiti politici sconfitti ai membri del governo ad interim e della giunta golpista (il Consiglio per la Sicurezza Nazionale, CSN), hanno dichiarato di accettare e rispettare il responso delle urne riconoscendo al PPP il diritto di formare il nuovo governo. Tuttavia il leader dei Democratici, Abhisit Vejjajiva, ha precisato che se il PPP non sarà in grado di dar vita a un governo di coalizione entro il 4 gennaio, sarà suo diritto e dovere formare il governo insieme ad altri partiti minori.

Quindi nonostante un risultato elettorale piuttosto netto, le incognite sul prossimo futuro thailandese sono tante e ruotano intorno all’effettivo comportamento che adotteranno i militari se il PPP, una volta al governo, manterrà le sue pesanti promesse fatte in campagna elettorale – cambiare di nuovo la Costituzione, approvata con un referendum popolare voluto dalla giunta militare nell’agosto scorso, concedere l’amnistia ai 111 alti membri del disciolto partito Thai Rak Thai estromessi da ogni attività politica per 5 anni e soprattutto garantire un sicuro ritorno in patria a Shinawatra per potersi difendere nelle aule giudiziarie dalle accuse di corruzione e frode fiscale.
Prospettando quindi una sorta di vendetta contro la giunta militare golpista e un’interferenza nel sistema giudiziario.

Ma l’incognita maggiore è proprio quella relativa ad un eventuale ritorno in Thailandia dell’ex premier Shinawatra, in esilio a Londra da 15 mesi e che nel frattempo, nonostante il congelamento dei suoi beni deciso dal Comitato di Esame sui Patrimoni creato ad hoc dopo il golpe e che il PPP vorrebbe invece sciogliere, è riuscito ad acquistare nel giugno scorso la squadra di calcio inglese del Manchester City.
Ora si trova da qualche giorno a Hong Kong, dove ha seguito l’esito delle elezioni, e ha già dichiarato di voler tornare in patria come “normale cittadino” per potersi difendere in tribunale, aggiungendo che non vuole più interessarsi di politica in prima persona ma si limiterà solo ad un ruolo di consigliere del PPP, se gli verrà richiesto.

C’è chi parla di un suo rientro il giorno di San Valentino, per sottolineare le sue intenzioni di riconciliazione e amore verso il Paese; ma si dice anche che potrebbe rientrare tra febbraio e aprile per dare il tempo necessario al nuovo governo guidato dal PPP di preparare al meglio l’evento.

Le reazioni al suo desiderio di rientrare sembrano concordi nel sottolineare che egli ha tutto il diritto di tornare per potersi difendere in tribunale come un normale cittadino. Lo stesso premier in carica, il generale in pensione Surayud Chulanont, ha più volte dichiarato che non ci sarà alcun problema se Thaksin deciderà di ritornare in patria.
Negli stessi termini si sono espressi i suoi avversari politici, il capo del CSN Ammiraglio Chalit Pukpasuk e la Confidustria Thailandese, che però lo ha ammonito a tenersi alla larga dalla politica e da qualsiasi interferenza con la Giustizia.

Ma i magistrati che stanno indagando su di lui hanno invece annunciato pubblicamente che non appena toccherà il suolo thailandese Shinawatra sarà immediatamente arrestato, dal momento che un mandato di arresto nei suoi confronti è stato spiccato molti mesi fa, così come la richiesta di estradizione indirizzata al governo britannico che non ha ancora avuto risposta.

Inoltre, a dimostrazione che il prossimo futuro è tutt’altro che certo e sereno, si sono aggiunte le dichiarazioni dell’attuale Ministro della Difesa, l’ex generale Boonrawd che, dopo aver ribadito che i militari torneranno nelle caserme rispettosi del risultato elettorale e senza timori di ritorsioni contro di loro da parte del nuovo governo, ha sottolineato che “Anche se la Thailandia è sulla via della democrazia, la preoccupazione dell’esercito per il Paese rimane. L’esercito comunque eviterà ogni atto non convenzionale e si conformerà alle regole. Ma, se accadrà qualcosa alla nazione, il popolo dovrà accettare le conseguenze delle sue decisioni. (Un golpe) è come un disastro naturale, non possiamo assicurare che non avverrà”.

