martedì 23 ottobre 2012

Cancellare il debito

Alcuni articoli che hanno in comune la stessa modalità per eliminare alla radice il falso problema del debito pubblico e tutto il suo corollario di manovre lacrime e sangue da far ingoiare ai soliti noti.

Lo si cancella con un tratto di penna o, meglio ancora, pigiando semplicemente un tasto della tastiera di un computer...


Loro sanno che il debito pubblico si può cancellare
di GZ - www.cobraf.com - 21 Ottobre 2012

Questo mese le pubblicazioni economiche più importanti al mondo parlano della semplice e radicale soluzione del debito pubblico che qui si propone da due anni, cioè SEMPLICEMENTE DI CANCELLARLO, di farlo sparire nel bilancio della Banca Centrale (per sempre).  

Niente finanziarie di tasse, sacrifici, aumenti di IVA e accise, posti di blocco della GdiF, vendite di beni pubblici... una semplice MANOVRA CONTABILE CHE NON COSTA UN EURO.  

Non è questione di una teoria "MMT" e Mosler, lo sanno tutti, sotto sotto, a Londra e a New York, al Fondo Monetario, al Wall Street Journal, al Telegraph, al Financial Times, alla City di Londra che il debito pubblico è un gioco di prestigio, un imbroglio e il governo lo potrebbe cancellare quando vuole.

Alcuni pensano che proponga "teorie". Errore: qui mi limito ad informare il popolo di quello che si sa nei piani alti.

Il 16 ottobre sul Wall Street Journal: "La Tentazione della Gran Bretagna: cosa succederebbe se la Banca di Inghilterra cancellasse semplicemente i 400 miliardi di debito pubblico che ora detiene.." ("..What would happen if the Bank of England simply canceled the nearly £400 billion of government debt that it holds?..")

Qualche giorno fa Gavyn Davies sul Financial Times, editoriale titolato: "La Banca Centrale cancellerà il debito pubblico ?" (Will central banks cancel government debt?). Questo Davies è l'ex capo economista di Goldman Sachs e cita Lord Turner (capo della FSA, la Consob inglese, che avrebbe detto in privato che una soluzione fattibile (Tuner ha poi cercato di smentire quando è apparso riportato sul Guardian)

Oggi sul Telegraph Ambrose Evans-Pritchard cita il report di due ricercatori al Fondo Monetario uscito ad agosto (di cui avevo parlato) che dimostra anche matematicamente che se lo stato stampa moneta in misura sufficiente, può eliminare sia il debito pubblico che il credito bancario e il risultato come PIL, reddito e il resto sarebbe ottimo.

Oggi su BusinessInsider.com Joe Weisenthal cita un trader a Londra che gli parla della possibilità che la Banca di Inghilterra, che ha già comprato 1/4 del debito pubblico inglese, semplicemente lo mandi al macero e dica al governo che non le deve più niente. People Are Talking About A National Debt Solution That Might Actually Make Your Brain Hurt.

Come ha scritto Warren Mosler e spiegato al convegno di Rimini ieri, lo stato non ha bisogno di finanziarsi emettendo debito, la prova è che in Inghilterra da cinque anni stanno quatti quatti ritirando il debito pubblico con una pura manovra contabile, senza aumentare tasse e fare austerità, senza vendere beni pubblici, semplicemente scambiando Gilt con Sterline. 

E negli ultimi giorni Wall Street Journal, Financial Times e Telegraph parlano del fatto la Bank of England può ora semplicemente cancellarli con un colpo di tastiera...paf !... e 400 miliardi di titoli di stato non esistono più...

Nonostante sia ovvio che funzioni così e sia facile da spiegare, nonostante che qui si riportino esempi su esempi nella storia, nella letteratura economica e persino nell'establishment finanziario attuale del fatto che funzioni così, lo stesso tanta gente ha paura di pensare con la propria testa e accetta un idea solo quando appare su Repubblica, Corriere e in TV. Come titola Joe Weisenthal "...una soluzione al problema del debito che fa sì che il tuo cervello ti faccia male"

LO SANNO TUTTI A QUEL LIVELLO, ma il pueblo italiano e spagnolo (ad esempio anche i nostri vari antitrader, hobi50, traderoscar, vincenzoS...qui sul forum) va menato per il naso con la favola del "dobbiamo pagare i debiti" (dello Stato).


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Loro sanno che il debito pubblico si può cancellare  - II
 
Tutti gli articoli citati qui sopra si riferivano al fatto che DOPO CHE LA BANCA DI INGHILTERRA O LA FED HANNO RICOMPRATO TITOLI DI STATO (dal pubblico, da istituzioni finanziarie o da chiunque glieli venda) li possono ora cancellare e cominciano a circolare rumors che alla fine facciano proprio questo (è scritto negli articoli citati sotto, ma come al solito arrivano commenti di chi non li legge e mi tocca riassumerli)

1) le Banche centrali stanno comprando tonnellate titoli di stato dal 2009 o sul mercato secondario come la FED e la Bank of Japan o anche direttamente in asta (come la Banca di Inghilterra (e come faceva la Banca d'Italia ai bei tempi)

2) dopodichè la la Banca centrale in teoria dovrebbe tenerli fino alla scadenza e alla fine ricevere indietro i soldi dallo stato, quando appunto tra 3 o 5 o 10 anni i titoli scadono. Finora Ben Bernanke e Mervyn King hanno dato da intendere che era così, che si comportavano come un normale investitore che compra titoli di stato e poi quando scadono riceve i soldi del loro ammontare. Cioè finora avevano detto che compravano migliaia di miliardi di bonds solo per abbassarne il costo (vedi anche Draghi negli ultimi due mesi).

3) Ma in realtà la Banca Centrale è lei stessa parte dello stato, è lei che garantisce tutti gli assegni e passa tutti i bonifici dello stato, perchè può accreditare qualunque somma senza limiti e senza vincoli e i soldi" li crea con il computer quando le pare, per cui se alla scadenza dei titoli di stato si accreditasse l'importo sarebbe solo una finzione contabile tra lei e il Tesoro. Le passività nel bilancio del Tesoro diventano attività nel bilancio della Banca Centrale e viceversa, ma non ci sono vincoli, possono fare come vogliono, 100 miliardi a destra e -100 miliardi a sinistra. E' SOLO CONTABILITA'.

Di conseguenza, ora che sono passati 4 anni dall'inizio dell'Alleggerimento Quantitativo cominciano a far circolare l'ipotesi che in realtà alla Banca centrale alla fine non si faranno riaccreditare l'importo dei bonds dal Tesoro che poi dovrebbe tornare in asta a venderne un altro importo equivalente per essere in grado di fare l'accredito sul conto della Banca Centrale. 

Ma dato appunto che possono farlo senza alcun costo e senza alcun problema, possono alla fine far cancellare tutti questi 4 o 5 mila miliardi di titoli.

Come spiegato dozzine di volte non creerebbe inflazione, perchè i soldi lo stato li ha già spesi e non cambia l'ammontare della spesa pubblica. 

Il fatto che continui a finanziarsi con debito oppure che di fatto (come questi articoli implicano) si finanzi semplicemente con moneta cambia solo i rendimenti sul mercato del reddito fisso (cioè la gente che vuole investire si ritrova meno titoli governativi e metterà i soldi in qualcosa d'altro)


Un piano epico del FMI per scongiurare il debito e detronizzare i banchieri
di Ambrose Evans-Pritchard - www.telegraph.co.uk - 21 Ottobre 2012 
Traduzione per www.ComeDonChisciotte.org a cura di ERNESTO CELESTINI

Allora esiste la bacchetta magica!

Un documento rivoluzionario emesso dal Fondo Monetario Internazionale afferma che si potrebbe eliminare il debito pubblico netto degli Stati Uniti in un colpo solo, e di conseguenza fare la stessa cosa per la Gran Bretagna, la Germania, l'Italia o il Giappone.


Il rapporto del FMI dice che il gioco di prestigio è quello di cambiare il nostro sistema che chiede alle banche private di creare il nostro denaro. Si potrebbe tagliare il debito privato del 100 % del PIL, rilanciare la crescita, stabilizzare i prezzi e detronizzare i banchieri, tutto allo stesso tempo.

Si potrebbe fare in modo pulito e indolore, per ordine legislativo, molto più rapidamente di quanto si possa immaginare. Il gioco di prestigio è quello di sostituire il nostro sistema di denaro creato da una banca privata - circa il 97% della massa monetaria - con un sistema di stato che crea il suo denaro. Torniamo alla norma storica, prima che Carlo II mettesse in mani private  il controllo della moneta con la legge inglese Free Coinage Act del 1666.


In particolare, questo consiste in un assalto alla "riserva frazionaria". Se i creditori sono costretti a versare il 100% come riserva per i depositi, perdono l’esorbitante privilegio di creare denaro dal nulla.


La nazione riacquista il controllo sovrano sull'offerta di moneta. Non ci sono più banche coinvolte e nemmeno cicli con alti e bassi di credito. Il gioco di prestigio contabile farà il resto. Questo è l'argomento.

Qualche lettore potrebbe già aver visto lo studio del FMI, di Jaromir Benes e Michael Kumhof, che è uscito nel mese di agosto e ha iniziato ad avere un codazzo di  cultori in tutto il mondo.

Si chiama  "The Chicago Plan Revisited" (1) e fa rivivere il primo schema proposto dai professori Henry Simons e Irving Fisher nel 1936 durante il fermento del pensiero creativo alla fine della Grande Depressione.

Irving Fisher aveva pensato che i cicli di credito portano ad una concentrazione malsana di ricchezza. Vide  con i propri occhi nel 1930 i creditori opprimere i poveri agricoltori, sequestrando la loro terra o comprandosela per un tozzo di pane.

Ma,  alla fine, i contadini trovarono  il  modo  di   difendersi,  mettendosi insieme  e  inventando le “Aste a un dollaro", comprandosi a vicenda le loro proprietà e poi ricomprandosele . Qualsiasi estraneo che avesse cercato di fare offerte superiori sarebbe stato picchiato a sangue.

Benes e Kumhof sostengono che il trauma del ciclo del credito - causato dalla creazione di denaro da parte di privati – ha radici profonde nella storia e si trova già alla base della cancellazione del debito nelle religioni antiche della Mesopotamia e del Medio Oriente.

I cicli dei raccolti portarono a default sistemici, migliaia di anni fa, con la confisca dei beni a garanzia, e la concentrazione della ricchezza nelle mani dei creditori. Ma questi episodi non sono stati solo causati dal maltempo, come si è sempre detto, ma sono stati amplificati dagli effetti del credito.

Il legislatore, filosofo e poeta ateniese Solone mise in atto  il primo Vero piano Chicago/New Deal,  nel 599 a.C. per  ridurre le sofferenze degli agricoltori provocate dagli oligarchi che beneficiavano dei vantaggi del conio della moneta privata. 

Cancellò tutti i debiti, restituì le terre confiscate dai creditori, fissò i prezzi delle materie prime (cose molto simili a quello che fece Franklin Roosevelt), e consapevolmente cominciò a coniare moneta emessa dallo stato "senza-debito".

I Romani inviarono una delegazione per studiare le riforme di Solone 150 anni dopo e copiarono le sue idee, per creare il loro proprio sistema  fiat money, poggiato sulla Aternia Lex del 454 aC.

Si tratta di una leggenda - innocentemente raccontata dal grande Adam Smith - sul denaro usato come mezzo di  scambio basato su materie prime o legato all’oro, che è stato sempre molto apprezzato, ma questa è un'altra storia, anche perché gli amanti del prezioso metallo spesso confondono le due questioni.

Studi antropologici dimostrano che la moneta come mezzo di scambio ebbe inizio nella notte dei tempi. Gli Spartani vietarono le monete d'oro e le sostituirono con dischi di ferro di poco valore intrinseco. 

