domenica 23 maggio 2010

La crescita è finita

Qualche articolo sulla crisi strutturale del sistema capitalistico ultra-liberista che stiamo vivendo nella sua fase acuta ormai da circa tre anni.

Una crisi a cui i governi hanno opposto finora meri palliativi per ritardare il più possibile il botto finale, perchè il muro è sempre lì davanti che ci aspetta.

Non basterà infatti continuare a scalare le marce, ma si deve assolutamente frenare e cambiare direzione.

Se la crisi è del sistema

di Mazzetta - Altrenotizie - 15 Maggio 2010

Sono passati due anni da quando la crisi, a lungo annunciata, ha cominciato a far sentire i suoi effetti devastanti, deprimendo l'economia e minacciando l'implosione della finanza mondiale. Fin da subito è stato chiaro, anche a molti di quanti fino ad allora non avevano creduto alle Cassandre, che il sistema crollava perché era insostenibile.

Si parlò di schema-Ponzi e non ci si riferiva solo alle truffe di Madof o di altri suoi emuli, ma al peculiare assetto della finanza internazionale che era evidentemente sostenibile solo in costanza di una geometrica crescita del capitale circolante e delle scommesse finanziarie; proprio come uno schema piramidale, che funziona solo in fase d'espansione e poi implode alla minima inversione di tendenza.

Nonostante l'evidenza, i media accettarono di buon grado di inquadrare la questione secondo i desideri della grande finanza e, inizialmente, puntarono il dito contro i mutuatari americani più deboli, quelli che avevano sottoscritto i famigerati mutui sub-prime senza poterseli permettere.

Per un po' funzionò, a dispetto dell'evidenza statistica per la quale i “poveri” contraenti dei sub-prime avevano tassi d'inadempienza dei loro impegni più bassi di quelli degli altri mutuatari prime.

I poveri pagavano meglio, ma non importava, come non importava che molti dei sub-prime andati in malora fossero stati in realtà concessi a società o a individui che speculavano sul mercato immobiliare senza avere sufficienti garanzie da offrire alle banche.

Non fu casuale questo puntare il dito sui sub-prime, perché consentiva all'amministrazione americana di scaricare la colpa sull'amministrazione Clinton (che aveva favorito e innescato il fenomeno) e alla grande finanza di scaricare le responsabilità su una delle poche decisioni politiche che non avevano lo stigma evidente di essere a favore dell'élite finanziaria (anche se lo era) e, infine, sui poveri.

Il disastro non era quindi colpa dell'amministrazione USA e nemmeno di Wall Street. Dal loro punta di vista non si poteva sperare di meglio nell'occasione e fu uno scherzo farsi seguire su questa strada dai media mainstream, anch'essi complici omertosi del disastro e spesso controllati dagli stessi soggetti che portavano la responsabilità della crisi.

Inquadrata così, la crisi provocata dalle élite finanziarie e dalla loro avidità ha assunto un altro aspetto e a perfezionare l'operazione ha provveduto la confusione sui prodotti derivati, chiamati in causa quando è stato evidente che la crisi eccedeva di gran lunga la massa dei sub-prime e che quindi, il framing, (l'inquadrare il dibattito) entro limiti favorevoli, rischiava di andare in pezzi.

I sub-prime sono però rimasti ad aleggiare sullo sfondo, indicati come elemento detonante di una crisi provocata dall'eccessiva creazione di prodotti derivati e dall'uso spregiudicato della leva finanziaria.

Puntare l'indice contro i derivati è stato conveniente per diversi motivi: sia perché sono strumenti complessi, in larga parte incomprensibili al grande pubblico (al quale ben pochi hanno cercato di spiegarli), che per la loro natura di scommesse tra operatori professionali.

Chi ha sottoscritto tali scommesse, infatti, è (o avrebbe dovuto essere) un operatore professionale, per lo più assistito da professionisti del ramo, sia nel caso di grandi aziende o di istituzioni pubbliche.

Tutta gente che, pur scottata da vere e proprie truffe, non pensa minimamente a mettere in discussione il sistema o ad accusare le controparti con le quali spesso ha cointeressenze o intrecci relazionali molto robusti, per non dire di quanto la politica sia stata sempre più influenzata dalla finanza negli ultimi decenni.

Che poi insieme agli operatori professionali siano stati trascinati nella polvere anche i pensionati e i piccoli risparmiatori con le loro modeste rendite legate alla borsa, non è sembrato assumere grande rilevanza: molta più enfasi è stata riservata ai problemi del sistema (quindi dell'élite) e alla necessità di salvarlo, pena una fine peggiore per tutti.

È bene ricordare che, fin dall'inizio della crisi, ogni tentativo di framing ha contribuito a costruire un vero e proprio muro che ha nascosto al dibattito un suo carattere fondamentale: quello di essere prima di tutto una crisi statunitense.

Sono infatti statunitensi le grandi banche e le grandi finanziarie fallite (o salvate da un fallimento inevitabile) e sono d'origine statunitense sia l'impostazione del sistema finanziario che si è andata delineando dopo la caduta del muro di Berlino, che il brutale impulso che ha spinto il mondo verso l'adozione del modello ultra-liberista.

Modello che si è poi rivelato in grado di garantire solo la libertà delle élite finanziarie di drenare risorse dall'economia reale, per poi bruciarle ai tavoli del grande casinò finanziario di Wall Street, del quale negli anni gli stessi operatori hanno assunto il controllo quasi totale e, con esso, la possibilità di truccarne le carte e i conti.

Statunitensi sono le grandi banche d'affari e anche la più grande impresa d'assicurazione al mondo, quell'AIG che, forte dei premi e dei capitali dei suoi assicurati, aveva assunto la funzione di garante di qualsiasi prodotto finanziario messo sul mercato, anche il più scellerato e ben oltre le sue capacità di onorare tali impegni.

Per mantenere questo assetto è stato necessario nascondere fino all'ultimo la verità, emarginare ogni voce critica, ogni invito alla prudenza e alla chiarezza dei conti. Così che Alan Greenspan, già nel 2004, decise di mantenere segreti i rapporti e le relazioni che avrebbero dovuto allarmare il governo americano e i mercati sul montare di una bolla immobiliare già allora matura, con il pretesto che il sistema era “troppo complesso” per permettere alle opinioni pubbliche di venirne a conoscenza nei dettagli e quindi di poter formarsi ed esprimere un'opinione che avrebbe potuto “davvero” mettere a rischio il sistema e far saltare il banco, comunque destinato a saltare con il tempo. Una realtà certificata dai numeri e dai rapporti in possesso di Greenspan, tenuta gelosamente riservata per ben quattro anni e venuta alla luce solo la settimana scorsa.

Allo scoppiare della crisi i giocatori, gli arbitri e i cronisti di questa grande partita erano ormai indistinguibili gli uni dagli altri, legati da intrecci inestricabili, da una malriposta pretesa superiorità di classe e al di sopra delle leggi, che pure li avrebbero visti falliti o condannati. Lo sono ancora, se possibile oggi ancora di più.

I grandi attori economici sono usciti dalla prima fase della crisi ancora più grandi a seguito di un riassetto del sistema operato salvando gli uni e poi vendendo loro gli altri che si era deciso di bollare come vittime sacrificali, tenendo in vita il tutto con enormi iniezioni di denaro pubblico.

Anche le società di revisione contabile e le agenzie di rating hanno subito lo stesso destino e oggi le “too big to fail”, le corporation troppo grandi per poter fallire senza provocare la distruzione generale, sono ancora più grandi e il sistema è ancora meno governabile e trasparente di quanto non fosse all'inizio della crisi.

Se all'alba della crisi Bush, Obama e gli altri leader internazionali annunciarono la necessità e il pronto varo di regole nuove, queste però non si sono viste. Alle grandi società finanziarie americane in fallimento fu assicurata la garanzia governativa per i titoli tossici, nuove regole “creative” con le quali truccare i bilanci e una mostruosa iniezione di denaro per coprire i buchi.

Un errore marchiano, perché con quei soldi il sistema finanziario non ha riempito i buchi (nascosti provvisoriamente grazie alle regole contabili creative) e nemmeno ha finanziato l'economia reale, che non si riprende perché i capitali necessari agli investimenti sono dirottati altrove.

Quei soldi sono stati “reinvestiti” nel casinò, come se nulla fosse successo, ma non senza ragione, dato che in costanza di condizioni quella destinazione offre l'aspettativa di maggiori e più rapidi guadagni.

La cosa ha determinato l'ovvia risalita dei corsi azionari e grossi guadagni per quegli stessi dirigenti che avevano portato al fallimento le loro aziende e l'economia statunitense. Così si è verificata la “ripresa senza occupazione”, perché a riprendersi è stata solo la giostra delle borse, ormai avulsa dall'economia reale, che invece ha continuato a macinare disoccupati, fallimenti personali e sfratti a passo di carica.

In una situazione del genere, negli Stati Uniti si sono sentiti anche fior di analisti e politici esprimersi contro la concessione di sussidi ai disoccupati (una goccia rispetto a quanto dato alle banche) con il pretesto che una volta “assistiti” con quattro soldi al mese avrebbero perso la voglia di lavorare.

Poi sono venuti gli attacchi all'Euro e alle economie più deboli dell'Unione Europea. Un gioco facile, poiché gli stessi speculatori erano quelli che avevano contribuito ad inflazionarne i bilanci, quando non erano stati direttamente complici degli stati nel truccare i conti, come nel caso della Grecia e del suo rapporto con Goldman Sachs. Un gioco facile almeno fino a quando l'UE non ha trovato un briciolo d'unità politica e fatto muro contro l'attacco.

Niente di particolarmente difficile, rappresentando i paesi più in difficoltà solo una frazione dell'economia europea (la Grecia ne vale circa il 2%), ma ancora una volta l'occasione è stata colta per proseguire sulla strada sbagliata: nel pagare i debiti delle banche, delle istituzioni finanziarie e dei governi collusi si è riaffermata la stessa ricetta fallimentare.

Tagli ai servizi sociali, alla sanità, all'istruzione, alle pensioni: la proposta corre proprio nel senso della demolizione di quello che ancora fa la differenza tra il sistema americano e quello europeo e la crisi delle banche.

In Europa, come negli Stati Uniti, il fallimento degli dei della finanza lo devono pagare i cittadini, lavorando per salari ancora più bassi, rinunciando a diritti acquisiti e facendo ogni economia per ripagare i debiti altrui, con il miraggio che una volta ripartita la giostra andrà bene per tutti.

Non sarà così. Gli stessi ministri europei ed americani hanno più volte ripetuto che la crisi è sistemica e non si riferivano certo ai sistemi statali e agli stati che si sono dovuti svenare ed indebitare per pagare i fallimenti delle banche, come già è toccato agli americani e agli islandesi e un po' a tutti nel mondo.

Una truffa auto-evidente, ma non basta questa evidenza a superare la narrazione falsa e tranquillizzante diffusa dai media e da “ottimisti” come Berlusconi. È il sistema finanziario globale che è in crisi, che è evidentemente rotto e incapace di funzionare secondo le non-regole in vigore, che favoriscono solo l'arroganza e la spregiudicatezza del più forte, incapaci di sanzioni anche a fronte dell'evidenza di comportamenti criminali e professionalmente inadatti.

Se la crisi è sistemica significa che il sistema, così com'è, è condannato a ripetere gli stessi errori. Di più, significa che nascondendo la verità dei conti e dando alla finanza americana il denaro per tornare a giocare, si sono poste le premesse per la definitiva implosione del sistema, perché dall'anno prossimo le grandi corporation americane dovranno rimborsare quantità sempre più elevate di debiti e nessuno è in grado di spiegare come faranno.

E’ invece chiarissimo che nemmeno gli Stati Uniti si potranno permettere un altro bailout, ancor meno in costanza di tre guerre che dissanguano i bilanci. Affermare che i militari americani sono troppo pagati e che si spende troppo per assicurare loro la copertura sanitaria, non serve a molto; anche in questo caso si tratta di miserie se paragonate al buco nei conti della finanza. Buco che, come già spiegato all'alba della crisi, è abbastanza grande da inghiottire l'intera economia mondiale e di scatenare una depressione tale da far impallidire quella del '29.

Non rendono quindi un buon servizio ai cittadini Tremonti e i suoi colleghi europei quando decidono di affrontare una crisi che definiscono sistemica senza ipotizzare alcuna modifica al sistema. E lo stesso Obama e il Congresso americano si confermano così tanto parte del sistema da non poter far nulla per riformarlo.

Non si tratterebbe di un'impresa titanica, perché i problemi di oggi sono gli stessi che l'economia affrontò ai tempi dei Robber Barons, così simili agli autoproclamati “dei” di Wall Street. Rompere i monopoli e i cartelli, ridurre le dimensioni delle corporation, reintrodurre la separazione tra i diversi business finanziari, introdurre regole, vigilanza e sanzioni efficaci, aumentare la tassazione sulle rendite finanziarie e le tasse di successione per i grandi patrimoni.

Niente di particolarmente astruso o bolscevico, sono anzi provvedimenti che darebbero maggiore “libertà” operativa agli operatori economici, non più schiacciati da un'elite che si scrive le regole e si autoassolve quando le infrange, e finalmente in grado di competere ad armi pari in una ambiente più sano, competitivo e onesto.

Niente di rivoluzionario, ma abbastanza da mettere sulla difensiva il sistema e i suoi protagonisti, che non sono per niente disposti a pagare il prezzo delle loro colpe e che preferiscono continuare il blame game (il dare la colpa ad altri all'infinito senza mai arrivare al riconoscimento di alcuna responsabilità) fino a che non avranno messo al sicuro i loro guadagni o fino a quando il sistema non imploderà definitivamente, lasciando il cerino in mano ad altri che bruceranno nel rogo, mentre i soliti noti s'arricchiranno ulteriormente comprando a prezzo di saldo.

Per questo siamo ancora esattamente dove eravamo quando è scoppiata la crisi, con i ministri, i presidenti e i media che ci dicono che il sistema è rotto, ma che da allora evitano accuratamente qualsiasi proposta di riforma del sistema che non sia la semplice cosmesi dei conti o la continuazione della rapina ai danni della massa dei cittadini. Le conseguenze di un tale stato di cose dovrebbero a questo punto risultare evidenti: la crisi continuerà a peggiorare inevitabilmente e il suo costo aumenterà ogni giorno che passa, senza alcuna speranza di un esito diverso.


L’unica vera soluzione è ridurre i consumi

di Massimo Fini - www.massimofini.it - 23 Maggio 2010

Si discuteva l’altra sera a "Porta a porta", con la partecipazione di scienziati, di tecnici, politici e varia umanità, di inquinamento, "effetto serra", buco dell’ozono, polveri sottili, cambiamento del clima.

A parte un tale che sosteneva che l’inquinamento per mano umana non esiste (sarebbe colpa delle scorregge delle mucche che emettono gas metano) il dibattito si è focalizzato sul solito scontro fra nuclearisti e fattori delle fonti di energia "pulite", eolica e solare.

Non esistono fonti di energia "pulita" perché tutte, usate massivamente, producono inquinamento, di un tipo o dell’altro. Anni fa in una regione fra Olanda e Belgio, vastissima pianura battuta dal vento, vennero costruite trecento enormi torri eoliche. Che cosa c’è di più pulito del vento?

Gli abitanti della zona ne uscirono quasi pazzi. Erano abituati ad avere davanti a sè uno spazio a perdita d’occhio e ora il loro sguardo era interrotto da quelle torri. E le pale eoliche facevano un rumore infernale giorno e notte.