Una dichiarazione che fa il paio con quella rilasciata all’inizio della campagna elettorale da Sonthi Boonyaratkalin - il generale a capo del colpo di stato del 2006 e attuale vice premier dopo essere andato in pensione il 30 settembre scorso – che appunto non escludeva un altro golpe in caso di vittoria del PPP.

A tutto ciò si aggiungano poi i pessimi rapporti personali tra Thaksin e la figura più amata e riverita della Thailandia, il re Bhumibol, che ha avallato il golpe e lo scioglimento del partito di Shinawatra e che poco prima delle elezioni ha richiamato più volte il Paese all’unità, rivolgendosi in particolar modo alle Forze Armate, “altrimenti tutti noi andremo incontro a vere e proprie calamità”.

Ma le recenti elezioni hanno invece confermato l’estrema divisione del Paese con un nord rurale e povero che ha votato in massa per il partito populista legato a Shinawatra, mentre Bangkok e il sud hanno come sempre dato fiducia ai Democratici.
E anche tra le Forze Armate ci sono molti sostenitori di Thaksin. Lo stesso Capo dell’Esercito Anupong Paochinda è stato criticato per una sua presunta vicinanza a Shinawatra, con cui ha frequentato la scuola cadetti dell’esercito.

I prossimi giorni diranno se effettivamente il PPP riuscirà a formare un governo di coalizione e soprattutto cosa succederà se Shinawatra tornerà in patria.
Ma si prevede comunque un periodo nebuloso di instabilità politica ed economica a cui per l’ennesima volta i militari saranno chiamati a porre soluzione. In un modo o nell’altro.



Per approfondimenti Bangkok Post e The Nation.

Un coup de théatre anche per Prodi


5 Dicembre 2007

Non bastavano le continue fibrillazioni e i veti incrociati su ogni provvedimento da prendere, né le dichiarazioni di Dini, Bordon e Boselli sulle mani libere; adesso si sono aggiunte anche le spietate frasi del Presidente della Camera Bertinotti "Dobbiamo prenderne atto: questo centrosinistra ha fallito. La grande ambizione con la quale avevamo costruito l'Unione non si è realizzata... in questi ultimi due mesi tutto è cambiato, una stagione si è chiusa…Un governo nuovo, riformatore, capace di rappresentare una drastica alternativa a Berlusconi, e di stabilire un rapporto profondo con la società e con i movimenti, a partire dai grandi temi della disuguaglianza, del lavoro, dei diritti delle persone: ecco, questo progetto non si è realizzato. Abbiamo un governo che sopravvive, fa anche cose difendibili, ma che lentamente ha alimentato le tensioni e accresciuto le distanze dal popolo e dalle forze della sinistra. Ma se si vuole tentare una nuova fase della vita del governo, vedo due terreni irrinunciabili: i salari e la precarietà".

Tutto ciò è la naturale conseguenza di un’azione di governo obbligata al galleggiamento e all’indecisione perenni.
Ma Bertinotti ha voluto dare un’ultima chance al governo evidenziando i temi dei bassi salari e dell’imperante precarietà, che si legano inoltre all’aumento dei prezzi dei beni di prima necessità e non solo, come obiettivi primari dell’esecutivo nel prossimo futuro e a cui va data assolutamente risposta.

