martedì 30 giugno 2009

Un oblio onorevole...

Continuano nel Parlamento italiota i velleitari quanto ridicoli tentativi di imbavagliare l'informazione online.

Qui di seguito si parla dell'ultimo dei suddetti, partorito questa volta dalla piccola mente di una cosiddetta onorevole, il cui nome è stato già da tempo gettato nella pattumiera dell'oblio.


Oblio di Stato
di Marco Travaglio - www.beppegrillo.it - 29 Giugno 2009

"Buongiorno a tutti, tenetevi forte perché devo darvi un paio di notizie piuttosto interessanti, la prima non è granché bella, la seconda è molto meglio.

Partiamo dalla brutta, è sempre meglio levarsi il dente, ma è brutta nel senso che è una minaccia, non nel senso che sia già operativo ciò che vi sto raccontando. C’è una proposta di legge che vaga alla Camera dei Deputati, credo sia appena approvata alla Commissione Giustizia della Camera, intitolata “nuove disposizioni per la tutela del diritto all’oblio su Internet in favore delle persone già sottoposte a indagini o imputate in un processo penale” è stata presentata da una Onorevole leghista Carolina Lussana, moglie di un deputato forzista che, guarda caso, è riconoscibile in queste definizioni, persone già sottoposte a indagini in processi penali, lui si chiama Galati, sta in Calabria, lei invece è una padana dura e pura o forse lo era, adesso è diventata dura e pura ma un po’ diversa da come eravamo abituati a conoscere i leghisti, quelli che nel 1992 urlavano via i ladri, via gli inquisiti etc., poi molti di loro furono inquisiti, non la Lussana peraltro, la quale però si preoccupa per quelli che invece lo sono, inquisiti è quelli che sono stati condannati e nel suo partito ce ne sono parecchi, è un partito che ha come segretario un pregiudicato per istigazione a delinquere, finanziamento illecito come Bossi o addirittura per resistenza a pubblico ufficiale come Maroni o addirittura per incendio come Borghezio, per non parlare di molti altri.

Bavaglio bis

Questa Lussana ha presentato il 20 maggio, quindi un mese e qualcosa in più fa una proposta di legge che è un ulteriore bavaglio in aggiunta al bavaglio che stanno preparando con la Legge Alfano che è in discussione alla Commissione giustizia del Senato invece, dopo essere già stata licenziata e approvata dalla Camera, quell’Alfano riguarda le intercettazioni e la possibilità di pubblicare notizie su indagini in corso e vieta naturalmente la pubblicazione degli atti, delle indagini in corso, ma anche delle intercettazioni, pena la galera per i giornalisti e una multa di oltre mezzo milione per ogni articolo per gli editori e vieta ai magistrati di fatto di fare le intercettazioni e di questo ci siamo occupati qualche settimana fa, adesso bisogna prepararsi perché la Legge Bavaglio sta per essere approvata anche dal Senato e se sarà approvata dal Senato senza modifiche rispetto al testo passato alla Camera, entrerà in vigore, a meno che Napolitano non si desti e non decida finalmente di rimandare indietro qualcosa, questa per esempio potrebbe essere una buona occasione… e questa dunque sta per arrivare, ma lo sappiamo, l’8 luglio al Circolo Alpheus a Roma Ostiense, la sera dalle 21 in avanti organizziamo con il nostro nuovo giornale - il Fatto quotidiano -, una notte bianca contro il bavaglio a cui parteciperanno giornalisti, magistrati, artisti, comici, Avvocati e spiegheremo e leggeremo molti di quegli atti che ci vogliono impedire di legge e faremo ascoltare anche alcune intercettazioni in originale, ci sarà da divertirsi, Alpheus 8 luglio dalle 21 a Roma Ostiense, comunque seguite sul blog voglio scendere e sul blog antefatto tutte le informazioni che vi daremo in questi giorni.

Il bavaglio bis è quello che invece è firmato dalla leghista Lussana e non riguarda le indagini in corso, riguarda le indagini e i processi che sono già fatti, certo perché bisogna pensare a tutto, con una legge ci vietano di raccontare quello che stanno scoprendo adesso i magistrati, tipo per esempio Puttanopoli, non potremo sapere niente di Puttanopoli, state attenti, se fosse già passata questa legge, invece quella della Lussana completa il quadro, ripulisce gli angoli della stalla, vieta anche di pubblicare notizie su indagini già chiuse, su condanne già emesse, su patteggiamenti già concordati, sia che le indagini e i processi si siano chiusi con il proscioglimento, con la prescrizione, sia che si siano conclusi con la condanna o con il patteggiamento, dopo un certo numero di anni, cosa fatta, capo A, nessuno può più scrivere nulla e chi si è visto si è visto, questa simpatica signora lo chiama il diritto all’oblio, anche perché il garante della privacy già più volte ha riconosciuto il diritto all’oblio e forse trattandosi di privati cittadini potrebbe essere accettabile che un cittadino, dopo qualche anno, se resta un privato cittadino, ha diritto all’oblio, ho i miei dubbi che questo diritto possa esserci, è vero che la gente cambia, ma è anche vero che certi vizietti magari uno non se li leva mai, uno che ha avuto una condanna per pedofilia e sono passati alcuni anni, ha il diritto a che non si sappia che lui ha avuto una condanna per pedofilia?

Non so, penso che abbiamo il diritto di saperlo sempre che questo signore ha avuto una condanna per pedofilia, perché speriamo che sia cambiato ma non si sa mai, ma questo riguarda i privati cittadini, qui invece il problema e lo si capisce bene dal testo della Signora Lussana anche se con alcune furbate cerca di far capire che invece con i personaggi pubblici ciò non vale, in realtà questa legge potrebbe andare a impedire o a dare noia ai siti Internet che vogliono occuparsi, tanto uno a caso, quello da cui stiamo trasmettendo, quello di Beppe Grillo oppure i nostri, quelli di chi si occupa appassionatamente di queste cose, di condanne, processi a carico di uomini politici, di uomini della pubblica Amministrazione, di imprenditori, di finanzieri, banchieri, di persone che hanno un ruolo pubblico e non privato e che quindi hanno delle responsabilità di fronte ai cittadini.

Comunque per evitare equivoci leggo, questa è la relazione che accompagna la proposta di legge 2455 della Signora Lussana “Onorevoli colleghi la presente proposta di legge è finalizzata a riconoscere ai cittadini, già sottoposti al processo penale, il cosiddetto diritto all’oblio, su Internet cioè la garanzia che decorso un certo lasso temporale le informazioni, immagini e i dati riguardanti i propri trascorsi giudiziari, non siano più direttamente attingibili da chiunque. Prima della nascita di Internet – qui si improvvisa storica – l’eco delle vicende giudiziarie di una persona imputata in un processo penale, finiva per esaurirsi in tempi accettabili - già, la gente si dimenticava, siamo il paese degli smemorati, siamo il paese dove i giornali invece di ricordare chi sono gli inquisiti che tornano etc., etc., stanno zitti, siamo il paese dove Dall'Urti viene intervistato come bibliofilo anziché come pregiudicato per false fatture, frode fiscale e condannato in primo grado per mafia, quindi quando non c’era Internet, era meraviglioso, bastava controllare la carta stampata o affidarsi alla smemoratezza della carta stampata, televisione sempre stata nelle mani dei partiti.

Questa rompic...o di Internet

Adesso c’è questo rompicazzo di Internet, questo sostiene anche senza scriverlo la povera Lussana e dice: "oggi invece qualsiasi fatto può essere destinato a restare perennemente in rete", questa è una tragedia veramente drammatica, la gente non riesce più a dimenticare, non si riesce più a far dimenticare le cose alla gente a causa di questo maledetto Internet.