È curioso non venga mai in mente a nessuno che l’unico modo per arginare l’inquinamento è ridurre i consumi e quindi la produzione e quindi la necessità di fonti di energia sempre più invasiva. Questo è il tabù dei tabù, perché incepperebbe il meccanico "produci, consuma, crepa" su cui si basa il nostro modello di sviluppo che inquina non solo l’ambiente, ma la nostra vita provocando stress, angoscia, nevrosi, depressione, suicidi, raptus omicidi.

Questo meccanismo non deve essere messo in discussione. Ce lo dice anche il modo con cui i governi stanno affrontando l’attuale crisi economica. Il solito modo, usato con la crisi messicana del ’96, quella delle "piccole tigri" nel ’97, quella dei "subprime" americani del 2007: immettendo nel sistema altro denaro inesistente per drogare il cavallo già dopato perché faccia ancora qualche passo.

Nonostante tutti sappiano che un sistema che si basa sulla crescita continua, che esiste in matematica ma non in natura, quando non avrà più la possibilità di espandersi imploderà fatalmente su se stesso. E ci siamo molto vicini.

Con l’enorme quantità di denaro che, nelle sue varie forme, è in circolazione, abbiamo ipotecato il futuro fino a epoche così sideralmente lontane da renderlo inesistente. Quando ci sarà il collasso e il denaro sparirà, la gente delle città, rendendosi conto che non può mangiare l’asfalto, si dirigerà verso le campagne e si assisterà a lotte feroci e sanguinose per il possesso di un po’ di terra, di un campo di patate, di una mucca per quanto scorreggiante.

Tatanga Jota, alias Toro Seduto, ci aveva avvertiti alla fine dell’Ottocento: "Quando avranno inquinato l’ultimo fiume, abbattuto l’ultimo albero, preso l’ultimo bisonte, pescato l’ultimo pesce, solo allora si accorgeranno di non poter mangiare il denaro accumulato nelle loro banche", ma possiamo dar retta a un pellerossa, a un "primitivo" noi che possediamo una scienza che va a ravanare nel genoma pretendendo di scoprire l’origine della vita, talmente colmi della nostra "ubris" da non ascoltare non dico Toro Seduto ma nemmeno Eraclito che nel VI secolo a.C. dice: "Tu non troverai i confini dell’anima, per quanto vada innanzi, tanto profonda è la sua ragione"?

La crescita non è un bene in sè. Anche il tumore è una crescita. di cellule impazzite. L’uomo moderno, in preda al proprio delirio di onnipotenza, è impazzito. E lascerà presto il campo a bestie un po’ più intelligenti.



L'uomo non è debito pubblico
di Luigi Boschi - www.luigiboschi.it - 21 Maggio 2010

Si continua a tergiversare senza voler colpire il bersaglio. E' come nel mondo del narcotraffico. Si prendono i pusher, i tossici, ma non chi detiene il mercato. E così da sempre.

Un vertice marcio, non può che generare una società marcia. Siamo tutti coinvolti, ognuno con la sua dose di responsabilità. Non c'è poi la volontà di agire nella coerenza della responsabilità e consapevolezza, ma di adeguarsi ai flussi. E' come abbandonare la propria vita alle fiere... senza la capacità di ribellione, considerata solo una retroguardia storica. Quasi una rassegnazione.

E' la cultura delinquenziale e criminale che governa il mondo. Bisogna uscire dalla perversa logica del Debito Pubblico e PIL, e sarà un dramma sociale, su cui si sono formate diaboliche alleanze criminali, d'affari e interessi... vivono sul ricatto alla collettività e speculano sulla vita della gente.

L'esplosione del debito pubblico è una partita di giro generata da criminali per impoverire i popoli e arricchire una élite a cui dovrebbe invece essere addebitato. E' il nostro lascito, insieme alla distruzione ambientale, per le nuove generazioni, paragonabile ai disastri prodotti nel periodo coloniale di cui paghiamo ancora le conseguenze.

G. Auriti: "Se non ci liberiamo della moneta debito le generazioni future avranno l'alternativa tra la disperazione e il suicidio".

Sarà un default a demolizione controllata!! Ma sarà default. La pratica Lehman possiamo considerarla una esercitazione sul campo... ma anche Parmalat e Argentina. Ora la Grecia: cosa ne è stato fatto di quella civiltà madre dell'occidente!

Saranno falcidiati rigorosamente i settori vulnerabili della popolazione... e come sempre pagheranno i più deboli le colpe di una élite collusa, corrotta e bancarottiera... Una gerontocrazia culturale ormai priva di senso.

Senza collasso finanziario non si potrà avere una rigenerazione, il mondo degli uomini, ma resterà solo degli affari e dei ricatti. Il default degli Stati è un bagno di sangue necessario per riavere la vita, per ridarci un'etica adeguata alle conoscenze, nuovi diritti e doveri, nuove forme di convivenza.

Questa non è più sopportabile, né sostenibile. Una società fondata sul debito pubblico è una bomba a esplosione certa telecomandata.

Principi di austerità, tagliare tutto ciò che è dannoso alla vita, astenersi dai consumi inutili, depurarsi, diviene una condizione indispensabile o sarà scontro, violenza, catastrofe. E' la torre di Babele che crolla. L'alienazione sul lavoro e la drogatura nel dopolavoro sono condizioni di privazione di vita. Nell'orgia non trovi amore. E lo Stato dell'orgia sta collassando perché esaurito e esautorato.

L'attuale crisi che non è congiunturale, ma strutturale, non tocca "il sistema" dei signori dell'ordine mondiale... perché è di loro dominio!! Li si lasciano agire. Hanno tutto a disposizione: ogni cosa, ogni individuo ha un prezzo. L'ordine che governa il mondo usa tutto e tutti... e lo fa con tutti gli strumenti.

I media luoghi di compensazione umorale. Intrattengono con gli scoop, con situazioni di piccolo cabotaggio, con lo spettacolo. Sono le telenovela multisoggetto quotidiane per addomesticare e rendere fazioso il popolo. Manipolano con la propaganda le menti. Dotati di redazioni dedicate agiscono come vere macchine da guerra. Producono finte scaramucce e gogne mediatiche per chi ha perso potere... il popolino si sbizzarrisce, impotente guarda... e copia i modelli proposti.

I politici sono cani da riporto, impiegati a servizio dell'ordine costituito, chiamati a svolgere ciò che è nell'interesse del comando a cui devono riferire e rispondere. L'elettorato è la farsa democratica.

La società dell'intrattenimento o dei balocchi svolge la sua funzione dissipatrice di intelligenze e menti pensanti. Pensare non va bene. Devi agire in modo pavloviano. Vengono generate cause a cui seguono effetti voluti.

Le forze militari proteggono i vertici e agiscono in funzione di un mandato: intimidire gli individui e controllo delle masse.

L'intelligence e i servizi creano le condizioni sociali per la realizzazione del programma.
Il terrorismo è l'arma per produrre paura di massa che volentieri si fa controllare a discapito della propria libertà e rende lecito l'abuso arbitrario sui diritti dei cittadini in nome della sicurezza.

Le banche sono lo strumento per impoverire le persone raccogliendo e amministrando il loro risparmio, per riciclare i proventi di attività criminose, per gestire i flussi finanziari, il debito pubblico e le operazioni strategiche. Non solo, ma manovrano i titoli del debito pubblico che collocano ai privati. Chi controlla le banche (e di conseguenza le banche centrali) possiede gli Stati.

Non vi siete chiesti come mai, nella crisi mondiale, chi ha avuto denari dagli Stati sono state proprio le banche? A loro che han prodotto il danno vengon date le nostre risorse? Sono loro che lo hanno imposto.

Gli Stati, cioè noi in teoria, siamo sotto continuo ricatto di banche, fondi, istituti che minacciano la non sottoscrizione del debito, quindi di default.

Si avvalgono del signoraggio e gestiscono la concessione del credito senza pagare (o marginalmente nel caso dei depositi) il denaro che prestano.

Con il digitale si entra nel pensare e fare dei singoli individui: è il governo controllo preventivo, una specie di "scudo terrestre". Passata la fase pionieristica, come tutte le precedenti entusiasmante, ora sarà preda dei grandi poteri e lo useranno per gestire le informazioni e le masse come vogliono. Esperimenti in tal senso son già stati fatti... anche in Italia. Le sue applicazioni sono solo agli inizi.

Con la ricerca scientifica si destabiliscono o si incentivano poteri economici e tipologie di consumi. Ogni invenzione è boicottata se non in linea con il potere costituito.

Le religioni e le ideologie sono funzionali per l'obbedienza aldilà della ragione e dell'intelletto.
Scuole e università sono allevamenti di massa per l'indottrinamento; luoghi in cui si produce la tipologia di bestiame desiderato.

Le diverse economie produttive fan correre quotidianamente gli individui, organizzati per lottizzati e gerarchie, impegnati spesso in sciocchezze ripetitive alienanti in cui perdono ogni loro abilità, per alimentare il sistema e un mercato falsato.

Come uscire da questo girone infernale?

a) "Default e azzeramento debito pubblico". La vita di una comunità, di persone, le generazioni future, non possono essere sotto la continua spada di Damocle per qualcosa di cui non hanno colpe;

b) "Ridare la terra a chi la lavora". Proposto oggi significa: "Riprendere la dignità delle proprie abilità". Ogni individuo deve ritrovare soddisfazione di se stesso, della propria opera, deve essre messo nelle condizioni di esercitare il proprio talento. Nella persona c'è l'unità di misura. Il sistema, semmai, va ripensato, non può pretendere di annullare le singolarità rese degli zombie.

c) "Ritorno alle piccole comunità tra loro connesse". Uscire dai macro sistemi urbani, dalle megalopoli, in cui vi è la perdita del sé. Centrale non è la burocrazia che ha prodotto sufficienti danni, ma il ritorno alle comunità vivibili, l'uomo con coscienza ecosistemica e solidale;

d) gli "Scenari futuri" non possono essere sempre sacrificati agli interessi contingenti del presente. La cultura dell'emergenza non può essere l'unica politica gestita da una classe dirigente in cui permea una devastante corruzione;

e) Devono essere riconosciute le "Economie cognitive e artistiche" non solo quelle ripetitive o tradizionali. Il "mercato" (che poi mercato non è) non può essere l'unico modus vivendi. La qualità dell'esercizio del sé è funzionale al bene collettivo;

f) I "disastri ambientali" non possono rimanere impuniti o ricondotti a condanne marginali;

g) Una nuova carta etica, dei diritti e dei doveri deve divenire riferimento di convivenza per tutti i popoli.

venerdì 21 maggio 2010

Tg1: la Busi sfanculeggia Minzolini

Qui di seguito un post particolare: il testo integrale della lettera che la giornalista Maria Luisa Busi ha scritto oggi al cosiddetto direttore del Tg1 Augusto Minzolini.

Nella lettera la Busi spiega le motivazioni per cui rinuncia alla conduzione di un telegiornale che ormai vedono solo in quattro gatti, data la sua totale perdita di dignità e deontologia, merito esclusivo di un indecente leccaculo peracottaro piazzato ad hoc sulla poltrona di (pseudo)direttore.


Lettera di Maria Luisa Busi al direttore del Tg1 Augusto Minzolini
21 Maggio 2010

Caro direttore ti chiedo di essere sollevata dalla mansione di conduttrice dell'edizione delle 20 del Tg1, essendosi determinata una situazione che non mi consente di svolgere questo compito senza pregiudizio per le mie convinzioni professionali. Questa è per me una scelta difficile, ma obbligata.

Considero la linea editoriale che hai voluto imprimere al giornale una sorta di dirottamento, a causa del quale il Tg1 rischia di schiantarsi contro una definitiva perdita di credibilità nei confronti dei telespettatori.

Come ha detto il presidente della Commissione di Vigilanza Rai Sergio Zavoli: "La più grande testata italiana, rinunciando alla sua tradizionale struttura ha visto trasformare insieme con la sua identità, parte dell'ascolto tradizionale".

Amo questo giornale, dove lavoro da 21 anni. Perché è un grande giornale. E' stato il giornale di Vespa, Frajese, Longhi, Morrione, Fava, Giuntella. Il giornale delle culture diverse, delle idee diverse. Le conteneva tutte, era questa la sua ricchezza. Era il loro giornale, il nostro giornale. Anche dei colleghi che hai rimosso dai loro incarichi e di molti altri qui dentro che sono stati emarginati.

Questo è il giornale che ha sempre parlato a tutto il Paese. Il giornale degli italiani. Il giornale che ha dato voce a tutte le voci. Non è mai stato il giornale di una voce sola. Oggi l'informazione del Tg1 è un'informazione parziale e di parte. Dov'è il Paese reale? Dove sono le donne della vita reale?

Quelle che devono aspettare mesi per una mammografia, se non possono pagarla? Quelle coi salari peggiori d'Europa, quelle che fanno fatica ogni giorno ad andare avanti perché negli asili nido non c'è posto per tutti i nostri figli? Devono farsi levare il sangue e morire per avere l'onore di un nostro titolo.

E dove sono le donne e gli uomini che hanno perso il lavoro? Un milione di persone, dietro alle quali ci sono le loro famiglie. Dove sono i giovani, per la prima volta con un futuro peggiore dei padri?

E i quarantenni ancora precari, a 800 euro al mese, che non possono comprare neanche un divano, figuriamoci mettere al mondo un figlio? E dove sono i cassintegrati dell'Alitalia? Che fine hanno fatto?

E le centinaia di aziende che chiudono e gli imprenditori del nord est che si tolgono la vita perchè falliti? Dov'è questa Italia che abbiamo il dovere di raccontare? Quell'Italia esiste.

Ma il tg1 l'ha eliminata. Anche io compro la carta igienica per mia figlia che frequenta la prima elementare in una scuola pubblica. Ma la sera, nel Tg1 delle 20, diamo spazio solo ai ministri Gelmini e Brunetta che presentano il nuovo grande progetto per la digitalizzazione della scuola, compreso di lavagna interattiva multimediale.

L'Italia che vive una drammatica crisi sociale è finita nel binario morto della nostra indifferenza. Schiacciata tra un'informazione di parte - un editoriale sulla giustizia, uno contro i pentiti di mafia, un altro sull'inchiesta di Trani nel quale hai affermato di non essere indagato, smentito dai fatti il giorno dopo - e l'infotainment quotidiano: da quante volte occorre lavarsi le mani ogni giorno, alla caccia al coccodrillo nel lago, alle mutande antiscippo.

Una scelta editoriale con la quale stiamo arricchendo le sceneggiature dei programmi di satira e impoverendo la nostra reputazione di primo giornale del servizio pubblico della più importante azienda culturale del Paese. Oltre che i cittadini, ne fanno le spese tanti bravi colleghi che potrebbero dedicarsi con maggiore soddisfazione a ben altre inchieste di più alto profilo e interesse generale".

Un giornalista ha un unico strumento per difendere le proprie convinzioni professionali: levare al pezzo la propria firma. Un conduttore, una conduttrice, può soltanto levare la propria faccia, a questo punto. Nell'affidamento dei telespettatori è infatti al conduttore che viene ricollegata la notizia. E' lui che ricopre primariamente il ruolo di garante del rapporto di fiducia che sussiste con i telespettatori".

I fatti dell'Aquila ne sono stata la prova. Quando centinaia di persone hanno inveito contro la troupe che guidavo al grido di vergogna e scodinzolini, ho capito che quel rapporto di fiducia che ci ha sempre legato al nostro pubblico era davvero compromesso. E' quello che accade quando si privilegia la comunicazione all'informazione, la propaganda alla verifica.