Gli antichi Romani utilizzavano tavolette di bronzo. Il loro valore era stato interamente determinato dalla legge - una dottrina spiegata da Aristotele nella sua Etica - come il dollaro, l'euro o la sterlina di oggi.

Alcuni sostengono che Roma cominciò a perdere il suo spirito di solidarietà, quando permise ad una oligarchia di emettere privatamente monete  a base di argento  durante le guerre puniche ed il sistema di controllo scivolò dalle mani del Senato. Si potrebbe chiamare il sistema bancario ombra di Roma. L'evidenza suggerisce che poi divenne una macchina per l’accumulazione della ricchezza delle elites.

Un controllo sovrano, incontrastato o papale sulle valute continuò per tutto il Medioevo fino a quando l'Inghilterra ruppe i clichè nel 1666. Benes e Kumhof dicono che questo fu l'inizio dell’epoca delle bolle finanziarie.

Si potrebbe anche dire che questo aprì la strada alla rivoluzione agricola dell’Inghilterra del 18° secolo, alla rivoluzione industriale che seguì e al più grande balzo economico e tecnologico mai visto. Ma cavillare serve poco (N.d.T. anche perché l’autore è British).

Gli autori originali del Piano di Chicago dovevano fronteggiare la Grande Depressione e credevano di poter  evitare il caos sociale causato dalle forti oscillazioni dei crolli e dei rialzi, senza bloccare il dinamismo economico.

Il benefico effetto collaterale delle loro proposte portò al passaggio dal debito pubblico ad un surplus nazionale, come per magia. "Perché le banche con il piano di Chicago devono prestare tutte le riserve delle loro tesorerie, e in questo modo il governo acquisirebbe un grande risparmio nei confronti delle banche. La nostra analisi rileva che il governo restò con un debito molto più basso, di fatto negativo, senza l’onere netto del debito. "

Il documento FMI dice che il totale delle passività del sistema finanziario degli Stati Uniti – incluso il sistema  bancario ombra - è circa al 200 % del PIL. La nuova regola sulle riserve sarebbe una manna e potrebbe servire ad un  "enorme buy-back del debito privato", forse del 100 % del PIL.

Quindi Washington potrebbe emettere molto più denaro fiat, da non rimborsare, cosa che diverrebbe patrimonio netto della repubblica, non il suo debito.


La chiave del Piano di Chicago era la separazione tra "funzioni monetarie e creditizie" del sistema bancario. "La quantità di denaro e la quantità di credito diverrebbero completamente indipendenti l'una dall'altra."

I finanziatori privati ​​non sarebbero più in grado di creare nuovi depositi "ex nihilo". Il nuovo credito bancario dovrebbe essere finanziato solo da nuovi utili.

"Il controllo della crescita del credito sarebbe molto più semplice perché le banche non sarebbero più in grado, come lo sono oggi, di creare fondi propri, depositi, nell'atto di fare prestiti, un privilegio straordinario di cui non gode nessun altro tipo di business ", dichiara il documento del FMI.

"Piuttosto, le banche potrebbero diventare quello che molti erroneamente credono che siano oggi, degli intermediari puri che devono ricevere finanziamenti esterni, prima di essere in grado di fare prestiti."

Per la prima volta la US Federal Reserve avrebbe un controllo reale sull'offerta di moneta, cosa che rende più facile gestire l'inflazione. Fu proprio per questo motivo che Milton Friedman chiese, nel 1967, che le riserve bancarie  coprissero il 100 % dei prestiti. Anche gli operatori sul libero mercato implicitamente hanno chiesto un giro di vite sul denaro privato.

Il cambio può comportare un aumento del 10% , sulle spese economiche di lungo termine. "Nessuno di questi benefici servirà a diminuire le spese per la funzionalità di un sistema finanziario privato."

Simons e Fisher volavano alla cieca nel 1930. Non disponevano dei moderni strumenti necessari per incrociare i numeri, quindi il team del FMI ora l'ha fatto per loro -  utilizzando il modello stocastico `DSGE 'ora di rigore nelle alte economie, amato e odiato in egual misura.

Il risultato è sorprendente. Simons e Fisher sottovalutarono le loro rivelazioni. Forse è possibile affrontare i capi della plutocrazia bancaria senza mettere in pericolo l'economia.
Benes e Kumhof fanno affermazioni di grande importanza, tanto che mi lasciano perplesso, ad essere onesti. I lettori che vogliono conoscere i dettagli tecnici possono farsi una propria opinione leggendo il loro testo riportato nella Nota (1).

Il duo del FMI ha dei sostenitori: Il Professor Richard Werner dell'Università di Southampton - che ha coniato il termine quantitative easing (QE) nel 1990 - ha testimoniato alla Commissione britannica Vickers che il passaggio di emissione di denaro allo stato porterebbe ad un maggior benessere ed è stato  sostenuto da una campagna del Gruppo di  Positive Money e dalla  New Economics Foundation. 

Questa teoria ha anche forti critiche. Tim Congdon di International Monetary Research dice che le banche sono in un certo senso già costrette ad aumentare le riserve dalle norme UE, dalle regole di Basilea III e dalle varianti che coprono tutto d’oro nel Regno Unito. L'effetto è stato quello di soffocare i prestiti al settore privato.

Dice che è la ragione principale per cui l'economia mondiale rimane bloccata, quasi in crisi, e perché le banche centrali si trovano a dover ammortizzare lo shock con il QE.

"Se fosse adottato questo piano, ci sarebbero devastazioni nei profitti bancari e causerebbe un enorme disastro deflazionistico. Dovrebbero fare un “ QE al quadrato”'per compensare il danno.


Il risultato sarebbe un enorme cambiamento nei bilanci delle banche che non darebbero più prestiti privati per i titoli di Stato. Questo è accaduto durante la Seconda Guerra Mondiale, ma quello era un costo anomalo per sconfiggere il fascismo.

Per fare questo in modo permanente in tempo di pace ci sarebbe quello da cambiare il carattere del capitalismo occidentale. "La gente non sarebbe in grado di ottenere denaro dalle banche. Ci sarebbe un danno enorme per l'efficienza dell'economia".

Probabilmente, soffocherebbe la libertà e metterebbe sul trono uno stato Leviatano. Alla lunga potrebbe essere ancora più spiacevole di un dominio dei banchieri.

Personalmente, io sono molto lontano dal raggiungere una conclusione in questo straordinario dibattito. Lasciamo correre, e aspettiamo che si litighi fino a quando non si saranno chiariti questi concetti.

Una cosa è certa. La City di Londra avrà una grande difficoltà a conservare i suoi privilegi se una qualsiasi delle varianti del Piano di Chicago dovesse cominciare ad avere un sostegno abbastanza ampio.


Note:
  1. http://www.imf.org/external/pubs/ft/wp/2012/wp12202.pdf


L'Islanda e il rifiuto dell'austerità
di Salim Lamrani* - www.mondialisation.ca - 12 Ottobre 2012
Traduzione a cura di CRISTINAM per www.comedonchisciotte.org
 
Di fronte alla crisi economica, mentre l'Unione europea ha scelto la strada dell' austerità e ha deciso di salvare le banche, l'Islanda ha invece provveduto a nazionalizzare le istituzioni finanziarie e respinto le politiche di rigore fiscale. Con un tasso di crescita del 2,7% nel 2012, anche il Fondo monetario internazionale (FMI) ha lodato la ripresa economica del paese.

Quando, nel settembre 2008, la crisi economica e finanziaria colpì l'Islanda, un piccolo arcipelago nel nord Europa abitato da 320.000 persone, l'impatto fu disastroso, come nel resto del continente. 


La speculazione finanziaria portò le tre maggiori banche al fallimento, le cui attività rappresentavano una somma dieci volte superiore al PIL della nazione, con una perdita netta di $ 85 miliardi di dollari. 

Il tasso di disoccupazione si moltiplicò per 9 tra il 2008 e il 2010, mentre il paese un tempo godeva della piena occupazione. Il debito dell'Islanda rappresentava il 900% del PIL e la moneta nazionale venne svalutata del 80% nei confronti dell'euro. Il paese fu immerso in una profonda recessione, con un calo del PIL del 11% in due anni [1].

Di fronte alla crisi


Nel 2009, quando il governo volle attuare le misure di austerità richieste dal FMI in cambio di aiuti finanziari pari a 2,1 miliardi di euro, una forte mobilitazione popolare lo costrinse a dimettersi. Durante le elezioni, anticipate la sinistra conquistò la maggioranza assoluta in Parlamento. [2]

Il nuovo governo tuttavia adottò la legge "Icesave" - dal nome della banca privata on-line andata in bancarotta di cui gli investitori privati erano in gran parte olandesi e britannici - per rimborsare i clienti stranieri. 


Questa legislazione costringeva tutti gli islandesi a ripagare un debito di 3,5 miliardi di euro (40% del PIL) - 9000 euro pro capite - nell'arco di quindici anni ad un tasso del 5%. 

Di fronte a nuove proteste popolari, il Presidente rifiutò di ratificare il testo parlamentare e indisse un referendum. Nel marzo 2010, il 93% degli islandesi respinse la legge sul rimborso dei danni causati da "Icesave". Ripresentata a un referendum nell'aprile 2011 la legge, venne nuovamente respinta in modo schiacciante 63% [3].

Una nuova costituzione, redatta dall'Assemblea Costituente di 25 persone elette a suffragio universale tra 522 candidati, composta da 9 capitoli e 114 articoli, venne adottata nel 2011. 


Prevede un diritto di informazione, l'accesso del pubblico ai documenti ufficiali (articolo 15), la creazione di un Organismo di Vigilanza sulle responsabilità del governo (articolo 63), il diritto di consultazione diretta (articolo 65) - il 10% degli elettori può richiedere un referendum sulle leggi approvate dal Parlamento -. e la nomina del presidente del Consiglio da parte del Parlamento [4]

Così, a differenza delle altre nazioni dell'UE nella stessa situazione, che hanno applicato alla lettera le richieste del Fondo monetario internazionale, che esigeva l'attuazione di severe misure di austerità, come in Grecia, Irlanda, Italia o Spagna, l'Islanda scelse una via alternativa. Quando nel 2008, le tre banche principali, Glitnir, Kaupthing e Landsbankinn fallirono, lo stato islandese rifiutò di iniettare fondi pubblici, come nel resto d'Europa. Invece, procedette alla loro nazionalizzazione. [5]

Allo stesso modo, le banche private sono state costrette a cancellare tutti i debiti a tassi variabili superiori al 110% del valore della proprietà, evitando così crisi dei subprime come negli Stati Uniti. Inoltre, la Corte Suprema dichiarò illegali tutti i prestiti indicizzati a valute estere concessi a persone fisiche, costringendo le banche a rinunciare ai propri crediti, per il beneficio della popolazione [6].

I responsabili del disastro - i banchieri speculatori che causarono il crollo del sistema finanziario islandese - non hanno beneficiato della clemenza popolare come invece nel resto d'Europa, dove sono stati regolarmente assolti. In realtà, vennero processati e incarcerati da Olafur Thor Hauksson, Procuratore speciale nominato dal Parlamento. Anche il primo ministro Geir Haarde, accusato di negligenza nella gestione della crisi, non evitò un processo. [7]

Un'alternativa alla austerità

I risultati della politica islandese economica e sociale sono stati spettacolari. Mentre l'Unione europea è in una fase di recessione, l'Islanda ha avuto un tasso di crescita del 2,1% nel 2011 e si prevede un tasso del 2,7% per il 2012, e un tasso di disoccupazione che oscilla intorno al 6% [8]. Il paese si è anche offerto di rimborsare anticipatamente i suoi debiti al FMI. [9]

Il presidente islandese Olafur Grimsson ha spiegato questo miracolo economico: "La differenza è che in Islanda abbiamo lasciato fallire le banche. Erano istituzioni private. Non abbiamo iniettato denaro per tenerle a galla. Lo Stato non si è assunto questa responsabilità "[10].