"Oggi qualsiasi fatto può essere destinato a restare perennemente in rete, prima di una cancellazione o di una modifica da parte dei gestori del sito web, spesso anche a distanza di anni da una sentenza penale, molte informazione presenti su pagine Internet mai aggiornate o rimosse, continuano a proiettare un’immagine cristallizzata di una determinata vicenda giudiziaria, senza riflettere il più delle volte l’attuale modo di essere del soggetto coinvolto, il quale può avere saldato definitivamente il suo conto con la giustizia e essere completamente risocializzato, altre volte invece dati e immagini sono suscettibili di generare un’ingiusta e continua riproposizione di fatti, per i quali l’imputato è stato prosciolto", su questo naturalmente ha perfettamente ragione, se ci sono dei siti che riportano delle notizie vecchie già superate perché nel frattempo è cambiata la situazione, uno che sembrava essere inquisito poi è stato assolto, oppure uno che è stato condannato in primo grado è stato assolto in appello etc., c’è il diritto di rettifica e uno deve modificare quei siti, ci mancherebbe altro, ma questo non riguarda minimamente lo spirito della legge che invece, come vedremo si preoccupa di far togliere le cose vere dai siti, non le cose false o superate.

"Si pensi al caso di chi", e qui fa il caso pietoso di uno che è sottoposto al processo penale, "poi ne è uscito innocente. Il diritto all’oblio è stato riconosciuto dal garante e questo l’abbiamo detto, ma aggiunge la Lussana e qui casca l’asino, bisogna pensare per esempio a quei poveri imprenditori che si fanno pubblicità ingannevole, che vengono sanzionati dall’autorità antitrust e che poi si ritrovano nei siti dell’autorità antitrust, questa sentenza che li sanziona per la loro pubblicità ingannevole, allora il garante per la privacy che in Italia, soprattutto quando c’è qualche potente di mezzo gli dà sempre ragione, cosa ha fatto? Ha disposto, scrive la Lussana che sì il garante dell’antitrust possa continuare a pubblicare nel suo sito le sanzioni alle aziende che si fanno pubblicità ingannevole, ma purché quelle sentenze non siano liberamente consultabili, tecnicamente sottratte alla diretta individuabilità delle decisioni in esse contenute, nei comuni motori di ricerca queste sanzioni andrebbero occultate, perché? Perché altrimenti ci sarebbe un grave danno per l’azienda che si è fatta la pubblicità ingannevole, ma se l’azienda si è fatta pubblicità ingannevole, devo saperlo sempre, anche anni dopo, perché devo diffidare più dei prodotti di quell’azienda che non di altre che invece non sono mai state pizzicate, perché? Perché è una responsabilità pubblica quella che hanno le aziende, quando decidono di rivolgersi al pubblico con la pubblicità, invece la Lussana proprio a questi pensa quando vuole sottrarre la conoscenza delle persone, prolungata nel tempo sulle vicende, non in questo caso delle sanzioni delle autorità, ma invece delle sanzioni e dei procedimenti penali.

A maggior ragione dice: “deve essere osservata su Internet una certa cautela nel continuare a mantenere dopo anni dati e immagini legati a vicende giudiziarie ormai definite, ma capaci di generare ancora dolore o strazio nel diretto interessato, come pure nei suoi familiari” intanto mi preoccuperei del dolore, dello strazio delle vittime dei reati, anziché sempre e soltanto del dolore e dello strazio di quelli che i reati hanno commesso prima di tutto, perché qui non sta parlando di quelli che sono stati indagati e poi sono stati assolti, qui sta pensando ai condannati questa signora, sta pensando ai colpevoli, lo strazio che poi i leghisti vanno in piazza a difendere le vittime, noi stiamo con Abele contro Caino, questa è una legge fatta per difendere Caino contro Abele che non deve sapere chi sono i caini!

Infatti dice che mantenendo certe informazioni vere sulle condanne, sui processi a carico di certe persone, rischia di determinare un continuo pregiudizio alla vita lavorativa e affettiva del soggetto interessato, ma stiamo scherzando? Ma se uno è stato condannato per rapina io anche anni dopo lo devo sapere se quello che viene a chiedermi un lavoro è stato condannato per rapina oppure no, dopodiché prenderò le opportune informazioni, può darsi che mi dicano che questo signore è diventato un santo, quante volte è capitato che uno si converte, che qualcuno si pente, che qualcuno cambia vita, ma intanto lo devo sapere, non è che posso scoprire di avere assunto un rapinatore senza averlo saputo, mi sembra ovvio!

Qui sentite cosa dice questa tizia “si pensi al caso, di chi avendo patteggiato una pena al di sotto di 2 anni di reclusione e essendo decorsi i 5 anni che fanno scattare l’estinzione del reato – sapete che se uno patteggia una pena sotto i 2 anni, dopo 5 anni se non viene beccato altre volte, non se non fa altri reati, perché se fa altri reati e non viene beccato non cambia niente, se fa altri reati e se viene beccato allora l’estinzione del reato in 5 anni gliela tolgono quella per il precedente, se invece uno per 5 anni non viene preso, allora ha il diritto alla riabilitazione, ma questo non c’entra niente con il diritto dei cittadini a sapere cosa aveva patteggiato e perché e questa dice – avrebbe diritto a che non si sapesse più che aveva patteggiato, se aveva patteggiato meno di 2 anni, una modica quantità di patteggiamento per uso personale, come per le droghe, invece continua a essere assoggettato alla gogna mediatica nel tempo per la presenza su Internet di informazioni vere, relative al suo patteggiamento” quindi dice la Signora Lussana “ha il diritto di rifarsi una vita e a uscire definitivamente da Internet” perché mai? Dove è scritto che uno ha diritto a uscire definitivamente da Internet? Se la notizia è di interesse pubblico, la notizia deve continuare a circolare, purché sia vera, ha patteggiato, poi ha patteggiato lui, non è che qualcuno gli ha tirato in testa una tegola, è lui che ha patteggiato la pena, per quale motivo dovrebbe avere il diritto di uscire fuori da Internet, fa parte integrante della sua biografia, un patteggiamento che ha fatto lui con l’autorità giudiziaria, non voleva patteggiare? Non patteggi.

Lo stesso diritto all’oblio naturalmente vale per esempio per un soggetto che ormai dopo aver scontato la pena, risulti riabilitato ai sensi dell’articolo etc., etc. del Codice Penale, prima parlava dell’estinzione del reato, adesso parla dell’istituto della riabilitazione che può arrivare su richiesta dopo un certo numero di anni quando uno ha rigato diritto oppure non è stato più beccato a fare altre cose.

"Ma - sentite qua - ancora più evidente la contraddizione sarebbe nel caso in cui il condannato pur avendo beneficiato della non menzione della condanna del suo certificato del casellario giudiziale", venga invece nominato con la vicenda che lo riguarda su Internet anche anni dopo, ma la non menzione riguarda la fedina penale, ci sono delle condanne per reati non gravi o per pene lievi che non vengono menzionate nel certificato penale, nel casellario giudiziale, benissimo, è un fatto tecnico che riguarda il processo, se poi la notizia che quello è stato condannato è di interesse pubblico, deve uscire sui giornali lo stesso e su Internet lo stesso e ci deve rimanere finché è di interesse pubblico, non si capisce per quale motivo non dovrebbe rimanerci.

Naturalmente la tipa dice che si tratta ovviamente di assicurare un delicato bilanciamento, quando si parla di bilanciamento preoccupatevi, mettetevi le mutande di ghisa e mettete mano alla pistola, perché quando parlano di bilanciamento, stanno introducendo dei criteri discrezionali per cui poi la bilancia dipende da chi la tiene in mano, c’è qualcuno che il bilanciamento lo vede un po’ più da questa parte, un po’ più da quell’altra e quindi entriamo in una discrezionalità per cui ogni volta che qualcuno scrive qualcosa di scomodo, viene denunciato e poi c’è un giudice che decide il bilanciamento e a seconda di com’è fatta la bilancia di quel giudice, tu che magari hai fatto semplicemente il tuo dovere di raccontare un fatto o di criticare una persona, finisci sotto il piatto di una bilancia perché magari era squilibrata nelle mani di quel giudice, quando non è chiaro quello che puoi fare o non puoi fare, a quel punto diventa la giungla e naturalmente qui sono i condannati che si rivalgono sull’informazione, non so se mi spiego!

