sabato 31 ottobre 2009

Honduras: l'ennesima manutenzione straordinaria del giardino di casa degli USA

La crisi in cui era precipitato l'Honduras con il golpe del 28 giugno sembra essere giunta ad un punto di svolta.
Ieri infatti è stato finalmente raggiunto l'accordo fra l'esecutivo golpista guidato da Roberto Micheletti e il deposto presidente legittimo Manuel Zelaya.

Un accordo ottenuto ovviamente grazie al fondamentale intervento degli Stati Uniti che hanno deciso l'inizio e la fine di questa crisi, seguendo esclusivamente la loro personale agenda.
Ora entro il 5 novembre dovrà nascere un governo di unità nazionale e sarà varata la speciale Commissione che dovrà verificare l'applicazione degli accordi.

Il giardino di casa degli USA aveva evidentemente bisogno di un'altra manutenzione straordinaria...


La voce del padrone
di Stella Spinelli - Peacereporter - 30 Ottobre 2009

Raggiunto l'accordo tra la delegazione golpista e i rappresentanti del presidente legittimo, deposto 4 mesi fa, Manuel Mel Zelaya. Risolutiva la voce grossa degli Stati Uniti. E ora la palla passa al Parlamento.

Poche ore dopo l'arrivo a Tegucigalpa del segretario di Stato Usa per l'Emisfero occidentale, Thomas Shannon, i golpisti hanno deciso di accettare la clausola sulla quale era franata la miriade di tentativi di dialogo tentati dal 28 giugno a oggi. E così, Roberto Micheletti, presidente de facto, ha chinato il capo: è bastato un breve incontro con Shannon che magicamente ha detto sì e ha rimesso al Congresso Nazionale la decisione se restaurare o meno Mel a capo dell'esecutivo. Non solo, in vista della tornata elettorale di fine novembre, il golpista ha anche digerito l'idea di creare un governo di unità nazionale, il medesimo - ma finora denigrato - disegnato nei colloqui in Costa Rica a luglio, da Óscar Arias, il capo di stato scelto da Hillary Clinton per portare pace in Honduras.

"Il mio governo ha deciso di appoggiare la proposta di far decidere al parlamento, dopo aver ascoltato la Corte suprema di giustizia, se riportare il potere esecutivo della nostra nazione a prima del 28 giugno", ha dichiarato Micheletti, al quale, in una dichiarazione rilasciata a una radio locale, ha risposto la controparte, Manuel Zelaya, spiegando "sarà il giorno in cui si firmerà il piano di restaurazione della democrazia nel paese". Patto che Micheletti ha definito "una concessione significativa" per cercare di voltare pagina e di risolvere una crisi che sta piegando il paese da quattro mesi.

La voce del padrone si è dunque fatta sentire, finalmente. Queste le parole scelte dagli Usa a suggello di questo inizio di svolta: "Gli Stati Uniti accompagneranno l'Honduras fino alle elezioni del 29 novembre", precisa Shannon, a cui segue il segretario di Stato Clinton, che da Islamabad commenta: "Voglio rallegrarmi con il popolo d'Honduras, così come con il presidente Zelaya e con il signor Micheletti per aver raggiunto questo storico accordo".

"Storico accordo". È il parere degli Usa, solo degli Usa, perché la gente - vera grande rivelazione in questa brutta storia dal sapore stantio - che fino a oggi ha tenuto in scacco i golpisti con manifestazioni pacifiche in ogni angolo del paese, vede quanto sta accadendo in maniera assai differente. E promette di non accontentarsi di belle parole e abbracci di circostanza. Il loro obiettivo è un'assemblea costituente che rinnovi alla radice un paese ormai logoro, e non si fermeranno prima di averlo raggiunto.

"Stanotte Roberto Micheletti ha annunciato di aver accettato che la decisione sull'accordo di San José passi al congresso nazionale, cosa che proponeva Mel da tempo, e invita tutti i parlamentari a firmarlo - scrive da un qualche internet caffè della capitale la cooperante, sempre anonima e sempre attivissima nel partecipare e condividere con gli honduregni ansie, speranze e determinazione - L'accordo, come è ormai noto, include la restituzione di Zelaya, ma con le mani legate. Ora quindi bisogna vedere cosa deciderà il parlamento (golpista!), che purtroppo è stato legittimato dallo stesso Mel! e che domani (oggi ndr) si riunirà con urgenza.
L'arrivo di Shannon, responsabile per l'America latina del Dipartimento di Stato Usa pare abbia messo alle strette i golpisti.


Quello che fa rabbia è che devono, come sempre, arrivare gli americani per aggiustare le cose! Fa rabbia perché, dato che arriva l'ennesima conferma che le cose, purtroppo, stanno così, gli Usa avrebbero potuto risolvere la questione in dieci minuti già il 28 giugno, ma essendo i primi a essere coinvolti in tutto questo... hanno aspettato.
E ora è probabile che Washington si attribuirà la risoluzione della crisi.

In realtà l'eventuale ritorno al potere di Zelaya non risolve proprio nulla, perché a parte questo punto che condividiamo, tutte le altre clausole dell'accordo di San José sono contro quanto chiede la resistenza.

E comunque, visto l'approssimarsi della tornata elettorale, ci immaginavamo che avrebbero accettato il ritorno di Mel. Al di là di ogni considerazione, però, di per sé è una buona notizia, visto che c'è gente che ha dato la vita per il suo ritorno e che tante altre persone aspettano questo momento da quattro mesi.

Ora, in tutti i canali televisivi, si stanno susseguendo conferenze stampa in cui stanno parlando un po' tutti: statunitensi, commissione di Micheletti, commissione di Zelaya. Bla bla bla...

E domani (oggi ndr) il Frente ha convocato una grande manifestazione proprio sotto il palazzo del congresso. Vediamo quel che succederà e se riuscirò, anche se di fretta come oggi, a raccontarvi le strade di Tegucigalpa".


Uova per pallottole
di Stella Spinelli - Peacereporter - 14 Ottobre 2009

"In Honduras c'è stato un colpo di stato il 28 giugno e da allora c'è un popolo che sta resistendo contro una situazione che noi non abbiamo voluto, ma nella quale ci hanno obbligato a vivere. La nostra è una resistenza pacifica. È un popolo che conta arrestati, feriti, morti, scomparsi. Le cifre ufficiali parlano di 18 morti, ma gli organismi internazionali in difesa dei diritti umani ne indicano 4 e sono coloro che hanno perso la vita durante le manifestazioni.

Le altre sono morti extragiudiziali, che necessitano di indagini accurate. I feriti sono invece 300, da catene di metallo e pallottole. Abbiamo 3000 detenuti illegalmente e 39 persone in sciopero della fame per protesatare contro la detenzione scattata per aver difeso nell'Istituto agrario nazionale il proprio diritto alla titolazione delle terre. Dodici indigene lenca, alcuni minori, hanno ottenuto asilo politico nell'amabsciata guatemalteca. E c'è un popolo intero perseguitato in maniera costante. Le accuse principali sbandierate agli arrestati sono di non rispettare il coprifuoco o, per quelli del Frente, sedizione".

Usa parole semplici e ben scandite Betty Matamoros, 47 anni, responsabile del settore internazionale del Frente contra el golpe en Honduras. La incontriamo nella sede di Mani Tese, a Milano, e con pacatezza ci accompagna nelle complesse pieghe delle politica, della società e delle leggi honduregne, con l'intento di spiegarci dove andrà il suo popolo, che affronta le pallottole armato di uova e fantasie di un migliore Honduras possibile.

"Vorrei spiegare cos'è il coprifuoco. In Honduras abbiamo garanzie individuali di protezione scritte nella Costituzione e un decreto firmato dal presidente golpista, Roberto Micheletti, ce le ha tolte. Questo significa che possiamo essere presi per strada o in casa e violentati nei nostri diritti. Questa sospensione non è solo per chi resiste, ma per tutto il popolo. Un'offesa per tutti".

In Honduras, dunque, c'è una resistenza del tutto pacifica, nonostante i golpisti siano armati fino ai denti?

"In questo senso è necessario ripercorrere la storia del Centroamerica, dove sono tre i paesi che hanno subìto periodi di violenza armata che hanno lasciato sul terreno innumerevoli morti. Noi honduregni abbiamo imparato da queste esperienze dei paesi vicini che le armi non sono una soluzione, bensì organizzarci in maniera pacifica e agire in nome della non violenza.

La resistenza di oggi è nata in trenta anni, sono trenta anni che stiamo forgiando questo movimento per affrontare i problemi della nostra regione. Per questo abbiamo invitato tutti a resistere pacificamente per chiedere cambiamenti reali e radicali. Abbiamo un paese pieno di diseguaglianze. L'ottanta percento vivono in povertà e di questo, il 35 vive con meno di un dollaro al giorno. Eppure il nostro paese è ricchissimo di risorse naturali, che però vengono godute da pochi. Così come la terra, la maggioranza è nelle mani di pochissimi e gli altri non hanno un pezzetto di terra da coltivare per sopravvivere.

E' l'insegnamento della storia che ci ha portato a una forma di resistenza pacifica e popolare che vuol dire al mondo che noi siamo capaci di resistere. Se avessimo iniziato una guerra civile, non staremmo, ora dopo tre mesi, ancora resistendo con un immenso appoggio popolare. Avremmo già i militari Usa nel paese.

Che ruolo hanno avuto e hanno, direttamente o indirettamente, gli Stati Uniti nel golpe?

Un vincolo molto forte. La oligarchia economica Usa ha le mani in pasta in quanto è accaduto. Storicamente siamo il pollaio degli Usa e se viviamo in questa misera condizione è perché loro ci tengono in questa situazione. E adesso anche l'Unione europea vuole adottare il medesimo comportamento con i paesi centroamericani, negoziando un accordo di libero scambio simile al Cafta, tanto dannoso per i nostri popoli. Anche se raccontano che i due accordi commerciali sono distinti, la base che usano resta il Cafta. Parlano di tre punti: il dialogo politico, ma in occasione del golpe non hanno partecipato al dialogo politico; la cooperazione internazionale; e l'aspetto commerciale, ma tutto in un ottica di libero scambio.

E l'Alba, l'Alternativa bolivariana per le Americhe promossa da Hugo Chavez, invece?

Dopo l'entrata in vigore del Cafta e la presa di coscienza dei primi effetti negativi sul paese, i movimenti hanno fatto pressione sul governo affinché ricercasse un'alternativa. E quale migliore alternativa se non l'Alba? Quindi l'Honduras ha aderito. Noi crediamo fermamente nelle riforme sociali che l'Alba promuove. Certamente ha una parte commerciale, ma non è il libero commercio. E per questo continuiamo a pensare che l'Alba sia l'unica opzione per l'America latina. Ma per l'oligarchia economica questo ha voluto dire tornare indietro rispetto ai vantaggi ottenuti con il Cafta.