Contro ogni previsione, il Fondo monetario internazionale ha accolto con favore la politica del governo islandese - che ha applicato misure agli antipodi di quelle che esso sostiene - il che ha permesso di preservare "il prezioso modello nordico della protezione sociale". In effetti l'Islanda ha un indice di sviluppo umano molto alto. "Il FMI dichiara che il piano di salvataggio islandese offre lezioni per i tempi di crisi." 


L'organizzazione ha aggiunto che "il fatto che l'Islanda sia riuscita a conservare il benessere sociale delle famiglie e ottenere un importante consolidamento fiscale è uno dei più grandi successi del programma del governo islandese." Il FMI ha omesso di dire che questi risultati sono stati possibili solo perché l'Islanda ha rifiutato la sua terapia di shock neoliberista, attuando invece un piano di recupero efficace e alternativo [11].

Il caso dell'Islanda dimostra che vi è un'alternativa credibile alle politiche di austerità attuate in tutta Europa. Queste, oltre ad essere economicamente inefficienti, sono politicamente costose e socialmente insostenibili. Con la scelta di mettere l'interesse pubblico al di sopra di quello del mercato, l'Islanda mostra la via al resto del continente per uscire dalla crisi.


NOTE:

[1] Paul M. Poulsen, « Comment l’Islande, naguère au bord du gouffre, a pu se rétablir », Fond monétaire international, 26 ottobre 2011. http://www.imf.org/external/french/np/blog/2011/102611f.htm (sito consultato l'11 settembre 2012).
[2] Marie-Joëlle Gros, « Islande : la reprise a une sale dette », Libération, 15 aprile 2012.
[3] Comité d’annulation de la dette du Tiers-monde, « Quand l’Islande réinvente la démocratie », 4 dicembre 2010.
[4] Costituzione islandese, 29 luglio 2011. http://stjornlagarad.is/other_files/stjornlagarad/Frumvarp-enska.pdf (sito consultato l'11 settembre 2012).
[5] Antoine Grenapin, « Comment l’Islande est sortie de l’enfer », Le Point, 27 febbraio 2012.
[6] Marie-Joëlle Gros, « Islande : la reprise a une sale dette », op. cit.
[7] Caroline Bruneau, « Crise islandaise : l’ex-premier ministre n’est pas sanctionné », 13 maggio 2012.
[8] Ambrose Evans-Pritchard, « Iceland Wins in the End », The Daily Telegraph, 28 novembre 2011.
[9] Le Figaro, « L’Islande a déjà remboursé le FMI », 16 marzo 2012.
[10] Ambrose Evans-Pritchard, « Iceland Offers Risky Temptation for Ireland as Recession Ends », The Daily Telegraph, 8 dicembre 2010.
[11] Omar R. Valdimarsson, « IMF Says Bailout Iceland-Style Hold Lessons in Crisis Times », Business Week, 13 agosto 2012.  



*Salim Lamrani
Dottorato Iberista e Latino-americano Università Paris Sorbonne-Paris IV Salim Lamrani è docente all'Università di Réunion, giornalista, specialista delle relazioni tra Cuba e gli Stati Uniti.
Il suo ultimo libro si intitola "Stato di assedio. Le sanzioni economiche degli USA contro Cuba" Paris, Éditions Estrella, 2011 (prologo di Wayne S. Smith e prefazione di Paul Estrade).
Contatti: lamranisalim@yahoo.fr ; Salim.Lamrani@univ-reunion.fr
Pagina Facebook : https://www.facebook.com/SalimLamraniOfficiel

venerdì 19 ottobre 2012

Libia update

A un anno dall'uccisione del Colonnello Gheddafi e a oltre un mese dall'omicidio dell'ambasciatore USA Stevens, la Libia continua a sprofondare in un caos sempre più incontrollato e nel silenzio più assoluto dei media mainstream occidentali.

Qui di seguito un aggiornamento della situazione libica.




Bani Walid, una strage silenziosa

di Michele Paris - Altrenotizie - 18 Ottobre 2012

Nella quasi totale indifferenza dei media e dei governi occidentali, da qualche giorno è in atto un sanguinoso assedio alla città libica di Bani Walid ad opera di alcune delle milizie armate che imperversano nel paese nord-africano. 


Nella località, situata a poco meno di 200 chilometri a sud-est di Tripoli, troverebbero rifugio fedelissimi del precedente regime di Gheddafi, presi di mira dagli ex ribelli in seguito alla morte di un loro membro che svolse un ruolo fondamentale nella cattura e nel brutale assassinio del rais quasi un anno fa a Sirte.

Il bilancio degli scontri nella sola giornata di mercoledì è stato di almeno undici morti tra la popolazione di Bani Walid, colpita, come ha riferito un residente della città all’agenzia di stampa AFP, da intensi bombardamenti provenienti da tre postazioni, con gravi danni inflitti ai quartieri residenziali.

Secondo i resoconti dei media occidentali, Bani Walid non sarebbe mai stata completamente “liberata” dai guerriglieri, nonostante la città fosse stata dichiarata libera dalle forze legate al regime il 17 ottobre dello scorso anno, tre giorni prima dell’esecuzione di Gheddafi.

Le tensioni a Bani Walid erano in ogni caso tornate a riaccendersi pericolosamente lo scorso 25 settembre, quando il parlamento di Tripoli (Congresso Generale Nazionale) aveva ordinato ai ministri della Difesa e degli Interni di trovare, anche con l’uso della forza, i responsabili del rapimento e dell’uccisione del 22enne Omran ben Shaaban.

Quest’ultimo era un ex ribelle che aveva individuato Gheddafi a Sirte dopo che il suo convoglio era stato colpito da un bombardamento NATO mentre cercava di lasciare la città sotto assedio. Shaaban era stato rapito a luglio a Bani Walid e, nel tentativo di fuggire ai suoi sequestratori, era stato raggiunto da due colpi di arma da fuoco. 

Successivamente Shaaban è stato liberato grazie all’intervento del presidente del Congresso, Mohamed Magarief, ma è comunque deceduto in un ospedale francese dove era stato trasferito.

Dai primi di ottobre, dunque, le milizie di Misurata e di altre località libiche hanno cominciato a circondare la città, mettendola sotto assedio dopo il fallito tentativo di trovare un accordo con i capi tribali. 

Le milizie hanno a lungo impedito le forniture di beni di prima necessità, così come l’evacuazione dei civili, mentre la Croce Rossa ha ottenuto il via libera per accedere agli ospedali solo il 10 ottobre scorso.

I toni minacciosi provenienti dai leader delle milizie e dal governo non promettono nulla di buono per Bani Walid. Come riportato dalla stampa locale nei giorni scorsi, infatti, le autorità di Misurata hanno lanciato un appello per una massiccia operazione militare contro la città, definita il “cancro della Libia”, che ospiterebbe i nostalgici di Gheddafi da “eliminare con la forza” per evitare che le forze anti-rivoluzionarie si propaghino in tutto il paese.

Nella giornata di giovedì, poi, la stampa locale ha riferito che l’esercito libico si sarebbe messo in marcia verso Bani Walid in seguito agli ordini del capo di Stato maggiore, generale Yusuf Mangush e in attuazione della già ricordata risoluzione del Parlamento.

La punizione indiscriminata inflitta alla popolazione di una città che ha rappresentato una roccaforte del regime di Gheddafi fino alla fine testimonia ancora una volta la natura delle forze sulle quali i paesi occidentali hanno fatto affidamento per rovesciare il rais. 

I presunti “liberatori” della Libia, come hanno messo in luce svariate ricerche sul campo condotte dalle più autorevoli organizzazioni umanitarie, si erano infatti ben presto distinti per le innumerevoli violazioni dei diritti umani commesse, comprese esecuzioni sommarie, torture e detenzioni di massa senza accuse né processi.

A sollevare sospetti inquietanti sui metodi impiegati dagli ex ribelli a Bani Walid sono stati alcuni medici che operano negli ospedali della città, i quali hanno raccontato l’arrivo nelle loro strutture di feriti civili che presentavano sintomi tali da far pensare all’uso da parte delle milizie di armi con gas velenosi.

Le operazioni in corso a Bani Walid sono anche l’ennesima prova del caos che regna in Libia e la quasi totale assenza di controllo sulle milizie armate da parte del nuovo governo centrale, tanto che un paio di giorni fa, nel pieno dell’assalto alla città, un portavoce dell’esercito regolare affermava ancora che da Tripoli non era partito nessun ordine di assediare la città.

I governi occidentali che hanno appoggiato il cambio di regime a Tripoli per ragioni esclusivamente geo-strategiche continuano a mantenere un imbarazzante silenzio sui fatti di Bani Walid, consapevoli che un dibattito su quanto sta accadendo in questi giorni e, più in generale, sulle condizioni della Libia del dopo-Gheddafi corrisponderebbe a smascherare gli interessi che hanno portato all’intervento della NATO nel marzo 2011 in appoggio di forze reazionarie propagandate come combattenti per la democrazia.

Lo stesso governo italiano non sembra intenzionato a fare alcuna pressione su Tripoli, nonostante nei giorni scorsi ci siano stati contatti diretti con le autorità libiche. Martedì, ad esempio, il premier Monti si è congratulato telefonicamente con il neo-primo ministro, Ali Zidan, ribadendo la fiducia di Roma “nel futuro della Libia”. 

Un paio di giorni prima era stato invece il ministro degli Esteri, il fedelissimo di Washington Giulio Terzi di Sant’Agata, a felicitarsi con Zidan, esprimendo la speranza di un prossimo vertice bilaterale.


Missili sul «cancro della Libia», l'ospedale è ormai al collasso
di Marinella Correggia - Il Manifesto - 18 Ottobre 2012

Secondo le testimonianze frammentarie che arrivano dall'ospedale di Bani Walid, ieri sono stati violenti gli attacchi alla città con mortai e missili Grad da parte di milizie di Misurata, Zintan e Suq Juma, con l'avallo dei ministeri degli interni e della difesa libici. 

L'ospedale ha ricevuto molti feriti. Il dottor Taha, al telefono dall'ospedale, dice: «Siamo pienissimi. Abbiamo quasi cento persone fra cui donne e bambini con ferite e ustioni da esplosione. Tre uomini devono essere amputati, altri due sono morti. Per ora abbiamo quanto serve per trattare almeno i casi più urgenti, ma il nostro ospedale è piccolo ed eravamo già in difficoltà prima per via del blocco. Abbiamo solo due camere operatorie». 

L'ospedale è nel centro della città, dal telefono si sentono scoppi tutto intorno: «E c'è fumo dappertutto», dice Taha. «Due case sono state centrate da un missile nel quartiere di Barakta dove vive la mia famiglia, un'altra a Zahra», racconta A. che vive all'estero in attesa di asilo e che ha sentito la famiglia. È un tentativo di attacco finale? 

Le "autorità" di Misurata hanno fatto appello per una massiccia operazione militare contro Bani Walid, «il cancro della Libia», riferisce Ansamed. Altrimenti i nostalgici di Gheddafi riprenderanno fiato e si propagheranno «in tutto il paese».
 

Le comunicazioni stradali fra la città e l'esterno sono molto difficili da due settimane. Il blocco delle forniture anche mediche (a più riprese gli assedianti avrebbero bloccato veicoli carichi di aiuti sanitari) rende difficile curare i numerosi feriti sia civili che armati, vittime degli scontri e del lancio di missili e colpi di mortaio. 