Notizie in prescrizione

Parla bene la Lussana perché a questo punto parlando di bilanciamento dice: certo, bisogna garantire comunque il bilanciamento con il diritto all’informazione che deve essere assicurato anche a una certa distanza temporale, ma non dice quale, quando si tratti di fatti particolarmente gravi o di informazioni ritenute essenziali perché inerenti a persone che ricoprono o hanno rivestito importanti ruoli pubblici e se hanno ricoperto ruoli pubblici meno importanti? E chi lo decide quali sono quelli molto importanti? E’ tutto vago, tutto fatto apposta per mettere sotto scopa l’informazione in questo caso via Internet.

Dopodiché dice: è bene però intervenire fissando alcuni limiti invalicabili, allora qui dopo aver parlato bene, razzola male perché il bilanciamento poi alla fine lascia il tempo che trova in quanto abbiamo i limiti invalicabili, allora comincia a spiegare che bisogna tutelare l’identità di chiunque abbia espiato la pena, al fine di non pregiudicarne il reinserimento sociale, Art. 1, diritto all’oblio e qui rispiega tutto il fatto che dopo un certo numero di anni, anche il condannato, l’arrestato, il patteggiato etc. hanno diritto a non essere più menzionati, poi nel comma 2 dell’Art. 1 si elencano le scadenze dopo le quali non si può più scrivere di una condanna, adesso poi quando arriviamo al testo della legge ve le dico, ma qui si sta parlando di gente che ha avuto un’archiviazione o un non luogo a procedere o un proscioglimento o una prescrizione, tutte notizie che noi non potremo più dare dopo un anno, al massimo dopo due anni, pensate uno che ha avuto una prescrizione con una sentenza che dice che era colpevole, ma l’ha fatta franca, perché il reato è estinto per prescrizione, noi dopo due anni non possiamo più dirlo, ma è una cosa folle ovviamente, secondo noi che facciamo informazione e dal vostro che avete diritto da averla, da parte di chi la fa franca per prescrizione, l’idea che dopo un anno o due, nessuno possa più dire che ha avuto una prescrizione è molto utile, perché? Perché non gli toccherà più neanche convincere la gente che prescrizione e assoluzione sono la stessa cosa, come gli tocca fare oggi (vedi Andreotti, Berlusconi, D’Alema).
Va in prescrizione la notizia sulla prescrizione dopo un anno o due anni, non so se mi spiego, quindi non dovranno più giustificarsi!

Dopodiché dice la Lussana all’Art. 2 si prevede addirittura le sanzioni, multe, per chi non ottempera all’ordine di rimozione dai motori di ricerca o di cancellazione dei dati delle immagini e delle informazioni dai siti web sorgente, infatti negli articoli successivi è normato il risarcimento del danno che Internet arrecherebbe a queste bravissime persone, bontà sua la Lussana dice: bisogna mantenere un qualche luogo dove tenere le notizie per finalità di ricerca storica, ma tutto ciò deve essere sottratto alla libera consultazione perché? Perché altrimenti ci finisce chiunque su questi siti, invece no, bisogna che ci vadano solo i ricercatori storici, quelli che fanno quei libroni così spessi che non compra nessuno, quindi nessuno legge.

Poi ritorna con queste notizie sull’oggettivo e rilevante interesse pubblico, che sono affidate al bilanciamento e nessuno sa mai, ogni volta che scrive, se un giudice poi riterrà che quello che lui sta scrivendo, oltre a essere vero, è anche di rilevante interesse pubblico.

Oblio, ma solo per il Parlamento

Il diritto all’oblio non vale, secondo la Lussana, per i condannati all’ergastolo, per genocidio, per terrorismo internazionale, o per strage, per quelli possiamo ancora raccontarla… perché? Perché in Parlamento ancora gente che abbia commesso genocidi, atti di terrorismo internazionale o strage non ne abbiamo e quindi stanno tranquilli da quel punto… hanno escluso i pochi reati che non sono rappresentati in Parlamento in questo momento e poi sempre in quella storia del bilanciamento dice: è chi ha esercitato cariche pubbliche anche elettive, abbiamo diritto a sapere le condanne che hanno avuto, ma solo in caso di condanna per reati commessi nell’esercizio delle proprie funzioni, allorché sussista un meritevole interesse pubblico alla conoscenza dei fatti, si mettono dei limiti persino quando il funzionario pubblico ha commesso reati nell’esercizio delle sue funzioni, anche lì bisogna vedere se c’è o non c’è l’interesse pubblico, si apre cioè alla discrezionalità e qualcuno potrà essere condannato, addirittura a risarcire magari un dirigente pubblico che prendeva le mazzette o che abusava del suo potere per mettersi in tasca i soldi o cose di questo genere, perché? Perché bisogna sempre vedere quel famoso bilanciamento, non basta che la notizia sia vera, bisogna anche inserire altri rischi per chi fa informazione, in modo che siano tutti più prudenti e più intimoriti.

La cosa strepitosa è che se invece una figura pubblica commette un reato fuori dall’esercizio delle sue funzioni, non se ne può più parlare e indovinate un po’ Berlusconi per cosa viene processato? Berlusconi non viene processato, da anni ormai, quasi mai per reati commessi nell’esercizio delle sue funzioni, anzi per quelli, tipo i voli di Stato, tipo il caso della Saintjust con l’accusa di avere mobbizzato l’ex marito dell’annunciatrice con cui lui aveva una relazione, tipo il caso Saccà dove lui era accusato di avere fatto mercimonio di posti e di ruoli a RAI fiction per sistemare le sue ragazze con l’allora direttore di RAI fiction, l’inchiesta sulla compravendita dei senatori, con l’accusa di avere tentato di corromperne alcuni perché passassero dal centro-sinistra al centro-destra, tutte queste indagini che configuravano un abuso dei suoi poteri nell’esercizio delle sue funzioni, sono state già archiviate e quindi i processi che rimangono, il processo Mills, il processo sui diritti Mediaset, sono tutti processi che riguardano Berlusconi come privato cittadino, come privato imprenditore, non come pubblico funzionario o incaricato di pubblico servizio.

Sono i reati che sono coperti dal lodo Alfano, quelli estranei all’esercizio delle funzioni pubbliche, perché? Perché per l’esercizio delle funzioni di Premier il lodo Alfano non copre le 5 alte cariche dello Stato. Proprio per i reati che non sono commessi nell’esercizio delle funzioni pubbliche, c’è il diritto all’oblio e quindi i motori di ricerca, stando a quello che ci spiega la Lussana non potranno e neanche i siti, neanche i blog, più parlare dei processi e delle eventuali conclusioni delle indagini a carico di Berlusconi, dopo 3 anni dalla sentenza irrevocabile per la condanna per una contravvenzione, per un reato minore, dopo 5 anni dalla sentenza irrevocabile di condanna per un delitto, se la pena inflitta è inferiore ai 5 anni di reclusione, quindi il 95% delle pene in Italia è inferiore a 5 anni.

Quindi praticamente dopo 5 anni dall’irrogazione di una pena inferiore ai 5 anni noi non potremo più leggere nulla non solo sui giornali, ma neanche su Internet e poi si va avanti con delle altre scadenze assolutamente più lunghe ma che riguardano reati di una gravità tale che non sono quelli comunemente commessi dalle classi dirigenti, non perché non siano gravi, ma perché di solito le pene con cui sono puniti sono molto basse.