L'Alba non permette che la gestione dei fondi sia data in mano ai privati. Non prevede intermediari. La gente ne attinge direttamente. E tutto ciò che nasce come idea di riforma del ruolo del popolo le oligarchie lo definiscono socialismo e entrano nel panico. E per questo hanno promosso una campagna che avverte che il comunismo sta avanzando in Honduras, con tanto di slogan: i comunisti mangiano i bambini! E come bloccare una tale campagna di disinformazione, se il novanta percento dei mass media è in mano loro? Questo è uno dei più grandi problemi che abbiamo nel paese, dato che gli unici due mezzi d'informazione indipendenti che avevamo sono stati chiusi dopo il golpe.

È appurato che il Movimento non si può esaurire nella definizione pro Zelaya, inquanto viene da molto più lontano e non si esaurisce nel sostenere un presidente. L'obiettivo è infatti ottenere un'assemblea costituente e una nuova magna charta che rifondi il paese ex novo.

L'idea di un'assemblea costituente in Honduras non è un'idea nata da Zelaya, ma è una richiesta che i movimenti sociali e popolari portano avanti dal 2005. Tutto è nato quando il Cafta ha messo in secondo piano la Costituzione in vigore violando i diritti del popolo. Quindi, lottiamo per un'assemblea che possa ribaltare quanto è scritto nel trattato di libero commercio. E c'è una legge secondaria, a cui ci appelliamo, e che venne promulgata da Zelaya quando divenne presidente, che codifica la partecipazione cittadina.

L'art. 5 di questa legge dà la possibilità al presidente di ricevere dal basso proposte di consultazione da rimettere poi al popolo honduregno. E così che le 40mila firme per sollecitare una consultazione sull'assemblea costituente hanno raggiunto Zelaya. Che poi le ha fatte sue e ha iniziato a promuovere la questione. Questo è stato il suo passo falso: da allora l'oligarchia ha manipolato la vicenda, dicendo che Zelaya stava puntando a cambiare la Costituzione per rimanere al potere. Ma è assurdo.

Una tesi sposata dai principali media italiani, anche, come Corriere e Repubblica.

In realtà il 28 giugno si sarebbe chiesto al popolo se era d'accordo o meno a installare una quarta urna nelle elezioni del 29 novembre. La quarta urna sarebbe servita per raccogliere l'opinione popolare sul convocare o meno un'assemblea costituente. Se fosse stato sì, il tutto sarebbe passato nelle mani del Parlamento, quindi non era vincolante. Cosi, giuridicamente, non c'era nessun modo per cui Zelaya poteva restare in carica e lo aveva detto anche pubblicamente che non si sarebbe ripresentato.

C'è di più, durante una riunione dell'Oea a Tegucigalpa Zelaya aveva addirittura firmato un documento in cui affermava che mai si sarebbe ricandidato, per questo l'Onu aveva inviato degli osservatori alla consultazione del 28 di giugno, che mai ebbe luogo perché quel giorno il presidente della Repubblica venne sequestrato. In alcuni seggi, in luoghi lontani dalla capitale, si votò perché la notizia del golpe tardò ad arrivare, ma dato che i golpistas dissero che tutti coloro che avrebbero continuato a parlare della consultazione sulla quarta urna erano penalmente perseguibili, non si è mai saputo il risultato di quelle poche schede.
Al di là di tutto, voglio precisare che il Frente non è zelaystas, rinunciamo volentieri a questo titolo, ma siamo convinti che almeno Mel abbia voltato almeno un po' la testa verso il popolo. Per questo l'indignazione al golpe è stata così forte. Zelaya viene da un partito tradizionale, il partito liberale, ma ha teso almeno un dito della mano verso la gente povera.

E il popolo lo rispetta...

E lo rivuole al posto che gli spetta di diritto. La resistenza è grande, numerosa, oltre ogni aspettativa. E questo anche perché anche il più piccolo popolo del più piccolo paese del Centroamerica ormai ha internet e il cellulare, e sono strumenti che ci sono serviti molto per mobilitare, informare, bypassare la censura. In ogni più piccola comunità honduregna c'è una forma di resistenza al golpe, sempre pacifica. In alcuni dei più remoti villaggi l'unica maniera per resistere è tirando le uova contro i politici. Il problema è che in cambio ricevono le pallottole dalle loro guardie del corpo.

Ma non si arrendono, non ci arrendiamo fino al cambiamento. Ci sono forme di resistenza tutte nuove, fantasiose come la bullaranga, ossia la gente se ne va nei propri quartieri e sfida coprifuoco e militari facendo chiasso e fracasso, e le forze dell'ordine non hanno modo di azzittirli, perché resistiamo sotto l'egida dell'articolo 3 della Costituzione, che dice che non dobbiamo obbedienza agli usurpatori e che ci dà diritto a insorgere. E abbiamo preso alla lettera questo articolo. E siamo coscienti di aver danneggiato molto l'oligarchia economica.

Quindi il Fronte contro il colpo di stato è un entità complessa e variegata?

È un insieme di entità unitesi dopo il golpe. Comprende artisti, donne organizzate, intellettuali, il partito politico di Zelaya, i socialdemocratici, il partito di sinistra, indigeni, afrodiscendenti, e a livello nazionale abbiamo la Coordinazione nazionale di resistenza popolare, nata nel 2003 con l'obiettivo di dare un'agenda comune ai movimenti honduregni, e di cui fa parte anche la Centrale operaia. Una costruzione di lotta che viene da trent'anni di storia. Con il golpe, ci siamo visti obbligati a organizzarci.

Il popolo ha superato ogni speranza di movimento popolare nella sua risposta alla resistenza. Ciò che abbiamo dovuto fare è stato riunire la forza spontanea riversatasi nelle strade non modo da coordinarla e non far sì che si disperdesse sotto i colpi dei golpisti. Il nostro primo obiettivo: ordine istituzionale e costituzionale. Secondo: l'assemblea costituente. Terzo: rafforzare le organizzazione in difesa dei diritti umani per punire chi ha violato i nostri diritti, per evitare che si dimentichi, che cadano impunite queste colpe, in modo che questa situazione non possa più ripetersi né in Honduras né in America Latina.

Il nostro slogan è "Hanno paura di noi, perché non abbiamo paura". Ci siamo assunti questo ruolo che ci ha consegnato la storia, per questo non abbiamo paura. Era importante uscire dall'Honduras per rompere l'isolamento mediatico internazionale e raccontare. Per questo sono qui. Per far si che i movimenti sociali che sostengono la resistenza honduregna continui a denunciare quel che accade e far pressione sui rispettivi governi, per evitare tutti insieme che i golpisti non restino impuniti.

venerdì 30 ottobre 2009

Afghanistan: Obama e le bare ripiene...

Ogni giorno la situazione per gli USA e la NATO nella loro guerra all'Afghanistan continua a peggiorare a vista d'occhio: proseguono senza sosta infatti le stragi di civili, oggi altre 9 nove persone sono morte per lo scoppio di una bomba al passaggio di un taxi. Gli attacchi dei talebani su Kabul raggiungono ormai target sempre più importanti, come la foresteria dell'ONU o gli alberghi dove risiedono gli occidentali. Infine negli ultimi 5 giorni quasi 30 soldati USA sono morti in combattimento.

Sono solo alcuni esempi che indubbiamente mettono a nudo una situazione a dir poco disperata, ma nonostante ciò nei governi in Occidente tutto prosegue come se nulla fosse (oggi forse dovrebbe riunirsi il Consiglio di Sicurezza dell'ONU per ribadire le solite cose trite e ritrite).

Va comunque segnalato un evento più unico che raro, accaduto un paio di giorni fa: Mattew Hoh, il console americano della provincia afghana di Zabul, ha rassegnato le dimissioni diventando il primo diplomatico statunitense a lasciare l'incarico in segno di protesta contro la guerra in Afghanistan.

E sempre due giorni fa si è avuta pure la conferma che il fratello del presidente Karzai, noto trafficante di droga e criminale a 360 gradi, era a libro paga della CIA che comunque non faceva niente di nuovo nel portare avanti una delle sue attività preferite per finanziare le sue "missioni" in giro per il mondo: trafficare droga usando propri aerei per il trasporto, se non addirittura gli aerei militari USA con la droga nascosta nelle bare dei soldati morti.

A proposito di bare avvolte nella bandiera a stelle e strisce, Obama ha deciso che non vanno più nascoste alle telecamere e ieri si è pure presentato in aeroporto quando è arrivato l'ultimo carico...di bare...

P.S. Veramente ridicoli e penosi gli inglesi e gli americani che rompono i coglioni se gli italiani pagano i talebani per non farsi sparare addosso....ma andate a cagare....anzi, Fuck you!!


Delirio Afpak
di Enrico Piovesana - Peacereporter - 28 Ottobre 2009

I talebani pachistani compiono un massacro nel bazar di Peshawar.Quelli afgani attaccano nel centro di Kabul.

Intanto si scopre che la Cia paga da anni il più grande boss afgano della droga: il fratello del presidente di Karzai.

L'autobomba che oggi ha ucciso quasi cento persone, ferendone e mutilandone altre duecento, ha distrutto il caratteristico bazar dei cereali e delle granaglie di Pipal Mandi, nel cuore della città vecchia di Peshawar. Si chiamava così perché sorgeva attorno a un antichissimo pipal, un fico sacro millenario: albero sacro per i buddisti. Non per i commercianti musulmani, che infatti avevano ingabbiato il suo grande tronco in una baracca circolare di legno che ospitava decine di venditori con le loro merci.

All'ombra del grande albero i mercanti chiacchieravano e prendevano il tè, i garzoni spingevano i carretti carichi di merci, talvolta inutilmente trainati da piccoli muli, facendo lo slalom tra i moto-risciò e le donne in burqa venute a fare la spesa.

Da questo ombelico sacro-profano si diramavano tortuosi i vicoli affollati e bui del bazar, su cui si affacciavano ininterrotti gli altri banchi del mercato e grandi portoni di legno da cui si accedeva ad antichi caravanserragli da mille e una notte: cortili ombreggiati da teli colorati e ingombri di casse, sacchi, bilance, carretti, animali e mercanti intenti a trattare, pesare e catalogare.

Tutto attorno a Pipal Mandi si snodavano, senza distinzioni nette tra l'uno e l'altro, il bazar delle spezie, quello delle pozioni magiche, quello degli ortaggi e quello delle donne, pieno di tessuti e accessori colorati ‘made in China'.

Ormai da anni nessun occidentale si spingeva da queste parti. Il personale straniero dell'Onu e della Croce Rossa Internazionale che lavora a Peshawar ha il divieto assoluto di avvicinarsi anche in auto alla città vecchia per il rischio attentati. Anche molti giornalisti preferiscono tenersi alla larga dai bazar. Chi, invece, decideva di tuffarsi in questo labirinto attirava gli sguardi di tutti, ma proprio tutti, come fosse un marziano. Sguardi curiosi, approcci amichevoli - "Hello sir! How are you sir? Where are you from sir?" - e in alcuni casi allarmati - "Don't stay here sir, it's dangerous! A lot of taliban here, sir".