Si potrebbe però continuare aggiungendo altre questioni da risolvere subito e che a suo tempo erano state inserite nell’ormai dimenticato Programma di governo con cui l’Unione si era presentata alle elezioni.
Ad esempio, l’approvazione di una nuova legge sul conflitto d’interesse, sul riordino del sistema radiotelevisivo, su ulteriori e concrete liberalizzazioni in campo economico (telecomunicazioni ed energia in primis), sui diritti civili delle coppie di fatto, sull’immigrazione, sulle sostanze stupefacenti e l’istituzione di una Commissione d’inchiesta sui fatti di Genova

Si tratta in fin dei conti di pochi ma fondamentali punti che se affrontati di petto, tenendo semplicemente fede alle promesse fatte in campagna elettorale, potrebbero dare ossigeno al governo e soprattutto ridare un po’ di fiducia ai suoi elettori, ma anche ad una parte di cittadini che non ha votato per il centrosinistra.

Certo, le cose da fare sarebbero anche altre: per esempio, interrogarsi seriamente sul significato e il futuro della presenza italiana in Afghanistan, dove ormai i guerriglieri taleb sono sempre più incisivi, controllano più di metà del Paese e la popolazione li sostiene apertamente.
Ma d’altronde come potrebbe essere altrimenti, quando continuano incessantemente i bombardamenti indiscriminati di aerei NATO che uccidono centinaia e centinaia di civili inermi, quando a Kabul c’è un governo corrotto infarcito di signori della guerra e trafficanti di droga, incapace di garantire una piena sicurezza neanche nella capitale.

Ormai la semplice enunciazione di una Conferenza di Pace non basta più, ci vogliono i fatti. E se non si è in grado di far valere le proprie posizioni, bisogna prenderne atto e agire di conseguenza.
E’ risaputo poi che negli ultimi tempi i soldati italiani sono sempre più impegnati in azioni di combattimento, dal momento che i guerriglieri taleb hanno esteso i loro attacchi anche nella zona sotto controllo italiano.
Inoltre un recente rapporto del Senlis Council, un think-tank inglese di politica internazionale, ha affermato che “Il livello di sicurezza ha raggiunto una crisi senza precedenti. La domanda adesso è non se i talebani torneranno a Kabul, ma quando e in quale forma”.

A questo punto non c’è molta scelta: o si aumentano le truppe NATO fino ad almeno 300.000 unità e si combatte una guerra totale a 360 gradi oppure si prende atto che l’unica via di uscita è organizzare al più presto questa benedetta Conferenza di Pace, concedere agli afghani il diritto di scegliere liberamente chi vogliono al governo del Paese e ritirare tutti i soldati NATO.

Ma ritorniamo in Italia e a ciò che il governo Prodi si troverà di fronte dopo l’approvazione della Finanziaria.
Si è già detto precedentemente di alcuni punti importanti su cui il governo deve legiferare al più presto per ripristinare un rapporto di fiducia con il proprio elettorato, ormai quasi ai minimi termini.
Ma la domanda sorge spontanea: può questo governo nella sua attuale ed elefantiaca composizione realizzare quei provvedimenti?
Si parla di “verifica” a gennaio ma già un anno prima c’era stata la tre giorni nella Reggia di Caserta e non ha portato molta fortuna visto che un mese dopo si è “verificata” la crisi di governo, subito rientrata.

Quindi più che di “verifica” si auspica una mossa decisa e determinata del premier Prodi che, approfittando della nascita del PD sulle ceneri di due partiti e della costruzione in fieri della federazione della Sinistra-Arcobaleno, introietti fin da subito nel governo la futura alleanza che si presenterà alle prossime elezioni politiche applicando già a gennaio la legge Bassanini sul numero massimo dei ministeri, senza che si debba aspettare la prossima legislatura.
L’auspicata mossa perciò è formare a gennaio un nuovo governo guidato da Prodi, di soli 12 ministri e che non superi il totale di 60 unità con i viceministri e sottosegretari.

Un governo agile e snello, capace non solo di offrire una nuova immagine dinamica e fresca ma soprattutto di realizzare concretamente il Programma nella sua interezza.
Questo è il coup de théatre che potrebbe dare slancio e vigore al governo, e farlo durare fino alla naturale scadenza della legislatura.