Ho fatto dell'onestà e della lealtà lo stile della mia vita e della mia professione. Dissentire non è tradire. Non rammento chi lo ha detto recentemente. Pertanto:

1)respingo l'accusa di avere avuto un comportamento scorretto. Le critiche che ho espresso pubblicamente - ricordo che si tratta di un mio diritto oltre che di un dovere essendo una consigliera della FNSI - le avevo già mosse anche nelle riunioni di sommario e a te, personalmente.

Con spirito di leale collaborazione, pensando che in un lavoro come il nostro la circolazione delle idee e la pluralità delle opinioni costituisca un arricchimento. Per questo ho continuato a condurre in questi mesi. Ma è palese che non c'è più alcuno spazio per la dialettica democratica al Tg1. Sono i tempi del pensiero unico. Chi non ci sta è fuori, prima o dopo.

2)Respingo l'accusa che mi è stata mossa di sputare nel piatto in cui mangio. Ricordo che la pietanza è quella di un semplice inviato, che chiede semplicemente che quel piatto contenga gli ingredienti giusti. Tutti e onesti.

E tengo a precisare di avere sempre rifiutato compensi fuori dalla Rai, lautamente offerti dalle grandi aziende per i volti chiamati a presentare le loro conventions, ritenendo che un giornalista del servizio pubblico non debba trarre profitto dal proprio ruolo.

3) Respingo come offensive le affermazioni contenute nella tua lettera dopo l'intervista rilasciata a Repubblica 2, lettera nella quale hai sollecitato all'azienda un provvedimento disciplinare nei miei confronti: mi hai accusato di "danneggiare il giornale per cui lavoro", con le mie dichiarazioni sui dati d'ascolto.

I dati resi pubblici hanno confermato quelle dichiarazioni. Trovo inoltre paradossale la tua considerazione seguente: "il Tg1 darà conto delle posizioni delle minoranze ma non stravolgerà i fatti in ossequio a campagne ideologiche".

Posso dirti che l'unica campagna a cui mi dedico è quella dove trascorro i week end con la famiglia. Spero tu possa dire altrettanto. Viceversa ho notato come non si sia levata una tua parola contro la violenta campagna diffamatoria che i quotidiani Il Giornale, Libero e il settimanale Panorama - anche utilizzando impropriamente corrispondenza aziendale a me diretta - hanno scatenato nei miei confronti in seguito alle mie critiche alla tua linea editoriale.

Un attacco a orologeria: screditare subito chi dissente per indebolire la valenza delle sue affermazioni. Sono stata definita "tosa ciacolante - ragazza chiacchierona - cronista senza cronaca, editorialista senza editoriali" e via di questo passo.

Non è ciò che mi disse il Presidente Ciampi consegnandomi il Premio Saint Vincent di giornalismo, al Quirinale. A queste vigliaccate risponderà il mio legale. Ma sappi che non è certo per questo che lascio la conduzione delle 20. Thomas Bernhard in Antichi Maestri scrive decine di volte una parola che amo molto: rispetto. Non di ammirazione viviamo, dice, ma è di rispetto che abbiamo bisogno.

Caro direttore, credo che occorra maggiore rispetto. Per le notizie, per il pubblico, per la verità.
Quello che nutro per la storia del Tg1, per la mia azienda, mi porta a questa decisione. Il rispetto per i telespettatori, nostri unici referenti. Dovremmo ricordarlo sempre. Anche tu ne avresti il dovere.

Afghanistan: l'italiota guerra di pace...

Qualche articolo sulla presenza militare italiota in Afghanistan, inutile e molto cara in termini economici.

L'Italia spende in armi e guerre 23 miliardi di euro ogni anno, cioè circa l'1,5% del Pil, quasi la stessa cifra della manovra correttiva che Tremonti sta preparando in questi giorni.

Ma tagliare questa spesa, se non proprio tutta almeno in buona percentuale, non verrà mai in mente a Tremonti..


Che ci facciamo in Afghanistan?
di Massimo Fini - http://antefatto.ilcannocchiale.it - 20 Maggio 2010

Dopo l'agguato talebano che è costato la vita a due nostri militari ferendone gravemente altri due, il ministro della Difesa La Russa si è affrettato a chiarire che “non è stato un attacco all'Italia”. Certo, nella colonna di 130 mezzi che trasportava 400 uomini c'erano americani, spagnoli e soldati di altri nove Paesi che, nella regione di Herat, occupano l'Afghanistan. È stato un attacco alla Nato.

Riaffiora però qui la retorica, tipicamente fascista, degli "italiani brava gente" che, a differenza degli altri, sanno farsi voler bene dalla popolazione che quindi non li prende di mira. Sciocchezze.

Gli italiani sono odiati esattamente come tutti gli altri occupanti, con l'eccezione negativa degli americani che sono odiati di più perché tutti sanno, in Afghanistan e altrove, che questa guerra è voluta da Washington e che il presidente-fantoccio Hamid Karzai, che nel Paese non gode di alcun prestigio perché mentre negli anni '80 i suoi connazionali si battevano con straordinario coraggio contro gli invasori sovietici lui faceva affari con gli yankee, è alle dirette dipendenze dell'Amministrazione Usa. Non è per la morte di due soldati che dobbiamo lasciare l'Afghanistan.

Gli americani, secondo stime che risalgono alla fine del 2009, hanno perso 850 uomini, gli inglesi, che sono i soli a battersi, anche se non sempre, "all'afghana", cioè senza l'uso sistematico dei bombardieri che uccidono ed esasperano la popolazione civile, 216, i canadesi 131, la Danimarca 26, più del 10% del suo piccolo contingente di 200 uomini. Da allora sono caduti altri 200 soldati della Nato e l’altro giorno ne sono caduti altri sei, cinque americani.

Ma la domanda “Che cosa ci stiamo a fare in Afghanistan?” abbiamo pur il diritto di porcela e di porla alle nostre classi dirigenti. Berlusconi, Frattini, La Russa hanno cantato la solita solfa. Berlusconi: “La nostra missione in Afghanistan è di straordinaria importanza per la stabilità e la pacificazione di un'area strategica”.

Frattini: “La nostra è una missione di pace, fondamentale, che continuerà per la nostra sicurezza e il bene del popolo afghano”. La Russa: “È una missione per la sicurezza e la pace a casa nostra”.

Ora, in tutta la storia, passata e recente, dell'Afghanistan non c'è un solo afghano che si sia reso responsabile di un atto di terrorismo internazionale, cioè fuori dal proprio Paese.

E se dal 2006 anche gli afghani si sono decisi a utilizzare il terrorismo e i kamikaze, cosa totalmente estranea alla loro cultura e natura di guerrieri, dopo un aspro dibattito all'interno della leadership talebana (il Mullah Omar era contrario perché il terrorismo, anche se sempre mirato, nel caso talebano, a obiettivi militari e politici, colpisce inevitabilmente anche la popolazione civile sul cui appoggio si sostiene la guerriglia) è perché gli eserciti occidentali, a differenza di quello sovietico, (contro cui non ci fu mai un atto di tipo terroristico) non hanno nemmeno la dignità di battersi sul campo, ma usano a tappeto l'aviazione, spesso con aerei senza equipaggio, i Dardo e i Predator, bombardando indiscriminatamente i villaggi uccidendo vecchi, donne e bambini.

Contro un nemico che non combatte con lealtà, dignità, onore, ma usa i robot, che cosa può fare una resistenza se non ricorrere alle povere armi di cui dispone, ordigni quasi sempre rudimentali messi insieme con materiali di fortuna come i tergicristalli?

I "vigliacchi", egregio ministro La Russa, stanno da un'altra parte. In quanto all’“insicurezza e alla instabilità del Paese” è del tutto evidente che è provocata proprio dalla presenza delle truppe straniere, che gli afghani, popolo orgoglioso come pochi, non hanno mai tollerato cacciando, nella loro storia, inglesi e sovietici così come, prima o poi, cacceranno gli odierni occupanti.

L'Afghanistan talebano era sicuro e stabile. Aveva un regime, delle leggi, dei costumi che non ci piacciono. Ma si può fare la guerra a un popolo solo perché è diverso da noi e non si ispira ai sacri principi di Locke e di Stuart Mill? Pretendere di omologare ogni popolo che ha storia, cultura, vissuti diversi, ai nostri valorièunaformaditotalitarismo indegno di un mondo che si definisce liberale e democratico.

Un liberale che pretende che tutti siano liberali non è un liberale: è un fascista. Nell'atroce vicenda afghana siamo noi, paradossalmente, i fascisti mentre i talebani hanno la parte dei difensori della libertà, la loro libertà da un'occupazione straniera, comunque motivata.

È un modo molto curioso quello di “operare per il bene del popolo afghano”, per esprimerci con le parole del ministro Frattini, uccidendo i suoi abitanti a centinaia di migliaia, come del resto abbiamo già fatto in Iraq.

Se la morte di due soldati provoca sofferenza e dolore nelle loro famiglie , nei padri, nelle madri, nei figli, nei fratelli, nelle sorelle, che cosa devono dire gli afghani? Non hanno anch'essi padri e madri e figli e fratelli e sorelle che ogni giorno che dio manda in terra devono piegarsi sui propri morti, siano essi guerriglieri, soldati "regolari" del grottesco esercito di Karzai che si sono arruolati perché la disoccupazione, che noi abbiamo portato in quel Paese, non gli lascia alternative, o, peggio, civili?

Smettiamola con questa farsa tragica. Con le ipocrisie ributtanti. Noi siamo in Afghanistan solo per un malinteso senso di prestigio. È per difendere la faccia, la nostra bella faccia, che uccidiamo ogni giorno, noi o i nostri alleati, gente che non ci ha fatto nulla e, a volte, veniamo anche noi, del tutto legittimamente uccisi.

Ritorniamo a casa nostra, ai nostri Scajola,ai nostri Anemone, ai nostri Balducci, alla nostra corruzione, alla nostra pubblicità, ai nostri giochini idioti, al nostro grasso benessere, al nostro marciume materiale e morale, e lasciamo che un popolo, infinitamente più dignitoso di noi, anche antropologicamente, possa decidere da sé del proprio destino.



Lo stato delle nostre guerre
di Mazzetta - Altrenotizie - 19 Maggio 2010

La morte dei nostri due soldati ha riacceso la luce sull'Afghanistan, sarà un attimo e tornerà a calare il buio, se non fosse per gli episodi luttuosi o qualche mascalzonata sparsa ai danni dei pochi italiani che vi si trovano senza essere stati mandati dal nostro governo, il conflitto afgano è chiaramente sotto-rappresentato dai nostri media. Molto più visibile la “minaccia iraniana”, molto teorica e ormai sfumata, delle guerre vere, difficile credere al caso o una follia diffusa.

Una volta deciso in maniera bipartisan e contro la volontà popolare che si andava, a livello politico non si sono più registrati grossi scossoni o incertezze e raramente la questione è diventata oggetto di disputa politica.

Quando la luce si riaccende è già previsto un menu ampiamente rodato a base di cordoglio bipartisan, funerali solenni e la scontata bordata di retorica, ultimamente parecchio sopra le righe, visto che ci ritroviamo come ministro della difesa Ignazio La Russa, uno che non fa economia di parole in queste occasioni.

Siamo sempre stati il paese dello “armiamoci e partite”; in repubblica come in monarchia i nostri leader non hanno mai brillato quando si è trattato di proiettare il paese all'estero. Premesse che giustificano gli esiti peggiori, ancora di più se all'azione è chiamata la classe politica forse più scadente della storia del paese.

È un vero miracolo, che va riconosciuto al nostro esercito e alle capacità negoziali della nostra diplomazia sul campo, che il numero delle nostre vittime in Afghanistan sia rimasto straordinariamente contenuto in questi anni.

Non stona farlo notare in questa occasione, perché il paese non è mai stato pronto ad accettare una mortalità che pure sarebbe compatibile con scenari di guerra. Lo stesso problema lo hanno gli americani, che pure perdono relativamente pochi soldati grazie alla prudenza e allo strapotere militare quando arrivano all'ingaggio diretto con il nemico.

Ben pochi dei paesi che hanno militari in Afghanistan sono mai stati disposti a sopportare tributi di sangue troppo alti, per questo sono stati impiegati nel presidio di zone relativamente tranquille e tenuti per quanto possibile lontani dalle principali minacce.

All'amministrazione Bush servivano foglie di fico, non aiuti militari, che ha integrato con l'uso di un numero spropositato di mercenari, gran parte dei quali occupati a proteggere altri americani o a servire la truppa professionale, ma comunque più numerosi e ubiqui e coordinati con il comando statunitense della forza multinazionale nel suo complesso.

Così, da anni, stiamo lì a fare i bersagli, attesa dell'inevitabile trappola esplosiva o dell'attacco suicida, senza fare molto di più che presenza e qualche inevitabile brutta figura; basti pensare che il compito che ci eravamo assunti per aiutare l'Afghanistan, paradossale trovata del governo Berlusconi presa per buona dai soci nell'avventura, era quello di costruire un sistema giudiziario e di formare i giudici.

Forse all'epoca il diabolico immaginava di poter mandare magistrati italiani in esilio ad insegnar diritto, ma non si potrà mai sapere, perché dopo nove anni non c'è traccia di niente del genere.

L'Afghanistan non appassiona, non essendo oggetto di competizione politica è praticamente rimosso, dimenticato. Quando succede qualcosa si alza un'autorità come il Presidente della Camera Gianfranco Fini che dice che è colpa dello scacchiere internazionale, poi Bersani dichiara che non possiamo lasciar vincere i talebani e La Russa che fa il suo numero. Berlusconi, fortunatamente, questa volta era malato.

Osservando La Russa in azione, mi è venuta in mente un'assoluta banalità: quella di chiedermi retoricamente perché non ci ha mandato suo figlio Geronimo, a compiere tutto quel dovere e tutto quel sacrificio per la Patria con la P maiuscola. Un attimo dopo non era tanto una banalità: pensandoci è pur vero nessuno tra i figli di parlamentari o ministri è in Afghanistan.

Ma nemmeno ci sono figli di governatori o presidenti di regione o di leader politici, nemmeno uno. Persino la trota di Bossi è stata abbastanza sveglia da preferire i ricchi incarichi in Lombardia al fascino dell'avventura contro il feroce musulmano. Piccoli forchettoni crescono.

Non succede lo stesso negli altri paesi occidentali coinvolti nel conflitto, che mostrano più contegno e senso istituzionale. Questo italico unanimismo monolitico spiega più di tante parole quanto siamo portati per le avventure militari.

Per il governo dell'epoca non si trattò certo di reagire con istinto guerresco, ma di comprarsi una sedia il più possibile vicino a Bush, il più potente di tutti. Come con Putin e altri, lungimirante.

Ma quanto ci sono costati Bush e Putin? Alcuni muoiono e altri ne traggono vantaggio, è sempre così con le guerre; negli Stati Uniti si sono rubati anche gli sgabelli all'ombra della guerra, oltre a pregevoli pezzi d'Iraq.

Certo è che andare al traino non esime da responsabilità, ancora di più quando si osserva che la politica dell'amministrazione Obama non si sposta di una virgola da quella di Bush.

L'approccio ai problemi è tanto simile che la nuova retorica con la quale è impacchettato non basta a nasconderlo, tanto che è appena spuntata l'ennesima Abu Grahib e si è saputo che la base americana di Bagram è un centro di tortura simile a quello iracheno.

L'unica differenza é che questa volta non si è trovato ancora un idiota che mettesse le sue foto su Facebook mentre applica elettrodi ai testicoli di un poveretto incappucciato.

In Afghanistan gli americani, e con loro gli alleati, stanno peggio di come stavano alla fine del 2001, dopo un mese di permanenza. Supportano Karzai che pure hanno accusato pubblicamente di aver vinto con i brogli e che correva contro un rivale che poi è stato cooptato al governo.