Anche nel centro di Kabul ci sono tanti talebani. Oggi un piccolo commando di guerriglieri travestiti da poliziotti ha fatto irruzione nell'hotel Bakhtar di Shar-e-Naw, nel pieno centro di Kabul (a due passi dall'ospedale di Emergency), uccidendo dodici persone, tra cui sei dipendenti delle Nazioni Unite di cui non è ancora stata resa nota la nazionalità.

Mentre la zona si trasformava in un campo di battaglia, con sparatorie, esplosioni, gente in fuga imbrattata di sangue, mentre centinaia di soldati circondavano la zona, altri talebani sparavano un colpo di mortaio contro l'Hotel Serena, il superblindato albergo cinque stelle che ospita gli stranieri a Kabul.

Temendo anche qui un irruzione armata, gli ospiti sono stati rinchiusi nei bunker sotterranei, fino a quando l'allarme non è cessato.

Una dimostrazione di forza dei talebani alla vigilia del ballottaggio per le elezioni presidenziali, fissato per sabato 7 novembre: un voto illegittimo (poiché si svolge sotto occupazione militare) che confermerà al potere il sempre più debole e screditato Hamid Karzai.

E' di oggi la notizia che suo fratello Hamed Wali, il principale narcotrafficante del paese e l'organizzatore delle frodi elettorali nel sud a vantaggio di Hamid, è da otto anni sul libro paga della Cia. Qualcuno dice perché è suo l'ex residenza del Mullah Omar di Kandahar che oggi è diventato il quartier generale di migliaia di mercenari della Cia e delle forze speciali Usa - anni fa chi scrive ha avuto il piacere di venire fermato da questi ‘Rambo' vestiti da talebani davanti al cancello di Villa Omar: un calcio sul cofano della macchina e un fucile d'assalto puntato alla testa dell'autista accompagnato da un gentile "Get the fuck out of here!". Altri ricordano le accuse di coinvolgimento dell'intelligence Usa nel narcotraffico afgano: che il più grosso boss afgano della droga è stipendiato dalla Cia sarebbe solo una conferma.


Kabul val bene un massacro
di Enrico Piovesana - Peacereporter - 30 Ottobre 2009

L'Unione europea ha deciso di togliere l'embargo contro l'Uzbekistan, imposto quattro anni fa dopo la strage di Andijan del 13 maggio 2005, quando centinaia, forse migliaia di persone vennero trucidate dall'esercito del dittatore uzbeco, Islam Karimov, che poi perseguitò, imprigionò e torturò tutti coloro che osarono denunciare questo eccidio.
Perché questo perdono? Per i "passi avanti" compiti in questi anni dall'Uzbekistan nel rispetto dei diritti umani, ha dichiarato l'Ue. "Balle!", ha ribattuto Humand Rights Watch, spiegando che la situazione nel paese centrasiatico non è migliorata di un millimetro.
Ma allora, perché?

Usa e Nato hanno bisogno dell'aiuto di Karimov. La vera ragione per cui l'Europa ha deciso di riappacificarsi con il sanguinario regime di Karimov è che l'Occidente si trova ad avere disperatamente bisogno dell'Uzbekistan per proseguire la sua guerra d'occupazione in Afghanistan.
Dopo la chiusura delle linee di rifornimento pachistane, a causa dei continui attacchi talebani ai convogli, le truppe alleate sono state costrette ad aprire un canale alternativo a nord, attraverso il Tagikistan. Ma i talebani hanno iniziato ad attaccare regolarmente anche questa nuova via, in particolare nella provincia frontaliera di Kunduz.
Da qui la necessità, per Stati Uniti e Nato, di trovare una soluzione sicura e definitiva. L'unica è la strada che entra dall'Uzbekistan e poi scende a sud attraverso la tranquilla regione di Mazar-i-Sharif, regno del famigerato criminale di guerra uzbeco Abdul Rashid Dostum, al momento alleato di Karzai e degli Stati Uniti.
La rimozione dell'embargo da parte dell'Unione europea è quindi il primo necessario passo per intavolare con Karimov una trattativa sul transito dei convogli alleati in territorio uzbeco.

I talebani conquistano il Nuristan e minacciano Kabul. La rotta uzbeca consentirà ai rifornimenti Usa e Nato di aggirare la zona talebana di Kunduz e di raggiungere il valico di Salang sull'Hindu Kush, da dove poi la strada scende verso l'altipiano di Shomali fino Kabul. Questa, oggi, è rimasta l'unica via d'accesso alla capitale non controllata dai talebani.
Ma presto le cose potrebbero cambiare perché la guerriglia si sta notevolmente rafforzando anche nelle regioni a nord-est di Kabul. Soprattutto ora che le truppe statunitensi si sono completamente ritirate dalla provincia del Nuristan.

Dopo anni di dure battaglie combattute tra le montagne di questa impervia regione, il comandante Stanley McChrystal ha ordinato la chiusura e l'abbandono di tutte le basi avanzate nella regione per tutto il periodo invernale a causa delle difficoltà di rifornirle: via terra non è possibile perché ci sono i talebani, via elicottero nemmeno perché i talebani hanno imparato ad abbatterli - come hanno ripetutamente dimostrato negli ultimi giorni.

Così il Nuristan è stato lasciato in mano alle milizie talebane di Qari Ziaur Rahman. Qualche centinaio di marines è stato lasciato solo nel capoluogo provinciale, Parun, a protezione del governatorato. Un obiettivo, questo, che ai talebani non interessa: per loro il Nuristan - le sue vette, le sue foreste, le sue gole - rappresenta una roccaforte ideale da dove lanciare operazioni in direzione ovest, verso Laghman e Kapisa - già infiltrate dai talebani - e da lì verso la strada che dal valico di Salang scende a Kabul.


"Il fratello di Karzai collabora con la CIA"

di Guido Olimpio - Il Corriere della Sera - 28 Ottobre 2009

Ahmed Wali, fratello del presidente afghano Karzai, sarebbe da otto anni sul libro paga della Cia. Un personaggio scomodo, coinvolto nel traffico di droga, ma utile alle missioni dell’intelligence. Ahmed Wali avrebbe, infatti, messo in piedi un apparato para-militare, la Kandahar Strike Force, che ha aiutato la Cia nella caccia ai terroristi e agli insorti. Inoltre il fratello del presidente ha avuto un ruolo, in questi anni, come canale di contatto con esponenti talebani.

MALUMORI NELLA CIA - A rivelare i particolari è il New York Times, imbeccato da funzionari ai quali non piace la collaborazione con Wali. I critici muovono quattro accuse: 1) Si mantengono rapporti con un personaggio non cristallino indebolendo il progetto di imporre delle regole. 2) Invece di rafforzare le autorità statali si preferisce appoggiare una sorta di signore della guerra. 3) E’ un colpo alla strategia anti-droga. 4) Si conferma l’immagine del clan Karzai quale «burattino» nelle mani di Washington.

LE RAGIONI DI CHI DICE SI' - Chi difende la scelta ribatte, invece, che nella situazione attuale gli americani non hanno troppa scelta. E Ahmed Wali può essere utile per «comprare» alcuni leader talebani, un progetto che il Pentagono vuole perseguire per spezzare il fronte nemico. Inoltre si afferma che non vi sono prove del suo coinvolgimento nel narcotraffico. L’impressione è che, nonostante i proclami, il comando Usa sia disposto a chiudere un occhio in certe aree sul racket della droga. Per il semplice motivo che l’oppio è l’unica risorsa per molte persone: se gli togli anche quello è probabile che si uniscano alla ribellione. Un gioco comunque pericoloso poiché i talebani si finanziano anche con il mercato degli stupefacenti.

LA STRATEGIA DELLA CASA BIANCA - Il caso Karzai arriva, poi, in un momento delicato in quanto la Casa Bianca sta per decidere la strategia da adottare in Afghanistan. L’ultima ipotesi è che Barack Obama approvi l’invio di rinforzi con un obiettivo ridotto: la difesa di una serie di centri abitati, a cominciare da quello di Kandahar. Dunque le truppe dovrebbero proteggere la popolazione limitando al minimo le azioni nelle regioni extraurbane. In queste ultime aree l’intervento passerebbe ad unità speciali e velivoli senza pilota armati di missili.


Un approccio giudicato rischioso da alcuni esperti in quanto c’è il pericolo che i talebani estendano la loro presenza nelle campagne e possano avere maggiore libertà d’azione. Inoltre gli insorti hanno dimostrato che possono infiltrarsi nelle città – Kabul compresa – dove hanno messo a segno gravi attentati. Una tattica usata con effetti devastanti anche nel vicino Pakistan, dove agiscono organizzazioni gemelle, composte da militanti locali e estremisti di ispirazione qaedista.


Il coraggio di Obama davanti alle bare che Bush ha sempre voluto nascondere
di Vittorio Zucconi - La Repubblica - 30 Ottobre 2009

C'era il velo affettuoso della notte, non velette nere di madri e di vedove, per il ritorno a casa del sergente dell'Indiana Dale Griffin dentro la bara bianca d'ordinanza. C'era a riceverlo il primo Presidente degli Stati Uniti che finalmente avesse trovato il coraggio vedere con i propri occhi i risultati delle guerre dove lui stesso manda i figli degli altri a morire.

Per 18 anni, da quel 1991 che aveva terrorizzato le autorità americane e il governo di George Bush il Vecchio al pensiero della possibile processione di caduti dal Golfo, la base aerea di Dover, nelle piane alluvionali del fiume Delaware sull'Atlantico, dove tutti i morti d'oltremare sono riportati, era rimasta chiusa ai non addetti allo scarico delle bare.

Vietata ai fotografi, alle telecamere e anche ai parenti. Per rispetto, per risparmiare a quei morti e alle loro famiglie, il "media circus", era stato spiegato, ma in realtà per evitare alla nazione di vedere che cosa c'è sempre all'altro capo della retorica e delle marcette, delle guerre giuste o ingiuste, combattute per necessità o per scelta che siano. Bare.

Obama ha avuto il coraggio di spezzare questa ipocrisia del pudore propagandistico. In queste ore sta decidendo se mandare altri come il sergente Dale Griffin dell'Indiana, campione di lotta libera nel liceo di Terre Haute saltato su una mina in Afghanistan, a contendersi l'onore di tornare a casa coperto dalle bandiere sudario e ha voluto fare almeno il gesto di uscire dalla bolla del potere washingtoniano, dei consiglieri, della strategia, per vedere di persona. Per provare che cosa significhi vedere un enorme aereo militare da trasporto C5 scaricare dai suoi rulli 18 bare che quattro giorni prima erano uomini.