Questo è quello che vi volevo dire, stiamo attenti perché dopo avere ingurgitato il bavaglio per le indagini in corso, ci toccherà ingoiare anche il bavaglio per quelle già fatte e così il paese passerà dall’anestesia locale all’anestesia totale eterna. Contro i bavagli ci troviamo l’8 luglio, mercoledì alle 21 all’Alpheus a Roma Ostiense, a questo punto vi devo dare la buona notizia, la buona notizia è che il nostro giornale “Il fatto quotidiano” che partirà a metà settembre, avrà da domani il suo sito che non è soltanto utilizzabile per abbonarsi, cosa che vi invito a fare anche perché dalla fine di questa settimana avremo anche la possibilità di abbonarci con la carta di credito tramite Internet quindi anzi neanche muoversi di casa, lo dico soprattutto a quei 40 mila che si sono prenotati per l’abbonamento, non basta prenotarsi perché adesso bisogna anche fare l’abbonamento con il versamento, non siamo certo noi che possiamo abbonarvi contro la vostra volontà, quindi dalla prenotazione bisogna passare all’abbonamento e se lo fate entro il 31 luglio c’è questo forte sconto di quasi il 50% sul prezzo del giornale.

Sul nostro sito antefatto.it da domani ci saranno anche le prime notizie e i primi commenti del Direttore Padellaro miei, ho lasciato anzi oggi “L’Unità” e quindi proseguirò proprio sul sito antefatto con la mia rubrica quotidiana che prima usciva su “L’Unità” con il titolo di Zorro e che adesso si chiamerà in un altro modo, vedrete domani come si chiamerà e avremo commenti e notizie che ci accompagneranno tutta l’estate e che daranno così un antipasto rispetto a quello che poi sarà il sito ufficiale on line che partirà anche esso a fine settembre e il giornale di carta che si chiamerà anch'esso “Il fatto quotidiano” è un’estate calda, non soltanto dal punto di vista meteorologico, ma soprattutto dal punto di vista politico e quindi pensiamo che sia giusto essere presenti subito con uno strumento quotidiano di dialogo, comunicazione e informazione nei confronti dei lettori, antefatto.it da domani e intanto abbonatevi, grazie e passate parola!"


L'informazione online vince sull'oblio
di Cinzia Frassi - Altrenotizie - 29 Giugno 2009

Uno dei bocconi più amari dell’informazione nell’era del web è indubbiamente la diffamazione e la conseguente diffusione esponenziale di contenuti attraverso la pubblicazione in pagine web. La rete, infatti, è un mare dove siti personali e blog sono liberi di spaziare, pubblicare immagini e filmati, creare informazione indipendente, aggregare gli utenti. E pensare che alcuni ancora stanno a discutere sul futuro della carta stampata. Una vicenda sicuramente in tema, che si è conclusa da poco, è quella che ha visto il giornalista, ex direttore de La Padania, Luigi Moncalvo, querelare per diffamazione il blogger Mirko Morini. Morini é stato assolto, per fortuna. La vicenda risale ad alcuni anni fa. Era il 27 giugno 2005 quando il blogger muoveva critiche al limite della satira dalle pagine del suo blog ai danni di Moncalvo. Nell’articolo il blogger riporta con satira pungente il passaggio, se così si può chiamare, del giornalista dalla direzione de La Padania a dirigente televisivo in Rai.

A dirla tutta, come fece il titolare del blog, il giornalista sarebbe stato silurato dal compagno di partito e ora ministro dell’Interno, On. Maroni, a causa di un articolo particolarmente sgradito (a quanto pare) apparso sul quotidiano verde-pianura del nord. Dalla poltrona del quotidiano della Lega Nord, ll giornalista Moncalvo sarebbe così balzato su una poltrona Rai.

Quello che tuttavia è interessante riportare della vicenda - terminata il 5 giugno scorso con il deposito delle motivazioni della sentenza da parte del giudice del Tribunale di Ferrara - sono alcuni spunti di riflessione interessanti. Prima fra tutte la questione dell’effetto diffamatorio: una notizia, un articolo, un video, conoscono con la rete un effetto diffusivo capillare e rapidissimo senza la necessità di investimenti importanti. Chiunque sia dotato di un minimo di cultura informatica e di una connessione ad internet, é potenzialmente e formalmente allo stesso livello in termini di possibilità di raggiungere il pubblico di quanto non sia un quotidiano on line. Da questo punto di vista il contenuto sostanziale del diritto all’informazione, cardine definitivo della democrazia moderna, ha dalla sua uno strumento unico e irripetibile: il web.

Non solo. E’ assolutamente remota la possibilità che un server venga sequestrato e una pagina web oscurata se lo stesso venisse collocato entro in confini di uno stato estero che non avesse con il nostro paese alcun accordo per il perseguimento di reati informatici. E’ in sostanza in questo modo che gli utenti che si trovano in stati totalitari riescono a comunicare con il resto del mondo. Detto questo, va da sé che la questione del perseguimento dei comportamenti diffamatori si muove in fattispecie talmente complicate da diventare lettera morta.

Un altro punto che riempie ulteriormente il contenuto del diritto all’informazione, è sicuramente l’art. 21 della Costituzione, declinato con le opportunità che abbiamo detto. Nel 1947 infatti, la libertà di informazione era un diritto nelle mani di chi controllava stampa e quotidiani: da privilegio di pochi si cercò di renderlo una opportunità per molti.

Inoltre, va da se che la rete ha tutt’altro che la memoria corta. Un articolo che riporta una vicenda giudiziaria di un personaggio politico o altro non viene mai dimenticato né eliminato, restando come una nota indelebile sulla sua reputazione per un tempo indefinibile. La rete non dimentica nulla e tutto resta pubblicato. I motori di ricerca fanno il resto: nell’immenso mare di contenuti e informazioni rendono disponibile una pagina scovandola in pochi secondi. I mezzi d’informazione tradizionali non creavano situazioni di questo tipo. Questa potenzialità, come altre caratteristiche tipiche del web, hanno portato nuovi problemi legislativi da affrontare e non solo in termini di fattispecie applicabile, come per la diffamazione, ma soprattutto per quanto riguarda la possibilità di repressione.

Tra i molti disegni di legge che si susseguono a minacciare la blogosfera, in questi giorni spunta una proposta dell’Onorevole Carolina Lussana, che intende portare alla ribalta il diritto all’oblio. Tale provvedimento vorrebbe rendere applicabile alla rete quel diritto che era così facile si realizzasse da sé, nella realtà dei vecchi mezzi d’informazione. Pensiamo al caso appena riportato che ha riguardato il giornalista Luigi Moncalvo. Oggi, domani e fra cent’anni quella vicenda rimarrà lì pubblicata, nonostante sia una faccenda chiusa per entrambi, per il blogger Mirko Morini come per il giornalista. Bene, la proposta vorrebbe riuscire a normare il diritto all’oblio nell’illusione di riuscire a gestire internet come uno dei vecchi mezzi d’informazione: è evidentemente impossibile.

Per arginare lo spazio illimitato del web e la sua memoria di elefante, l’Onorevole Lussana ha pensato di introdurre l’obbligo di modificare le informazioni già pubblicate. Nella vicenda riportata, in sostanza, il blogger dovrebbe rendere indisponibile il contenuto pubblicato, nonostante non lo imponga la sentenza che invece lo vede assolto dall’accusa di diffamazione.

Per fortuna, questo ed altri rudimentali disegni di legge sono destinati a naufragare nel mare della rete, perché assolutamente non adatti ad intervenire in una realtà non comprimibile. Del resto, se i padri costituenti avessero saputo che nel tempo sarebbe stata la rete a rendere effettivo il contenuto sostanziale di alcuni tra i più importanti diritti sanciti in essa come la libertà d’informazione e di manifestazione del pensiero, avrebbero ampliato e non ridotto i termini dell’art. 21 della Carta. Questi diritti, come altre prerogative (come il diritto alla memoria storica) sono oggi più di ieri alla portata di tutti gli utenti.