Una farsa in faccia agli americani, che però non hanno trovato un altro “presidente” alternativo in tempo a rimpiazzare quello fallito ma abbastanza vitale da resistere al potere, che avevano scelto loro. Ora siamo al tempo del “surge”, cioè di un’accelerazione bellica che dovrebbe migliorare la situazione come la stessa tattica in Iraq.

Vaglielo a dire agli italiani e agli americani che il “surge” in Iraq non è servito a nulla, che esisteva per lo più sui media; e vaglielo a dire che oggi gli iracheni muoiono a decine ad attentato, mentre gli americani si sono “ritirati” dentro le basi nel deserto e nell'enorme fortezza (in teoria ambasciata) che hanno costruito in mezzo a Baghdad.

Ci sono state le elezioni, ma il governo è ancora da fare a distanza di settimane e probabilmente la coalizione vincente non sarà quella preferita da Washington. Dettagli: l'Iraq già non esiste più in Occidente, non esistono nemmeno il suo milione di vittime e i quattro milioni di profughi, quasi un quinto della popolazione.

Immaginare che una persona su cinque di quelle che conosciamo muoia o scappi da qui a sei anni, rende l'idea del danno fatto da Bush nello scatenare una guerra impopolare e fondata su una marea di balle grossolane. Non c'entrava la guerra al terrorismo, non c'erano le armi di distruzione di massa, solo petrolio di ottima qualità.

Quando è stato chiaro a tutti quale fosse il vero scopo, hanno detto che era troppo tardi per tornare indietro. Probabilmente l'amministrazione Bush ha conseguito i suoi scopi, ma il mondo pagherà a lungo un prezzo enorme per la sua decisione di occupare l'Iraq per il prossimo decennio.

Noi nel nostro piccolo abbiamo dato la consueta manciata di giovani eroi, ma per fortuna ormai è finita e, qui, quello che è successo e succede in Iraq non interessa più a nessuno. Meglio rimuovere in fretta e girare la testa da un'altra parte.

Ancor meno interessa quello che succede in Somalia, dove il nostro storico inviato, il diplomatico Mario Raffaelli, è stato sostituito a gennaio senza che sia mai stato chiaro quale fosse l'agenda italiana per il paese e nemmeno quale sarà chiamato ad interpretare il suo successore. Raffaelli probabilmente è riuscito ad operare decentemente ( le buone referenze lo hanno portato a diventare presidente di AMREF Italia) proprio perché nessuno era interessato a capire cosa stesse succedendo, e quindi a ingerire.

Resta che la Somalia è ancora allo sbando e che se prima c'era un governo di islamici, poi è arrivata la dittatura etiope a cacciarli per conto degli americani.

Successivamente gli etiopi se ne sono andati e adesso di islamici ce ne sono almeno di tre tipi: uno buono finalmente al governo, uno cattivo e uno cattivissimo. Gli annunciati rinforzi in addestramento in Kenya si sono rivelati fantomatici e il divide et impera continua a tenere la Somalia nel disastro. Ce ne ricorderemo se i pirati cattureranno qualche italiano al volo, altrimenti niente.

Così come un giorno ci accorgeremo che gli Stati Uniti di Obama hanno aperto un altro sanguinoso fronte in Pakistan, dove ormai non si finge nemmeno più e dove gli americani operano dall'alto con i droni e l'esercito pakistano finalmente muove contro i talebani e altri associati, che rispondono con attacchi alle città.

In tutto questo il Pakistan ha dato un segnale di vitalità, perché la debolezza politica dello scarsissimo e corrottissimo marito di Benazir Bhutto (scelta dagli americani e uccisa con un attentato pauroso), ha permesso finalmente una riforma costituzionale degna di questo nome.

Peccato solo che in Pakistan nessuno investa ancora in scuole, perché il Pakistan ha sempre preferito spendere in armi gli aiuti che riceveva dagli americani per fare da baluardo contro l'India, l'URSS e la Cina, riservando l'istruzione alla classe dominante e condannando il resto alle madrasse finanziate dall'Arabia Saudita.

Una scelta scellerata di regimi scellerati sempre sostenuti dagli Stati Uniti, complici di Yaya che fa il massacro in Bangladesh, di Alì Bhutto che comincia il programma nucleare, di Zia ul Haq che procede a passo di carica nell'islamizzazione della società e delle leggi.

Così hanno prodotto abbastanza mujaheddin da cacciare i russi dall'Afghanistan, ma anche bombe atomiche, gli attentati dell'11 settembre e parecchi altri. Oggi il Pakistan soffre migliaia di vittime all'anno e già più di un milione di profughi interni.

Come mai tutto ciò accade con un paese storicamente “alleato” (vale lo stesso per l'Arabia Saudita)? E come mai non si trova invece uno straccio d'iraniano, siriano, libanese o palestinese disposto a partecipare a quella che hanno raccontato come la grande jihad contro l'Occidente?

E’ un mistero glorioso che andrebbe chiarito dagli spacciatori di certe narrative, ma è difficile che qualcuno li disturbi con domande importune. E poi non si poteva certo pretendere da Bush di rovesciare la monarchia saudita, sono cose che non si fanno tra amici di famiglia.

Non resta che incrociare le dita e sperare nello stellone, i nostri parlamentari sono quelli che se sentono dire Darfur pensano al fast-food, pensano a mangiare loro, la guerra è affare dei nostri giovani eroi, a tutti gli altri non resta che continuare a sperare che il nostro coinvolgimento diretto s'interrompa il prima possibile.


Una guerra senza via d'uscita
di Gianni Petrosillo - www.conflittiestrategie.splinder.com - 19 Maggio 2010

Altri due italiani finiti al creatore in una guerra senza più prospettive di vittoria né vie d’uscita dignitose, ed i nostri politici continuano a parlare di missione fondamentale. Altri due soldati morti in terra straniera per un conflitto che non mette a rischio il mondo ma esclusivamente una certa visione “escatologica” dei destini dell’umanità di cui sono portatori gli Statunitensi, il popolo eletto da Dio sul quale si sarebbe dovuto imperniare il nuovo secolo post guerra fredda.

C’è poi qualcuno che è stato profetico sui mezzi forniti agli italiani per difendere le proprie posizioni sul terreno afghano nonché spostarsi sui vari scenari di guerra in tutta sicurezza. Il veicolo tattico “Lince”, presentato agli occhi del mondo come un gioiello tecnologico, caratterizzato da agilità e resistenza, non si rivela adeguato allo scopo e si lascia dietro, oltre ai morti negli attentati con ordigni nascosti sulle vie di passaggio, “uno strascico di contusi, traumatizzati, feriti…

E succede ogni volta che esplode anche la più modesta carica di esplosivo fatta brillare empiricamente al centro “carreggiata” od interrata ai bordi della viabilità (G. Chetoni http://byebyeunclesam.wordpress.com/2009/08/18/gli-effetti-lince-in-afghanistan/ ).

Stranamente, come ha detto il Generale Mini su Repubblica, prima ancora del cordoglio per le famiglie dei soldati e la preoccupazione per lo stato dei feriti, le reazioni della nostra classe politica, con la sola eccezione del Ministro Calderoli, sono state per la riaffermazione delle ragioni della presenza italiana in quel paese lontano e per il mantenimento degli impegni assunti con la Nato.

Peccato però che dall’ “indispensabile” parte giocata dall’Italia in questo conflitto e anche da quella degli altri alleati della coalizione non discenda una reale condivisione della strategia complessiva e delle decisioni da prendere di volta in volta, tutte questioni che vengono stabilite dal comando Centrale Usa e dalle teste d’uovo di Washington.

Cambi ai vertici militari, obiettivi strategici e tattici, surge, abbassamento dell’intensità delle operazioni, ritirate, ecc.ecc. quanti di questi momenti sono stati affrontati con collegialità e spirito di condivisione delle scelte dagli americani? E’ vero che loro hanno più uomini lì ma è altrettanto vero che questa è la loro guerra e che la stanno perdendo.

La natura di questo intervento si è trasfigurata, si è metamorfosata sotto gli occhi dell’alleanza occidentale, in seguito ai numerosi fallimenti sul campo e agli stessi obiettivi iniziali, troppo ambiziosi e irrealistici per poter essere raggiunti. Ora si tratta, sempre come afferma il Generale Mini, di stabilizzare “un contesto di guerra aperta tra una parte sempre più aggressiva di afghani e le forze internazionali”.

Si chiarisca almeno questo aspetto per non mettere in difficoltà i nostri soldati e la si smetta di parlare di azione umanitaria e di missione di pace, come fanno impunemente gli esponenti del governo italiano e i pacifinti di centro-sinistra (i quali hanno contribuito con la loro codardia e il loro servilismo filo-Usa a farci entrare nel pantano afghano).

Nel 2002, quando la missione dell'Isaf ha avuto inizio, forse non si poteva fare a meno di seguire gli americani, oggi il contesto internazionale è cambiato e sono cambiati gli equilibri mondiali che consentono di pesare diversamente la propria collocazione storica e geopolitica. In questa fase, ed in presenza di una grave crisi economica, si può anche dire di no e ricontrattare la propria disponibilità senza perdere la faccia. Ci si muova su questa strada.


La guerra continua...
di Enea Baldi - www.rinascita.eu - 19 Maggio 2010

...a fianco dell’alleato statunitense.
Di primo acchito, potrebbe sembrare una “badogliata”.

E infatti lo è: Washington impone ancora oggi, a 65 anni dalla fine della seconda guerra mondiale, all’Italia di fornire truppe gurkha per far fronte alle sue guerre nel Vicino Oriente.

Le polemiche sulle infelici esternazioni del nostro ministro della Difesa Ignazio La Russa, protagonista domenica scorsa di raccapriccianti boutades (dopo una breve premessa sui fatti tragici in Afghanistan, una lunga riflessione sul pallone, il Siena, lo scudetto all’Inter e i favori alla Roma...), non ci interessano più di tanto: sappiamo di che pasta sono fatti certi ministri della nostra Repubblica.

Ma quello che è doloroso sottolineare è la continua subornazione dell’Italia alle guerre di esportazione atlantiche. Ed è la tragedia umana e sociale a cui questo governo e questo Parlamento di sudditi di Washington - di destra come di (falsa) sinistra - sottopone i nostri militari, assoldati sotto l’egida ipocrita della lotta al terrorismo.

Ieri mattina, dopo l’ennesima carneficina consumata in Afghanistan (20 morti, compresi 4 militari americani dell’Isaf) il ministro La Russa, intervenuto telefonicamente alla trasmissione Mattino5, ha così dichiarato: "Grazie al supporto dell’Italia, c’è più controllo del territorio (afghano ndr) da parte delle forze alleate, maggiore collaborazione con il governo e la popolazione”, e proprio tutto questo “scatena la reazione dei talebani, con attacchi vigliacchi e terroristici, tipici di chi è in difficoltà”.

Chi difende la propria patria invasa e occupata, quindi, secondo La Russa, è vigliacco e terrorista. Il ministro della Difesa ha anche strumentalmente ribadito il “cordoglio” per le vittime e i loro familiari.E che bisogna “far sentire a chi in Afghanistan ogni giorno fa il proprio dovere che l’Italia è consapevole che sono lì per tenere lontani dalle nostre case i pericoli del terrorismo”.

E sempre secondo la Russa il rimedio italiano al terrorismo afghano si chiama “Freccia”. “Tra poche settimane potremo mandare i nuovi Freccia - ha spiegato il ministro - che sono dei blindati molto più grossi e più sicuri, anche se un po’ meno veloci, del Lince, che comunque ha dato ottima prova di sé”.

Ma i Lince, come da tempo denunciato da “Rinascita”, sono praticamente poco più di fuoristrada, inadatti al teatro di guerra: ma questo il “ministro” fa finta di ignorarlo. Per costui, infatti, “tutto dipende dalla quantità di esplosivo” utilizzata dai “terroristi” per minare i percorsi degli occupanti.

E come se non bastasse il ministro della Difesa a rassicurare gli statunitensi sull’impegno futuro delle nostre truppe a questa vergognosa guerra, il titolare della Farnesina, Franco Frattini, sempre ieri, elmetto virtuale in testa, ha dichiarato che “i nostri soldati sono pronti a colpire le basi terroristiche”.

Ormai il modus operandi del nostro esercito, secondo Frattini, sarà, a differenza delle azioni di supporto ad altri contingenti o in funzione di rastrellamento operate fino ad ora, quello di colpire le installazioni stabili in cui si annida la guerriglia.

Una missione di guerra d’occupazione “per consolidare la pace”... Altro che intervento “umanitario” e balle simili.

Sicuramente, come già accaduto in passato, ci sarà da temere sia per la popolazione civile inerme che per i nostri giovani mandati a combattere un conflitto che non appartiene loro e che può soltanto esacerbare l’odio e la rabbia degli afghani, e degli iracheni, nei confronti dell’Occidente.


Afghanistan: l’impegno italiano su procura Usa , lo stallo militare e le vere ragioni del conflitto
di Federico Dal Cortivo - www.italiasociale.net - 19 Maggio 2010

Chi credeva che l’aggressione americana all’Afganistan sarebbe stata una semplice passeggiata, fatta solo di bombardamenti a tappeto, ora comincia a ricredersi.

Così come fu impossibile il controllo del territorio afgano da parte delle truppe sovietiche anni fa , così lo è oggi altrettanto per gli statunitensi e i loro alleati , nonostante dispongano sulla carta di un arsenale inesauribile.

L’Italia purtroppo è in Afghanistan solo ed esclusivamente per tutelare gli interessi delle grandi Corporation angloamericane, e il comando delle operazioni militari è saldamente in mano statunitense e britannica.

Suonano ridicole le affermazioni del ministro della difesa La Russa che indica nella lotta al “terrorismo” il motivo della presenza italiana nel Vicino Oriente, è lo stesso leitmotiv che Washington ripetete ossessivamente dall’11 settembre 2001 e quello che il “padrone” ordina, il suddito deve fare.

Per l’Italia si tratta di uno sforzo economico non trascurabile, dove uomini e mezzi delle nostre forze armate vengono logorati giorno per giorno, togliendo ulteriori fondi al già magro bilancio della Difesa.

In Italia, è bene precisarlo, la Difesa è sempre stata la cenerentola dei vari ministeri, mentre sprechi di ogni tipo avvenivano ed avvengono tuttora in altri settori dello Stato, per i militari si è sempre andati al risparmio: pochi mezzi- pochi aerei-equipaggiamenti non sempre all’altezza dei compiti operativi-armamenti vetusti- bassi stipendi,caratteristiche queste che hanno riguardato le forze armate quando vi era la coscrizione obbligatoria.

Poi si è passati all’esercito di professionisti, e qui ci sarebbe aspettato di vedere il salto di qualità, che forse in alcuni settori c’è stato,ma quel poco che è stato fatto viene risucchiati ogni giorno nelle varie ed inutili, per gli interessi nazionali, missioni all’estero.

In Afghanistan l’Italia si trova impantanata in una guerra di guerriglia di vaste proporzioni, di cui nemmeno i principali attori sulla scena,vedono la fine a breve termine, se non in una rovinosa ritirata stile Viet Nam.

Ma mentre loro hanno l’esatta percezione del perché combattono, ai cosiddetti alleati come l’Italia, viene solo detto d’inviare sempre più uomini e mezzi, come si addice a delle truppe coloniali.

LE OPERAZIONI MILITARI DAL RECENTE PASSATO AD OGGI

Era il 26 dicembre 1979, quando Mosca decise d’intervenire militarmente a sostegno del regime comunista di Kabul, che dal 1978, anno del colpo di stato ad opera del Fronte della Sinistra, governava il Paese.