Era molto diverso il Barack Obama che le telecamere hanno ripreso sull'attenti, accanto agli ufficiali e ai soldati in tuta mimetica da fatica, che lo affiancavano ai piedi dello scivolo del C5 carico di casse da morto atterrato sulla pista di Dover. Nella crudezza dei faretti portatili, senza filtri "soft" da studio e senza cerone, contro il fondale della notte, era più pallido lui, l'afro, delle facce bianche che lo circondavano, le rughe del volto scavate dal troppo contrasto fra i flash e il buio, la giacca e i calzoni sbattacchiati dal vento del maltempo che agitava tutta la costa Atlantica.

Anche il suo saluto militare, fatto da un presidente che non ha mai indossato un'uniforme e che, come i suoi ultimi predecessori Bush il Giovane e Clinton, non ha mai visto una guerra da vicino, era persino troppo perfetto e tagliente, come di chi abbia timore di sbagliarlo. Sembrava, lui che pure è alto e atletico, minuto tra quei militari irrobustiti dalle tute mimetiche, rimpicciolito dalle dimensioni dell'enorme aereo e dal fisico dei sei portatori della pesantissima bara di acciaio saldato e laccato bianco a chiusura ermetica e guarnizioni di gomma, costo all'ingrosso per il Pentagono dollari 949.

Era stato proprio Obama ad annullare il black-out, l'oscuramento imposto da George Bush Primo nel 1991 nel timore di scuotere l'opinione pubblica e di incrinare il fronte interno di fronte alla processione di bare dal Golfo. Lo avevano mantenuto Clinton, che i suoi morti, soprattutto in Somalia, aveva prodotto e George il Piccolo, che temeva di alimentare l'ostilità crescente alle guerra in Iraq e Afghanistan.

Ma nessuno di loro, neppure Bush padre che pure la guerra aveva visto e combattuto come pilota di marina nel Pacifico, era mai salito da Washington sceso a quella base di Dover, mezz'ora di volo per l'Air Force One, che ha l'esclusivo e tristissimo onore di essere il primo approdo dei caduti. Il luogo dove avviene, secondo la formula ufficiale, "la dignitosa cerimonia" del trasferimento dei morti ai furgoni e poi ad altri aerei commerciali che li trasporteranno dove le famiglie li vogliono seppellire.

Il sergente dell'Esercito Griffin era stato salutato alla partenza per l'Afghanistan da un'edizione speciale del giornale della sua cittadina, il Terre Haute Daily Journal, perché era un piccolo eroe locale, campione di lotta libera nello stato dell'Indiana a 16 anni, figlio di una coppia religiosissima di Avventisti del Settimo Giorno, bel ragazzo che aveva preferito l'uniforme alle aule di un'università che non poteva permettersi.

Sono stati i genitori a concedere il permesso a che la sua bara fosse quella scelta dai comandi e dal Presidente per la cerimonia che finalmente ha squarciato il buio di quell'ipocrisia e che Obama ha preteso per capire, e per far vedere, di essere costretto anche lui a essere un presidente che ha ereditato due guerre. Ma almeno con il rimpianto di doverlo essere. Quella di Griffin è stata la cinque millesima bara scaricata dai C5 Galaxy della Lockheed a Dover. Ne sono state necessarie 4.999 perché un presidente andasse a onorarne una.

mercoledì 28 ottobre 2009

Miasmi italioti

Qui di seguito una serie di articoli sulla vomitevole attualità italiota.

Gli strati di merda continuano ad accumularsi uno sull'altro e a pesare sempre più.









Cronache dalla barbarie

di Carlo Bertani - http://carlobertani.blogspot.com - 28 Ottobre 2009

Se “l’imbarbarimento” della vita politica italiana fosse solo l’inciviltà che abbiamo sotto gli occhi, potremmo ridere allegramente e nutrirci di sole vignette, che sono – talvolta – esilaranti. Si va dalla carta d’identità di Brunetta, nella quale si vedono solo i capelli, a quelle “meteorologiche” su Berlusconi, il quale – non contento delle mille baggianate che fa raccontare dalle sue TV – s’inventa pure una tempesta di neve su Mosca per non incontrare il suo Ministro dell’Economia. Di questo passo, il nuovo Fascismo Mediatico ci racconterà pure che l’Umbria ha dichiarato guerra alle Marche, e qualcuno ci cascherà.

Non è nemmeno troppo “barbaro” che il Presidente del Consiglio vada a puttane, facendole pagare da un faccendiere della Sanità pugliese, il quale ha probabilmente ricevuto quei soldi dalle commesse di un’amministrazione di centro-sinistra dopo, chiaramente, aver fornito “carne fresca” anche nelle Puglie di “sinistra”.

In questa barbarie casereccia, c’è anche un rispettabilissimo Presidente di Regione che non va a puttane, perché preferisce i trans, e non si sa se li paga con soldi suoi o con mazzette, se ci va con l’auto di servizio oppure con la sua “Panda”, e se i carabinieri che lo scoprono sono delle “mele marce” oppure sapientemente imbeccati. Da chi? Perché?
Ecco, allora, che puttane e trans s’incrociano quando il Presidente del Consiglio telefona al Presidente di Regione:

«Attento Presidente, c’è un video che circola dove sei ritratto mentre te la spassi con “una” che ha un bel batocchio fra le gambe.»
«Non mi dica, Presidente: ma…come ha fatto a saperlo?»
«Me lo ha raccontato – Presidente – un caro amico giornalista – un Direttore, caro Presidente, sia chiaro – il quale s’è visto offrire la “merce” in cambio di denaro.»
«Ma…Presidente, spero che il Direttore non abbia accettato…»
«Certo, Presidente, io sono un uomo d’onore: visto che quel giornale è mio e che quel Direttore è un mio dipendente, puoi stare tranquillo, in una botte di ferro. Come Attilio Regolo.»
«Non so come ringraziarla, Presidente»
«Beh, non farlo sapere i giro – sai – perché non mi piace avere a che fare con quelli che se la spassano con i “batocchi”…io, le mie pulzelle, le faccio urlare di piacere tutta la notte. Come faccio? Una pastiglia, una doccia gelata e via, con il mio medico personale a disposizione nella stanza accanto.»
«Ma, adesso – Presidente – come posso fare?»
«Eh, caro Presidente, stacca qualche assegno dal tuo carnet per tacitare la cosa.»
«Mah, Presidente, e se la cosa non funzionasse, se il ricatto…»
«In quel caso – da Presidente a Presidente – giungerò in tuo soccorso e partirà l’indagine interna dei Carabinieri: le chiameremo “mele marce”, le cacceremo dall’Arma…e via. Ah, solo un’ultima cosa: se staccare gli assegni non dovesse funzionare, alla fine della questione ti toccherà staccare la spina che ti lega alla Regione Lazio.»
«Certo, Presidente: si tratta di una rinuncia che…»
«Non preoccuparti: ti faremo Presidente di una nuova fondazione, quella delle Pari Opportunità Sessuali: oggi una femmina, domani un trans, dopodomani un uomo barbuto, la settimana prossima una giovanetta, poi una capra…tutti uguali di fronte al sesso!»
«Non so come ringraziarla, Presidente…»
«Eh, caro Presidente, quando si è nella stessa barca…oddio, proprio la stessa…con quei “batocchi” no, però…ci si deve pure dare una mano fra di noi, altrimenti, se si sfalda la nostra casta…ci rendiamo conto di dove potremmo andare a finire? Lo sa quanti comunisti con le zanne sono pronti ad assalirci, nascosti nelle cantine di Roma, nelle foreste alpine, sotto i mari? Lo sa? Lo sa che ho dovuto appioppare una bella “tassa” agli italiani – sotto forma di decoder, cavi SCART, antenne e TV da sostituire, quella baggianata della Legge Gasparri e del digitale terrestre… – per consentire loro d’ascoltare Emilio Fede, per continuare la crociata anticomunista? Lo sa?»
«Eh sì, lo so Presidente: sapesse che fatica ho dovuto fare per togliermi di torno qualcuno di quei comunisti dalla Regione…erano della sottospecie domesticus, per fortuna, non i ferox da lei indicati…però…»
«Certo, Presidente, la capisco: resistere!resistere!resistere!»
«Grazie, grazie ancora Presidente.»

Se la barbarie fosse solo questa, potremmo sorridere (amaro) e passar oltre, senza curarci troppo di quanto avviene fra “pulzelle e batocchi”. Oppure credere al minuetto fra Bossi, Berlusconi e Tremonti…al partito “nuovo” che Bersani ha appena battezzato, e che già invecchia e si sfalda mentre è ancora sullo scalo…no…sarebbe soltanto il consueto corollario di una civiltà morente, che rovinerà da sola, senza nemmeno il classico “dito” per la spinta finale. Come dite? Che, crollando, ci trascineranno nell’abisso? Eh, qui no: permettetemi di dissentire, perché nell’abisso ci siamo già oggi.

Il 16 Ottobre 2009, un giovane romano – Stefano Cucchi di 31 anni – viene arrestato per la detenzione di una “modesta quantità di droga”: non viene specificato di quale droga si trattasse. Grazie alla legge partorita dall’oggi “Illuminato” (per qualcuno) Gianfranco Fini e dal compare Carlo Giovanardi (rimasto un ninnolo parlante da sacrestia), quel ragazzo poteva avere anche solo pochi grammi d’hascisc. Destinazione: Regina Coeli.

I genitori – immaginiamoli come tutti i genitori, preoccupati, ansiosi – chiedono subito un colloquio con il figlio in carcere, e lo ottengono per il 23 Ottobre: una settimana per avere il colloquio, eh, l’amministrazione carceraria è lenta…si deve avere pazienza…

Dove, invece, la Giustizia è rapidissima è nel comminare la pena di Morte, come abbiamo ricordato nel nostro “Il Miglio Verde Italiano” [1], ed i genitori – che, immaginiamo, attendono trepidando di parlare con il figlio, di chiedere spiegazioni, sapere come sta… – sono immediatamente “dirottati” all’obitorio dell’Ospedale Pertini (reparto carcerario), perché – quando si dice la sfortuna! – Stefano è improvvisamente spirato nella notte fra il 22 ed il 23 Ottobre. Perché era in ospedale?
Aveva improvvisamente avvertito dei “dolori alla schiena” ed i premurosi carcerieri s’erano immediatamente allertati per farlo ricoverare, affinché ricevesse le necessarie cure. Come no.

I “dolori alla schiena” che il figlio aveva manifestato, si trasformano – meraviglia di una transustanziazione carceraria – in un viso tumefatto, distrutto, quasi irriconoscibile per i poveri genitori che devono, invece di parlare con il figlio, ottemperare all’obbligo del riconoscimento. Qualcuno si rende conto della sofferenza che c’è dietro ad una storia del genere?
E questo caso è solo uno fra i tanti.

Aldo Bianzino, un falegname umbro di 44 anni, viene arrestato in piena notte il 12 Luglio 2007 per la stessa ragione: Bianzino, forse uno degli ultimi hippies, aveva delle piantine di marijuana nell’orto. Condotto nel carcere di Capanne (PG), viene trovato morto nella notte fra il 13 ed il 14 Luglio dello stesso anno, due giorni dopo l’arresto [2].