Altrimenti il tirare a campare tra fibrillazioni e ricatti continui che non permettono di rispettare il Programma con cui si è chiesto il voto nel 2006 non serve proprio a nessuno, se non a scaldare inutilmente delle vuote poltrone e a perdere le prossime elezioni.

Berlusconi: fenomeno politico o psichiatrico?

19 Novembre 2007

Il plateale fallimento di Berlusconi per la mancata caduta del governo Prodi, oltre ad aver rinsaldato la maggioranza di centrosinistra, ha avuto pesanti effetti collaterali: la morte ufficiale della CdL come coalizione di centrodestra unita sotto la leadership incontrastata del suo padre-padrone, il deterioramento irreversibile dei rapporti personali tra Berlusconi e il duo Fini-Casini e lo scioglimento di Forza Italia con la nascita del Partito del Popolo delle Libertà.

In pochissimi giorni è avvenuto un vero e proprio terremoto nell’opposizione, che per anni era riuscita perfettamente a mascherare e nascondere i propri dissidi interni, a differenza di quanto accadeva e accade tuttora nell’Unione, dove si ha il vizio di parlare in pubblico a ruota libera.

A destra quindi il tappo è saltato - senza facili allusioni alla statura del suo ormai ex leader - con l’ultima mossa del Cavaliere, che può sembrare l’ennesimo suo geniale coup de théatre ma anche il suo ultimo disperato tentativo di restare in sella ad un cavallo che però è già fuggito lontano senza di lui.
In effetti a prima vista il comportamento di Berlusconi degli ultimi giorni sarebbe forse materia più consona ad uno psichiatra che a un politologo o a un opinionista politico.

La sua opera di stravolgimento e non accettazione della realtà con frasi del tipo “La maggioranza è implosa, sono preoccupatissimi”, la sua totale mancanza di autocritica “Non ho mai dato pagelle a nessuno, anche se devo dire che se in Italia c'e' qualcuno che per la sua storia personale e per quello che ha fatto nel mondo imprenditoriale, nello sport e nella politica, se c'e' qualcuno che puo'dare pagelle, quello sono io. Ma non le ho mai date”, il suo maniacale e paranoico protagonismo “Fini e Casini stanno oscurando sui media i nostri banchetti contro Prodi. E' un espediente che conosco bene, si può dire che l'ho inventato. Solo che io lo metto in pratica contro gli avversari, loro invece lo fanno contro di me, contro l'alleanza. Possono parlare sui giornali, andare in televisione. Ma non accetto di farmi oscurare”, ormai non hanno più niente a che vedere con gli strumenti lucidi di una strategia e un disegno politico a lungo termine. Ma dovrebbero essere invece oggetto di profondo studio da parte del mondo accademico della psichiatria.

Un insieme di comportamenti con l’aggravante dei conseguenti errori politici madornali: come ad esempio, fin dall’indomani delle elezioni del 2006, le ossessive dichiarazioni sulla sicura caduta del governo Prodi con l’ultima ciliegina della data precisa, abbinata al grossolano errore sulla tempistica della raccolta delle firme nei gazebo di Forza Italia per chiedere elezioni anticipate. Un timing completamente sbagliato che per avere un minimo di logica politica doveva essere anticipato almeno di una settimana.

A ciò si aggiunga la schizofrenica serie di dichiarazioni in merito al tavolo negoziale per le riforme.
Solo pochi giorni fa, all’indomani del voto finale al Senato sulla finanziaria, Berlusconi dichiarava: “Se è una colpa aver fatto implodere la maggioranza, beh, questa colpa mi piace. Io non cambio strategia. Le riforme? Solo una perdita di tempo. Solo un modo per far galleggiare questo governo. Ma quali riforme?”. Chiudendo quindi in faccia la porta a Fini e Casini che gli chiedevano di sedersi al tavolo delle trattative dopo il fallimento della “strategia della spallata”.