L’ indecisione fu maturata per il timore dei russi che una crisi interna all’Afganistan, potesse portare quest’ultimo nell’orbita islamica, contagiando così le repubbliche musulmane dell’Impero Sovietico. L’invasione ebbe come effetto di presentare alla popolazione afgana, il regime di Babrak Karmal, come il vassallo ubbidiente di Mosca, scatenando in breve la reazione popolare e religiosa.

A nulla valsero l’impiego di armi d’ogni genere impiegate dagli oltre 120.000 soldati russi dislocati in territorio afgano. La resistenza combatté senza sosta tra le impervie montagne di un territorio, che già nel secolo precedente aveva visto la disfatta delle truppe britanniche.

I mujaheddin subiscono ingentissime perdite nel corso di dieci anni di guerra spietata da ambo le parti, si parla di circa un milione di morti tra le loro fila, mentre per i sovietici cadono almeno 50 mila uomini, ma alla fine anche Mosca conosce il suo Viet Nam ed il 5 febbraio 1989 gli ultimi reparti dell’Armata Rossa lasciano il suolo afgano.

La storia oggi sembra ripetersi, anche perché gli americani forti delle vittorie riportate nelle due recenti guerre d’aggressione, contro l’Iraq ( 1991) e contro la Serbia, ottenute senza quasi l’impiego di truppe di terra e con il solo ausilio delle forze aeree, credono di poter ripetere la stessa cosa in Afganistan.

Ma, se all’inizio dell’operazione “ Endurig Freedom”, si credeva che tutto potesse essere risolto con l’impiego massiccio di reparti speciali e dell’aviazione, ora a distanza di tempo le cose sembrano volgere in maniera diversa e non certamente a favore degli Stati Uniti, che controlleranno sì le città, se vogliamo chiamarle così, più importanti, ma certamente non controllano la maggior parte del territorio aspro e montagnoso con vette tra i 4000 e 5000 metri , spesso innevate e ghiacciate.

Sono stati schierati in campo i migliori reparti speciali per cercare di neutralizzare le basi nascoste dei talebani e nel tentativo di trovare Bin Laden, indicato come il “mandante “ dell’attacco alle due torri di New York, … ammesso poi che lo si voglia effettivamente trovare….

Così sul terreno operano Berretti Verdi, Rangers del 75° Reggimento, Seals della marina,Sas inglesi ed australiani, ed inoltre paracadutisti del 13° Reggimento Dragoni francesi, Sas neozelandesi ecc.ecc. A ciò vanno aggiunti gli immancabili Marines tutto l’ingente supporto logistico che accompagna le operazioni americane.

In cielo non si è badato al risparmio anche perché la speranza è sempre quella: piegare l’avversario senza doverlo incontrare sul terreno. Bombardieri B52 e B1, cisterne KC10, F18, F15, F16, A10 (il famoso aereo d’attacco al suolo capace con il suo cannone da 35 mm a canne rotanti di sviluppare un potenziale di fuoco impressionante ) ed in più molti elicotteri d’attacco: AH-64A e Cobra-MH 53 e CH 47 trasporto truppe.

Cannoniere volanti AC 130 U del 16° Special Operation Wing che possono saturare di proiettili di vario calibro, dal 7,62 al 105mm, aree in cui si concentrano truppe allo scoperto e leggermente protette, come è il caso dei talebani, che non dispongono certamente di truppe corazzate. Che poi siano utilizzati anche proiettili all’uranio impoverito, come nei Balcani o in Somalia, è un particolare trascurabile nel contesto della guerra….

Tutto questo potenziale aereo viene dispiegato per radere al suolo ogni cosa, obiettivi militari e non al fine di distruggere quelle misere infrastrutture che l’Afganistan possedeva e terrorizzare nel contempo la popolazione allo scopo di farla desistere da ogni resistenza e dissuaderla dal dare qualsiasi appoggio ai talebani .

Si è utilizzata anche più volte la terrificante bomba termobarica adatta a colpire obiettivi protetti come bunker e caverne, che distrugge anche tutto l’ossigeno nel suo raggio d’azione, uccidendo così anche per asfissia eventuali sopravvissuti e la “ Daisy cutter” da 7 tonnellate che spazza via ogni cosa nel raggio di 500 metri.

Qualcuno a Washington aveva anche prospettato l’utilizzo di piccole bombe nucleari tattiche per far saltare i rifugi sotterranei dove si pensava fosse nascosto Bin Laden. Già nella guerra del Viet Nam l’opzione nucleare non era stata scartata del tutto e lo stesso presidente Nixon era favorevole al suo impiego contro gli obiettivi nord vietnamiti.

Ma la guerra ipertecnologica alla quale ci hanno abituati gli americani, quella che predilige i bombardamenti terroristici indiscriminati da alta quota, ha lasciato il posto, alla guerra, quella vera, che vede il valore dell’uomo e della fede confrontarsi con altri uomini e altre..fedi…

L’altro punto debole dello schieramento “alleato” è la totale impossibilità di controllare un territorio grande e prevalentemente montagnoso, dove anche pur disponendo di una supremazia aerea totale, è pur sempre necessario scendere a terra e presidiare il territorio.

Già esperienze passate hanno dimostrato che il solo impiego dell’aviazione contro una guerriglia ben organizzata, che sappia sfruttare il terreno e la sua conoscenza, diventa pressoché impossibile senza un accurato rastrellamento del terreno ad opera di reparti dell’esercito, cosa che gli americani hanno voluto fino ad oggi evitare e se lo hanno fatto hanno operato stragi d’innocenti e ottenuto ben magri progressi.

La cosa gli è riuscita con la Serbia, piegata dai bombardamenti sulle città e sul tessuto industriale della nazione, oltre che ricattata finanziariamente, in Afganistan non vi è quasi nulla da distruggere, non esistono grandi città, non vi sono fabbriche, autostrade, ferrovie, niente di niente.

Vi è solo un popolo che da decenni convive con la guerra, come se fosse una cosa naturale e che ha sviluppato tecniche di sopravvivenza impensabili per noi uomini dei Paesi più ricchi della terra. A ciò si deve aggiungere la religione, che da queste parti non è un episodio di folklore o un abitudine, ma viene sentita e vissuta come parte integrante della propria vita.

LE RAGIONI DEL CONFLITTO

Se risibili suonano le giustificazioni del Governo italiano alla partecipazioni al conflitto Afghano, idem si può dire per quelle portate in campo da Usa e Gb : la fantomatica guerra al terrorismo, la ricerca d Osama Bin Laden è solo la cortina nebbiogena stesa per occultare i reali interessi geopolitici ed economici in ballo.

Petrolio e gasdotti , il primo proveniente dall’Asia, dove si sono già insediate le grandi compagnie anglo americane ed i secondi che dovrebbero far affluire l’oro nero attraverso l’Afghanistan, fino ad un terminal posto sulle coste del Pakistan. A questo progetto, che racchiude anche la volontà geopolitica di cingere la Russia di Paesi sotto controllo Usa, l’Amministrazione statunitense lavorava dalla metà degli anni “90.

Johon J. Maresca, vicepresidente all’epoca della potente UNOCAL (http://unocal.com) Corporation, spiegò che bisognava diversificare il flusso della produzione di greggio delle regioni asiatiche ex URSS.Il Mediterraneo e il Mar Nero sono mercati già ben riforniti, l’Unocal invece puntava a oriente, dove si posizionano i giganti economici futuri.

L’Asia è in rapida crescita e necessita di abbondante petrolio, visto il suo crescente consumo. Un grande oleodotto lungo 1040 miglia dal Turkmenistan,Uzbekistan, Kazakhstan e Russia, attraverso l’Afghanistan fino al mare in Pakistan, ecco l’idea.

Nel 1995 i Talebani hanno oramai in mano il Paese ed iniziano a entrare nella sfera d’interesse Usa. Loro rappresentanti vengono accolti negli Stati Uniti ed incontrano i dirigenti Unocal nel Texas dell’allora governatore Bush.

Gli è offerta una percentuale pari al 15% dei profitti per il transito dell’oleodotto. Seguono altri viaggi dove si parla sempre di petrolio e oleodotti e gli interlocutori sono uomini del Dipartimento di Stato e della CIA. Per i talebani si muove Sayed Rahmatullah Hascimi, consigliere personale del Mullah Omar.

Intanto sono state stoppate le indagine che riguardano gli attentati contro le ambasciate Usa in Africa e contro la nave dell’US Navy Cole attaccata nelle acque dello Yemen ad Aden( gli affari sono affari…),per non avere così intoppi nella trattativa con i Talebani.

Gli Usa propongono la creazione di un governo di coalizione con all’interno i talebani( questo per meglio influenzarne la politica interna), in cambio di aiuto economici, dell’oleodotto e del riconoscimento internazionale.

Quindi Washington si muove come è suo solito fare in questi casi, o si accetta un governo fantoccio ed i solito aiuti disinteressati,ed il controllo pressoché totale dell’economia, oppure vi sarà una risposta militare. Il “volere di Washington “ non ammette vie di mezzo.

Le ultime trattative avvennero 39 giorni prima dell’attacco a New York dell’11 settembre, subito dopo fu lanciata l’operazione “Endurig Freedom” che dura da ben 9 anni, tra poco eguaglierà il conflitto vietnamita per durata. ll resto è cronaca dei nostri giorni.

giovedì 20 maggio 2010

L'Entità non astratta

Qui di seguito alcuni articoli sui recenti sviluppi in merito agli annosi intrecci tra pezzi dello Stato e criminalità organizzata, tra servizi segreti e mafia.


Gli 007 delle stragi
di Lirio Abbate - L'espresso - 20 Maggio 2010

Un uomo dei servizi assieme ai mafiosi nel garage dove veniva preparata la bomba contro Borsellino. Ecco la svolta nelle indagini sui massacri del '92.

Uomini che avrebbero fatto parte degli apparati di sicurezza hanno avuto un ruolo nel 1992, accanto ai mafiosi, negli attentati in cui morirono Giovanni Falcone e Paolo Borsellino e con loro i poliziotti delle scorte. Agenti 007 infedeli avrebbero preso parte alle fasi preparatorie dei progetti di morte con i quali i corleonesi di Totò Riina dichiaravano guerra allo Stato.

È l'ultimo scenario inquietante che emerge dalle inchieste avviate dalla Procura di Caltanissetta sul ruolo di "soggetti" esterni a Cosa nostra nelle stragi che hanno cambiato la storia d'Italia. I pm hanno individuato e identificato gli uomini dell'intelligence che avrebbero affiancato i killer mafiosi.

Fino a pochi anni fa la presenza di funzionari dei servizi dietro agli attentati di Capaci e via d'Amelio appariva come un'ipotesi investigativa tutta da provare mentre oggi questa incredibile connection potrebbe trasformarsi in realtà processuale.

Il collaboratore di giustizia Gaspare Spatuzza, ricostruendo le fasi dell'attentato a Paolo Borsellino, svela ai pm di aver visto nel garage in cui venne sistemata la Fiat 126 da trasformare in autobomba, "un soggetto dell'età di circa 50 anni": un uomo che non conosceva, ma che era insieme ai mafiosi con i quali mostrava anche confidenza. Lo vide il giorno prima della strage, quando stavano riempiendo l'utilitaria di esplosivo. Adesso Spatuzza ha riconosciuto quell'uomo in un album di foto che i magistrati gli hanno mostrato. Il pentito lo ha indicato subito, senza alcuna esitazione.

Un colpo di scena, perché si tratterebbe proprio di un agente dei servizi segreti che all'epoca svolgeva compiti operativi in Sicilia. L'immagine è stata riconosciuta da Massimo Ciancimino, che lo ha indicato come uno dei personaggi in contatto con don Vito Ciancimino. Lo stesso uomo dell'intelligence che frequentava l'ex sindaco mafioso di Palermo avrebbe dunque partecipato alla preparazione dell'autobomba di Borsellino.

Spatuzza ha descritto ai magistrati il gruppo di mafiosi che alla vigilia della strage di via d'Amelio si riunì assieme al misterioso cinquantenne mai visto prima: c'erano i boss Fifetto Cannella, Nino Mangano e poi Renzino Tinnirello e persino Ciccio Tagliavia che all'epoca era latitante. Tutti affiliati che facevano riferimento al capomafia di Brancaccio: Giuseppe Graviano, lo stesso che disse a Spatuzza "ci siamo messi il Paese nelle mani" grazie a Berlusconi e Dell'Utri che stavano per entrare in politica.

L'opera di qualche 007 deviato sbuca fuori anche nelle indagini per la strage di Capaci. Lo svela il collaboratore di giustizia Gioacchino La Barbera, il mafioso che venne incaricato dai corleonesi di compiere sopralluoghi per l'attentato lungo l'autostrada in modo da individuare il luogo più adatto per colpire il giudice Falcone.

Il pentito ha riferito agli inquirenti che in quella attività preparatoria avrebbero partecipato soggetti "non presentati ritualmente" e pertanto, secondo gli inquirenti, "verosilmilmente estranei a Cosa nostra".

L'ipotesi di una entità esterna che avrebbe affiancato le cosche nell'attentato di Capaci era stata sollevata nei mesi scorsi dal procuratore nazionale, Piero Grasso, davanti ai parlamentari della Commissione Antimafia presieduta da Giuseppe Pisanu. "Non c'è dubbio che la strage di Falcone e della sua scorta sia stata commessa da Cosa nostra. Rimane però l'intuizione, il sospetto, chiamiamolo come vogliamo, che ci sia qualche entità esterna che abbia potuto agevolare o nell'ideazione, nell'istigazione, o comunque possa aver dato un appoggio all'attività della mafia".

Grasso lo scorso ottobre in Commissione antimafia aveva posto un quesito: perché si passò dall'ipotesi di colpire Falcone sparandogli mentre passeggiava per le vie di Roma a quella dell'attentato con 500 chili di esplosivo sull'autostrada a Capaci? Una scelta, quella dell'attentato devastante, che ha una modalità "chiaramente stragista ed eversiva".

Il capo della procura nazionale ha chiesto di approfondire "chi ha indicato a Riina questa modalità con cui si uccise Falcone", perché "finché non si risponderà a questa domanda sarà difficile cominciare ad entrare nell'effettivo accertamento della verità che è dietro a questi fatti".

L'inchiesta della Direzione distrettuale antimafia di Caltanissetta, condotta dal procuratore Sergio Lari, dagli aggiunti Gozzo e Bertone e dai pm Marino e Luciani, vuole dare una risposta al quesito di Grasso, andando anche oltre. I pm nisseni - fra mille difficoltà che vanno dalla mancanza di magistrati a quella del personale giudiziario - puntano con grandi sacrifici anche ad un altro lato oscuro delle trame palermitane che affonda nel periodo della guerra di mafia degli anni Ottanta.

Fino al fallito attentato a Giovanni Falcone nella villa sul mare dell'Addaura. Anche in questo contesto emerge il ruolo di apparati deviati dello Stato. E sbuca nelle indagini un ex poliziotto, riconosciuto per il volto coperto di bruciature: alcuni pentiti lo chiamano "il mostro". L'agente era in contatto con funzionari dell'Alto Commissariato antimafia dagli anni Ottanta fino al luglio 1992.

Un poliziotto dalla faccia deturpata che avrebbe avuto un ruolo in alcuni omicidi e agguati. Si tratta di un uomo che fino alla fine degli anni Settanta è stato in servizio alla Squadra mobile di Palermo. Dopo essere stato identificato, su di lui sono in corso indagini per ricostruire quello che ha fatto nel periodo della mattanza, quando nel capoluogo siciliano venivano uccise centinaia di persone l'anno, compresi poliziotti e carabinieri.