Nel caso di Bianzino, il “lavoro” è stato eseguito bene: il povero falegname è morto per traumi interni, emorragie invisibili dall’esterno, costole rotte, ecc. Un “lavoro” che solo dei “professionisti” del crimine possono eseguire, gente che ha a disposizione tutto il “necessario” ed ha tempo per farlo.

La vicenda è stata pubblicata anche sul blog di Beppe Grillo, perché è l’apoteosi della disgrazia, di un Fato perverso che sembra allearsi a questi massacratori d’innocenti: la moglie di Branzino – Roberta Radici – muore pochi mesi dopo – ricordiamo, forse, che i nostri “vecchi” dicevano “è morto di crepacuore”? – e lascia solo il figlio Rudra, minorenne.

Non ci dilunghiamo in altri casi, perché sarebbero soltanto delle fotocopie con lievi differenze: chi colpito in modo “professionale” da qualcuno che è stato ben preparato per quelle evenienze, oppure s’utilizza il laissez faire carcerario d’antica memoria. Si muore in una cella, soli, pestati a sangue da qualcuno che non sai se è un detenuto od un agente in borghese, si muore sputando l’anima con un punto interrogativo che serra lo stomaco, che chiede incessantemente perché?perché? perché proprio a me?

Bianzino, Cucchi e tutti gli altri che lasciano la pelle nelle carceri, nelle strutture psichiatriche come Mastrogiovanni, sulla strada come Aldrovandi non sono altro che il manifestarsi – evidente! Solo chi non ha occhi può accampare scuse! – che il “Garage Olimpo” italiano sta funzionando a meraviglia. Uccidono, senza remore, chiunque caschi nella loro rete, facendo ben attenzione a salvare quelli che non devono morire.

Sabato notte, 24 Ottobre 2009, un giovane torna ad Ostia dopo aver trascorso la serata a Roma: non c’è nulla di strano nel suo comportamento – forse, affermano i giornali, “è solo elegantemente vestito” – e ciò basta a tre pezzi di merda (scusate il necessario turpiloquio), che sono appoggiati al muro della stazione Lido Nord per assalirlo, pestarlo a sangue (costole rotte, setto nasale, ecc) al grido di “Frocio, Comunista” [3].

Il commento del sindaco Alemanno è che si tratta di “una vicenda preoccupante” e che ci vuole “più lavoro nelle periferie”. Alla prossima dirà che si tratta di un gesto “esecrabile”, e poi via con tutti i sinonimi dello Zingarelli: finché ci sono aggettivi, c’è speranza.

Da più parti si sostiene che il Belpaese ben si presti per le “sperimentazioni”: qualcuno, addirittura, lo chiama il “Laboratorio Italia”. E, allora, di cosa vi meravigliate? Stiamo qui a discutere se sia meglio andare a puttane od a trans, e se sia lecito esigere – sempre – il rispetto della privacy?

Chi ha rispettato la “privacy” di farsi uno spinello per Aldo e per Stefano? Gli stessi che vanno a puttane e poi sentenziano a morte – sì, perché le leggi le fanno loro – dagli scranni del Parlamento? E qualcuno parla ancora di rispetto per gli energumeni che ci governano?

Per caso, qualcuno rammenta il caso del deputato UDC Cosimo Mele [4], sorpreso durante un festino a “luci rosse” e cocaina in via Veneto: in quel caso, non era tanto una questione morale, quanto l’accusa di spaccio. Ebbene? Cosimo Mele ha ricevuto lo stesso trattamento di Cucchi e Bianzino? E qualcuno, ancora, invoca una “pietosa” e molto anglosassone privacy per questi signori?

Si può parlare a vanvera del Trattato di Lisbona e poi, quando i suoi prodromi – il “Laboratorio Italia” – si manifestano sotto i nostri occhi, non vederli, oppure continuare con un’alzata di spalle facendo i “superiori”, in nome di una morale che dovrebbe essere condivisa, e viene invece derisa?

Gli assassini di Cucchi, Bianzino, Mastrogiovanni, Aldrovandi e tanti altri sono la ferita inferta da questa classe politica di mefitici saltimbanchi ai grandi principi di garanzia del Diritto, dall’Habeas Corpus alla Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo. In quale Paese, un simile stillicidio d’omicidi di Stato non avrebbe suscitato indignazione, ribellione, dimissioni?

In tutti, salvo nel “Laboratorio Italia”, quell’appendice di terra slanciata nel Mediterraneo dove le condizioni sono “ottimali” per sperimentare i frutti del Trattato: una sorta di “Garage Olimpo”, trasposto dall’Argentina dei generali all’Italia dei pretoriani.

E qualcuno, ancora, si “scalda” per difendere il diritto di questa gente ad avere una “privacy”? La loro libertà d’uccidere mentre si garantiscono lusso e piaceri a iosa? Lo faccia pure, ma non s’aspetti d’avermi al suo fianco.

Note:

[1] Vedi : http://carlobertani.blogspot.com/2009/10/il-miglio-verde-italiano.html
[2] Fonte: http://www.informa-azione.info/perugia_morte_in_carcere
[3] Fonte: http://www.repubblica.it/2009/10/sezioni/cronaca/aggressione-ostia/aggressione-ostia/aggressione-ostia.html
[4] Fonte: http://www.voceditalia.it/articolo.asp?id=14968


Scandali e politica: dietro l’angolo di questa “Repubblica”
di Giancarlo Chetoni - www.rinascita.info - 27 Ottobre 2009

Da dove vogliamo cominciare tanto per stare agli ultimi giorni?
Dalla Lonardo, da Bassolino, dal prefetto Pansa, da Mastella, da Marrazzo, dagli “amici” e “compagni” collusi con una trionfante delinquenza ad ampio spettro che si annida, che trae forza e impunita legittimità dai Poteri Forti?

Da “Cosa Nostra” dalla Camorra, dalla ‘Ndrangheta, dalla Stidda, dalla Sacra Corona Unita, dai Casalesi o dal beverone salvifico costruito dai media di Saviano?

Vogliamo partire dal Pd o dal Pdl, dall’associazione per delinquere, e tutto il resto, o dai ricatti e dalla frequentazione dei trans alle strisce di coca? Dal generale Mori o dalla mafia di Ciancimino? Dal Nord o dal Sud? E’ vero o non è vero che Feltri l’ha mandata a dire su “ Il Giornale” anche a Fini tanto da costringere la terza carica dello “Stato” a utilizzare il patrocinio preventivo dell’on. Bongiorno, presidente della commissione Giustizia della Camera dei deputati?
L’avevamo detto e scritto.

I miasmi a ben annusare li si sentiva già da un bel po’ di tempo nell’aria. Nelle chiese davanti alla morte si batte le mani, si avvolge nel tricolore le salme degli scomparsi nel fango delle frane ma non quelle dei terremoti. La Repubblica delle Banane ha ormai la buccia color giallo cadavere. Nella gente c’è malessere, sofferenza, estraneità. Stati d’animo che si macerano, per ora, silenziosi all’orlo.

La verità è che gli italiani, non ce la fanno più a sopportare le rapine, i parassiti, i saccheggiatori di tutte le risme, il taglieggiamento, la violenza, l’arroganza, i privilegi di casta, le menzogne, l’arbitrio dei “vip”, la crescente povertà che taglia il fiato e getta alle ortiche la dignità delle famiglie, che brucia l’etica e l’avvenire dei figli. Eugenio Scalfari in un fondo di domenica 25 ottobre sul giornalone di De Benedetti titola così: aria torbida da fine regno… pensando al presidente del Consiglio Berlusconi che non gli va a genio.

Per noi “papi” o “mortadella” pari sono. Le lobbie che tengono in piedi il “Cavalier di Arcore” o hanno sponsorizzato il “professor Nomisma “ nella Corsa a Palazzo Chigi sono le stesse. Le menzogne, le eterne pastette delle riforme, le leggi elettorali truffa, i trasformismi, i rituali, malati, marci della “politica”, il bla bla delle “istituzioni” non bastano più a tenere sotto controllo le metastasi che aggrediscono il Paese.

Se ci mettiamo i delitti di Garlasco a partire da quello di Via Poma, il pastone diventa stordente, avvelenato, capace di uccidere. Il respiro dei Palazzi è corto e affannoso, come quello dei moribondi. La banda suona sulla coperta del Titanic.

Il porno Marrazzo ha avuto l’esplicito sostegno del ministro degli Interni, del leghista, duro e puro, Maroni. Ecco cosa dice l’inquilino del Viminale, lo riportiamo virgolettato, sul governatore del Lazio: “la sfera privata deve essere preservata dalla scontro politico, la vita personale è personale, ognuno può fare quello che vuole. Essendo vittima di un ricatto Marrazzo non credo che debba dimettersi”. Sentito? (Infatti… non si è dimesso, ma sospeso… per restare fino all’ultimo aggrappato alla poltrona).
Ognuno può fare quello che vuole. Più chiaro di così si muore.

Giudizio condiviso dal ministro della Giustizia Alfano, dal capogruppo dei deputati del Pdl Fabrizio Cicchitto rammaricato per le annunciate dimissioni dell’ex conduttore di “Mi manda Rai 3”. A “sinistra” tra gli sponsor e i candidati alla segreteria del Pd la preoccupazione che dilaga è quella che l’affaire, puzzolente come una fogna stagnante, di Via Gradoli tagli le gambe alla “partecipazione popolare “ alla scelta del neo-segretario Pd. Marrazzo, a sorpresa, incassa anche la solidarietà del capogruppo dei senatori del Pdl Gasparri.

Papi con Noemi e le sue puttane, pardon … escort, a Villa Certosa e a Palazzo Grazioli ci fa un autentico figurone, naturalmente lasciando fuori gli amici di Tarantini che hanno gli stessi vizietti afrodisiaci dei (delle?) brasileros Natalina e Brenda, affittate a 3.000 euro a botta da Marrazzo quando milioni di uomini e di donne, disoccupati, precari o pensionati cercano disperatamente di mettere insieme pranzo e cena.

Nelle dichiarazioni di Maroni e nelle difese di ufficio della “maggioranza”, affiora, al di là dell’improponibile e del ridicolo, una paura folle: la tenuta del sistema politico e istituzionale dell’ Italietta.

Nella stanza di Villa Piccolomini, sede di rappresentanza della Regione Lazio, accanto alla colossale scrivania dell’ ex (?) presidente della Regione Marrazzo che se la fa con i trans, c’è in angolo la bandiera della Unione Europea e quella del Bel Paese.

Sulla parete damascata di velluto rosso c’è una gigantografia in cornice a foglia d’oro di Giorgio Napolitano, il Padre della Patria, il Comandante Supremo delle Forze Armate e del Consiglio Superiore della Magistratura che per Marrazzo come per Fini ha sempre avuto un debole.

Ci auguriamo, vi auguriamo, che delle gocce di imprevedibile possano far tracimare, oggi, domani, il prima possibile, il bidone di percolato ormai all’orlo, qualunque cosa possa esserci dietro l’angolo.