Nei giorni precedenti i medici riferivano i nomi di bambini morti e feriti, dicevano di persone con ustioni e ferite da operare e di carenza di materiale ortopedico. Denunciavano il probabile uso da parte degli assedianti di gas velenosi «perché abbiamo casi inspiegabili di difficoltà respiratorie e intossicazioni. Chiediamo ambulanze, ossigeno, analgesici».
 

La situazione ricorda su scala minore (ma nella stessa indifferenza internazionale) l'assedio a Sirte esattamente un anno fa: allora le truppe del Cnt impedirono per giorni l'ingresso in città da parte della stessa Croce Rossa internazionale (Icrc). 

A Tripoli l'addetta stampa dell'organizzazione interpellata al cellulare fa in tempo a dire che «sì, effettivamente oggi la situazione è molto peggiorata», poi cade la linea ed è impossibile ripristinarla. 

Sul sito la notizia più recente è il rapporto dell'Icrc sugli ultimi sette mesi di attività in Libia: soccorso a centri di detenzione, ricerca persone scomparse, aiuti di emergenza a migranti, forniture agli ospedali delle numerose località dove si susseguono scontri, rimozione di ordigni inesplosi. Insomma uno scorcio della nuova Libia.
 

La Icrc a Bani Walid è arrivata una sola volta, lo scorso 10 ottobre, all'ospedale centrale, grazie a una strada sbloccata, mentre gli scontri avvenivano soprattutto a Mardum, 40 chilometri da Bani Walid. 

L'ufficio stampa informava allora che «una équipe qualificata con medico e infermiere ha portato in città il materiale necessario per operare cinquanta persone, ha potuto visitare alcuni feriti dalle bombe e dagli scontri, ha parlato con i medici i quali ritengono per ora di poter far fronte alla situazione senza evacuazioni di feriti». 

Aggiungedo: «Anche perché pochi desiderano essere evacuati». In Libia le persone sparite e incarcerate sono all'ordine del giorno e venire da Bani Walid, ex roccaforte dei fedeli di Gheddafi, non è una buona presentazione.
 

La crisi a Bani Walid è cominciata quando il Congresso libico ha dato il permesso di usare la forza per arrestare alcuni abitanti, sospettati di aver ucciso Omran Shaaban, che forse aiutò a catturare Gheddafi il 20 ottobre 2011. Da Bani Walid hanno negato categoricamente sostenendo tutt'altra tesi: «Parlate con i medici ucraini che sono qui e possono testimoniare che lo abbiamo curato».
 

Una petizione provocatoria circolava giorni fa tra gli abitanti della città, l'anno scorso fra le ultime ad arrendersi alle forze del Cnt alleate della Nato: «Chiediamo al Consiglio di Sicurezza dell'Onu di riunirsi per intervenire a proteggere i civili della città». L'Italia non fa alcuna pressione sul suo alleato di Tripoli.



Libia: Casa Bianca nel caos
di Michele Paris - Altrenotizie - 16 Ottobre 2012

A oltre un mese di distanza dall’assassinio a Bengasi dell’ambasciatore degli Stati Uniti in Libia, J. Christopher Stevens, le responsabilità e le circostanze relative alla morte del diplomatico americano rimangono al centro di un accesissimo dibattito che a Washington si è inserito prepotentemente nella campagna elettorale per la Casa Bianca. 

Nonostante le indagini in corso, le numerose audizioni ordinate dal Congresso e i quotidiani scambi di accuse tra democratici e repubblicani, la fondamentale questione politica riguardante il paese nord-africano continua rigorosamente a rimanere fuori dalla discussione, vale a dire la condizione in cui esso è precipitato dopo la “liberazione” dal regime di Muammar Gheddafi e che ha reso possibili i fatti dell’11 settembre scorso.
 

Al centro dello scontro tra i due principali partiti d’oltreoceano ci sono soprattutto le responsabilità dell’amministrazione Obama e la sua valutazione dell’assalto di Bengasi che ha causato la morte dell’ambasciatore e di altri tre cittadini americani incaricati del servizio di sicurezza presso il consolato. 

I repubblicani sostengono che il presidente non abbia garantito un adeguato livello di sicurezza dell’edificio, nonché sottovalutato l’assalto, considerato inizialmente una protesta spontanea contro la diffusione in rete di un filmato amatoriale che irrideva il profeta Muhammad.
 

Per i repubblicani l’attacco sarebbe stato invece una vera e propria operazione terroristica, attentamente pianificata e portata a termine da estremisti legati in qualche modo ad Al-Qaeda, verosimilmente affiliati al gruppo Ansar al-Shariah. 

I democratici, da parte loro, oltre a sostenere che la posizione presa dalla Casa Bianca al momento dei fatti si basava sulle informazioni disponibili in quel momento, accusano i repubblicani di cercare di politicizzare una tragedia dopo che essi stessi hanno contribuito ad implementare pesanti tagli alla sicurezza delle rappresentanze diplomatiche americane.

All’interno della stessa amministrazione Obama ci sono in ogni caso posizioni differenti. Il Segretario di Stato, Hillary Clinton, un paio di settimane fa all’ONU aveva infatti dichiarato che esistevano possibilità concrete che i giustizieri di Stevens avessero legami con Al-Qaeda nel Maghreb Islamico (AQIM), mentre proprio lunedì, nel corso di un’intervista alla CNN, la ex senatrice di New York si è assunta la piena responsabilità per non avere adeguatamente protetto il consolato di Bengasi.
 

Le parole della Clinton, secondo alcuni commentatori, sarebbero state pronunciate per cercare di limitare gli attacchi di Romney al presidente Obama su questo argomento nel secondo dibattito presidenziale di martedì a Long Island. 

L’ammissione segue però anche le polemiche sollevate dalle dichiarazioni rilasciate settimana scorsa di fronte ad un’apposita commissione della Camera dei Rappresentanti dall’ex responsabile della sicurezza per l’ambasciata USA in Libia, Eric Nordstrom. 

Quest’ultimo aveva sostenuto che il Dipartimento di Stato aveva negato la sua richiesta di estendere le misure di sicurezza esistenti e che prevedevano l’impiego di un team di soldati americani.
 

Al di là delle falle nei sistemi di sicurezza, la questione più rilevante, come già anticipato, è legata alle condizioni in cui versa la Libia dopo un anno dalla vittoria dei “ribelli” e dal barbaro assassinio di Gheddafi, avvenuto a Sirte il 20 ottobre 2011. 

Le operazioni militari NATO, scatenate grazie alla manipolazione della risoluzione 1975 del Consiglio di Sicurezza dell’ONU del marzo 2011, hanno cioè gettato uno dei paesi più stabili e relativamente floridi del continente africano nel caos, lasciandolo di fatto nelle mani di numerose milizie armate che si fronteggiano per il controllo del territorio mentre il governo centrale e le forze di sicurezza restano paralizzate e incapaci di imporre la propria autorità.
 

La presunta “liberazione” del paese e il propagandato arrivo della democrazia grazie all’intervento degli Stati Uniti e dei loro alleati, oltre ad avere causato decine di migliaia di morti per prevenire la minaccia del regime di massacrare i propri cittadini in rivolta, ha permesso il proliferare sia di gruppi armati che si sono resi responsabili di gravissime violazioni dei diritti umani sia di formazioni con legami ad Al-Qaeda che operano nel paese nella pressoché completa impunità, spesso contro gli stessi “liberatori” stranieri che li hanno sostenuti.
 

Estremamente significativo della situazione libica è poi l’assedio dei giorni scorsi posto dagli ex ribelli alla città di Bani Walid, dove rimarrebbero alcuni fedeli di Gheddafi. Nel silenzio dell’Occidente, i nuovi padroni della Libia hanno bombardato la città, hanno impedito per giorni l’ingresso di cibo e medicinali e, secondo quanto riferito dai medici che vi operano, hanno impiegato armi con gas velenosi come il Sarin anche contro quartieri residenziali.
 

La situazione dei diritti umani, in difesa dei quali sarebbe stata combattuta la guerra contro il precedente regime, è stata ad esempio descritta dalla ONG britannica International Center for Prison Studies, secondo la quale l’attuale popolazione carceraria della Libia, che ammonta a circa 9 mila detenuti, è alloggiata in gran parte in strutture improvvisate e, soprattutto, viene sottoposta regolarmente a torture. 

La Libia ha poi la più elevata percentuale di detenuti senza accuse formali o processo (89%), di cui una parte stranieri, per lo più lavoratori emigrati sub-sahariani di colore arrestati durante e dopo la guerra perché sospettati di essere sostenitori di Gheddafi solo per il colore della loro pelle.
 

In questo scenario, gli stessi gruppi estremisti che gli Stati Uniti hanno sostenuto e finanziato per rovesciare il regime hanno potuto organizzarsi liberamente e, grazie alle armi provenienti dai loro benefattori occidentali e arabi, hanno finito per mettere a segno operazioni come quella in cui ha perso la vita l’ambasciatore Stevens, egli stesso inviato precocemente nel paese lo scorso anno proprio per stabilire contatti più intensi con i ribelli e le formazioni jihadiste simili a quelle che lo hanno assassinato.
 

A Washington, però, si continua accuratamente ad evitare di sollevare il punto cruciale della crisi libica nel post-Gheddafi, poiché farlo in maniera seria comporterebbe con ogni probabilità mettere in discussione l’intera strategia anti-terrorismo americana lanciata dopo gli attacchi al World Trade Center. 

Inoltre, tale discussione porterebbe alla luce il vero motivo che ha portato alla pianificazione dell’operazione NATO in un paese ricco di risorse energetiche come la Libia, cioè la rimozione di un regime poco malleabile e troppo disponibile nei confronti di Russia e Cina.
 

Soprattutto, come dimostrano i dubbi che stanno attraversando la classe dirigente statunitense, ammettere il nuovo colossale errore di valutazione in Libia significherebbe dover ripensare l’approccio alla crisi in Siria, dove l’amministrazione Obama sta per molti versi replicando la strategica libica, appoggiando, armando e finanziando forze terroristiche per rovesciare Bashar al-Assad.
 

La situazione in Libia potrebbe infine subire un ulteriore drammatico cambiamento nel prossimo futuro, sia con possibili bombardamenti americani per punire i colpevoli della morte dell’ambasciatore Stevens, sia tramite un intervento con forze di terra che renderebbe ancora più esplosiva la realtà sul campo.
 

La conferma di quest’ultima ipotesi è giunta da un articolo di lunedì del New York Times, nel quale si afferma che il Pentagono e il Dipartimento di Stato hanno già concordato con il governo di Tripoli l’invio in Libia di reparti delle Forze Speciali americane per addestrare un forza anti-terrorismo indigena composta da 500 soldati.
 

A questo scopo sono già stati stanziati 8 milioni di dollari e il progetto ricalcherebbe quelli già messi in atto in Pakistan o in Yemen, due paesi, come la Libia, di grande importanza strategica per gli interessi americani e che perciò negli ultimi anni hanno visto aumentare l’impegno di Washington all’interno dei loro confini, come sempre in nome della lotta al terrorismo e in difesa della democrazia e dei diritti umani.

giovedì 4 ottobre 2012

Tra Siria e Iran...

Un aggiornamento sulla situazione siriana e di conseguenza anche su quella iraniana.



La Turchia tenta di provocare una guerra contro la Siria
di Tony Cartalucci - http://landdestroyer.blogspot.it/ - 3 Ottobre 2012


La Turchia spara sulla Siria dopo che degli sconosciuti hanno attaccato una città di confine turca
Dopo aver ospitato terroristi stranieri e sostenuto le loro operazioni lungo tutto il confine siriano-turco per oltre un anno, la Turchia, membro della NATO, ha sostenuto di aver risposto militarmente contro “obiettivi” in Siria, per un presunto attacco al territorio turco che essa attribuisce al governo siriano. 