Secondo i collaboratori, il "mostro era un duro" con il vizio della cocaina e abitava a Palermo in una strada che si affaccia sul mare, nei pressi del Foro Italico. L'ex mafioso Vito Lo Forte lo chiamava il "bruciato", perché aveva il volto ustionato, ed ha spiegato che si muoveva con una moto Suzuki e un fuoristrada Range Rover. Ed aveva rapporti con Gaetano e Pietro Scotto, entrambi coinvolti nell'attentato a Borsellino.

Per molte di queste indagini i magistrati hanno ottenuto la collaborazione degli attuali vertici dei servizi segreti civili e militari che hanno aperto gli archivi mettendo a disposizione i materiali decisivi per la svolta. Comprese le foto degli agenti - coperte da segreto di Stato - che per decenni hanno lavorato in Sicilia sotto copertura e che adesso sono state inoltrate ai pm nisseni: saranno mostrate a collaboratori e testimoni.

E anche il Comitato parlamentare di controllo sull'intelligence (Copasir) vuole far chiarezza sul ruolo degli agenti deviati nella stagione di fuoco che ha segnato la fine della Repubblica. Per questo Gianni De Gennaro, direttore del Dis e responsabile dei nostri apparati di informazione, ha chiesto alla Procura di Caltanissetta di ricevere notizie sugli sviluppi dell'istruttoria, in modo da intervenire sugli agenti coinvolti che fossero ancora impegnati in compiti operativi.


Addaura, nuova verità sull'attentato a Falcone
di Attilio Bolzoni - La Repubblica - 7 Maggio 2010

Così lo Stato si divise. Nel commando non c'erano solo i boss di Cosa nostra ma anche presenze estranee: uomini dei servizi segreti

È tutta da riscrivere la storia delle stragi siciliane. Le inchieste sono partite con quasi vent'anni di ritardo per disattenzioni investigative e deviazioni, un depistaggio che ha voluto Totò Riina e i suoi Corleonesi come unici protagonisti del terrore. Tutto era riconoscibile già allora: bastava indagare su quelle "presenze estranee" a Cosa Nostra. Ma nessuno l'ha fatto.

Vent'anni dopo è stata capovolta tutta la dinamica del fallito attentato dell'Addaura. Ci sono testimonianze che rivelano un'altra verità e che irrobustiscono sempre di più l'ipotesi di un "mandante di Stato".

La scena del crimine è da spostare di ventiquattro ore: la borsa con i candelotti di dinamite è stata sistemata sugli scogli non il 21 giugno del 1989 ma la mattina prima, il 20 giugno. E, da quello che sta emergendo dalle investigazioni, sembra che fossero due i 'gruppì presenti quel giorno davanti alla villa di Falcone. Uno era a terra, formato da mafiosi della famiglia dell'Acquasanta e da uomini dei servizi segreti.

E l'altro era in mare, su un canotto giallo o color arancio con a bordo due sub. I due sommozzatori non erano di "appoggio" al primo gruppo: erano lì per evitare che la dinamite esplodesse. Non c'è certezza sull'identità dei due sommozzatori ma un ragionevole sospetto sì: uno sarebbe stato Antonino Agostino, l'altro Emanuele Piazza.

Il primo, Agostino, ufficialmente era un agente del commissariato San Lorenzo ma in realtà un cacciatore di latitanti. Venne ammazzato insieme alla moglie Ida Castellucci il 5 agosto del 1989, nemmeno due mesi dopo l'Addaura. Mai scoperti i suoi assassini.

Anche Totò Riina ordinò una "indagine" interna a Cosa Nostra per capire chi avesse ucciso il poliziotto: "Anche lui non riuscì a sapere nulla", ha riferito il pentito Giovanbattista Ferrante. "È stato ucciso perché voleva rivelare i legami mafiosi con alcuni della questura di Palermo. Anche sua moglie sapeva: per questo hanno ucciso anche lei", ha raccontato invece il collaboratore di giustizia Oreste Pagano. Per l'uccisione di Antonino Agostino, la squadra mobile di Palermo seguì per mesi un'improbabile "pista passionale".

Qualche mese fa i magistrati di Palermo hanno ascoltato un testimone - un funzionario di polizia - che ha raccontato di avere ricevuto una confidenza proprio dal giudice Falcone, andato a trovarlo una sera nel suo commissariato: "Questo omicidio l'hanno fatto contro di me e contro di lei". Parlava dell'agente Antonino Agostino.

Il secondo sommozzatore, Piazza, era un ex agente di polizia che aveva anche lui cominciato a collaborare con i servizi segreti (il Sisde) nella ricerca dei latitanti. Emanuele Piazza è stato ucciso il 15 marzo del 1990.

Una "talpa" avvisò i mafiosi che l'ex agente di polizia stava lavorando per gli apparati di sicurezza. I boss lo attirarono in una trappola e lo strangolarono. Anche per il suo omicidio, la squadra mobile di Palermo indirizzò inizialmente le ricerche su "una fuga della vittima in Tunisia, in compagnia di una donna".

Un depistaggio nelle indagini sul primo omicidio, un altro depistaggio nelle indagini sul secondo omicidio. Sul fallito attentato dell'Addaura sta affiorando un contesto sempre più spaventoso: un pezzo di Stato voleva Falcone morto e un altro pezzo di Stato lo voleva vivo. Ma chi ha deviato le indagini sugli omicidi di Antonino Agostino ed Emanuele Piazza? Chi ha voluto indirizzare i sospetti verso la "pista passionale" per spiegare le uccisioni dei due poliziotti?

Un giallo nel giallo è nascosto fra altre pieghe del fascicolo sull'Addaura: si stanno cercando da mesi gli identikit dei due sommozzatori, ricostruiti attraverso le indicazioni di alcuni bagnanti che il 20 giugno del 1989 erano nella zona di mare dove volevano uccidere Giovanni Falcone.

Quotidiani e agenzie di stampa avevano, al tempo, dato ampio risalto alla notizia di quegli identikit: oggi c'è il sospetto che non siano mai stati consegnati alla magistratura. Entrare nelle indagini dell'Addaura è come sprofondare nelle sabbie mobili.

Se l'affaire dell'Addaura è il punto di partenza di tutte le indagini sulle altre stragi siciliane, è un affaire con troppi morti. E molti interrogativi. Ad esempio, perché le indagini sull'attentato al giudice sono partite con vent'anni di ritardo? E chi ha ucciso tutti i testimoni dell'Addaura?

Morto è Francesco Paolo Gaeta, un piccolo "malacarne" della borgata dell'Acquasanta, che il giorno del fallito attentato aveva casualmente assistito alle manovre militari intorno alla villa del giudice. Qualche tempo dopo, Gaeta fu ucciso a colpi di pistola: il caso fu archiviato come regolamento di conti fra spacciatori.

Morto è il mafioso Luigi Ilardo. Era un informatore del colonnello dei carabinieri Michele Riccio, e all'ufficiale aveva detto: "Noi sapevamo che a Palermo c'era un agente che faceva cose strane e si trovava sempre in posti strani. Aveva la faccia da mostro. Siamo venuti a sapere che era anche nei pressi di Villagrazia quando uccisero il poliziotto Agostino". Il mafioso Luigi Ilardo è stato assassinato qualche giorno prima di mettere a verbale le sue confessioni.

Morto Ilardo. Morto Falcone. Morto l'agente Nino Agostino. Morto il collaboratore del Sisde Emanuele Piazza.

È caccia aperta all'uomo con la faccia da mostro. Qualcuno dice che si è vicini a un riconoscimento, qualcun altro giura che quell'uomo non si troverà mai perché anche lui è morto da anni.

Così come è caccia aperta ad altri "agenti dei servizi" legati ai boss di Corleone. Uno, in particolare, chiamato di volta in volta "Carlo" o "signor Franco": un uomo degli apparati che per una ventina di anni è stato al fianco dell'ex sindaco mafioso di Palermo Vito Ciancimino. Trattava con lui e con Totò Riina nell'estate del 1992.

Sono due i livelli del coinvolgimento degli apparati di sicurezza all'ombra delle stragi: ci sono i servizi sospettati di aver trattato con la mafia e ci sono i servizi sospettati di avere avuto un ruolo attivo negli attentati.

Se non si scopriranno queste trame, non sapremo mai chi davvero ha ucciso Falcone e Borsellino e perché. C'è puzza di spie in ogni massacro siciliano. Misteri di mafia che si confondono con misteri di Stato.


Quanti segnali inascoltati sull'esistenza dell'Entità esterna
di Alfio Caruso - Il Corriere della Sera - 8 Maggio 2010

È tardiva la decisione della commissione antimafia di riaprire il caso Falcone. Da mesi, infatti, gli investigatori sono giunti alla conclusione che la matrice dell' attentato di Capaci, per anni ritenuta al 90 per cento opera di Cosa Nostra e al 10 per cento opera dell' Entità esterna, va riequilibrata in un diabolico 50 e 50.

Come racconto in «Milano ordina: uccidete Borsellino», di cui il Corriere si è gentilmente occupato il 18 marzo scorso, Falcone era entrato nel mirino il 21 giugno 1989. Quel giorno, nel villino preso in affitto all' Addaura per le vacanze assieme alla moglie, sopravvisse a 75 candelotti di dinamite già innescati.

Falcone parlò di «menti raffinatissime» dietro l' esplosivo. Angelo Fontana, un collaboratore di giustizia appartenente alla «famiglia» dell' Acquasanta, cioè responsabile del territorio, ha messo a verbale che i suoi capi nell' occasione si limitarono a sorvegliare la zona, mentre su un gommone alcuni «estranei» trasportavano i candelotti.

Per anni si è sospettato che i sub incaricati di piazzare l' esplosivo fossero stati l' agente di polizia Nino Agostino, del commissariato di San Lorenzo, e il suo amico Emanuele Piazza, un irregolare del Sisde con il compito di scovare latitanti.

Il ruolo dei due nella preparazione dell' attentato è da chiarire, ma Fontana è stato assai esplicito nell' affermare che l' esplosione non avvenne perché Agostino e Piazza, venuti a conoscenza di quanto stava per accadere, si precipitarono all' Addaura e sventarono la strage.

Un intervento sul filo dei minuti, se non dei secondi. Ne pagarono entrambi il prezzo. Agostino e la moglie Ida Castellucci, incinta, furono trucidati il 5 agosto ' 89, Fontana venne attirato in una trappola e fatto sparire nel marzo ' 90.

I tre omicidi sono ancora insoluti, recentemente, però, la madre di Agostino ha riconosciuto in Gaetano Scotto, un amico di Vincenzo Scarantino, il falso reo confesso della strage di via D' Amelio, il misterioso pedinatore del figlio.

Ai funerali degli Agostino, quando la pista privilegiata riguardava l' omicidio passionale, Falcone disse: «Questi due giovani mi hanno salvato la vita». Comincia, dunque, all' Addaura la commistione fra Cosa Nostra e apparati dei servizi per eliminare Falcone.

Non si tratta soltanto di vendicare gli ergastoli comminati al maxi processo, Falcone è soprattutto colpevole di voler allargare il tiro delle proprie indagini: sulla mafia che è entrata in borsa; sul ruolo di Gladio - la struttura riservata del Sismi (il servizio segreto militare) - in alcuni delitti eccellenti avvenuti in Sicilia; sul mistero rappresentato dal Centro Scorpione di Trapani, all' apparenza una stazione degli 007 per contrastare una futuribile invasione dell' Urss - nel basso Mediterraneo... -, nella realtà una base d' intrecci oscuri, coinvolta persino nell' omicidio di Mauro Rostagno. E al Centro Scorpione si recava spesso il povero Agostino.

Insomma, si chiede Falcone, che ci fanno in Sicilia tutti questi agenti segreti? Falcone punta al cuore del Gioco Grande, al malefico incrocio di giganteschi interessi economici, che hanno il loro epicentro a Milano.

In quest' ansia di verità neppure si cura dei troppi nemici che si è creato, dei troppi che non dormono la notte al pensiero delle sue azioni, dei troppi disposti ad allearsi financo con il diavolo pur di vederlo sparire alla faccia della terra.

Un minuto dopo la sua soppressione, il 23 maggio 1992, pure la vita di Paolo Borsellino non vale un soldo bucato. Come ha dimostrato nell' intervista concessa quarantott' ore prima ai due giornalisti francesi, anch' egli sa che la battaglia conclusiva va combattuta a Milano.

L' ha già scritto il 18 marzo 2002 il giudice Francesco Caruso, nella sentenza d' appello del Borsellino bis. Dopo otto anni se ne sono accorti anche i fulmini di guerra della commissione antimafia e del Copasir.


L'Addaura. "Tra" le ombre...luci.
di Carlo Palermo - antimafiaduemila.com - 11 Maggio 2010

I recenti articoli di Attilio Bolzoni su Repubblica e di Alfio Caruso sul Corriere della Sera relativi all’attentato all’Addaura contro Giovanni Falcone del giugno del 1989 offrono spunti di riflessione sullo stato delle indagini attualmente svolte in particolare da taluni magistrati in Sicilia, che tentano oggi di decifrare e comprendere alcuni episodi che solo apparentemente riguardano “affari” di Sicilia, ma che forse costituiscono chiavi di lettura di attività più complesse, trovanti origine e motivazione in centri di potere più complessi.

Esponendosi gli esiti delle nuove attività investigative, si evidenzia oggi che l’episodio dell’Addaura può essere considerato come punto di inizio e chiave di lettura delle stragi del ’92, rilevandosi così che siamo in ritardo di 20 anni con le indagini in conseguenza degli occultamenti e dei depistaggi intenzionali che avrebbero oscurato così a lungo la ricostruzione della verità.

In merito non posso che concordare con tale attuale impostazione dei magistrati, anche se ritengo che il connubio tra poteri occulti, mafia e terrorismo risalga a molto tempo prima, e come tale vada esaminato nella sua globalità storica per essere poi individuato e decifrato in ogni singolo episodio che ne ha costituito espressione.

Per comprendere a fondo la genesi e le più complesse responsabilità delle stragi del ’92 è forse opportuno ricordare che poco dopo i due attentati di Capaci e di via d’Amelio, a Milano, vennero sequestrati armi e plastico per attentati: dietro l’organizzazione sembra esservi stato il clan mafioso della famiglia Fidanzati, operante da un ventennio sull’asse Palermo - Milano, in connessione con le organizzazioni della mafia turca e con i terroristi libanesi.

In questo ricorrente asse - forse poco approfondito nel comune convincimento che la mafia operi solo in Sicilia - possono rinvenirsi indizi che riconducono a fatti vecchi e nuovi (al caso Calvi, alla P2, al sistema delle corruzioni politiche, ecc.), tutti ruotanti attorno a rilevanti operazioni bancarie e finanziarie, che - come noto - costituisce il necessario sistematico legante di tutte le attività illecite.

La riflessione ci riporta (come ho da tanti anni ricordato in miei scritti) a vicende in qualche modo collegate a due conti bancari “famosi” per Giovanni Falcone, come anche per i magistrati di Milano: il “Conto Protezione, rif. Martelli per conto Craxi”, sulla banca Ubs di Lugano (che risaliva ai lontani anni 1979-80), e il meno noto Conto “rif. Roberto”, sul Banco di Roma, sede di Lugano.

Su questi nomi e su questi conti si incentrarono e poi si bloccarono le ricerche di Giovanni Falcone quando era giudice istruttore a Palermo.
Sul Conto Protezione per tanto tempo (e sino al ’93) si bloccarono a Milano le indagini della magistratura sul Banco Ambrosiano.
Sul Conto rif. Roberto si fermarono Falcone e Borsellino nelle loro inchieste di mafia.