Iraq: gli USA si ritirano dalle città, la resistenza rimane

Nel cosiddetto "giorno della sovranità nazionale", per via del ritiro delle truppe statunitensi da tutti i centri abitati iracheni dopo più di sei anni di occupazione militare, quattro soldati USA sono morti in uno scontro a fuoco a Baghdad.

E infatti il portavoce dell'Esercito islamico in Iraq, Ibrahim al-Sharmi, ha dichiarato alla tv Al Jazeera che "la resistenza contro le truppe americane continuerà fino a quando non lasceranno completamente il Paese".

Poichè il ritiro totale delle truppe USA è previsto entro il 2011, sono altresì prevedibili ulteriori due anni di guerra. Come minimo.


"Baghdad celebra la festa di liberazione"
di Michele Farina - Il Corriere della Sera - 29 Giugno 2009
Ha collaborato Walid al Iraqi

Su Fort Alamo sventola una striminzita bandiera irachena. “Gli americani se ne sono andati due giorni fa”, dice distrattamente il giovane gommista al lato della strada. Sabah sorride e riparte al volante della sua auto che è un forno a quattro ruote. All'ombra 48 gradi, l'aria condizionata fuoriuso per la tempesta di sabbia che avvolge la città. Entriamo a Ghazaliya. Ancora un anno fa era uno dei luoghi più infernali e remoti di Baghdad. Grandi case marroni di 300 metri quadri che Saddam Hussein dava ai suoi ufficiali. Lungo questa strada che corre non lontano da quella per l'aeroporto, un giorno di normale guerra civile nel 2007, i miliziani sunniti appesero il cadavere di una donna sciita a un lampione. Ci rimase una settimana, senza che nessuno avesse il coraggio di tirarla giù. Un vicino, un poliziotto, nessuno. Neanche le ambulanze venivano più a Ghazaliya. E se ci venivano era solo per la raccolta differenziata dei morti: feriti e moribondi li lasciavano lì, per paura di rappresaglie da parte degli assassini appostati intorno. Adesso la polizia pattuglia le strade. E anche l'esercito.

Mamme con bambini, negozi aperti. Questa strada non è più un campo di battaglia: a sinistra i sunniti di Ghazaliya, a destra gli sciiti di Shula. “Da martedì centoventimila uomini iracheni proteggeranno Baghdad”, ha detto ieri sera il telegiornale di al Iraqiya. Domani è il giorno del ritiro americano dai centri abitati: “il giorno della vittoria” ripete lo spot della tv di Stato che condensa gli ultimi 6 anni in 30 secondi (lasciando fuori gli americani): le scarpe degli iracheni sulle statue abbattute di Saddam, le dita inchiostrate degli elettori alle urne nel 2005, facce di anziani con la kefiah, donne alla macchina per cucire.

La conta dei tre anni peggiori, dal 2005 al 2008, passa veloce senza un'immagine. E poi la chiusa con il conto alla rovescia per il 30 di giugno. “Giorno della vittoria che andrebbe salutato con festival e celebrazioni”, ha detto il premier Nuri al Maliki. Vittoria di chi? “Di noi iracheni”, dice con calma Sabah. Vuol dire che gli americani hanno perso? “No, solo che gli americani se ne vanno e noi vivremo in pace”.

Sciita, 60 anni, ex autista sui pulmini della Iraqi Airways, al tempo della Guerra del Golfo, Sabah fu la guida del famoso giornalista della CNN Peter Arnett (“a quel tempo non ho mai pensato che Saddam potesse cadere”). Più tardi ha trasportato Jon Lee Anderson del New Yorker, che ne ha fatto un personaggio della sua splendida "Caduta di Baghdad". Al crollo del regime andò con lui a Sadr City, la fogna-gogna abitata da un milione di sciiti vittime speciali di Saddam: “Ce la siamo vista brutta, la folla e tutti quei religiosi per la strada — dice Sabah —. Ho pensato: saranno questi a governarci?”.

Lui dice di non essere antiamericano, “però credo che via loro le cose andranno meglio. L'Iraq si scrolla di dosso un peso. La loro presenza è la nostra umiliazione, il segno che non possiamo farcela da soli”.

Oltre 4 mila ragazzi americani sono morti qui … “E anche 100 mila civili iracheni. Gli umiliati non sono mai riconoscenti. Come si fa a vivere sempre con gli estranei in casa?”. Si ritirano dai centri urbani ma almeno per un po' non se ne andranno: gli stessi 130 mila militari resteranno nelle basi intorno alle città...

“A settembre dicono che cominceranno a smobilitare”. E l'anno prossimo via tutti? “Obama mi sembra migliore di Bush. Manterrà le promesse”. Mentre parliamo una pattuglia con tre pickup sbuca dalla nebbia di sabbia e sfila al nostro fianco su una strada parallela. I soldati urlano. Un ragazzino con la divisa azzurra senza l'elmetto ci punta la mitragliatrice. Sabah inchioda. Al suo fianco Walid scrolla le spalle: “Normali”, dice l'angelo custode del Corriere storpiando l'italiano. Normale: al successivo posto di blocco si capisce la tensione. Un'ora fa un'autobomba è saltata in aria vicino al parcheggio della polizia. Quattro feriti civili, strada chiusa.

L'ex avamposto americano si intravede là in fondo, oltre una cinta di blocchi di cemento. A chiamarlo Alamo, come il forte sotto assedio dove morì David Crockett, ci hanno pensato i 105 soldati del 12° Cavalleria che arrivarono qui nel gennaio 2008. Le “cavie” del generale Petraeus e del suo piano per ribaltare le sorti di una guerra ormai persa: il surge, l'aumento di truppe, sparpagliate in piccole “basi di quartiere” miste, americani e iracheni insieme. Obiettivo: “riconquistare” il territorio, addestrare sul campo le unità locali, e riportare sicurezza nelle strade dove la mattanza tra sunniti e sciiti faceva cento vittime civili al giorno.

Alamo ha resistito. La rete dei “fortini di quartiere” è stata una delle chiavi per la lenta “riconquista” e il (quasi) ritorno alla vita di Baghdad. Ora questi avamposti da una sponda all'altra del Tigri, l'Ovest sunnita e l'Est sciita, passano alle forze di sicurezza irachene. La strada che costeggia Sadr City è trafficata. Code. Molti checkpoint. Agenti con i passamontagna contro la tempesta. Un carretto con l'asino tiene dietro una fila di auto.

Sul muro della piccola base ribattezzata Comanche una mano irachena ha scritto una parola in inglese: “Move”. Andatevene. I comandi Usa avevano chiesto di poterla tenere perché da lì in passato i miliziani sciiti lanciavano attacchi con razzi e mortai sulla Green Zone, la città blindata dove hanno sede ambasciate e palazzi del governo. Il premier Maliki ha detto no.

Una manciata di avamposti resteranno comunque sotto il controllo americano (due nella Green Zone, con carri armati davanti alla ambasciata Usa), come gli elicotteri Apache e Black Hawk resteranno padroni del cielo. Alcune basi all'interno dei perimetri cittadini, da Baghdad a Ba’aquba, sono state dichiarate “rurali” e quindi non passano di mano. Trucchi condivisi. Il governo celebra “il giorno della vittoria” dichiarando il 30 giugno festa nazionale, gli americani stanno al gioco.

Qualche giorno fa, a una conferenza stampa congiunta, il portavoce governativo Ali Dabbagh è arrivato con il comandante Usa Ray Odierno con due ore di ritardo e ha detto ai giornalisti: “Scusate, il generale non aveva il badge e abbiamo dovuto perquisirlo molto”. Scherzi della vittoria, vigilia di paura. La settimana scorsa 250 iracheni hanno perso la vita in attentati. “Al Qaeda in Iraq” vuole rovinare la festa a Maliki. Gli americani si tengono pronti a intervenire su richiesta degli iracheni, chiusi nella base dorata di Camp Victory nei pressi dell'aeroporto.