Coincidenze parallele
di Teo Lorini - www.ilprimoamore.com - 26 Ottobre 2009

Molte riflessioni si stanno dipanando in queste ore dal complicato garbuglio di omissioni e ricatti, video apparsi e scomparsi, smentite e ammissioni che ha per protagonista il presidente PD della regione Lazio, Pietro Marrazzo.

A cominciare dalla constatazione (ovvia ovunque tranne che in Italia) per cui è inammissibile che sia esposto a ricatti il titolare di una carica politica di quel livello e –a maggior ragione- il detentore di un ancor più importante incarico. Perché allora Marrazzo si sospende dalla carica e non lo fa invece il primo ministro che da mesi ha ammesso, con l'ardito eufemismo "non sono un santo", di essere un puttaniere e del quale sono, per di più, provati gli intensissimi rapporti con un corruttore sotto inchiesta per induzione alla prostituzione, ma anche per detenzione di cocaina a fini di spaccio?

Più a fondo ancora ci si potrebbe chiedere, come fa Piergiorgio Paterlini, se tutto si possa ridurre alle usurate categorie della 'debolezza', degli ormai logori vizi privati e delle sempre più implausibili pubbliche virtù o se invece non si debba almeno tentare un'esplorazione più ampia, nei campi ancora ostinatamente tabù "del desiderio, dell'identità, del sesso che si paga".

L'affaire Marrazzo, però, non è solo l'occasione per ragionamenti e argomentazioni ma è anche un fatto di cronaca che si sostanzia di dati e risultanze. Dal primo lancio dell'Ansa sulla vicenda, i giornali hanno raccolto e rilanciato un numero molto ampio di informazioni, non sempre in perfetta coerenza le une con le altre. Quanti sarebbero i video? Quali i nomi delle transessuali con cui Marrazzo si accompagnava? Quanti i carabinieri coinvolti? Quanti direttori di giornale erano in possesso del filmato tramite il quale Marrazzo veniva ricattato?

Agli inquirenti che si dovranno orizzontare in tanta complessa materia non sarà però sfuggito il ricorrere, nel materiale di indagine, di un elemento suggestivo. L'incontro nel quale Marrazzo sarebbe stato filmato dai carabinieri che lo hanno ricattato si è svolto a Roma, in un appartamento sito in via Gradoli 96.

Chi ha più di trent'anni non faticherà a riconoscere questo indirizzo. La mattina del 18 aprile 1978, in pieno svolgimento del sequestro Moro, nell'appartamento sito al secondo piano, interno 11, di via Gradoli 96 qualcuno trova il modo di incastrare tramite una scopa la bocchetta della doccia e di puntarla verso una fessura fra le piastrelle del bagno. Una volta aperto il rubinetto, l'acqua filtra nei muri, allaga le intercapedini sino a quando una vasta macchia si allarga sul soffitto dell'appartamento di sotto, dove l'inquilina è costretta a chiamare prima l'amministratore e poi i pompieri.

È in questo modo che viene scoperto il covo brigatista in cui è alloggiato, con il nome falso di Mario Borghi, nientemeno che Mario Moretti, il capo delle Brigate Rosse. Su quel ritrovamento tutt'altro che casuale, si è parlato a lungo, tanto nelle varie commissioni parlamentari d'inchiesta, quanto in libri di storici, politici e saggisti intenzionati a indagare i troppi misteri d'Italia in cui non è difficile supporre l'intervento dei Servizi segreti. È il caso, ad esempio, del celebre tramezzo di un altro covo BR, quello milanese di via Montenevoso.

In quel bilocale che i carabinieri al comando di Dalla Chiesa "scarnificarono mattonella per mattonella", rimase però occultata una copia completa del Memoriale di Aldo Moro, comprensiva delle pagine in cui Moro rivelava alle BR l'esistenza di una struttura clandestina, Gladio, creata dalla Nato in funzione antisovietica e ignota persino al Parlamento italiano. Rimaste celate (dietro il citato tramezzo) per oltre 12 anni, quelle pagine riapparvero nel 1990. All'indomani, guarda caso, della disgregazione del blocco sovietico.

Nel caso del covo di via Gradoli, però, il ruolo degli apparati è qualcosa di più di una fantasticheria per amanti delle cospirazioni. Come ampiamente documentato dal senatore Sergio Flamigni in Il covo di Stato (Kaos edizioni, 1999), lo stabile dove Moretti aveva affittato sin dal dicembre 1975 un appartamento in cui visse per tutto il primo mese del sequestro Moro, era amministrato da un sistema di scatole cinesi di società-ombra, immobiliari, fiduciarie e finanziarie, connesse ai servizi e ad essi in toto riconducibili.

"In pratica" scrive Flamigni "nella primavera del 1978 ben 24 appartamenti della palazzina di via Gradoli 96, sede del covo BR, erano di proprietà di società immobiliari nei cui organismi societari figuravano alcuni fiduciari del servizio segreto civile (Sisde). A Roma e circondario si contano più di un milione di abitazioni, ma le BR morettiane che progettarono e attuarono il sequestro di Aldo Moro insediarono il covo-base dell'operazione proprio in via Gradoli 96, in un'abitazione letteralmente circondata da appartamenti la cui proprietà era controllata da fiduciari del servizio segreto del Viminale."

Interessante anche la figura dell'amministratore del palazzo, Domenico Catracchia, professionista di fiducia del Sisde e amministratore dei beni di Vincenzo Parisi, il futuro capo del Servizio che aveva acquistato nel settembre 1979, appena un anno dopo il delitto Moro, proprio l'appartamento-covo di via Gradoli. Interrogato dalla Digos lo stesso giorno della "scoperta"

"Catracchia dichiarò: «Sono amministratore dello stabile sito in via Gradoli n° 96. Riscuoto gli affitti di tutti gli appartamenti del suddetto stabile, tranne quello nella palazzina Imico, scala A, int. 11, 2° piano, che è di proprietà del sig. Ferrero-Bozzi, il quale lo ha affittato direttamente all'inquilino», cioè al capo delle BR che dovevano preparare il sequestro Moro […] Di norma gli inquilini pagano l'affitto direttamente al proprietario, ma in via Gradoli 96 questa regola valeva esclusivamente per il capo delle BR, Mario Moretti.

A questa macroscopica incongruenza gli inquirenti non prestarono alcuna attenzione, né prestarono attenzione allo strano ruolo del Catracchia il quale, riscuotendo personalmente gli affitti pagati dagli inquilini, garantiva di fatto una copertura agli effettivi proprietari degli appartamenti. In pratica, il ruolo operativo di Catracchia faceva da schermo alle società immobiliari e agli studi commercialisti che le gestivano".

Insomma, la palazzina in cui nasce lo "scandalo Marrazzo" è un edificio ben noto ai servizi. Gli stessi servizi da cui, secondo diversi analisti, proverrebbe la velina che definiva Dino Boffo "noto omosessuale attenzionato dalla Polizia di Stato" e che Vittorio Feltri allegò disinvoltamente a un vero certificato giudiziario (quasi si trattasse di documenti ufficiali di pari valore) nella serie di articoli che portò alle dimissioni del direttore di 'Avvenire'.
Dopo quella vicenda, diverse voci dell'entourage del premier sono tornate a minacciare l'esibizione o il recupero di succulenti fascicoli da adoperare alla bisogna.

Berlusconi in persona aveva dichiarato: "da editore ho stracciato molti servizi e fotografie" e, più di recente, ha annunciato che ne sarebbero venute fuori "delle belle" sul giudice della sentenza Mediaset-Cir. Alla lista delle dichiarazioni si aggiunge Feltri, che ha ricevuto una querela da Gianfranco Fini per aver minacciato esplicitamente di ripescare un dossier a luci rosse su un esponente di Alleanza Nazionale, né poteva mancare Emilio Fede che il 21 giugno in uno dei suoi strabordanti editoriali ha parlato di "scheletri negli armadi" chiedendo: "Li vogliamo aprire?".

Qualcuno potrebbe argomentare che il primo a essere fatto oggetto di curiosità e reportage è stato Berlusconi. Ma mentre i maneggi del premier con prostitute, attricette, candidate e così via emergono per così dire "in diretta", per effetto di valide inchieste giornalistiche e (non di rado) per il suo stesso cospicuo contributo (come ad esempio le molte contraddizioni del 5 maggio di Porta a Porta, puntata: "Adesso parlo io"), per i personaggi poco graditi al governo, le rivelazioni imbarazzanti o, meglio, il loro ripescaggio arriva sempre "in differita", al momento opportuno.

È il caso di Boffo, la cui condanna per molestie risaliva al 2004 e, ora, di Piero Marrazzo: il video del ricatto, (che secondo il Corriere pare fosse in circolazione già in agosto, tanto da essere oggetto di un'inchiesta giudiziaria) viene alla luce ora, in prossimità di elezioni regionali che si preannunciano molto tese, soprattutto per la pretesa della Lega di avere una presidenza di Regione (verosimilmente quella del Veneto).

Quella di fabbricare dossier sugli avversari, magari con l'aiuto degli apparati di intelligence è un'antica tradizione italiana. Nella storia della Repubblica si può risalire almeno sino al 1964 e alla lista di "enucleandi" stilata dal Sifar per ordine del generale dei carabinieri Giovanni De Lorenzo, spalleggiato da importanti esponenti della DC. Ma anche nell'attuale maggioranza ci dev'essere chi non disprezza tale tecnica, almeno a giudicare dall'imponente centrale di dossieraggio fasullo scoperta il 5 luglio 2006 in via Nazionale a Roma e gestita da un funzionario del Sismi, Pio Pompa, assunto direttamente dal generale Niccolò Pollari, a sua volta nominato ai vertici del servizio nell'autunno 2001 da Silvio Berlusconi.

Gli editoriali parlano sempre più spesso di "imbarbarimento", di "torbidi", di "ultimi giorni dell'impero". L'affaire Marrazzo è un'altra tappa di questo declino, ma lo spettro di coincidenze che vi aleggia intorno partendo dalla palazzina di via Gradoli, colora di bagliori ancor più foschi tutto quanto il contesto. Un Contesto che, coincidenza per coincidenza, pare opportuno rileggere. A sollievo, almeno parziale, della concitazione di questi complicatissimi mesi.

La ragion di Stato, signor Cusan: c'è ancora come ai tempi di Richelieu. E in questo caso è coincisa, diciamo, con la ragion di Partito…


Appuntamento in via Gradoli
di Antonella Randazzo - http://lanuovaenergia.blogspot.com - 27 Ottobre 2009

Ritengo che i personaggi politici debbano essere giudicati soltanto per ciò che riguarda la “cosa” pubblica, e non per le vicende private. Non mi sembra indice di civiltà il mettere alla gogna un personaggio per le vicende private. Ovviamente, non è il massimo avere come autorità personaggi che fanno uso di droga e che partecipano a festini a luci rosse.