Su entrambi i conti, in Svizzera iniziò a indagare, su richiesta di Falcone, il magistrato elvetico Carla Del Ponte, che si trovava a Palermo all’Addaura insieme a Falcone nel giorno dell’attentato del 1989 all’Addaura.
Io incontrai Carla Del Ponte il giorno prima che costei partisse per la Sicilia, per vedersi con Falcone a Palermo.

Sui conti elvetici poi, dopo l’eliminazione di Falcone e Borsellino, si sono nuovamente imbattuti, dal ’92 i magistrati di Milano e inquirenti siciliani (di Palermo, Caltanisetta e Catania) in varie inchieste sulla corruzione e sui fondi occulti all’estero.
Per Falcone e Borsellino, quei conti rimasero però un mistero.

Per dipanare la matassa, andiamo ancora più indietro e spostiamo l’attenzione su personaggi a lungo trascurati, Florio Fiorini e Giancarlo Parretti, recentemente al centro di scandali finanziari internazionali; in passato, legati alle vecchie storie del Banco Ambrosiano, della P2, delle forniture di petrolio Eni-Petromin: si potranno notare le strette connessioni di questi fatti (tipicamente “economici” e bancari) con altri piú propriamente “mafiosi”.

Agli inizi degli anni Settanta, Parretti arrivò a Siracusa e il suo cammino si incrociò con quello di un uomo politico che contava nella Sicilia dell’epoca, il senatore democristiano Graziano Verzotto.
Nativo del nord, Verzotto, ancora nel 1953, aveva svolto in Sicilia il doppio ruolo di funzionario dell’Agip (antenata dell’Eni) e di commissario provinciale della Dc. Divenne rapidamente padrone incontestato di Siracusa, poi di tutta l’isola, anche se i suoi rapporti con il leggendario presidente dell’Agip-Eni, Enrico Mattei, presto si raffreddarono.

Verzotto fu l’ultimo a salutare Mattei quando, la sera del 27 ottobre 1962, questi prese a Catania l’aereo privato che si sarebbe schiantato poco dopo a Bescape, a qualche decina di chilometri dall’aeroporto di Milano-Linate: fu forse il primo episodio terroristico in cui si mescolarono insieme gli emergenti interessi di Stato, legati ai commerci internazionali di petrolio, e la mafia.

Lo stesso Verzotto nel 1967 divenne segretario generale della Dc siciliana e poi presidente dell’Ente minerario siciliano (Ems), organismo che raggruppava diciotto società, con disponibilità sugli enormi fondi del Mezzogiorno.

I suoi intrecci con la mafia furono molteplici: fu amico di Frank Coppola e di Giuseppe de Cristina, uno dei principali protagonisti della seconda guerra di mafia. La posta principale, in quel momento, era il controllo del mercato immobiliare dell’isola attraverso il triunvirato Stefano Bontade, Gaetano Badalamenti, Salvatore Riina, uomo di fiducia di Luciano Liggio, allora capo dei corleonesi.

De Cristina venne assassinato a Palermo il 30 maggio 1978.
L’omicidio scatenò quella che poi venne chiamata la «mattanza»: una strage totale che raggiunse il culmine negli anni 1981-82.

Frattanto, Fiorini - alleato di Parretti - come direttore finanziario dell’Eni (diresse l’ente dal 1975 al 1982, data della sua forzata separazione dall’Eni, conseguente agli scandali dell’epoca), guidava allora le finanze della compagnia petrolifera in collegamento con i socialisti di Craxi, piduisti e il leader libico Gheddafi.

In quel periodo si infittirono gli investimenti e le partecipazioni internazionali: Parretti (socio di Verzotto) e Fiorini, attraverso il gruppo finanziario spagnolo Melia International, acquisirono il controllo sulla società belga Bebel, che possedeva a sua volta oltre il 7% della Banque Bruxelles Lambert.

Questa banca – negli ultimi anni Settanta – comparve nelle trattative tra Fiorini e Antony Gabriel Tannoury, graccio destro di Gheddafy, nella cessione delle azioni delle Assicurazioni Generali in relazione ai tentativi del leader libico di acquisire tecnologie nucleari.

E, sempre alla stessa banca, si ricollegarono altri commerci di armi (come ad esempio quelli relativi alle forniture al Belgio degli elicotteri Agusta) in connessione con altri personaggi operanti nel settore finanziario internazionale al massimo livello.

Nel 1978 venne anche aperto, a Lugano, presso l’Union Banques Suisses, il Conto Protezione intestato a Silvano Larini: “I dirigenti dell’Ubs erano degli amici”, disse Fiorini, con riferimento ai rapporti tra la banca svizzera e l’Ambrosiano.

Sui conti dell’istituto elvetico – che custodí i segreti di Craxi una quindicina di anni – a piú riprese si svolsero operazioni finanziarie del piú vario genere: versamenti di tangenti connesse a transazioni petrolifere (Eni-Petromin), pagamenti di partite di droga (in particolare per il clan mafioso dei Cuntrera-Caruana), finanziamenti illeciti dei partiti, creazioni di fondi occulti, operazioni di riciclaggio.

L’Ubs, inoltre, tramite banche controllate – in particolare la Banque de Commerce et de Placements (la Bcp) – fu in stretti rapporti con il pachistano Abedi e la Bcci.

Sempre nel 1978, il 17 aprile, iniziò un’importante ispezione della Banca d’Italia sul Banco Ambrosiano in conseguenza della gravissima situazione debitoria in cui questa versava per le spericolate operazioni del suo presidente Roberto Calvi.

Nel novembre, il dossier passò al giudice di Milano, Emilio Alessandrini, che conduceva le indagini su Calvi. Dopo circa tre anni, il 29 gennaio 1979, egli fu ucciso da un commando di Prima linea.

Dopo il sequestro Moro e lo scandalo Lockheed, gli anni 1979-80 trascorsero tra i tentativi trasversali di occupazione di potere incentrati nelle operazioni Rizzoli-Corriere della Sera, commesse petrolifere Eni-Petromin, finanziamenti al Psi di Craxi, nonché tra i misteri legati alla strage di Bologna e a quella di Ustica: tutti questi episodi evidenziarono depistaggi, connessioni occulte con il terrorismo, collegamenti tra i servizi segreti italiani e quelli americani, in una situazione politica condizionata dalla guerra fredda tra gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica, e tra gli Stati Uniti e l’Iran rivoluzionario di Khomeyni con un equivoco ruolo svolto dal leader libico Gheddafi.

Alla fine di quell’anno (1980), mentre a Trento iniziava l’inchiesta sulle connessioni tra mafia siciliana e mafia turca, e sui rapporti tra Trento e Trapani, il turco Ali Agka ebbe, verso il 20 dicembre, misteriosi contatti attorno a Palermo, forse proprio a Trapani.
All’inizio del 1981 (il 17 marzo) venne scoperto dagli inquirenti l’elenco degli appartenenti alla loggia P2. Il successivo 8 maggio, a Trapani, venne creata la loggia coperta C.

Qualche giorno dopo (il 13 maggio), Ali Agka tentò, in piazza San Pietro, di uccidere il Papa: sulla base di connessioni bancarie, il killer turco apparve in qualche modo collegato con il massone di rito scozzese Thurn und Taxis e con sette integraliste ispirate al culto di Fatima.

Esattamente un anno dopo (il 13 maggio 1982) e sempre con connessioni massoniche, un secondo attentato al Papa veniva consumato a Fatima, in Portogallo, mentre infuriava la guerra tra l’Argentina e l’Inghilterra per le isole Falkland.
Un mese dopo, a Londra, Calvi si “suicidava”.

Nella lista degli iscritti alla P2 stranamente non comparvero i nomi dei partner di Gelli presenti nel governo di Washington.
Numerosissimi, invece – quasi seguendo un piano prestabilito –, furono quelli di generali e militari argentini compresi nell’elenco.

In Argentina, a Buenos Aires, in via Cerrito 1136, il capo della P2 – si ricorderà – disponeva di un appartamento, al nono piano: vi si trovavano gli uffici di una ditta, Las Acacias. In quello stesso edificio aveva avuto sede il Banco Ambrosiano.

La società Acacias (panamense e con sede a Lugano) risultò al centro di operazioni di riciclaggio di denaro proveniente da traffici di stupefacenti, tra il Brasile, gli Usa, l’Italia e la Svizzera. Fondata da Vito Palazzolo, venne utilizzata per il trasferimento di milioni di dollari manovrati dal clan Bonanno tra gli Usa e la Svizzera.

Questi fatti riguardavano le connessioni “argentine” del clan Fidanzati, sulle quali indagò, negli anni Ottanta, Giovanni Falcone.

Per una strana ricorrenza, solo un anno prima di essere ucciso a Capaci, lo stesso Falcone si recò a Buenos Aires per una rogatoria: in un burrascoso incontro con il boss Gaetano Fidanzati – arrestato in quel paese –, questo ultimo minacciò di farlo saltare in aria.

Ritornando al 1982, nella settimana di Pasqua – e cioè poco prima della uccisione di Calvi, avvenuta il 17 giugno – davanti agli uffici di una società collegata alla Acacias (la Traex), avvennero incontri tra importanti operatori finanziari internazionali, il fornitore turco di droga Yasar Musullulu e, con ogni probabilità, Pippo Calò.

Yasar Musullulu, capo della mafia turca, era probabilmente il fornitore della morfina base della raffineria di Alcamo, scoperta nell’aprile del 1985, trenta giorni dopo l’attentato di Pizzolungo, non molto lontano dai luoghi ove era stato ucciso, due anni prima, il sostituto procuratore Giacomo Ciaccio Montalto.

Negli stessi giorni erano state eseguite indagini sui rapporti di mafia esistenti tra Trapani e Trento.
In America, il principale destinatario delle forniture di droga dalla Sicilia era allora il clan mafioso agrigentino dei Cuntrera e Caruana.

Uno dei loro soci piú importanti, Francesco di Carlo, venne in seguito indicato come uno dei killer di Roberto Calvi. Probabilmente la somma per pagare i killer venne ricavata dal tesoro segreto della P2, occultato in una banca sconosciuta e forse transitato sull’istituto Rothschild.

Mentre magistrati e investigatori siciliani indagavano sui Cuntrera, sul Musullulu e sulle operazioni bancarie che li collegavano in Svizzera, alla fine del mese di luglio del 1985, venne ucciso il commissario Giuseppe Montana, della squadra della Questura di Palermo, preposta alla cattura dei latitanti.

Frattanto Francesco di Carlo veniva arrestato in Inghilterra, dove lo raggiungeva immediatamente il vice questore Cassarà. Pochi giorni dopo, il 6 di agosto, al suo ritorno a Palermo, Cassarà venne ucciso.

Minacce di morte costringevano Falcone e Borsellino a nascondersi in un’isoletta per scrivere l’ordinanza di rinvio a giudizio del primo maxiprocesso di mafia.
Nell’aprile del 1986, veniva intanto scoperto a Trapani il Centro studi Scontrino, le sue logge massoniche, i legami filoarabi con Gheddafi.

Nel 1987, nel corso di indagini svolte a Palermo da Giovanni Falcone, a seguito di accertamenti in Svizzera sui rapporti presso istituti elvetici, emersero tracce di versamenti di centinaia di migliaia di dollari su un conto chiamato “Rif. Roberto” del Banco di Roma, sede di Lugano, i cui beneficiari non vennero mai individuati con certezza.

Quel denaro – come risultò in seguito – costituiva un diretto provento di forniture di stupefacenti effettuate al clan Cuntrera-Caruana. Il Banco di Roma di Lugano, ovvero la Svirobank, era di proprietà al 51% dello Ior, la banca del Vaticano, di cui era presidente Marcinkus, che era stato in stretto rapporto con Roberto Calvi .

A Trapani, nel settembre dello stesso anno 1987, in apparente controtendenza rispetto alla chiusura delle strutture Gladio, veniva creato il Centro Scorpione, dalla VII divisione del Sismi: avrebbe dovuto essere una propaggine di Stay Behind. Doveva probabilmente servire per ingrandire e potenziare alcune unità clandestine operanti sul territorio: le Rac e le Udg (Rete agenti coperti e Unità di guerriglia). Questo centro era dotato di un aereo di piccole dimensioni.

La mafia, in quella zona (Castellammare del Golfo), si serví proprio di un velivolo di quelle caratteristiche, per un enorme trasferimento di droga (565 kg di eroina) eseguito con una nave, la Big John.

Sempre in quell’anno, a fronte di aiuti a paesi sottosviluppati, il Perú ricevette dall’Italia mezzi sofisticatissimi: ponti radio, sensori a raggi infrarossi, giubbotti antiproiettile e una quantità imprecisata di pistole Beretta imbarcati su un aereo partito da Roma, coperto dal segreto militare.

Si trattò dell’operazione “Lima”, un piano di aiuti, deciso nel 1987, a sostegno del governo peruviano del presidente García, allora impegnatissimo nella caccia al professor Guzmán, il leader di Sendero luminoso, già condannato all’ergastolo.

L’ammiraglio Fulvio Martini, direttore dei nostri servizi segreti, raccontò ai magistrati che l’operazione era stata organizzata dall’allora presidente del Consiglio Craxi. Era previsto l’addestramento della guardia peruviana con personale della VII divisione del Sismi, la stessa che aveva creato a Trapani, sempre nel 1987, il Centro Scorpione.

L’anno seguente, il 1988, dopo aver forse assistito nelle campagne di Trapani a un trasbordo di armi dirette alla Somalia su un aereo militare operante per conto dei nostri servizi segreti, veniva ucciso, in prossimità della comunità di Saman, Mauro Rostagno, sulle tracce delle piste massoniche della Loggia “C”, delle sacerdotesse sufi “Arcobaleno” e forse di alcuni traffici... anche più vicini a lui.

Era sui fatti finanziari sopraindicati che indagava il giudice Falcone nel giugno del 1989, mentre inutilmente cercava di capire cosa fosse il Centro Scorpione di Trapani. In quei giorni, sugli scogli vicini alla sua abitazione vennero rinvenuti due sacchi di esplosivo: un segno minaccioso cui subito non parvero estranee presenze di cellule deviate dei servizi segreti. Lo stesso Giovanni Falcone, parlando di questi fatti, non esternò sospetti sulla mafia, ma su “menti raffinatissime”.

Vennero trovati i candelotti sugli scogli della sua villa all’Addaura, mentre si occupava delle connessioni bancarie svizzere dei narcotrafficanti siculo-americani.

Lo stesso magistrato, nel 1991, prima di lasciare Palermo per i suoi incarichi ministeriali a Roma, svolse indagini su un ultimo processo riguardante rapporti tra mafiosi, società svizzere (in particolare di Chiasso) e istituti bancari elvetici, nodi di smistamento di narcodollari. Il processo, noto come Big John, prendeva il nome della nave sulla quale era stato sequestrato l’enorme carico di eroina vicino Trapani nel 1987.

Nel giugno 1992, anche l’ultimo fascicolo passato per le mani di Giovanni Falcone al ministero, per una rogatoria all’estero, era siglato “Big John”.

Dopo la morte di Falcone, un imputato di quel processo, legato al ruolo centrale del riciclaggio del denaro sporco, fu in contatto dalla Svizzera con il giudice Borsellino, poco prima che questi saltasse in aria a Palermo: forse intendeva “parlare”... Poi non parlò piú!

Dopo il 1992 apparirono cessate le stragi mafiose, forse per le reazioni investigative della magistratura che, per la prima volta, riuscì a identificare esecutori e mandanti mafiosi, forse per le concomitanti indagini di Mani pulite che, scavando nelle corruzioni degli appalti e dei finanziamenti illeciti ai partiti, travolgevano personaggi politici di primo piano, ma non “toccavano” gli aspetti occulti.