Chiusi a decine di migliaia nella zona da cui partirono alla conquista del centro, nei primi giorni di aprile 2003, con una corsa spavalda di carri armati denominata in codice “Thunder Run”. Il ritiro è stato più lento, meno tonante: molti traslochi sono avvenuti di notte. Come tutti gli spostamenti e i rifornimenti delle unità Usa, ordine del generale Odierno: diventare invisibili.

Nei giorni scorsi, secondo quanto riportava ieri il Washington Post, il comandante ha inviato una circolare ai suoi ufficiali in cui si consiglia un minor uso di mezzi supercorazzati a prova di mina, i MRAP, sicuri quanto ingombranti, in favore dei vecchi discreti e mortali gipponi Humvee, corazzati ma non troppo.

Il portavoce del comando Usa ieri ha dovuto smentire la notizia: “La truppa era pronta a ribellarsi, c’era molto malumore”, commenta un civile americano dalla Green Zone.

Girando Baghdad in auto per ore nemmeno l'ombra di un convoglio Usa. L'operazione invisibilità è già cominciata. Nel Palazzo sull'Acqua di Camp Victory i generali incrociano le dita. Chi è di passaggio non manca di farsi fotografare sulla sedia di Saddam, dono di Yasser Arafat, con i Luoghi Santi di Gerusalemme sullo schienale.

Walid, che ci è stato di recente, dice però che la cosa che l'ha colpito sono i pesci nel lago: rossi, azzurri, verdi, grandissimi, e molto visibili, sempre quelli: gli stessi pesci di Saddam.



La South Oil Company contro i contratti alle compagnie petrolifere straniere
di Ornella Sangiovanni - www.osservatorioiraq.it - 29 Giugno 2009

Mentre ormai mancano poche ore all’annuncio dei nomi delle compagnie petrolifere internazionali che si sono aggiudicate i contratti del primo round di gare d’appalto, continuano i segnali che indicano che non andrà tutto liscio.

Perché adesso, all’opposizione dei sindacati del settore, si è aggiunta nientemeno che quella della South Oil Company (SOC) – la compagnia di Stato irachena che gestisce i giacimenti del sud – dove è concentrato il grosso della ricchezza petrolifera del Paese.

Oggi il suo Direttore Generale, Fayadh al Nema, ha consegnato un rapporto dettagliato al Parlamento, chiedendo di respingere il secondo round di gare d’appalto, a cui il governo di Baghdad si appresta a metter mano una volta completata la prima tranche.

Fonte della notizia – riferita dall’agenzia di stampa indipendente irachena Aswat al Iraq, è Nureddin al-Hayiali, un deputato che fa parte della Commissione parlamentare Petrolio e Gas.

Secondo Hayiali, il Direttore Generale della SOC ritiene “che le licenze distruggano il lavoro delle compagnie petrolifere irachene, compresa la sua”. Nema, a detta del deputato, sostiene che assegnare contratti alle compagnie petrolifere straniere non fa gli interessi del popolo iracheno, “dato che essi riguardano giacimenti attualmente in produzione”.

Lettera a Shahristani

L’opposizione del dirigente petrolifero iracheno all’ingresso delle compagnie straniere attraverso le gare d’appalto decise dal governo di Baghdad non è nuova.

Il 10 giugno scorso, in una lettera indirizzata al ministro del Petrolio, Hussein al Shahristani, Nema aveva espresso e motivato la sua contrarietà. Era stato uno degli elementi che aveva portato il Parlamento a convocare il ministro, perché illustrasse i benefici della sua strategia, e fornisse chiarimenti.

Nella seduta speciale dedicata alla questione, pochi giorni fa, Shahiristani aveva difeso le sue scelte, ribadendo la volontà del governo di andare avanti con l’assegnazione dei contratti – ma il Direttore Generale della SOC si era fatto sentire. Argomentando che gli investimenti stranieri nel settore petrolifero iracheno vanno bene – ma solo per i giacimenti non ancora in produzione e per quelli non ancora scoperti.

La North Oil Company: per noi va bene

Nessun problema invece dalla North Oil Company (NOC), la compagnia di Stato che gestisce i giacimenti del nord.

Manaa Abdullah al-Obaidi, il suo direttore, un paio di giorni fa ha detto che la compagnia ha partecipato a tutte le fasi dello studio e della preparazione dei contratti che stanno per essere assegnati, assieme al ministero del Petrolio, e che è d’accordo con il fatto che vadano a compagnie straniere.

“La NOC è affiliata al ministero del Petrolio, e non può andare contro la sua volontà”, aveva commentato il dirigente iracheno.

Nema invece – evidentemente - la pensa in modo assai diverso, e, secondo Hayiali, i parlamentari erano d’accordo con la sua proposta, “e hanno chiesto che sia approvata una legge prima che i contratti vengano firmati”.

Tutti elementi che fanno pensare che il percorso sarà accidentato.

Iran: Ahmadinejad in sella più che mai

Cinque dei nove addetti iraniani all'ambasciata britannica di Teheran arrestati ieri, con l'accusa di coinvolgimento nei disordini di questi giorni per le strade di Teheran, sono stati rilasciati.

Intanto il presidente Ahmadinejad ha chiesto un'inchiesta sulla morte dell'ormai "famosa" Neda, la ragazza uccisa durante una delle prime manifestazioni di protesta e divenuta un simbolo per i sostenitori di Mousavi e i media mainstream mondiali.

Ahmadinejad, in una lettera al capo dell'apparato giudiziario l'Ayatollah Mahmoud Hashemi Shahroudi, scrive "Considerate la tante notizie inventate su questo episodio straziante e la diffusa propaganda da parte dei media stranieri, sembra che ci sia una chiara interferenza da parte dei nemici dell'Iran, che vogliono sfruttare la situazione politicamente e macchiare l'immagine pulita della repubblica islamica. Perciò le chiedo di ordinare alle autorità giudizarie di indagare sull'uccisione di questa donna con la massima serietà e di identificare e perseguire gli elementi responsabili''.

Il Consiglio dei Guardiani ha intanto confermato la vittoria di Ahmadinejad nelle elezioni del 12 giugno dopo il riconteggio a campione di tre delle trenta province in cui si è votato. Ma in 22 distretti elettorali di Teheran e in altre province dell'Iran è partito un nuovo spoglio su un campione casuale del 10% del totale delle schede e le operazioni si dovrebbero concludere entro oggi.

E mentre il G8, stando a quanto ha preannunciato Berlusconi, potrebbe prendere la strada delle sanzioni internazionali contro Teheran, va comunque sottolineato che il regime iraniano ha resistito a queste circa 3 settimane di fuoco e il presidente Ahmadinejad è in sella più che mai.


Le rivoluzioni color merda
di Giovanni Petrosillo - http://ripensaremarx.splinder.com/ - 28 Giugno 2009

Vi propongo questo articolo dell’analista politico Thierry Meyssan che ho tradotto dal francese. Si tratta della lunga parabola delle rivoluzioni colorate, a partire da quella cinese del 1989, finita nel bagno di sangue di Tien An Men, fino al tentativo, fallito anch’esso, di capovolgere il presidente Ahmadinejad, rieletto a furor di popolo, con quasi 11 milioni di voti di scarto rispetto al suo avversario, nelle ultime elezioni iraniane. Un pezzo di rara saggezza e di meticolosa ricostruzione storica che ha la forza di uno pugno intellettuale sferrato nei denti di chi, soprattutto a sinistra, si è stracciato le vesti e si è commosso di fronte alla reazione violenta (ma poteva esserlo di più) dei poteri costituiti iraniani, rei di non essersi inginocchiati al cospetto dei principi della santissima democrazia (occidentale) e a quelli, ancor più pretestuosi, dei diritti umani. Tra i neoservi s’iscrive, con un brano farneticante e illogico (almeno rispetto alla sua precedente produzione teorica) - che non ci risparmia nemmeno l’uso di un linguaggio conformista e spocchioso, per quanto appena più sottile - anche Slavoj Zizek, del quale ho spesso, incautamente, perorato le teorie dalle pagine virtuali di questo blog.