Nonostante le organizzazioni terroristiche pesantemente armate che operano in gran numero su entrambi i lati del confine turco, con l’esplicita approvazione e il supporto logistico della Turchia, il governo di Ankara sembra aver escluso la possibilità che queste forze terroristiche, non l’esercito siriano, siano responsabili dell’attacco con dei colpi di mortaio, che i militanti armati sono noti usare ampiamente.


Immagine: i terroristi che operano in Siria posano accanto a un grande mortaio. I mortai di ogni calibro sono i favoriti dai terroristi, che operano in Siria per attuare, per conto della NATO, un cambiamento violento del regime. 

I mortai che hanno sparato in territorio turco probabilmente potrebbero provenire dalla Turchia, che finanzia, arma e accoglie i terroristi per conto delle a lungo pianificate macchinazioni della NATO. A differenza del governo siriano, i terroristi, la Turchia, e di conseguenza la NATO, hanno una motivazione reale per lanciare l’attacco iniziale che giustificherebbe la Turchia nel reagire e prevedibilmente nel chiedere alla NATO di intervenire.

Il New York Times, nel suo articolo intitolato “L’artiglieria della Turchia spara su obiettivi siriani in rappresaglia per la morte di civili”, ammette che: “Non si sa se i proiettili di mortaio siano stati sparati dalle forze governative siriane o dai ribelli che combattono per rovesciare il governo del presidente Bashar al-Assad. La risposta turca sembrava dare per scontato che il governo siriano ne sia responsabile”. 

L’immediato atto ingiustificato di aggressione militare della Turchia, insieme all’istintiva condanna degli Stati Uniti, ha tutte le caratteristiche di un evento orchestrato, o per lo meno, di un tentativo di cogliere opportunisticamente un caso isolato per far avanzare in modo infido l’agenda geopolitica collettiva dell’Occidente. 

La Siria non ha evidentemente alcun interesse a minacciare la sicurezza della Turchia, né alcun motivo di attaccare il territorio turco, cosa che fonirebbe sicuramente la scusa che si cerca per poter intervenire direttamente a fianco dei fallimentari terroristi fantocci della NATO.

La Turchia desidera ardentemente un pretesto per avviare la seconda guerra con la Siria
E’ stato precedentemente riportato che la Turchia è stata designata dalla NATO e, più specificamente, da Wall Street e Londra, a guidare gli sforzi per ritagliare “zone franche” nel nord della Siria, e di farlo tramite una falsa forza “umanitaria” o un falso pretesto per la “sicurezza”. 

Ciò è stato confermato dal Brookings Institution, un think-tank sulla politica estera degli Stati Uniti, finanziato da Fortune-500, che ha stilato i progetti per il cambiamento di regime in Libia così come in Siria e Iran. 

Nella sua relazione “Valutazione delle opzioni di un cambio di regime” si afferma: “Un’alternativa agli sforzi diplomatici su come concentrarsi per porre fine alle violenze e avere accesso umanitario, come si sta facendo sotto la guida di Annan. Ciò potrebbe portare alla creazione di zone franche e corridoi umanitari che dovrebbero essere sostenuti da un limitato potere militare. Ciò, naturalmente, non raggiunge gli obiettivi degli Stati Uniti per la Siria, in cui Assad potrebbe conservare il potere. Da questo punto di partenza, però, è possibile che una vasta coalizione con un mandato internazionale possa aggiungere ulteriori azioni coercitive ai suoi sforzi“. 

Pagina 4,  ‘Valutazione delle opzioni per il cambiamento di regime’, Brookings Institution.
Immagine: Brookings Institution, Memo N°21 sul Medio Oriente, “Valutazione delle opzioni di un cambio di regime (.pdf), non è un segreto che l’umanitaria “responsabilità di proteggere” non sia che un pretesto per un cambio di regime a lungo pianificato.

Il Brookings continua descrivendo come la Turchia potrebbe allineare grandi quantità di armi e truppe lungo il confine, in coordinamento con gli sforzi israeliani nel sud della Siria, che potrebbe contribuire a un violento cambiamento del regime vigente in Siria: “Inoltre, i servizi di intelligence d’Israele hanno una forte conoscenza della Siria, così come delle attività nel regime siriano, che potrebbero essere utilizzate per sovvertire la base di potere del regime e avviare la rimozione di Assad. Israele potrebbe inviare truppe su o vicino le alture del Golan e, in tal modo, potrebbe distogliere le forze del regime dal reprimere l’opposizione. Questa posizione può evocare la paura nel regime di Assad di una guerra su vari fronti, in particolare se la Turchia è disposta a fare lo stesso sul suo confine, e se l’opposizione siriana è alimentata continuamente con armi e addestramento. Una tale mobilitazione potrebbe, forse, convincere la leadership militare della Siria a cacciare Assad al fine di preservare se stessa. I sostenitori argomentano che questa pressione supplementare potrebbe far pendere la bilancia contro Assad in Siria, se altre forze vi si allineano correttamente”. Pagina 6, ‘Valutazione delle opzioni per il cambiamento di regime’, Brookings Institution.

I leader turchi hanno chiaramente passato molto tempo a fabbricare scuse varie per soddisfare le richieste di Washington, fabbricando o approfittando delle violenze che la stessa Turchia promuove lungo il confine con la Siria. 

La relazione menzionerebbe anche il ruolo della Turchia nel contribuire a minare, sovvertire e staccare l’antica città settentrionale di Aleppo: “Poiché la creazione di un’opposizione nazionale unificata è un progetto a lungo termine che non avrà probabilmente mai pieno successo, il gruppo di contatto, pur non abbandonando questo sforzo, può chiedere obiettivi più realistici. Ad esempio, potrebbe concentrare il massimo sforzo per l’attesa  frattura tra Assad e, diciamo, l’elite di Aleppo, la capitale commerciale e città in cui la Turchia ha il maggior effetto leva. Se Aleppo dovesse cadere in mao all’opposizione, l’effetto demoralizzante sul regime sarebbe notevole. Se questa opzione fallisce, gli Stati Uniti potrebbero semplicemente accettare una pessima situazione in Siria o intensificare una delle seguenti opzioni militari”. Pagina 6, ‘Valutazione delle opzioni per il cambiamento di regime’, Brookings Institution.

Le opzioni militari comprendono tutto ciò che serve a perpetuare le violenze, secondo la Brookings,facendolo sanguinare, si mantene un avversario regionale debole, evitando i costi dell’intervento diretto“, dalla “no-fly zone” in stile ad libico a una vera invasione militare. 

E’ chiaro, leggendo la nota della Brookings, che la cospirazione ha avuto inizio fin dalla sua redazione; con varie opzioni militari in fase di preparazione e vari cospiratori che si posizionano per eseguirle. 

Per la Brookings Institution le “zone franche” e i “corridoi umanitari” sono destinati ad essere creati dal membro della NATO, la Turchia, che per mesi ha minacciato di invadere parzialmente la Siria, al fine di raggiungere questo obiettivo. 

E mentre la Turchia sostiene che tutto ciò si basa su “questioni umanitarie”, esaminando la situazione abissale dei diritti umani in Turchia, oltre alle proprie attuali campagne di genocidio contro il popolo curdo, sia all’interno che all’esterno delle sue frontiere, è chiaro che sta semplicemente adempiendo agli ordini dettati dai suoi padroni occidentali di Wall Street e della City di Londra.
Foto: nel 2008, carri armati turchi entrano in Iraq per un’incursione contro città curde e per cacciare sospetti ribelli. Più recentemente, la Turchia ha bombardato “sospette” basi dei ribelli sia in Turchia che in Iraq, così come ha effettuato massicci arresti a livello nazionale. Stranamente, la Turchia verifica ciò di cui la Libia di Gheddafi e la Siria di Assad vengono accusate di fare, in totale  ipocrisia, chiedendo l’invasione parziale della Siria sulla base di “preoccupazioni umanitarie.”

Questo ultimo scambio a fuoco tra la Turchia e la Siria non è il primo. La Turchia ha fabbricato  storie su pretesi ‘attacchi’ delle truppe siriane oltre il confine turco-siriano. The New York Times ha pubblicato queste accuse in grassetto, prima di ammettere, in fondo pagina, che “non è chiaro che tipo di armi hanno causato danni, domenica, a circa sei miglia all’interno del territorio turco“, e che “ci sono resoconti contrastanti circa l’incidente“. 

Come lo sono tutte le accuse fatte dalla NATO, dall’ONU e dai singoli Stati membri per giustificare l’ingerenza negli affari della Siria, questi resoconti comprendo le voci sparse dagli stessi ribelli. E’ chiaro che la Turchia, la NATO e le Nazioni Unite tentano continuamente di inventarsi un pretesto per la creazione di “zone franche” e “corridoi umanitari” destinati ad aggirare il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, che ha visto i tentativi di via libero all’intervento militare bloccati dal veto multiplo posto da Russia e Cina. 

Che le Nazioni Unite non siano riuscite del tutto a condannare le provocazioni combinate e l’ingerenza negli affari della Siria, illustra il fallimento assoluto della sovranazionalità, per non parlare della governance globale.


Ecco perchè il Qatar vuole invadere la Siria
di Pepe Escobar - Asia Times - 28 Settembre 2012
Traduzione a cura di ELISA BERTELLI per www.Comedonchisciotte.org
 
L’Emiro del Qatar sta cavalcando l’onda del successo, statene pur certi.

Che entrata in scena all’Assemblea generale delle Nazioni Unite, a New York! Lo sceicco Hamad bin Khalifa al Thani (nella foto) ha richiesto nientepopodimeno che una coalizione araba “disposta” a invadere la Siria.

Secondo l’emiro, “è meglio che ad intervenire nei loro doveri nazionali, umanitari, politici e militari siano i Paesi arabi stessi, che devono adoperarsi per metter fine allo spargimento di sangue in Siria”. Inoltre, ha sottolineato il fatto che i Paesi arabi hanno il “dovere militare” di invadere la Siria.

Stando all’emiro, i “Paesi arabi” sono le petromonarchie del Club Contro-Rivoluzionario del Golfo (CCG), precedentemente conosciuto anche come Consiglio di Cooperazione del Golfo, più il tacito aiuto della Turchia, la quale dispone di un accordo strategico ad ampio raggio col CCG. In ogni narghilè bar in Medio Oriente si sa che Doha, Riyad e Ankara stanno fornendo armi, finanziamenti e aiuto logistico alle diverse frange dell’opposizione armata siriana impegnata nel cambio di regime.

L’emiro ha anche citato un “precedente simile” di questo tipo d’invasione, ossia quando le “forze arabe sono intervenute in Libano” negli anni Settanta. Tra parentesi, negli anni Settanta, l’emiro stesso prese parte ad interventi più mondani per quasi tutto il corso del decennio, come mettersi a proprio agio in destinazioni esclusive del Club Med con gli altri membri delle famiglie reali del Golfo, come testimonia questa fotografia (l’emiro è quello a sinistra).

Ma adesso, quindi, l’emiro sta propugnando una versione araba della R2P (“responsabilità di proteggere”), dottrina proposta dalle Tre Grazie dell’Intervento Umanitario (Hillary Clinton, Susan Rice e Samantha Power)?

Senz’altro, questa sarà accolta a braccia aperte da Washington, per non parlare di Ankara o addirittura di Parigi, dato che il presidente francese François Hollande ha appena richiesto all’ONU di proteggere le zone “liberate” in Siria.

Il precedente libanese dell’emiro non è esattamente edificante, e questo è un eufemismo. La cosiddetta Forza Araba di Dissuasione, forte dei suoi 20.000 uomini, s’introdusse in Libano per tentare di arginare la guerra civile, abusando dell’ospitalità libanese per niente meno che sette anni. 