Ma non passano 24 ore che, a causa della reazione gelida di Fini che aveva dichiarato “Non serve fare pagelle tra i più bravi e i meno bravi nel combattere Prodi. La realtà è che il governo, l'altro ieri, è riuscito a sopravvivere a se stesso approvando una Finanziaria, dopo tanto tempo, senza ricorrere alla fiducia. Ci vuole umiltà da parte di tutti. Perché tutti sbagliano. Tutti. A volte serve un po' di autocritica. Il centrodestra non ha neppure un programma e un progetto nuovo per andare alle elezioni. Ci vuole uno sforzo di analisi da parte di tutti nella Cdl, altrimenti inevitabilmente ognuno andrà per la sua strada” e a causa anche dei fischi indirizzati a Cicchitto da militanti di AN durante un convegno dei Cristiani Riformisti, ecco l’inversione a U di Berlusconi con lo scioglimento di Forza Italia, la proclamazione della nascita del Partito del Popolo delle Libertà e l’apertura al dialogo per la riforma elettorale “Fatto il nuovo partito diremo alla sinistra che siamo pronti a confrontarci sulla nuova legge elettorale. A questo punto siamo convinti che bisogna andare verso un sistema proporzionale alla tedesca”.

Come quindi definire tutto ciò? Geniale e lungimirante strategia politica o disperato colpo di scena di chi, oltre a non volersi arrendere alla dura realtà, è vittima di mania di protagonismo e schizofrenia acuta?
Non è certo una novità il suo “rifiuto dell’oscuramento”, questo suo bisogno psicofisico di essere sempre sotto la luce dei riflettori ad ogni costo, al centro della scena. Ma adesso, all’età di 71 anni, il suo super-ego è arrivato ad un livello tale che lo porta a distruggere ciò che ha creato e senza sapere dove andrà effettivamente a parare.
Alcuni definiranno questa sua ultima mossa una “genialata” preparata da tempo e da lasciare poi ai suoi eredi politici (quali poi?); altri invece la fuoriuscita dal cilindro dell’ultimo coniglio, ma già morto.

La maggioranza dei suoi ex alleati ha comunque reagito con distacco e assoluta contrarietà a confluire nel nuovo partito, sparandogli in faccia una serie di bordate impensabili fino a poco tempo fa. Con Fini che dichiara “Non se ne parla proprio… E’ una scorciatoia personalistica…Plebiscitario e confuso il modo in cui è stata presentata la proposta. An non si scioglierà per entrarvi”, Alemanno che rincara “Il partito del popolo? Coinvolge solo Forza Italia e qualche circolo . È un'iniziativa unilaterale, il semplice restyling di quello che c'è già. E non risolve un solo problema politico”, Bossi che teme "che sia solo un favore a Prodi", Maroni che ribadisce che il Carroccio non è interessato a questo nuovo partito del centrodestra, Casini che infila il dito nella piaga “Il nuovo partito è propaganda. Come i gazebo”, Cesa che riafferma il no dell'Udc e osserva: “L'Udc non c'era prima e non ci sarà. Ognuno ha la sua identità e la sua storia da difendere”.

Gli unici che finora sembrano interessati a seguire Berlusconi confluendo nel Partito del Popolo sono Giovanardi che auspica lo scioglimento dell’UDC e Storace che però rimanda la discussione al comitato politico de La Destra.
Insomma un risultato a dir poco deludente finora, per chi sognava il Partito unico del centrodestra.

Solo una cosa è certa: Berlusconi ha sancito ufficialmente lo sconquasso che già covava da tempo tra le fila dell’opposizione, e ciò diverrà ancora più evidente tra i banchi dell’opposizione nei due rami del Parlamento quando il nome di Forza Italia verrà sostituito da quello del nuovo partito e si saprà chi s’iscriverà in questo gruppo.

Se sarà un semplice cambio di nome che manterrà inalterato il ruolo di Berlusconi in qualità di padre-padrone circondato da lacchè, allora la sua componente degna di approfonditi studi psichiatrici avrà prevalso su quella politica.
Ma se invece Berlusconi, dopo aver detto e fatto il contrario di tutto, farà un bel passo indietro lasciando così il campo a nuove personalità finalmente libere di agire nel nuovo partito, allora sarà ricordato per la fantasia e la lungimiranza con cui ha disegnato e decretato a modo suo il finale della sua personale parabola politica.