Poi vi furono gli attentati del ’93-‘94 (accomunati ai precedenti dalla identica tipica tipologia - di provenienza militare - degli esplosivi utilizzati), i quali, tramite “utili” indicazioni di collaboratori di giustizia mafiosi, vennero definite e qualificate anch’esse, pur se avvenute fuori dalla Sicilia, “di matrice mafiosa”.

Ecco, è in questo contesto storico, che ritengo vadano ricomposte … le giuste luci.
Dal passato al presente.
Passando per l’Addaura: “tra” le ombre… LUCI.


Stragi del ‘92, Caruso: “I mandanti vanno cercati a Milano”

da Milanoweb - 7 Maggio 2010

Intervista ad Alfio Caruso, autore del libro "Milano ordina uccidete Borsellino" (Longanesi).

Sono passati 18 anni dall'assassinio di Paolo Borsellino e ancora non si sa nulla di chi azionò il telecomando della strage… Perché ancora tanti misteri avvolgono l'uccisione del magistrato della mafia?
"Perché nel 1992 le indagini furono fuorviate dall’invenzione del testimone oculare, Scarantino, il quale soltanto nei mesi addietro ha rivelato di essersi inventato tutto".

Gli inquirenti sbagliarono per incapacità professionale o per conto terzi?
"Anche Spatuzza ammette di non sapere chi ha eseguito materialmente la strage… E questo la dice lunga sull’accuratezza della preparazione".

Lei ha già realizzato molti altri volumi che parlano del possibile intreccio fra politica e mafia. Cosa l'ha spinta, in particolare, a occuparsi di Paolo Borsellino?
"La sensazione che fin qui ci avessero raccontato una verità ufficiale che faceva acqua da ogni parte. In realtà, i primi rapporti fra mafia e politica risalgono alla fine dell'Ottocento… E continuano tranquillamente…"

Dove si trovava Alfio Caruso il 19 luglio del '92 e come reagì al nuovo attentato, di poco successivo a quello costato la vita a Giovanni Falcone?
"Ero alla mia scrivania di vicedirettore della ‘Gazzetta dello Sport’. Le reazioni le ho raccontate in 'Da Cosa nasce Cosa' ".

Nel suo libro si comincia a parlare di Milano-mafia introducendo l'argomento Graviano. I due Graviano sono infatti i più decisi a intraprendere l'assassinio di Borsellino e hanno anche dei rapporti stretti con l'imprenditoria nazionale che prende quota propria dal capoluogo lombardo. Come andò la vicenda del gennaio '94, quando i due vennero ammanettati da Gigi il Cacciatore?
"Nessuno degli altri ospiti del ristorante si accorse del fulmineo intervento delle forze dell’ordine."

Secondo un suo personale parere che fine ha fatto la fantomatica 'agenda rossa' di Borsellino?
"È servita a ricattare un po’ d’insospettabili e a far compiere qualche carriera impensabile."

Dopo Falcone fu la volta di Borsellino. Il terzo giudice antimafia per eccellenza era Ayala". Non cominciò anche lui a sentirsi braccato?
"Braccato lo era già da tempo, ma da due anni per sua fortuna stava in Parlamento eletto deputato del Partito Repubblicano."

Arriviamo quindi a Marcello Dell'Utri, (la cui carriera spicca il volo nell'83 alla corte di Berlusconi), condannato a nove anni per associazione mafiosa. Lui parla di un complotto ai propri danni". Perché non sono verosimili le sue dichiarazioni?
"Sul conto di Dell’Utri si sono accumulate tante e tali testimonianze di segno contrario da rendere verosimile la sua innocenza solo stabilendo che lui è la persona più sfortunata del geoide terrestre".

Lei nel suo libro parla spesso di 'Entità Esterna'. Come possiamo definirla in parole semplici?
"Una congrega d’insospettabili altolocati."

"Milano ordina uccidete Borsellino" è fin troppo esplicito. L'assassinio di Falcone è voluto da Cosa Nostra e appoggiato dall'Entità Esterna; quello di Borsellino è ordito, invece, dall'Entità Esterna e appoggiato dalla mafia". Sono parole che mettono i brividi…
"Purtroppo l’Italia è questa."

Chi è Gaetano Fidanzati?
"Uno dei più importanti boss mafiosi tra il 1960 e il 2000".

I mafiosi approdano in Lombardia negli anni Sessanta e da lì non si sono più mossi. Oggi si può realmente parlare di 'capitale economica della mafia'?
"Oggi prevalgono gli interessi della ‘ndrangheta…"

È vero che Berlusconi assunse Mangano per tenere a bada i mafiosi che lo volevano rapire?
"Se è falso, finora non sono riusciti a dimostrarlo".

Là dove agisce il Grande Capitale, là dove ripuliscono tutti i solidi, là dove ogni patrimonio può essere investito e moltiplicato. In una parola, Milano. Una Milano che ancora alla fine del 2009 accoglieva e proteggeva boss del calibro di Fidanzati, di Martello, di Matranga. Da Milano, quindi, viene emessa la condanna a morte di Borsellino… Qual è la molla che fa scattare l'operazione mafiosa?
"Si parla dell'intervista rilasciata dal magistrato siciliano a due giornalisti transalpini…"

Come spiega l’ignorata sentenza d’appello del "Borsellino bis" (2002)?
"Il magistrato palermitano era intenzionatissimo a estendere le indagini su Milano e sul grande capitale".

Ci avviciniamo a Expo 2015 e molti temono le infiltrazioni mafiose. Come crede sia realmente possibile tenere a bada il fenomeno?
"Basterebbe volerlo".


Annozero. Attacco ai servizi segreti
di Paolo Franceschetti - http://paolofranceschetti.blogspot.com - 16 Maggio 2010

Nella puntata di Annozero vengono dette molte delle cose che diciamo in questo blog. Veltroni, in pratica, conferma ciò che diciamo da tempo. Questi i passi salienti del discorso ad Annozero:

1) Esiste un'entità, che ha guidato i principali eventi stragisti italiani, dal delitto Moro ad Ustica.

2) Prendendo ad esempio la sola vicenda di Ustica, colpisce la infinita catena di morti che ha fatto strage di testimoni: suicidi, incidenti, omicidi, ecc..., Veltroni ha anche citato Ramstein (la tragedia aerea in cui si schiantarono due aerei delle Frecce tricolori, i cui piloti guarda caso erano testimoni al processo di Ustica); questa dichiarazione su Ramstein mi ha particolarmente colpito perché anche il giudice Rosario Priore aveva archiviato la questione di Ramstein come un incidente. Quindi Veltroni si è posto in netto contrasto con le fonti ufficiali.

In altre parole il nostro onorevole, in contrasto con la versione ufficiale secondo cui Ramstein sarebbe stato un incidente, ci vede un delitto.

Ora alcune considerazioni sono d'obbligo, perché le parole di Veltroni sono di una gravità senza precedenti.

Punto primo Veltroni afferma che esiste un'entità unica, dietro ai delitti da Moro, ad Ustica, a Capaci.

Questa affermazione è assolutamente identica alle tesi complottiste sostenute da noi nel blog; e sostenute da personaggi e autori che non trovano spazio, in genere, nei media ufficiali, ma che molti ben conoscono; Pamio, Cosco, Carlizzi, Randazzo, Lissoni...

E' inoltre assolutamente identica alle dichiarazioni del pentito Calcara, nel famoso memoriale Calcara pubblicato da Salvatore Borsellino nel suo sito 19luglio1992. Secondo questo pentito, c'è un'unica forza che manovra Chiesa, Servizi segreti, Mafia, 'ndrangheta e istituzioni.

Insomma: Veltroni conferma le dichiarazioni del pentito Calcara. Ed entrambi confermano ciò che i complottisti dicono da una vita.

Punto due La vicenda di Veltroni non è grave perché conferma in realtà una cosa nota a tutti i "complottisti"; è invece grave, anzi gravissima, per un altro fatto che nessuno ha considerato.

La dichiarazione viene infatti da un uomo che è stato - ed è - ai più alti vertici istituzionali dello Stato; ed è tuttora uno dei politici di maggior rilievo. Attenzione allora! Se un politico di questo calibro ammette che queste stragi sono state guidate da un'entità, diversa dallo Stato ovviamente, e anzi, ad esso contrapposta, sta dicendo un'altra cosa. Sta dicendo: signori, lo Stato non conta nulla, perché esiste un potere più forte, in grado di condizionare lo Stato. Noi politici non contiamo nulla, e siamo impotenti di fronte a questa entità. Anzi, siamo ad essa assoggettati.

E' quindi una dichiarazione di assoluta ed inaudita gravità.

Una dichiarazione che nessun anticomplottista prenderà mai in considerazione.

Una dichiarazione che i politici si guarderanno bene dal criticare, confermare e/o smentire, e sulle quali calerà il silenzio.

Punto terzo Le dichiarazioni di Veltroni sono gravissime per un altro ordine di motivi. Infatti ci sarebbe da domandare all'onorevole in quale momento della sua vita, esattamente, ha avuto questa intuizione geniale secondo cui i politici non contano un cazzo, e sono assoggettati a questa "entità".

LETTERA APERTA ALL’ONOREVOLE VELTRONI

A questo punto, se potessi scrivere una lettera all'onorevole Veltroni, sapendo che la prenderà in considerazione, ci sarebbero da fare queste altre domande:

1) Caro Veltroni, se se ne era accorto prima dell'esistenza di questa ENTITA', questo filo rosso che lega il delitto Moro con Ustica e Capaci, ma che lega in realtà tutte le stragi italiane, e insieme a lei se ne saranno accorti altri, come mai non avete mai detto queste cose prima?

2) Come mai avete lasciato che uomini dello Stato e delle istituzioni, politici, magistrati, poliziotti, carabinieri, agenti dei servizi segreti, giornalisti, avvocati, funzionari pubblici, semplici cittadini, fossero fatti morire di malori improvvisi, infarti, suicidi, impiccati, in incidenti, ecc., nella vostra indifferenza?

3) Se vi siete accorti da tempo che esiste un'entità al di sopra della politica e delle leggi, perché non ci spiegate cos'è quest'entità? Perché, vede onorevole, noi complottisti lo diciamo da tempo, ma a noi non crede quasi nessuno. Se magari lo spiega lei, la cosa avrebbe un'altra autorevolezza.

4) Lei è un politico, no? Come mai in campagna elettorale non avete mai accennato a queste vicende? Come mai in parlamento non discutete mai di questa Entità? Non le sembra assurdo discutere del crocifisso nelle aule, dell'opportunità di costruire o meno una moschea, e poi lasciare insoluto il problema delle migliaia di morti impiccati, in incidenti, in malori, che i "VOSTRI" servizi segreti si lasciano dietro da una vita?

Lo sa onorevole, che una volta ho fatto un rapido conto e sono migliaia le vittime di suicidi in ginocchio, incidenti in auto e aerei, infarto, gente che si spara alla testa oppure al cuore come il carabiniere di Viterbo che è morto a Santa Barbara pochi giorni fa (suicidio ovviamente... e chi ne dubiterebbe)?

Se fossi stato alla trasmissione, onorevole, le avrei fatto una semplice domanda: Onorevole Veltroni... quando pensa che finirà questa scia di sangue che fa, da decenni, più morti di quanti ne fa la mafia? Quanti morti ancora farete?

Conclusioni

La realtà è comunque diversa da come sembra. L'onorevole Veltroni, probabilmente non ha detto questo per amore della verità, né la trasmissione di Santoro aveva il fine di "informare" e approfondire.

La trasmissione, probabilmente, è un attacco ai servizi segreti. Un attacco frontale che prelude ad una guerra prossima ventura.

E il discorso di Veltroni era probabilmente un messaggio.

Resta da capire a chi è destinato questo messaggio e perché è stato dato. Noi complottisti, infatti, non crediamo più alla buona volontà dei politici di far venire fuori la verità. Anzi, personalmente, considerando Veltroni una delle persone maggiormente implicate con questa Entità di cui egli stesso ha parlato, credo che questa trasmissione di Santoro abbia dei destinatari, e sia un messaggio ben preciso.

Forse, ipotizzo, un messaggio trasversale ad alcune persone dei servizi, per fargli sapere che hanno mal operato.

Forse una ritorsione della Cia perché a seguito del sequestro Abu Omar, nel processo, sono state condannate solo persone della Cia e nessuno del Sismi.

Forse altro, chissà...

Una cosa invece è sicura: nei prossimi mesi, assisteremo ad altri incidenti, suicidi, morti di infarto, impiccati in ginocchio. Questa volta però saranno uomini dei servizi, dei carabinieri, della polizia, a cadere, perché sono i servizi segreti stessi ad essere sotto attacco.

La particolarità è inoltre che a cadere non saranno solo semplici agenti dei servizi, quelli che sono morti credendo comunque di fare un servizio per uno Stato che pensavano di servire; saranno probabilmente anche personaggi di spicco, vertici dei servizi che in qualcosa devono aver sbagliato per meritarsi un simile attacco frontale dalla trasmissione di Santoro.

In una guerra, che questa volta non è, come in passato, tra massonerie, tra mafie, né dell' ENTITA' contro lo Stato, ma dei servizi segreti contro altri settori dei servizi, o forse, della Cia contro i nostri servizi segreti.

Stralci delle dichiarazioni del memoriale Calcara

“…Una nobile Idea Madre…che racchiude al suo interno le cinque idee corrispondenti alle cinque entità…”. Le cinque entità a cui fa riferimento Calcara, sarebbero la già citata Cosa Nostra, la ‘Ndrangheta, e pezzi deviati di Istituzioni, Massoneria e Vaticano, quantificabili gli ultimi, in un dieci per cento dell’organico.

“Queste cinque Entità…”, prosegue il pentito, “… sono intimamente legate le une alle altre, come se fossero gli organi vitali di uno stesso corpo. Hanno gli stessi interessi. Prima di tutto, la loro sopravvivenza. E per sopravvivere e restare sempre potenti si aiutano l’una con l’altra usando qualsiasi mezzo, anche il più crudele… …Sono state e rappresentano tuttora una potenza economica incredibile, capace di condizionare in alcuni casi il potere politico italiano, anche quello rappresentato da persone pulite. Purtroppo si sono create delle situazioni tali che il potere politico italiano non può fare a meno di questi poteri occulti. Queste cinque Entità occulte si fondono soprattutto quando ci sono in gioco interessi finanziari ed economici condizionando così l’Italia a livello di politica e istituzioni…”

La porzione dei servizi deviati delle Istituzioni sarebbe radicata in tutto il territorio italiano e “…composta da uomini politici, servizi segreti, magistrati, giudici e sottufficiali dei carabinieri, polizia ed esercito. Le idee di Cosa Nostra e dei pezzi deviati delle Istituzioni sono da sempre collegate… Questa Entità ha in seno uomini di grandissima qualità, preparati, addestrati e pronti a causare danni enormi a chiunque. Questi uomini non sono secondi ai Soldati di Cosa Nostra e vengono chiamati Gladiatori.

Sono uomini riservatissimi e di grandissima importanza, in quanto hanno giurato di servire fedelmente lo Stato, ma in realtà il loro giuramento è assolutamente falso. Agli occhi dei loro colleghi puliti, che per fortuna sono in maggioranza, appaiono anche loro puliti e, con inganno, dimostrano lealtà verso le Istituzioni…Sono a tutti gli effetti uno Stato dentro lo Stato.”

La Massoneria viene definita “…anch'essa strettamente collegata all'Entità dei pezzi deviati delle Istituzioni… Questa Entità della Massoneria deviata, all'interno della Massoneria pulita, ha un grande potere ed enormi ricchezze e, per forza di cose, chi gestisce il potere in Italia deve venire a patti con la Massoneria…”