Il filosofo sloveno, che passa per essere un intenditore del pensiero di Marx e di Lenin, finisce nella rete mediatica ordita dal circuito manipolatore filo-statunitense come il più sguarnito (di armi critiche) uomo della strada, di colui che affolla quell’“astrazione indeterminata” comunemente definita pubblica opinione. Meyssan dà, sotto questo aspetto, una vera e propria lezione di marxismo a Zizek, sostenendo il punto secondo il quale non si è mai vista una rivoluzione che anziché puntare alla trasformazione delle strutture sociali (ergo ai rapporti sociali intorno ai quali queste si condensano) mira a rovesciare fisicamente un gruppo di dominanti per sostituirli con altri, ma più proni al potere imperiale statunitense (altro che resurrezione del sogno popolare o utopia della rivoluzione! Sei tu che sei triste e sconfortante caro Zizek).

E Lenin, da par suo, era ancor meno suscettibile ai rivoluzionarismi spirituali che animano Zizek, tanto da aver ritenuto oggettivamente rivoluzionaria la lotta dell’emiro afghano (nonostante costui si basasse su principi pienamente monarchici). Stalin riprende le affermazioni di Lenin nel suo “I principi del Leninismo”: “Nelle condizioni dell'oppressione imperialistica, il carattere rivoluzionario del movimento nazionale non implica affatto obbligatoriamente l'esistenza di elementi proletari nel movimento, l'esistenza di un programma rivoluzionario o repubblicano del movimento, l'esistenza di una base democratica del movimento. La lotta dell'emiro afghano per l'indipendenza dell'Afghanistan é oggettivamente una lotta rivoluzionaria, malgrado il carattere monarchico delle concezioni dell'emiro e dei suoi seguaci, poiché essa indebolisce, disgrega, scalza l'imperialismo, mentre la lotta di certi «ultra» democratici e «socialisti» «rivoluzionari» e repubblicani dello stampo, ad esempio, di Kerenski e Tsereteli, Renaudel e Scheidemann, Cernov e Dan, Henderson e Clynes durante la guerra imperialista, era una lotta reazionaria, perché aveva come risultato di abbellire artificialmente, di consolidare, di far trionfare l'imperialismo”.

Non vede dunque Zizek, in questa congiuntura storica, dove stanno i resistenti all’ordine imperiale e i veri reazionari? Ed invece, contraddicendo sempre Lenin, l’orda degli intellettuali infatuati solo dalla loro stessa fama di “radicalissimi”, si mettono completamente a rimorchio delle parole d’ordine e delle campagne di manipolazione dei peggiori dominanti, quelli egemoni: “Tutta la storia della democrazia borghese mette a nudo questa illusione: per ingannare il popolo, i democratici borghesi hanno sempre lanciato e sempre lanciano ogni sorta di "parole d'ordine". Si tratta di controllare la loro sincerità, di mettere a confronto le parole con i fatti, di non appagarsi della frase idealistica o ciarlatanesca, ma di cercar di scoprire la realtà di classe”. I fatti sono quelli che ci descrive Meyssan, e non la fandonie propinateci da Zizek. Avete materiale per giudicare da soli.

Ps. Mi scuso per la traduzione approssimativa, ma non ho tempo per riguardarla con attenzione.

Giovanni Petrosillo

La rivoluzione colorata fallita in Iran
di Thyerry Meyssan - www.voltairenet.org -
Traduzione a cura di Giovanni Petrosillo

“La rivoluzione verde„ di Teheran è l'ultimo avatar “delle rivoluzioni colorate„ che hanno permesso agli Stati Uniti di imporre governi al loro soldo in molti paesi senza dover ricorrere alla forza. Thierry Meyssan che ha consigliato due governi di fronte a queste crisi, analizza tale metodo e le ragioni del suo fallimento in Iran.

“Le rivoluzioni colorate„ stanno alle rivoluzioni come il Canada Dry sta alla birra. Vi somigliano, ma ne non hanno il sapore. Sono cambiamenti di regime aventi l'aspetto di una rivoluzione, poiché mobilitano vasti segmenti popolari, ma dipendendo dal colpo di Stato non mirano a cambiare le strutture sociali, ma sostituire un'elite a un'altra per condurre una politica economica e estera pro-USA. “La rivoluzione verde„ di Teheran è l'ultimo esempio

L’origine del concetto

Questo concetto è apparso negli anni 90, ma trova le sue origini nei dibattiti USA degli anni 70-80. Dopo le rivelazioni a catena circa i colpi di Stato fomentati dalla CIA nel mondo, e la grande vetrina delle commissioni parlamentari Church e Rockefeller (1), l'ammiraglio Stansfield Turner fu incaricato dal presidente Carter di ripulire l'agenzia e cessare ogni sostegno “alle dittature sasalinghe„. Furiosi, i social democratici statunitensi (SD/USA) lasciarono il partito democratico e raggiunsero Ronald Reagan. Si trattava di brillanti intellettuali trotskisti (2), spesso legati alla rivista Commentary. Quando Reagan fu eletto, affidò loro il compito di proseguire l'ingerenza US, ma con altri mezzi. Così creano nel 1982 il National Endowment for Democracy (NED) (3) e, nel 1984, l’United States Institute for Peace (USIP). Le due strutture sono organicamente legate: amministratori del NED seggono nel consiglio d'amministrazione del USIP e viceversa.

Giuridicamente, la NED è un'associazione senza scopo di lucro, di diritto US, finanziata da una sovvenzione annuale votata dal congresso all'interno del bilancio del Dipartimento di Stato. Per condurre le proprie azioni, le fa cofinanziare dall’US Agency for International Development (USAID), essa stessa collegata al Dipartimento di Stato. In pratica, questa struttura giuridica è soltanto un paravento utilizzato congiuntamente dalla CIA, dal MI6 britannico e dall’ASIS australiano (e occasionalmente dai servizi canadesi e neozelandesi). La NED si presenta come un organo “di promozione della democrazia„. Interviene sia direttamente; sia con i suoi quattro tentacoli: uno destinato a corrompere i sindacati, un secondo incaricato di corrompere i patronati, un terzo per i partiti di sinistra ed un quarto per quelli di destra; sia ancora tramite fondazioni amiche, come Westminster Foundation for Democracy (Regno Unito), International Center for Human Rights and Democratic Development (Canada), Fondation Jean-Jaurès e Fondation Robert-Schuman (Francia), International Liberal Center (Svezia), Alfred Mozer Foundation (Paesi Bassi), Friedrich Ebert Stiftung, Friedrich Naunmann Stiftung, Hans Seidal Stiftung e Heinrich Boell Stiftung (Germania). La NED rivendica di avere corrotto così più di 6.000 organizzazioni nel mondo in una trentina di anni. Tutto ciò, naturalmente, essendo camuffato sotto l'aspetto di programmi di formazione o d'assistenza.

La USIP, da parte sua, è un'istituzione nazionale statunitense. È sovvenzionata annualmente dal Congresso nel bilancio del Dipartimento della Difesa. A differenza della NED, che funge da copertura ai servizi dei tre stati alleati, la USIP è esclusivamente statunitense. Sotto la copertura di ricerca in scienze politiche, può pagare personalità politiche estere. Appena ha potuto disporre di risorse, la USIP ha finanziato una nuova e discreta struttura, l’Albert Einstein Institution (4). Questa piccola associazione di promozione della non-violenza era inizialmente incaricata di prefigurare una forma di difesa civile per le popolazioni dell'Europa dell'Ovest in caso d'invasione da parte dei paesi del Patto di Varsavia. Essa ha rapidamente preso la sua autonomia ed ha modellizzato condizioni nelle quali un potere statale, di qualunque natura esso sia, può perdere la sua autorità e crollare.