Tutto però lascia supporre che uno schizofrenico con manie di protagonismo e persecuzione si sia già incamminato a passo spedito verso il proprio viale del tramonto.

La farsa del Tribunale ONU per i crimini dei Khmer Rossi

12 Novembre 2007

Dopo quasi trenta anni dalla fine del regime di Pol Pot e dopo circa otto anni di trattative tra il governo cambogiano e le Nazioni Unite per la formazione di un Tribunale internazionale sui crimini commessi dai khmer rossi – è stato istituito nel 2006 ed è composto da 17 giudici cambogiani e 13 stranieri – solo nel giugno scorso si è trovato un accordo in merito alle regole procedurali sugli standard giudiziari minimi da imporre durante le udienze.

Era questo il problema centrale che, dopo anni passati nel tentativo di risolvere una cronica carenza di fondi per la creazione del tribunale, bloccava da mesi la partenza del processo che però comincerà solo agli inizi del 2008, cioè a più di un anno e mezzo dal giuramento ufficiale dei giudici nel palazzo reale della Pagoda d’Argento di Phnom Penh, alla presenza di due monaci buddisti. Riducendo così il mandato triennale del Tribunale internazionale a due soli anni.

Ma, oltre alla necessità dei fondi per implementare il processo (56 milioni di dollari circa chiesti dalla Cambogia alla comunità internazionale), la questione principale era la mancanza di una reale volontà politica da parte del governo cambogiano a perseguire i crimini commessi tra il 1975 e il 1979 dal regime di Pol Pot.
C’era infatti il timore che venissero coinvolti l’attuale primo ministro Hun Sen, al potere dal 1985 ed ex khmer rosso passato poi con i vietnamiti poco prima della loro invasione/liberazione della Cambogia nel 1979, l’ex Re Norodom Sihanouk, che ha abdicato nel 2004 in favore del figlio Norodom Sihamoni, e anche alcuni attuali consiglieri di Hun Sen.
Per anni infatti il primo ministro Hun Sen ha invocato la sovranità nazionale per impedire la costituzione del Tribunale internazionale.

Nel frattempo Pol Pot è morto nel 1998 e Ta Mok, ex capo di stato maggiore dell’allora regime, lo ha seguito nel 2006.
Un altro alto responsabile tra le fila dei khmer rossi, Kaing Khek Ieu, più noto col nome di battaglia Duch, a capo di uno speciale reparto della polizia segreta e direttore della terribile prigione di Toul Sleng dove sono state torturate e uccise circa 15mila persone, era stato arrestato nel 1999 ed è in attesa del processo insieme agli altri due detenuti eccellenti finiti in galera da poco: l’82enne Nuon Chea, “il fratello numero 2” considerato l’ideologo del regime e il 78enne Ieng Sary, l’ex numero 3, all’epoca vice-primo ministro e ministro degli esteri.
Entrambi hanno vissuto in libertà per tutti questi anni e sono invecchiati nelle loro case rispettivamente a Paillin, situata nel nord del Paese al confine con la Thailandia e roccaforte dei khmer rossi importante anche per il traffico di pietre preziose e armi, e a Phnom Penh.

Ora tra i leader dell’ex regime ancora in vita manca all’appello Khieu Samphan, 75 anni, che è stato presidente dell’allora Repubblica democratica di Khampuchea. Si dice che sia scomparso da casa già da più di un anno.