L’intervento militare si trasformò in un’occupazione del nord del Libano da parte dell’esercito siriano. Le forze armate lasciarono ufficialmente il territorio nel 1982, mentre la guerra civile continuava a imperversare.

Ecco, immaginatevi uno scenario simile per la Siria, e pompatelo con gli steroidi.

“Un tipo abbastanza influente”


Riguardo l’ardore umanitario – per non menzionare quello democratico – dell’emiro, leggere il pensiero del presidente degli Stati Uniti Barack Obama è illuminante: egli definisce l’emiro come un “tipo abbastanza influente”. 

Sembra quasi che Obama affermi implicitamente che non sia così urgente provvedere ad una maggior democrazia, sebbene “l’emiro non stia introducendo riforme significative” e che “non si siano fatti passi avanti nella democratizzazione del Qatar” solo perché il reddito procapite nell’emirato è gigantesco.

Quindi, possiamo supporre che l’emiro non sia affatto interessato a trasformare la Siria nella Scandinavia. Questo ragionamento apre la strada ad un movente ineluttabile e legato al Pipelineistan. E a cos’altro, sennò?

Attualmente, Vijay Prashad, autore della recente pubblicazione Arab Spring, Libyan Winter (N.d.T.: Primavera araba, inverno libico), cura una serie di articoli sul gruppo di contatto sulla Siria per la rivista Asia Times Online

Prashad ha ricevuto una chiamata telefonica da parte di un esperto di energia, che lo ha spronato ad indagare circa “l’ambizione del Qatar di realizzare una serie di gasdotti fino ad arrivare in Europa”. Secondo questa fonte, “il percorso proposto avrebbe attraversato i territori di Iraq e Turchia. Il primo paese di transito rappresenta un problema. È molto più semplice passare da nord (e il Qatar ha già assicurato gas gratuito alla Giordania).”

Anche prima che Prashad terminasse l’indagine, era ovvio a cosa puntasse il Qatar: schiacciare il progetto del gasdotto da 10 miliardi di dollari che attraverserebbe Iran, Iraq e Siria, un affare concluso nonostante la rivolta siriana fosse già in fieri.

Ecco che il Qatar ci appare in veste di concorrente diretto sia con l’Iran (in quanto produttore) che con la Siria (in quanto destinazione), e ad un grado inferiore con l’Iraq (in quanto paese di transito). Inoltre, è utile ricordare l’opposizione categorica di Teheran e Baghdad ad un cambio di regime a Damasco.

Il gas proverrebbe dalla stessa base geografica e geologica: il South Pars, il più grande giacimento di gas al mondo che Iran e Qatar si spartiscono. Il gasdotto in Iran, Iraq e Siria – se mai sarà costruito – consoliderebbe un asse prevalentemente sciita tramite un cordone ombelicale economico d’acciaio.

D’altro canto, il Qatar preferirebbe costruire il suo gasdotto in una disposizione diversa dallo stile della “mezzaluna sciita” e con la Giordania come destinazione. Le esportazioni passerebbero dal Golfo di Aqaba al Golfo di Suez, per poi raggiungere il Mediterraneo. Un piano B che non fa una piega in un momento in cui i negoziati con Baghdad sono sempre più complicati (senza contare che il percorso attraverso Iraq e Turchia è nettamente più lungo).

Washington – e presumibilmente i clienti europei – sarebbero più che soddisfatti di sfruttare lo stratagemma del Pipelineistan in modo da far fuori il Gasdotto Islamico.

E se ci sarà un cambio di regime in Siria, favorito dall’invasione proposta dal Qatar, in termini di Pipelineistan sarà tutto più semplice, ovvio. Un più che probabile regime post-Assad dei Fratelli Musulmani accoglierebbe più che a braccia aperte un gasdotto qatariano. E questo renderebbe più semplice un prolungamento del gasdotto fino alla Turchia.

Ankara e Washington ne uscirebbero vittoriose: Ankara per via dello scopo strategico della Turchia, ossia diventare il principale crocevia energetico dal Medio Oriente e dall’Asia Centrale all’Europa. Il Gasdotto Islamico non farebbe altro che tagliarla fuori. 

E Washington perché la totalità della strategia energetica nel sudest asiatico dai tempi dell’amministrazione Clinton è stata quella di tagliar fuori, isolare e ledere l’Iran in tutti i modi possibili.

Il traballante trono hascemita


Tutto ciò indica che la Giordania è una pedina indispensabile nell’audace mossa geopolitica ed energetica del Qatar. La Giordania è stata invitata ad entrare a far parte del CCG, nonostante non sia esattamente situata nel Golfo Persico (e a chi importa? È una monarchia).

Uno dei pilastri della politica estera del Qatar è il sostegno illimitato dei Fratelli Musulmani, indipendentemente dalla latitudine. In Egitto, i Fratelli Musulmani hanno già conquistato la presidenza. 

In Libia sono forti. Potrebbero arrivare ad assumere un ruolo dominante se si verificasse un cambio di regime in Siria. Ecco che arriviamo all’aiuto da parte del Qatar fornito ai Fratelli Musulmani in Giordania.

Attualmente, il trono hascemita della Giordania è traballante, e questo è un eufemismo trascendentale.

L’afflusso di rifugiati siriani è costante. Aggiungetelo ai rifugiati palestinesi, che arrivarono ad ondate nelle fasi cruciali della guerra arabo-israeliana: nel 1948, 1967 e 1973. E poi unite il tutto ad un massiccio contingente di salafiti e jihadisti contro Damasco. 

Proprio qualche giorno fa è stato arrestato un certo Abu Usseid. Suo zio era nientemeno che Abu Musab al-Zarqawi, il famigerato ex capo di Al Qaeda in Iraq, morto nel 2006. Usseid stava per attraversare il deserto dalla Giordania alla Siria.

Da gennaio 2011 e anche prima della Primavera Araba, le proteste non hanno dato tregua ad Amman. Non sono stati risparmiati né Re Abdullah, conosciuto anche col nome di Re Playstation, né la fotogenica regina Rania, beniamina di Washington/Hollywood.

In Giordania, i Fratelli Musulmani non sono gli unici protagonisti dell’ondata di proteste. In quest’ultime hanno un ruolo attivo anche sindacati e movimenti sociali. La maggior parte dei manifestanti è giordana. 

Storicamente, i giordani hanno avuto il controllo su tutti i livelli della burocrazia statale. Tuttavia, il neoliberalismo li ha schiacciati a seguito dell’ondata selvaggia di privatizzazioni che ha investito la Giordania durante gli anni Novanta. Ora, il regno impoverito dipende dal FMI e da sussidi extra da parte degli Stati Uniti, del CCG e anche dell’Unione Europea.

Dominato da affiliazioni tribali e dalla devozione alla monarchia, il Parlamento non è altro che una farsa. Non si effettuano neanche delle riforme di facciata. Ad aprile, un primo ministro è stato sostituito e la maggior parte della popolazione neanche se n’è accorta. In più, un classico del mondo arabo: il regime mette a tacere le richieste di cambiamento aumentando la repressione.

Il Qatar mette un piede in questo pantano. Doha esige che Re Playstation abbracci la causa di Hamas. È stato il Qatar a promuovere l’incontro di gennaio tra il Re e il leader di Hamas Khaled Meshaal, espulso dalla Giordania nel 1999. Così, i giordani autoctoni si sono chiesti se il regno sarebbe stato sommerso da un’altra ondata di rifugiati palestinesi.

La Dinastia Saudita detiene gran parte del controllo dei media arabi, che sono stati sommersi da storie ed editoriali che presagivano che, dopo l’ascesa al potere dei Fratelli Musulmani a Damasco, sarebbe stata la volta di Amman. 

Il Qatar, comunque sia, prende il suo tempo. I Fratelli Musulmani esigono che la Giordania divenga una monarchia costituzionale. Poi, subentreranno politicamente in seguito alla riforma elettorale alla quale il Re Abdullah si opponeva da anni.

Adesso, i Fratelli Musulmani possono anche contare sul sostegno da parte delle tribù beduine, la cui tradizionale fedeltà al trono hascemita non era mai stata più traballante. Il regime ha ignorato le proteste a suo rischio e pericolo. I Fratelli Musulmani hanno convocato una manifestazione di massa contro il Re il 10 ottobre. 

Più prima che poi, il trono hascemita crollerà. Non sappiamo quale sarà la reazione di Obama, a parte pregare che non accada niente di sostanziale prima del 6 novembre. L’emiro del Qatar, invece, ha tutto il tempo del mondo. Per ogni regime che cadrà (ed entrerà a far parte dei Fratelli Musulmani), ci sarà un gasdotto da costruire.
 
Note:
1. Qatar's emir calls for Arab-led intervention in Syria, The National, 26 settembre 2012.
2. Syria's Pipelineistan war, Al Jazeera, 6 agosto 2012.
3. Qatar: Rich and Dangerous, Oilprice.com, 17 settembre 2012. 


Iran. La guerra economica contro Teheran
di Ferdinando Calda - Rinascita - 3 Ottobre 2012

Da Washington gridano al “successo” delle sanzioni. Da Tel Aviv tifano per una rivolta interna. Da Teheran annunciano misure contro questa “guerra economica all’Iran” e mettono in guardia dagli speculatori che ottengono mirano a “fare profitti con l’aumento dei prezzi” dei beni di prima necessità. 

Di sicuro c’è un dato: il forte deprezzamento del rial sul dollaro, causato da una penuria di valuta statunitense nelle casse iraniane. Dopo un altalenante declino, nei giorni scorsi la valuta iraniana ha registrato una sorta di “tracollo”, oltrepassando di colpo la soglia psicologica dei 30mila rial per 1 dollaro e perdendo, in appena una settimana, quasi un quarto del suo valore rispetto alla divisa Usa. Secondo i dati ufficiali, solo tra domenica e lunedì il cambio al mercato aperto rial-dollaro è passato da 29.700 a 32.800 (34.700 secondo altre stime). 

Una variazione che si attesta intorno al 40% in confronto all’inizio di settembre e del 130% rispetto all’autunno scorso, quando stavano per essere varate le più recenti sanzioni petrolifere e finanziarie da parte di Usa e Unione Europa messe in campo fra gennaio e luglio.
 
Per cercare di fronteggiare la caduta della valuta, il 24 settembre Teheran ha inaugurato un Centro per lo scambio di valute estere. Secondo quanto riportato dai media, nelle scorse settimane il governo ha impedito a quasi tutti gli importatori di comprare dollari attraverso il cambio ufficiale della Banca centrale, fisso intorno ai 12.260 rial, indirizzandoli invece verso il nuovo Centro. 

Questo, in concreto, offre un cambio del 2% inferiore a quello del mercato nero. Il Centro, secondo il governatore della Banca centrale Mahmoud Bahmani, citato dall’agenzia Fars, dovrebbe riuscire a “diminuire la pressione del mercato”, grazie a una forte dotazione di valuta straniera (proveniente per lo più dalla vendita del petrolio) che riuscirà a “far scendere il cambio”.
 
Ma anche se il nuovo Centro riuscisse a combattere la caduta del rial sul mercato interno, resta aperto il problema della capacità dell’Iran di rifornirsi di valuta pregiata estera. Un’operazione resa particolarmente problematica dalle stringenti sanzioni di Usa e alleati contro la Banca centrale iraniana e gli altri istituti finanziari del Paese. 

Alla fine dello scorso anno, il Fondo monetario internazionale (Fmi) valutava le riserve iraniane intorno ai 106 miliardi di dollari, teoricamente sufficienti a garantire le importazioni per circa 13 mesi. Ora si stima che siano scese a 50-70 miliardi.
 