Stando alle parole dei “trans” che ricevono in via Gradoli a Roma, sarebbero tanti i personaggi della politica e dello spettacolo che frequentano via Gradoli, e pagherebbero in media 1500 euro per “appuntamento”. La cifra si alzerebbe se viene fatta richiesta, oltre che di sesso, anche di droga. Qualcuno conferma che il "vizietto" di Marrazzo sarebbe assai diffuso in ambienti politici e non solo.

Spiega il giornalista e presidente dell'Italia dei Diritti Antonello De Pierro: "Molti politici in questo momento stanno tremando. Soprattutto se viene confermata la holding del ricatto messa in piedi dai quattro carabinieri. Altri politici potrebbero essere ricattati. All'epoca c'era un noto personaggio di Centrodestra che aveva lanciato una crociata contro i trans. Ma aveva ricevuto delle foto che ritraevano il figlio in compagnia di un trans e aveva quindi fatto marcia indietro... Più volte ho ricevuto informazioni su molti personaggi famosi della politica, dello spettacolo e dello sport, dediti a queste debolezze private... I trans lavorano per strada, per esempio in via Gradoli, ma hanno anche inserzioni sui giornali. I politici preferiscono gli stranieri, perchè li riconoscono meno. Ma alcuni si fidano e vanno anche con i trans italiani" (vedi http://www.affaritaliani.it/politica/marrazzo_palazzo_trans261009.html).

Lo squallore di tutto questo però non deve farci dimenticare che quando un personaggio viene messo alla gogna mediatica è perché sta facendo qualcosa non in linea con i suoi padroni.
In questi giorni, i personaggi politici sembrano essersi trasformati, grazie alle colpe del collega, in cavalieri senza macchia, additando il “reo” e punendolo con espulsione ed ostracismo.

Qualcuno ha detto che nell’attuale sistema i personaggi che avranno ruoli importanti saranno quelli “ricattabili”, ovvero che nella propria vita (anche privata) hanno comportamenti che la maggior parte dei cittadini giudica negativamente, specie se, come Marrazzo, si vantano di essere cattolici e di credere nei valori della famiglia.

Perché devono essere ricattabili? Perché, se dovessero voler uscire dal recinto può scattare lo “scandalo” che li distruggerà irreversibilmente.
Questo spiegherebbe perché fra milioni di italiani onesti, che credono veramente nei valori morali e della famiglia, sarebbero scelti personaggi di cui, all’occorrenza, si può svelare la moralità non ineccepibile.

Ma cosa avrebbe fatto Marrazzo di così grave da meritare la gogna mediatica sui suoi “vizietti”?
Probabilmente lo sapremo meglio in futuro, ma oggi possiamo constatare che egli aveva talvolta assunto posizioni non popolari fra il gruppo politico, facendo emergere che l’economia italiana era in agonia a causa delle banche, che col pretesto della “crisi” erano diventate assai avare, costringendo non poche aziende a fallire.

Il 24 Settembre 2009, Marrazzo fece una dichiarazione:
“Bene esito tavolo credito, ora le banche accelerino i tempi. Ritengo senza dubbio positivo l’esito del tavolo del credito: abbiamo voluto far sedere attorno allo stesso tavolo le associazioni imprenditoriali e i principali istituti bancari di Roma e del Lazio con l’obiettivo di fare il punto, insieme, su un capitolo determinante come quello del credito. La portata della crisi che sta investendo le imprese, come evidenziato anche dal rapporto presentato oggi dalla Cna, impone risposte immediate. Da parte nostra le risorse e gli strumenti ci sono. Ora però il momento di accelerare i tempi e renderli pienamente operativi. Ecco perché abbiamo ritenuto opportuno sollecitare il sistema bancario a fare la sua parte, perché è proprio sul versante della liquidità, e quindi del credito, che si fondano le necessarie azioni per consentire al tessuto imprenditoriale di uscire dalla crisi.”(1)

Di sicuro non sono stati pochi i momenti di contrasto fra Marrazzo e l’attuale governo, nonostante le strombazzate su un presunto “avviso preventivo” di Berlusconi sembrerebbero suggerire una specie di “solidarietà” fra l’ex presidente regionale e l’attuale capo di governo, che, com’è noto, di “scandali sessuali” è ormai saturo.
Tutti i giornali di regime hanno stigmatizzato l’ex presentatore, mettendo in risalto la “ricattabilità”. I partiti hanno rafforzato la gogna mediatica.

Sicuramente Marrazzo, negli anni del suo mandato, ha talvolta agito in modo diverso rispetto alla comune tendenza politica. Ad esempio, quando ha accolto i rappresentanti dell’Associazione Italia-Palestina e dell’Avad, Associazione Volontaria Assistenza Disabili. Con la collaborazione della Mezzaluna Rossa Palestinese in Italia, si rendeva possibile l’accoglienza in Italia, assieme ai loro familiari, dei bambini di Gaza che avevano bisogno di cure mediche. Il presidente Marrazzo ha sostenuto tale progetto, in tempi in cui persino i vecchi fascisti si recano in Israele a fare cordoglio.

Di certo Marrazzo, salito al potere nella Regione Lazio, si trovò ad affrontare diverse “patate bollenti”. Ad esempio, quella del settore sanità, quella edilizia e quella relativa ai prestiti bancari.
Egli fece capire che la “crisi” era dovuta a problemi di accesso al credito, e per questo decise di utilizzare la Banca Impresa Lazio (Bil) per garantire l’accesso al credito alle piccole e medie imprese.

Per quanto riguarda la sanità, Marrazzo decide di assumere ad interim l'assessorato alla sanità, in modo tale da poter affrontare “di petto” le varie disfunzioni e gli indebitamenti della sanità regionale. L'indebitamento della spesa sanitaria sarebbe stato di almeno 9 miliardi e 700 milioni. Marrazzo cercherà di far scendere il disavanzo, controllando le strutture sanitarie.

Egli suo malgrado avrà a che fare con lo scandalo sollevato dalla "Lady Asl", al secolo Anna Iannuzzi, le cui confessioni faranno emergere nel luglio 2006 falsi mandati di pagamento e tangenti pagate per ottenere privilegi illeciti nell' ambito della sanità romana. Finiranno sotto inchiesta diversi uffici del consiglio regionale Lazio, in particolare l'ufficio di Giulio Gargano, consigliere di Forza Italia.

Oltre al Gargano, saranno arrestati l'ex capo di gabinetto della Regione Lazio della precedente Giunta, Marco Buttarelli e diverse altre persone. La corruzione di questi politici faceva lievitare il costo della sanità. Marrazzo si pose l’obiettivo di rendere più “trasparente” il costo delle strutture sanitarie, cercando di porre rimedio al debito accumulato negli anni.

Senza dubbio l’operato di Marrazzo può essere in più aspetti criticato, non si vuole certo sostenere che egli sia stato sempre a servizio dei cittadini, come dovrebbero essere tutti i politici in una vera democrazia. Occorre tener presente che il gruppo di potere attuale è spesso intransigente, e pretende dai suoi servitori politici una sottomissione totale. Quelli che sgarrano prima o poi pagano.

Marrazzo più volte aveva parlato di una politica utile ai cittadini, che non promette “imprese faraoniche” ma piccoli aiuti concreti. Egli spiegava: "La crisi c'è e non sono certo le parole che possono contenerla (serve) una risposta dal basso (strumenti come) il reddito minimo garantito, la formazione permanente, politiche di garanzia al credito".(2)

Marrazzo sembrava intenzionato a mantenere le sue promesse, avversato da più parti.
Aveva incentivato il credito alle piccole e medie imprese, creato il “piano casa” e il reddito garantito. Le critiche sollevate furono diverse, anche dagli stessi consiglieri regionali. Il diktat dei banchieri impone di sottrarre quante più risorse possibili al pubblico, per pagare l’enorme debito e per mantenere inalterato il loro potere.

Nonostante gli ostacoli, Marrazzo riuscirà a fare approvare il “piano casa” e la proposta di legge sull'assestamento del bilancio annuale e pluriennale 2009/2011 della Regione Lazio, nell’agosto scorso. L’obiettivo era, come aveva dichiarato l'assessore al Bilancio della Regione Lazio Luigi Nieri, quello di sostenere gli “sforzi su pochi ma significativi interventi.

Investire sulle politiche abitative, sostenere il reddito di chi è in difficoltà, agevolare il credito alle imprese significa offrire soluzioni concrete per affrontare la grave crisi che stiamo vivendo. In questo modo vogliamo dare vita ad un circuito economico virtuoso. Con questo assestamento si completa positivamente e si rafforza il piano anti-crisi avviato con le ultime finanziarie regionali. Un impegno eccezionale che non ha compromesso la politica di risanamento di questi anni".(3)

Con il “piano casa”, spiegava l'Assessore alle Politiche della Casa, Mario Di Carlo, "La Regione si è impegnata nella costruzione di 30mila nuovi alloggi, che saranno edificati sia da operatori pubblici che privati. Le famiglie che vi accederanno pagheranno una quota di 500-550 euro al mese per una casa dal valore di 150mila euro. Quando avranno terminato di pagare potranno decidere se restare semplici inquilini, lasciando che l'Ater acquisti la casa, o se diventare loro stessi i proprietari riscattandola. Questo sarà possibile grazie a un voucher di 15mila euro che la Regione metterà all'inizio del contratto.”(4)

Lo scorso 16 ottobre, il “piano casa” è stato bocciato dal governo, che ha impugnato un solo articolo. Marrazzo era deciso ad andare avanti revocando l’articolo bocciato. Egli aveva dichiarato: “La legge e' comunque in vigore e noi ci stiamo riservando o di presentare una delibera con la quale revocheremo solo quell'articolo oppure di prendere altre strade".(5)

Alemanno ha talvolta criticato Marrazzo, parlando di “inutili sacrifici dei cittadini romani”, e mostrando di non gradire il suo "obsoleto welfare”.

Perdendo l’incarico regionale, Marrazzo non sarà più nemmeno il commissario straordinario della Sanità regionale, e questo probabilmente susciterà la reazione positiva di qualcuno. E forse anche il "piano casa" potrebbe non dare l'esito sperato.

In conclusione, non riteniamo che Marrazzo fosse un paladino degli interessi collettivi, altrimenti non sarebbe stato messo al potere, ma riteniamo che egli abbia fatto qualcosa che ha irritato i suoi padroni, attivando il linciaggio mediatico. Altrimenti non si spiega come mai tanto livore da parte di parecchi personaggi politici, in un paese in cui il livello di corruzione è molto alto e di “festini a base di sesso e di droga” a cui partecipano politici si hanno diversi precedenti.

Crediamo che Marrazzo sia stato travolto dalla bufera, non per motivi “morali” com’è stato fatto credere, ma per motivi di potere. Quello che ha fatto di “sconveniente” per i suoi padroni e che non gli è stato perdonato potrà emergere molto presto: quando al suo posto verrà messo un personaggio che agirà in modo diverso rispetto al predecessore proprio sui fatti “scottanti” che hanno attivato il linciaggio mediatico.