Ma a sparire sono anche i testimoni, come hanno avuto modo di constatare gli avvocati che stanno raccogliendo le prove dei crimini commessi. Molti risultano introvabili, temendo forse di trasformarsi in imputati.
Sono decine di migliaia infatti gli ex khmer rossi di basso e medio livello che tentano di farsi passare per vittime del regime pur avendo partecipato ai crimini. Ci può essere però anche la paura di parlare.
D’altronde non è mai stato avviato un programma di protezione per i testimoni, così come non è stata garantita la sicurezza delle vittime sopravvissute che intendono deporre in tribunale in un Paese il cui governo è tuttora presieduto dall’ex khmer rosso Hun Sen.
A ciò si aggiunga il fatto che i 17 giudici cambogiani sono controllati dal governo e inoltre si dubita della loro preparazione professionale e integrità morale, dal momento che alcuni di essi sembra siano stati coinvolti in passato in indagini per corruzione.

Quindi l’ONU, dopo essere scesa a compromessi con il corrotto sistema giudiziario cambogiano per avere accettato il diktat governativo che ha imposto la nomina di giudici cambogiani all’interno di un Tribunale che per essere veramente internazionale sarebbe dovuto essere composto solo da giudici stranieri, sta in pratica finanziando profumatamente un programma che viene utilizzato dal governo di Phonm Penh per "piazzare" i suoi lacchè nei posti chiave.
Un fatto che non si era verificato ad esempio per l’istituzione dei tribunali per i genocidi in Sierra Leone e a Timor Est, dove tutto l'apparato giudiziario era finito in mano a giudici internazionali

Ma a rendere questo Tribunale e il suo relativo processo una farsa non sono solo gli ostacoli frapposti in passato dal governo cambogiano, i suoi riusciti diktat all’ONU e l’età più che avanzata degli imputati da processare.

Lo sconcertante e farsesco ritardo nell’accertamento della verità chiama in causa infatti anche attori più potenti, come gli Stati Uniti, la Cina e molti Paesi occidentali che per lunghi anni hanno dato, direttamente o clandestinamente, il loro appoggio ai khmer rossi in chiave antivietnamita e quindi antisovietica, poichè Mosca era lo sponsor principale del governo di Hanoi.
Inoltre tutti costoro, fino ai primi anni ’90, hanno fatto in modo che la “polpottiana” Repubblica democratica di Khampuchea conservasse il suo seggio alle Nazioni Unite.

A questo punto è veramente difficile affermare cosa sia più giusto per il popolo cambogiano: ottenere la condanna di qualche ottantenne attraverso un processo farsa compiuto con colpevole ritardo e con la consapevolezza che molti altri criminali e carnefici vivono e continueranno a vivere fianco a fianco alle vittime oppure dimenticare il passato e guardare invece solo al futuro?

Ma soprattutto, dopo questa farsa la sua ferita si chiude definitivamente o si riapre?

L’ultimo panettone di Berlusconi

28 Ottobre 2007

Non c’è giorno che passa senza che Berlusconi non ricordi agli italiani che il governo è alla frutta, che cadrà presto, che deve gettare la spugna, che gli mancheranno i voti di quei senatori che non sono entrati nel Partito Democratico, che bisogna andare a votare immediatamente, che lui ritornerà sicuramente a Palazzo Chigi, ecc. ecc.
Una litania ossessionante, noiosa e stanca dal momento che è da un anno che la ripete come un automa.

Certo il governo Prodi è quello che è, i suoi numeri al Senato sono quelli che sono e l’immagine di lacerazione interna che spande a piene mani è stupefacente, quasi da Guiness dei Primati del masochismo.
Quindi può effettivamente cadere da un momento all’altro ma che si ritorni subito dopo alle urne è tutt’altro che scontato, anzi.

In primo luogo perché il Presidente della Repubblica Napolitano può legittimamente sondare gli umori del Parlamento e affidare l’incarico di formare un nuovo governo a chiunque ritenga in grado di ottenere la fiducia nelle due Camere, visto che in Italia non c’è l’elezione diretta del premier, neanche indirettamente come Berlusconi pensa quando dichiara: “la legge elettorale vigente ha indicato un leader di coalizione, che poi e' diventato presidente del consiglio dei ministri, non vedo chi possa - contro questa legge - andare a decidere che sia un altro e diverso presidente del consiglio dei ministri”.