“Sono abbastanza” per i bisogni del Paese e per “continuare a far girare l’economia”, ha rassicurato ieri il presidente iraniano Mahmoud Ahmadinejad, aggiungendo però che sarà necessario indicare delle “priorità” nell’acquisto dei beni dall’estero. 

Ahmadinejad ha quindi puntato il dito contro le sanzioni statunitensi, alla base della svalutazione “anomala” del rial. “Il nemico ha imposto delle sanzioni contro la vendita del petrolio, da cui proviene una gran parte della valuta, e quel che è peggio, delle sanzioni contro gli scambi bancari per cui se si vende del petrolio non è possibile far entrare in Patria il denaro”, ha spiegato il presidente, denunciando la “guerra psicologica” ed economica contro l’Iran, “su scala planetaria”.
 
Tuttavia, mentre il presidente assicura che “non ci sono problemi di bilancio” e che si tratta di crisi passeggera “imposta dall’esterno”,  gli avversari politici di Ahmadinejad accusano lui e il suo governo di essere la causa della svalutazione e della crescente inflazione (stimata tra il 20% e il 25% all’anno) che colpisce il Paese. 

Secondo il deputato conservatore Ali Motahari, il governo starebbe limitando l’immissione di valuta straniera nel mercato dei cambi per alzare il valore del dollaro e di conseguenza delle proprie riserve, nel tentativo di ripianare il deficit di bilancio creato dal calo delle esportazioni petrolifere e, soprattutto, dalla discussa riforma dei sussidi di povertà. Un piano ambizioso che persino l’Fmi definì positivamente come “uno dei più audaci mai tentati in Medio Oriente”.
 
E mentre l’opposizione politica attacca l’esecutivo di Ahmadinejad addossandogli le responsabilità della crisi economica del Paese, in Israele il ministro degli Esteri di Tel Aviv, Avigdor Lieberman, si dice speranzoso che le sanzioni producano un effetto “catastrofico” sull’economia iraniana, tanto da portare la popolazione alla disperazione e innescare una sorta di “rivoluzione Tahrir” all’iraniana. 

Tuttavia è ormai da tempo che a Teheran stanno preparando le contromisure per resistere a un assedio economico che cerca di ridurre il popolo iraniano alla fame.


Gli amici terroristi della Casa Bianca
di Michele Paris - Altrenotizie - 2 Ottobre 2012
 
Il Dipartimento di Stato americano ha ufficializzato la settimana scorsa la notizia - già apparsa qualche giorno prima sui media - della rimozione dall’elenco delle organizzazioni terroristiche straniere dei Mujahideen-e-Khalq (MeK) iraniani. 

Il successo diplomatico conseguito da questo gruppo che si batte per l’abbattimento della Repubblica Islamica è dovuto sostanzialmente ad una incessante e dispendiosa attività di lobby condotta in questi anni a Washington e alle prestazioni fornite ai servizi segreti di Stati Uniti e Israele nel tentativo di destabilizzare il regime di Teheran.

Come per molti gruppi o governi accusati di terrorismo e poi sdoganati per finire nella lista dei buoni a seconda delle necessità strategiche USA, anche i MeK si erano distinti per attacchi contro militari e diplomatici americani, nel loro caso condotti in territorio iraniano ai tempi dello Shah. 

Nati come un’organizzazione di ispirazione marxista, dopo aver contribuito al rovesciamento del regime filo-statunitense nel 1979 i MeK intrapresero ben presto una campagna terroristica contro la nuova Repubblica Islamica.

Durante la guerra tra Iran e Iraq del 1980-1988 si offrirono poi a Saddam Hussein, combattendo contro i propri connazionali e, al termine del conflitto, rimasero attivi in territorio iracheno, partecipando alla repressione contro la minoranza curda. 

Negli anni Novanta vennero aggiunti all’elenco americano delle organizzazioni terroristiche nell’ambito del tentativo di dialogo dell’amministrazione Clinton con il presidente riformista Muhammad Khatami. I MeK vennero infine disarmati dopo l’invasione dell’Iraq del 2003 e di fatto assoldati dagli Stati Uniti per la successiva campagna di destabilizzazione dell’Iran.

Nonostante il marchio terroristico, gli USA e Israele hanno coltivato intensi rapporti con i MeK, fornendo sostegno materiale e logistico per le loro attività. I due governi alleati hanno utilizzato i Mujahideen per ottenere dubbie informazioni di intelligence sul programma nucleare di Teheran e, soprattutto, per condurre operazioni segrete in territorio iraniano, compresi gli assassini di cinque scienziati nucleari a partire dal 2007. 

Le responsabilità dei MeK in queste morti sono state confermate, tra l’altro, da anonimi funzionari del governo americano citati lo scorso febbraio dalla NBC, i quali hanno anche affermato che l’amministrazione Obama era pienamente consapevole delle operazioni.

Le motivazioni ufficiali che hanno convinto il Dipartimento di Stato USA a prendere la recente decisione sui MeK sarebbero la loro astensione da atti terroristici da più di un decennio e il consenso alla richiesta americana di sgomberare la base di Camp Ashraf in Iraq, dove circa 3 mila Mujahideen trovano rifugio da anni. 

Costoro dovrebbero ora trasferirsi in un nuova apposita area nei pressi di Baghdad, in un primo passo verso l’abbandono definitivo del territorio iracheno. I MeK, inoltre, sostengono di volere continuare a battersi per il cambio di regime a Teheran, da sostituire con un governo secolare, ma con mezzi pacifici.

Nell’annunciare il loro depennamento dalla lista del terrore venerdì scorso, il Dipartimento di Stato ha affermato che il governo americano è tuttora preoccupato per “gli atti di terrorismo condotti dai MeK nel passato”, così come rimangono “seri dubbi sull’organizzazione, in particolare riguardo alle accuse di abusi commessi contro i propri membri”. 

Anche se l’amministrazione Obama non sembra dunque considerare i MeK una valida alternativa democratica all’attuale regime di Teheran, alla fine è prevalsa la decisione di assecondare le richieste provenienti da esponenti di entrambi gli schieramenti politici.

Il “delisting” dei MeK consentirà ora lo sblocco dei loro beni congelati in territorio americano, mentre potranno essere stanziati aiuti finanziari da parte del governo, con ogni probabilità per continuare le attività terroristiche e di sabotaggio in Iran in vista di un nuovo probabile aumento delle tensioni sulla questione del nucleare di Teheran.

La decisione americana, tuttavia, potrebbe diventare un boomerang per Washington, dal momento che i MeK, alla luce dei loro precedenti, sono estremamente impopolari tra la popolazione iraniana e gli stessi oppositori interni del regime. 

Secondo quanto scritto da un sito web vicino al “Movimento Verde” filo-occidentale, infatti, “non esiste organizzazione, partito o culto con una fama peggiore dei MeK in Iran”. Molti analisti ritengono inoltre che i membri dei MeK siano dei fanatici che coltivano una sorta di culto della personalità nei confronti dei loro leader, i coniugi di stanza a Parigi Massoud e Maryam Rajavi.

Per convincere il governo americano a riabilitare la loro organizzazione, già rimossa dalla lista del terrore dell’Unione Europea nel 2009, i MeK hanno in questi anni ingaggiato sostenitori autorevoli, tra cui spiccano l’ex sindaco repubblicano di New York, Rudolph Giuliani, l’ex governatore democratico della Pennsylvania, Ed Rendell, il ministro della Giustizia durante l’amministrazione Bush, Michael Mukasey, l’ex governatore democratico del Vermont e già candidato alla Casa Bianca, Howard Dean, l’ex direttore della CIA, Porter Goss, l’ex capo di Stato Maggiore, generale Hugh Shelton, l’ex comandante NATO, generale Wesley Clark, e tanti altri.

Queste personalità, molte delle quali tra i più accesi sostenitori della guerra al terrore, sono state tutte pagate profumatamente per tenere discorsi pubblici a favore di un’organizzazione definita come terroristica dal loro stesso governo. Alcuni di loro sono stati anche sottoposti quest’anno ad un’indagine del Dipartimento del Tesoro, poiché accettando i compensi dei MeK avrebbero violato la legge americana che vieta il sostegno in qualsiasi forma a gruppi terroristici.

Come ha scritto qualche giorno fa il reporter di Asia Times Online, Pepe Escobar, per ripulire la loro immagine e convincere le autorità americane a rimuoverli dalla lista del terrore, i MeK si sono anche affidati ai servizi di tre importanti studi legali di Washington - DLA Piper, Akin Gump Strauss Hauer & Feld e diGenova & Toensing - ai quali hanno versato 1,5 milioni di dollari nell’ultimo anno per far dimenticare assassini e attacchi terroristici vari.

Forse non a caso, lo sdoganamento dei MeK è giunto proprio nella settimana che ha visto Obama e il premier israeliano, Benjamin Netanyahu, parlare all’ONU in termini minacciosi della crisi costruita attorno al nucleare iraniano, così da aumentare ulteriormente le pressioni su Teheran.

Come hanno scritto sul loro blog Race for Iran Flynt e Hillary Leverett, entrambi ex membri del Consiglio per la Sicurezza Nazionale degli Stati Uniti, la lista del terrore degli Stati Uniti è un meccanismo quanto meno discutibile, visto che “negli anni le amministrazioni americane hanno manipolato cinicamente le designazioni, aggiungendo o rimuovendo organizzazioni o paesi per ragioni che poco o nulla hanno a che fare con il loro coinvolgimento in attività terroristiche”, come avvenne appunto con il protettore dei MeK, Saddam Hussein.

Ciononostante, aggiungono i Leverett, anche considerando la lista legittima, la mossa del Dipartimento di Stato di ripulire il curriculum di un’organizzazione responsabile di innumerevoli vittime civili, appare controproducente e finisce per screditare quel che resta dell’immagine tutta esteriore degli Stati Uniti come i protettori della democrazia e dei diritti umani in Medio Oriente.

Dall’Iran, dove si sostiene che le attività dei MeK abbiano causato la morte di 12 mila civili iraniani negli ultimi trent’anni, è subito giunta la condanna della decisione americana. Nella giornata di sabato la TV di stato ha ricordato che “esistono innumerevoli prove del coinvolgimento del gruppo in attività terroristiche”, mentre la riabilitazione dei Mujahideen mostra come gli Stati Uniti “distinguano tra terroristi buoni e cattivi” e “i MeK sono diventati ora i buoni perché Washington si serve di loro contro l’Iran”.

Oltre a rivelare ancora una volta il doppio standard utilizzato da Washington in materia di anti-terrorismo, la rimozione dei MeK dalla lista del terrore conferma infine che l’amministrazione Obama non ha nessuna intenzione di aprire un vero dialogo con l’Iran per risolvere la questione del nucleare. 

Anche se la retorica elettorale sembra suggerire la volontà della Casa Bianca di puntare ad una soluzione diplomatica, l’atteggiamento del governo USA indica chiaramente come, alle spalle dei cittadini americani, si stia preparando un nuova guerra criminale contro l’Iran, con conseguenze potenzialmente devastanti per l’intero pianeta.



Come le bugie del governo diventano verità
di Paul Craig Roberts - www.paulcraigroberts.org - 29 Settembre 2012
 
Nel mio ultimo articolo, “A Culture of Delusion”, ho scritto che “gli americani vivono in un contesto di menzogne. Le menzogne dominano ogni discussione ed ogni decisione politica.” Questo articolo tratterà le due storie di punta, il nucleare iraniano e Julian Assange, per mostrare come le bugie diventano “la verità”.

I media occidentali Presstitute [da press e prostitute ndt] usano ogni bugia per demonizzare il governo iraniano. Il 28 settembre, in una crisi di totale ignoranza, il giornalaccio britannico Mail Online, ha chiamato il presidente iraniano “dittatore”. 
La presidenza iraniana è un ufficio affidato a elezioni popolari, e l'autorità di quella carica è subordinata agli ayatollah. Assange viene demonizzato alternativamente come stupratore o spia.