NOTE:

1) www.regione.lazio.it/binary/web/home_comunicati.../tavolopmi.pdf
2) http://date.it.sourcews.com/9-27-4
3) http://www.consiglio.regione.lazio.it/consiglioweb/news_dettaglio.php?id=1207&tblId=NEWS
4) www.regione.lazio.it
5) Fonte: Adnkronos/Labitalia, 16 ottobre 2009.


"Una Porsche al figlio di Clemente" il pressing dei Casalesi sul ministro
di Conchita Sannino - La Repubblica - 23 Ottobre 2009

Liberi di imporre nomi, elargire posti, consulenze, incarichi. O, per i nemici, di vessare, intimidire, escludere. Tutto sembrava consentito nella terra, geografica e politica, di Mastelleide. Dalle mille pagine dell´ordinanza emerge l´impressionante “paesaggio” delle istituzioni piegate all´arbitrio e alla strategia del consenso.

«Circondati da coglioni»

All´agenzia regionale Arpac sono in ansia. La delibera non è ancora pronta, le carte che servono ad avere lo “stato di avanzamento” di alcuni lavori tardano. Si sfogano al telefono l´ingegnere Carlo Camilleri, consuocero di Mastella, e Luciano Capobiano, direttore generale dell´Arpac. Capobianco: «Sì, abbiamo risolto…». Camilleri: «Posso fare a meno di disturbarti. Ma qui siamo circondati da coglioni». Capobianco: «Quando tieni la gente brava stai tranquillo, qui ci vuole una perizia di variante…». E... parlando di altri uffici: «Ma scusa so´ 35mila euro e nessuno se ne fotte, 35 mila euro (da incassare, ndr) e non mi scrivete del frigorifero, cioè stronzate».

Mastella: «Quello non è dei nostri»

«Scusa ma questo Massaccese di Casoria chi è?». L´allora ministro Clemente Mastella, il 7 maggio 2007, parla al telefono con Capobianco. Quest´ultimo è pronto a rassicurare: «È dei privati, non è nostro». E Mastella: «Ah, non siamo noi ah…non è nostro, va bè».

«Tu sai, questa è la politica»

Giuseppe De Lorenzo è il responsabile del servizio psichiatrico diagnosi dell´Asl Benevento 1 che riferisce di aver subito «continue e reiterate vessazioni» da parte dei Mastella, anche per aver denunciato «il degrado della struttura e le condotte omissive dei dirigenti». Di quel medico ribelle i Mastella vogliono liberarsi a ogni costo. Gli fanno sapere che deve farsi da parte. Racconta De Lorenzo al pm: «Mi rivolsi a Mario Scarinzi (ex direttore generale della Asl, oggi indagato-ndr) gli chiesi se veramente volevano farmi fuori per far posto a questa giovane collega di Ceppaloni. Lui ascoltò in silenzio e al più, ogni tanto, mi diceva: “Tu, sai, questa è la politica”».

I casalesi e la “fetta di torta”

Scrive il gip: «Un episodio di estrema gravità attesta non solo che il consigliere regionale Nicola Ferraro era “al servizio dei Mastella”, ma anche l´esistenza di inquietanti collegamenti tra lui ed esponenti della criminalità organizzata, cui (Ferraro, ndr) si rivolge per fare acquistare un´autovettura modello Porsche Cayenne, valore di 90mila euro, a Pellegrino Mastella, pagata in contanti con 77mila euro».

Ecco, infatti, cosa racconta il pentito Michele Froncillo, già elemento di spicco del clan Belforte di Marcianise, in un interrogatorio del 13 agosto scorso. «Ho conosciuto Nicola Ferraro nella veste di imprenditore: nel 1999, infatti, la società di Ferraro, la Ecocampania, aveva vinto l´appalto nel comune di Santa Maria Capua a Vetere per la raccolta dei rifiuti. Si instaurò tra noi un rapporto di conoscenza, fino a quando Ferrari non decise di fare politica per l´Udeur. Il Ferraro mi disse che era in ottimi rapporti proprio con Clemente Mastella, faceva favori, sovvenzionava qualsiasi spesa servisse al partito nella zona, come l´acquisto di pacchetti di voti nel casertano».

Poi Froncillo passa al capitolo della Porsche. «Mi disse il Ferraro che, tra i vari favori che aveva fatto al Mastella, vi era anche il regalo della Porsche Cayenne che aveva acquistato da Tommaso Buttone (cognato del boss Belforte, ndr). La cosa mi venne confermata dallo stesso Buttone e da Camillo Belforte. Il pagamento venne effettuato, da parte del Ferraro, con il versamento di una somma di circa 75mila euro. Non so dire se furono utilizzati assegni o contanti. Avvenne tra il 2004 e il 2005: era il periodo delle elezioni cui si presentò candidato Udeur Nicola Ferraro. Le preciso che l´intero clan di Marcianise si era messo a disposizione delle esigenze elettorali dell´Udeur e del Ferraro. Noi mandavamo affiliati a fare attacchinaggio di manifesti, facevamo propaganda per l´Udeur: perché lo stesso Ferraro ci aveva detto che avrebbe ricambiato, facendoci avere “la nostra fetta di torta”. Usava lo stretto dialetto casalese: dopo l´elezione avrebbe pensato “a tutti i cumpegni”».

Aggiunge il pentito: «Ferraro ricopriva di attenzioni il Mastella, ivi compreso il regalo della Porsche. Una volta venne presso di me Sebastiano Ferraro, cugino di Nicola, noto affiliato al clan dei casalesi (ma è stato candidato sindaco per l´Udeur a Casale nel 2007, ndr), a portarmi tranche di 5mila e 6mila euro a seconda delle esigenze della campagna elettorale».

«Una banda degli onesti»

Nello sfogo dell´ex assessore regionale Udeur, Andrea Abbamonte, con Carlo Camilleri, intercettato nella telefonata del 19 marzo 2007, un campionario di definizioni a uso interno. Abbamonte spiega come ha messo in riga il vertice dell´Arpac, Capobianco: «Gli ho detto: guarda, sei stronzo tre volte, stai attento a come gestisci i Cococo che tu passi ‘nu guaio, ti hai fatto la delibera e hai chiesto il parere della funzione pubblica, quando io ti ho detto che non lo dovevi chiedere quel parere, e mi hanno detto pure che sei l´elemento debole, perché io, i miei me li tengo sotto la palla, perché sono cococo confessati e comunicati, e tu rompi ‘o cazzo dalla mattina alla sera, tu, la tua famiglia, tuo fratello a destra e a sinistra». Abbamonte aggiunge, su altre “inadempienze” di Capobianco: «È talmente cretino che va a scrivere tutto in una delibera». Camilleri: «Un superficialone, mi ha deluso, bum bum e poi non capisce ‘nu cazzo».

Ancora più avanti, discutono di un convegno cui ha partecipato Mastella. Abbamonte: «Clemente si è fatto portare in un agguato perché questi del Pon Sicurezza spendono 10 milioni di euro per servizi sui beni confiscati e regalano all´assessore Abbamonte che va al convegno una Montblanc, per farti capire come sono spesi i soldi (…)». L´ultima frase, prima che i due chiudano la telefonata, è quasi un auto epitaffio: «Il Ministero dell´Interno e questi del Pon sono una banda degli onesti, per non dire altro».


La rossa passa col rosso
di Thomas Mackinson - L'espresso - 22 Ottobre 2009

Autovelox, semafori: i ministri li ignorano. Così Gelmini e Lunardi si fanno togliere le multe. E anche la Brambilla che noleggia pure Mercedes con autista a spese nostre.

I semafori non contano, gli autovelox possono aspettare, l'ecopass non li riguarda: tanto la multa non si paga. E non si paga nemmeno l'auto: è tutto a carico dei contribuenti. Alla Prefettura di Milano, un tempo capitale morale, si sono abituati alle istanze di parlamentari e ministri per chiedere l'annullamento delle sanzioni.

Da Michela Vittoria Brambilla a Mariastella Gelmini, dall'onorevole pdl Maurizio Bernardo a Pietro Lunardi: basta una lettera su carta intestata per far sparire tutto. E magari, dietro quella multa c'è altro. Ad esempio il caso della Brambilla, che... ha fatto spendere 500 euro al giorno per noleggiare una Mercedes con autista, incaricata di accompagnarla da casa al lavoro, 80 chilometri in tutto. A rivelarlo è una multa per un semaforo non rispettato presa a Milano il 19 febbraio scorso e prontamente cestinata "per motivi istituzionali".

Il verbale viene notificato qualche mese più tardi al titolare della concessionaria che ricorre al prefetto, chiedendo l'annullamento: "La vettura è adibita al trasporto dell'onorevole Brambilla". Per dimostrarlo allega copia della fattura e del contratto di servizio con la prefettura di Lecco. Da questi documenti emerge il costo per il contribuente: l'auto è rimasta a disposizione di MVB per 19 ore consecutive, i chilometri percorsi sono stati 210 in più rispetto al pattuito e alla consegna il conto è di 530 euro per un solo giorno.

A farsi condonare le multe ci provano davvero tutti. Maurizio Bernardo, il deputato del Pdl che tra mille polemiche ha riscritto le regole della magistratura contabile in senso restrittivo, ha sfruttato il suo status per evitare una multa da 74 euro. L'onorevole, nato a Palermo ma eletto in Lombardia, a febbraio ha percorso in motorino la via di casa riservata ai bus: ma quando è arrivata la notifica dell'infrazione, ha chiesto di non pagare "in qualità di parlamentare lombardo e titolare di pass rilasciato dal Comune che autorizza a transitare nelle corsie preferenziali e nelle Ztl".

Peccato che i pass valgano solo per le auto e non siano nominali ma legati sempre alla targa. E non si è ancora visto uno scooter di Stato...

Il ministro Mariastella Gelmini invece passava sul cavalcavia Monteceneri a cento all'ora a bordo della sua Bmw. Difficile farla franca. Il viale è telecontrollato e falcidia migliaia di milanesi. E infatti il 24 ottobre 2008 il ministro riceve il suo verbale. La Gelmini prende carta intestata e scrive al prefetto. Nella comunicazione adduce "impegni istituzionali improrogabili" e la multa è già un ricordo.

Solo qualche mese prima era toccato al padre della patente a punti, l'ex ministro Pietro Lunardi.

Stavolta l'immunità è pretesa per un divieto di sosta da 36 euro. Il 5 marzo 2008, in piena campagna elettorale, la sua auto viene multata perché staziona senza autorizzazione in un parcheggio destinato ai residenti. Lunardi impugna la solita carta intestata alla Camera e fa battere il seguente testo per il prefetto: "Il sottoscritto in carica per la XVI Legislatura, fa presente che l'auto veniva da lui utilizzata ed era in possesso di regolare permesso di libera sosta nel Comune di Milano". Ma libera sosta non significa lasciare l'auto nel posto riservato ad altri cittadini.