Pur di tornare a Palazzo Chigi e mettere in bacheca la Coppa Palazzo Chigi come se fosse la Champions League, Berlusconi stravolge qualsiasi realtà, si sa. Ma bisogna capirlo, ha più di 70 anni e il tempo stringe.

Però il vero motivo fondamentale per cui, anche se dovesse cadere Prodi, non si andrà subito ad elezioni è uno solo: il raggiungimento della pensione a partire dal 29 Ottobre 2008 per quei deputati e senatori di tutti gli schieramenti eletti per la prima volta nella loro vita. Eletti poi è una parola grossa, in quanto sono finiti in Parlamento solo grazie al fatto di essere stati nominati dalle rispettive segreterie di partito e posizionati ad hoc nelle varie liste elettorali.

Quindi per tutti costoro, che molto probabilmente mai e poi mai sarebbero entrati in Parlamento con una qualsiasi altra legge elettorale, rinunciare alla ricca pensione parlamentare a soli pochi mesi dal suo raggiungimento e solo per fare un favore a Berlusconi sarebbe veramente una beneficenza imbecille.

Perciò, dato per scontato che l’obiettivo di arrivare alla ricca pensione a vita è in cima a tutto, automaticamente ne consegue che, anche dopo un Prodi dimissionato, nascerebbe un governo qualsiasi che magari porterà ad elezioni nel 2009, ma mai prima. Forse neanche nel 2009.
E ciò significa che Berlusconi mangerà quest’anno il suo ultimo panettone da leader incontrastato del centrodestra e perenne candidato a Palazzo Chigi da quasi 14 anni.

Infatti mentre si è registrata la nascita del Partito Democratico con Prodi presidente e Veltroni segretario, nella CDL si assiste invece allo sterile tentativo di Berlusconi di formare un partito unico e alle sue solite dichiarazioni: “Il sogno del partito unico del centrodestra, un sogno che è ormai alla nostra portata e che regalerà al nostro Paese un bipolarismo maturo e consolidato”, a cui Fini risponde con: “Smettiamola con le ipocrisie: il partito unico non è all'ordine del giorno perchè con questa legge elettorale proporzionale, che qualcuno ha preteso, il partito unico non può essere roba di domani. Spero lo sia per dopodomani, ma con il proporzionale si esaltano le diverse identità e figuriamoci se si va a un grande e indistinto contenitore unico”.

Quindi è solo un sogno della mente di Berlusconi mentre tutti i suoi alleati ormai già pensano alle rispettive carriere future senza di lui, ma soprattutto a come sottrargli l’elettorato.

Non finisce qua però. Insieme a questo palese insuccesso Berlusconi ne ha inanellato un altro, che ben presto verrà alla luce in toto, rappresentato dalla scelta della Brambilla come sua pupilla e futura leader di questo fantomatico partito unico, che più che un suo sogno sarà il suo incubo.
Nella CDL infatti la Brambilla è vista come il fumo negli occhi da tutti. A partire proprio dai caporioni di Forza Italia (i vari Dell’Utri, Bondi, Scajola, Cicchitto), ma anche dal sindaco di Milano Moratti, da Fini e le donne di AN - Santanchè e Mussolini in testa.

Basti vedere poi come è stata trattata a pesci in faccia durante la manifestazione organizzata da AN qualche settimana fa, isolata e relegata in fondo al corteo insieme con i suoi quattro gatti dei Circoli della Libertà. Ma d’altronde cosa poteva aspettarsi di diverso la Brambilla, che da novella sprovveduta del perfido mondo della politica si era pure autoinvitata alla manifestazione.

Insomma Berlusconi ha sbagliato completamente cavallo, scegliendo una persona che forse avrebbe più successo nel mondo del cinema, magari in un film di Rocco Siffredi. E oltre a sognare chimere irraggiungibili, non gli rimane altro che godersi l’ultimo panettone da leader incontrastato della destra e vincere l’ennesima Champions League con il Milan.