I media occidentali e il Congresso statunitense comprendono le due più grandi case chiuse della storia umana. Una delle loro bugie preferite è che il presidente dell' Iran, Ahmedinejad, voglia uccidere tutti gli ebrei. Guardate questo video di 6 minuti e 32 secondi in cui Ahmedinejad incontra i leader religiosi ebraici. Non fatevi sviare dal titolo, Washington Blog stava scherzando. http://www.globalresearch.ca/horrifying-graphic-video-of-iranian-leader-savagely-abusing-jews/

La settimana scorsa l'informazione era dominata dall'inesistente ma virtuale programma iraniano di armi nucleari. Il primo ministro israeliano, Netanyahu, è intervenuto spudoratamente nelle elezioni presidenziali americane chiedendo ad Obama di specificare la “red line” per un attacco all' Iran.

Netanyahu crede nella sua pressione su Obama, il presidente dell' “unica superpotenza mondiale”, poco prima delle elezioni. Israele non può attaccare da solo l'Iran senza correre il rischio di venire distrutta. Ma Netanyahu calcola che se attacca l'Iran la settimana prima delle elezioni americane, Obama dovrà sostenerlo o perderà il voto degli ebrei in stati come la Florida, che è un grande bacino elettorale. Con le elezioni vicine, Netanyahu, una persona consumata dall'arroganza e dalla supponenza, potrebbe far valere la sua minaccia ed attaccare l'Iran, nonostante l'opposizione degli ex capi dell'intelligence e dell'esercito israeliani, il partito d'opposizione, e la maggioranza del popolo israeliano.

In altre parole, il risultato delle elezioni presidenziali della “superpotenza” potrebbe dipendere dal fatto che l'attuale presidente della “superpotenza” sia sufficientemente obbediente al folle primo ministro israeliano o no.

Che il risultato delle elezioni presidenziali possa dipendere dall'agenda del primo ministro di un piccolo paese che esiste solo grazie agli aiuti finanziari, militari, al supporto diplomatico, e soprattutto al veto alle Nazioni Unite degli Stati Uniti, dovrebbe disturbare quegli americani che credono di essere la “nazione indispensabile”. E quanto sei indispensabile quando devi fare quello che vuole il primo ministro israeliano?

I media statunitensi sono certi che questa cosa non entrerà mai nelle teste degli americani. Agli americani è stato detto che se l'Iran non ha armi nucleari, ha un programma nucleare militare. Questo è quello che dicono loro i politici di entrambi gli schieramenti, i media e la lobby israeliana. Agli americani viene detto questo nonostante CIA e National Intelligence Estimate siano arrivati alla conclusione che l'Iran abbia abbandonato i suoi interessi nucleari militari nel 2003 e gli ispettori dell' Agenzia Internazionale per l'Energia Atomica in Iran non hanno riportato prove di programmi nucleari militari e di nessun programma militare per l'arricchimento dell' uranio.

Inoltre, cosa potrebbe farsene l'Iran di armi nucleari se non per difendersi da un'aggressione? Qualsiasi uso offensivo porterebbe alla distruzione dell' Iran.

Perché gli americani credono che l' Iran abbia bombe atomiche o che le stia fabbricando, quando la CIA dice di no? La risposta è perché lo dice Netanyahu, e ai membri eletti del governo americano alla Camera, al Senato, e alla Casa Bianca dispiace contraddire il primo ministro di Israele, così come la stampa americana e le tv. Che “superpotenza” che siamo! La “nazione indispensabile” deve rotolarsi nella polvere davanti a Netanyahu. Gli americani non sono neanche consapevoli della loro vergogna.

L'Iran, a differenza di Israele, ha firmato il trattato di non proliferazione nucleare. I firmatari hanno il diritto all' energia nucleare. L' energia nucleare richiede un basso livello di arricchimento, 5% o meno. Il piccolo Iran ha annunciato un programma energetico nucleare, il governo israeliano e le sue prostitute a Washington hanno mentito dicendo che l' Iran costruiva la bomba atomica. Per aver esercitato i suoi diritti sanciti dal trattato, l' Iran è stato dipinto e demonizzato come uno stato selvaggio e criminale.

Un' arma nucleare richiede l' arricchimento al 95%. Arrivare al 5% da zero e poi arrivare al 95% richiede un processo molto lungo. Credo di aver sentito per la prima volta il governo israeliano lamentarsi delle bombe nucleari iraniane negli anni '90 del secolo scorso.

Quando l' Iran annunciò il suo programma, per le sanzioni imposte dagli Stati Uniti, sanzioni che hanno avuto effetti sui rifornimenti medici, l' Iran stava iniziando ad arricchire l' uranio al 20% per fornirsi di isotopi medici, le accuse israeliane che questo avrebbe portato alla bomba hanno portato l' Iran a dire che il governo iraniano si accontentava che la Francia o qualsiasi altro paese gli fornisse gli isotopi medici e non avrebbe perseguito l' arricchimento oltre il bisogno energetico. Stati Uniti e Russia furono menzionati come fornitori.

Secondo il NY Times del 29 settembre 2011, “il presidente Iraniano ha detto al Washington Post e poi, praticamente con le stesse parole, al New York Times: 'se voi [Stati Uniti e Europa] ci date l' uranio arricchito al 20% fermeremo la produzione'”
http://www.nytimes.com/2011/09/30/opinion/30iht-edvaez30.html?_r=1&

Su ordine di Israele, Washington ha posto il veto alla concessione. Il governo di Israele non vuole risolvere i problemi. Il problema va tenuto vivo così da poter essere usato per fomentare un attacco all' Iran.

Le bombe nucleari iraniane sono una grande bufala, una bugia progettata per nascondere il vero scopo.

Quale è il vero scopo?
Il vero scopo nascosto dietro l' isteria del nucleare militare iraniano è il disegno della destra israeliana al governo sulle risorse d' acqua nel sud del Libano.

Poche migliaia di combattenti di Hezbollah furono in grado di sconfiggere l' esercito israeliano, equipaggiato e rifornito grazie ai dollari dei contribuenti statunitensi, mentre agli americani venivano pignorate le loro case e venivano lasciati senza lavoro e Washington plaude alla delocalizzazione dei loro lavori, perché la Siria e l'Iran danno a Hezbollah un supporto finanziario e militare che distrugge i tank israeliani.

La Siria, di sicuro, sta resistendo alla sua distruzione da parte di Israele e degli stati fantoccio americani. Il rovesciamento della Siria non è andato a buon fine perché Russia e Cina non hanno acconsentito, come stupidamente hanno fatto con la Libia. Ma il governo di estrema destra israeliano ha concluso che coinvolgendo il prestigio americano nel rovesciamento del governo di Assad in Siria, il compito verrà svolto.

Questo licenza l'Iran. Il governo israeliano sa che non può essere schietto e chiedere agli americani di entrare in guerra contro l' Iran, in modo che Israele possa rubare il sud del Libano. Ma se la paura di bombe atomiche inesistenti riesce a provocare il supporto della popolazione occidentale ad un attacco all' Iran, l' Iran può essere eliminato come rifornitore di Hezbollah, e Israele può rubare l' acqua del Libano.

Non c' è nessuna discussione sulla stampa o sui media televisivi statunitensi del vero scopo. Dubito se ne discuta in Europa, che è un insieme di stati fantoccio americani.

Avremo la 3° Guerra Mondiale per Natale? Forse, se l’elezione (del presidente) USA si configura come sembra. Se il risultato fosse ancora in dubbio, Netanyahu potrebbe lanciare il dado e sperare che Obama lo segua. L' Iran verrebbe attaccato e le conseguenze sono ignote.

Passiamo ora a Julian Assange e Wikileaks. Come l' Iran, Assange è stato demonizzato, non sulla base dei fatti ma su delle bugie.

Washington, che si pone come promotore dei diritti umani, sta maltrattando se non torturando Bradley Manning dal maggio 2010 senza processarlo nello sforzo di fargli dire che lui e Assange costituiscono un gruppo di spionaggio contro gli Stati Uniti.

Assange è una celebrità per il fatto che Wikileaks pubblica le notizie trapelate dalle organizzazioni che i media Presstitute sopprimono. In Svezia, Assange è stato rimorchiato da due donne affamate di celebrità e lo hanno portato a letto. 

Le donne poi si sono vantate delle loro conquiste sui social media, ma apparentemente, quando si sono accorte che erano rivali, si sono rivoltate contro il “traditore” Assange e gliela hanno fatta pagare. Una ha affermato che lui non aveva usato il preservativo come da lei richiesto, e l'altra afferma che si era offerta per un rapporto ma lui ne ha avuti due.

Quali siano le accuse, l' ufficio della procura svedese ha indagato e archiviato il caso.

Nonostante questi fatti noti, i media Presstitute occidentali hanno riportato che Assange è un fuggitivo accusato di stupro che si nasconde nell' ambasciata dell' Ecuador di Londra. Anche RT, una voce alternativa, è caduta in questa disinformazione.

Dopo che Assange è stato rilasciato in Svezia, un pubblico ministero donna ha riaperto il caso. Non essendoci prove per accusarlo, ha richiesto all' Inghilterra di arrestare Assange ed estradarlo in Svezia per interrogarlo.

Di solito le persone non sono soggette ad estradizione per gli interrogatori. Solo le persone formalmente accusate vengono estradate. Ma questo dettaglio non era interessante per i media Presstitute o per le corti britanniche che realizzano i desideri di Washington.

Le opinioni variano dal fatto che il pubblico ministero donna che vuole interrogare Assange sia una femminista idealista che non crede nel sesso eterosessuale o che sia pagata da Washington. Ma gli esperti sono d'accordo che una volta arrivato in Svezia, Assange sarà sicuramente rigirato a Washington, che richiederà la sua estradizione sulla base di false accuse. L' estradizione con false accuse è difficile in Inghilterra, ma facile in Svezia.

Assange si è offerto di farsi interrogare a Londra, ma il pubblico ministero ha rifiutato. Ora l'ambasciata dell' Ecuador si è offerta di mandare Assange all' ambasciata ecuadoriana in Svezia per l' interrogatorio, ma Washington, Londra e il pubblico ministero svedese hanno rifiutato. Vogliono Assange privo della protezione dell' asilo che l' Ecuador gli ha garantito.

Washington lo ha reso palese. John Glaser ha scritto su Antiwar.com il 26 settembre 2012, riportando: “Nuovi documenti desecretati hanno rivelato che i militari statunitensi hanno designato il fondatore di Wikileaks Julian Assange come nemico dello stato, e potrebbe essere ucciso o detenuto senza processo.”

http://news.antiwar.com/2012/09/26/declassified-documents-reveal-us-military-designated-assange-enemy-of-state/ Guardate anche qui http://www.guardian.co.uk/commentisfree/2012/sep/27/wikileaks-investigation-enemy

Assange è nemico di Washington perché ha fatto venire fuori la verità. Wikileaks è un'impresa giornalistica, non un'impresa di spionaggio. Pubblica informazioni, alcune sono trapelate tramite informatori, proprio come i Pentagon Papers trapelarono fino al New York Times. Le informazioni di Wikileaks hanno messo in imbarazzo Washington mostrando le due facce di Washington, manipolatore con i governi e i media degli altri paesi, e straripante di falsità.

In altre parole, Washington non rappresenta una luce sulla collina, ma i cancelli dell'inferno o di Mordor.

Assange dovrebbe fare attenzione. Se parla ancora dal balcone dell'ambasciata ecuadoriana ad una folla che lo supporta, è probabile che un cecchino della CIA gli spari.

Ovviamente, tutto approvato da Obama, o dal suo successore.