Primi tentativi

Il primo tentativo “di rivoluzione colorata„ è fallito nel 1989. Si trattava di capovolgere Deng Xiaoping appoggiandosi su uno dei suoi parenti collaboratori, il segretario generale del Partito comunista cinese Zhao Ziyang, in modo da aprire il mercato cinese agli investitori statunitensi e fare entrare la Cina nell'orbita USA. I giovani partigiani di Zhao invasero piazza Tienanmen (5). Furono presentati dai mass media occidentali come studenti a-politici che si battevano per la libertà di fronte all'ala tradizionale del partito, mentre si trattava di un dissenso all'interno della corrente di Deng tra nazionalisti e filo-statunitensi. Dopo avere a lungo resistito alle provocazioni, Deng decise di concludere con la forza. La repressione fece tra i 300 e i 1000 morti secondo le fonti. 20 anni più tardi, la versione occidentale di questo colpo di Stato mancato non è cambiata. I mass media occidentali che hanno coperto recentemente quest'anniversario presentandolo come “una sommossa popolare„ si sono stupiti del fatto che i pechinesi non abbiano conservato memoria dell'evento. È che una lotta di potere nell'ambito del partito non aveva nulla “di popolare„. Non si sentivano toccati.

La prima “rivoluzione colorata„ riesce nel 1990. Mentre l'Unione Sovietica era in corso di smembramento, il segretario di Stato James Baker si recò in Bulgaria per partecipare alla campagna elettorale del partito pro-USA, abbondantemente finanziato dalla NED (6). Tuttavia, nonostante le pressioni del Regno Unito, i bulgari, spaventati dalle conseguenze sociali del passaggio dall'URSS all'economia di mercato, commisero l'imperdonabile errore di eleggere al Parlamento una maggioranza di post-comunisti. Mentre gli osservatori della Comunità europea certificarono la regolarità dello scrutinio, l'opposizione pro-USA urlò alla frode elettorale e scese in strada. Installò un accampamento al centro di Sofia ed immerse per sei mesi il paese nel caos, fino a che il Parlamento elesse a presidente il filo-USA Zhelyu Zhelev.

“La democrazia„: vendere il proprio paese agli interessi stranieri all'insaputa della propria popolazione

Da allora, Washington non ha cessato di organizzare cambiamenti di regime, un po' ovunque nel mondo, mediante l'agitazione di piazza piuttosto che con giunte militari. Occorre qui circoscrivere i giochi. Al di là del discorso lenitivo “sulla promozione della democrazia„, l'azione di Washington mira all'imposizione di regimi che gli aprono senza condizioni i mercati interni e si allineano alla sua politica estera. Ma, se questi obiettivi sono conosciuti dai dirigenti “delle rivoluzioni colorate„, non sono mai discussi ed accettati dai dimostranti che mobilitano. E, qualora questo colpo di Stato riesca, i cittadini non ritardano a rivoltarsi contro le nuove politiche che si impongono loro, anche se è troppo tardi per ritornare indietro. D'altra parte, come si può considerare “democratiche„ quelle opposizioni che, per prendere il potere, vendono il loro paese ad interessi stranieri all'insaputa della loro popolazione?

Nel 2005, l'opposizione kirghisa contesta il risultato delle elezioni legislative e porta a Bichkek dei dimostranti del Sud del paese. Fanno cadere il presidente Askar Akaïev. È “la rivoluzione dei tulipani„. L'assemblea nazionale elegge a presidente il filo-USA Kourmanbek Bakiev. Non riuscendo a controllare i suoi supporters che saccheggiano la capitale, dichiara di avere cacciato il dittatore e finge di volere creare un governo d'unità nazionale. Fa uscire di prigione il generale Felix Kulov, ex sindaco di Bichkek, e lo nomina il ministro dell'interno, quindi primo ministro. Quando la situazione si è stabilizzata, Bakaiev si sbarazza di Kulov e vende, senza gara d'appalto e con i logici sotto banco, alcune risorse del paese a società USA ed installa una base militare USA a Manas. Il tenore di vita della popolazione non è mai stato così basso. Felix Kulov propone di sollevare il paese federandolo, come in passato, alla Russia. Non tarda a tornare in prigione.

Un male per un bene?

Si obietta a volte, nel caso di Stati sottoposti a regimi repressivi, che se queste “rivoluzioni colorate„ portano soltanto una democrazia di facciata, procurano tuttavia benessere alle popolazioni. Ma, l'esperienza mostra che nulla è meno sicuro. I nuovi regimi possono risultare più repressivi dei vecchi. Nel 2003, Washington, Londra e Parigi (7) organizzano “la rivoluzione delle rose„ in Georgia (8). Secondo uno schema classico, l'opposizione denuncia frodi elettorali in occasione delle elezioni legislative e scende in strada. I dimostranti forzano il presidente Edouard Chevardnadze a fuggire e prendono il potere. Il suo successore Mikhail Saakachvili apre il paese agli interessi economici USA e rompe con il vicino russo. L'aiuto economico promesso da Washington per sostituirsi all'aiuto russo non arriva. L'economia, già compromessa, crolla. Per continuare a soddisfare i suoi accomandanti, Saakachvili deve imporre una dittatura (9). Chiude i mass media e riempie le prigioni, cosa che non impedisce assolutamente alla stampa occidentale di continuare a presentarlo come “democratico„. Condannato alla fuga in avanti, Saakachvili decide di rifarsi una popolarità lanciandosi in un'avventura militare. Con l'aiuto dell'amministrazione Bush e di Israele al quale ha affittato basi aeree, bombarda la popolazione dell'Ossezia meridionale, facendo 1600 morti, di cui la maggior parte ha la doppia nazionalità russa. Mosca risponde. I consulenti statunitensi e Israeliani fuggono (10). La Georgia è devastata.

Quanto basta!

Il meccanismo principale “delle rivoluzioni colorate„ consiste nel mettere a fuoco l'insoddisfazione popolare sull'obiettivo che si vuole abbattere. Si tratta di un fenomeno di psicologia di massa che spazza tutto al suo passaggio ed al quale nessun ostacolo ragionevole può essere opposto. Il capro-espiatorio è accusato di tutti i mali che affliggono il paese almeno da una generazione. Più resiste, più la rabbia della folla cresce. Sia che ceda o schivi, la popolazione ritrova i suoi fantasmi, le spaccature tra i suoi partigiani ed i suoi oppositori riappaiono. Nel 2005, nelle ore che seguono l'assassinio del primo ministro Rafik Hariri, in Libano si diffonde la voce che è stato ucciso “dai Siriani„. L'esercito siriano - che in virtù dell'Accordo di Taëf - mantiene l'ordine dalla fine della guerra civile, viene contestato. Il presidente siriano, Bachar el-Assad, è personalmente messo in discussione dalle autorità statunitensi, cosa che è già una prova per l'opinione pubblica. A quelli che fanno osservare che - nonostante momenti tempestosi Rafik Hariri è sempre stato utile alla Siria e che la sua morte priva Damasco di un collaboratore essenziale, si risponde che “il regime siriano„ è così cattivo in sé che deve uccidere anche i suoi amici. I libanesi auspicano uno sbarco delle GI's per cacciare i Siriani. Ma, con generale sorpresa, Bachar el-Assad, ritenendo che il suo esercito non è più il benvenuto in Libano mentre il suo spiegamento costa caro, ritira i suoi uomini. Vengono organizzate elezioni legislative che vedono il trionfo della coalizione “anti-siriana„. È “la rivoluzione dei cedri„. Quando la situazione si stabilizza, ciascuno si rende conto che, se i generali siriani hanno in passato saccheggiato il paese, la partenza dell'esercito siriano non cambia nulla economicamente. Soprattutto, il paese è in pericolo, non ha più i mezzi per difendersi di fronte all'espansionismo del vicino israeliano. Il principale capo “anti- siriano„, il generale Michel Aoun, si ravvede e passa all'opposizione. Furiosa, Washington moltiplica i progetti per assassinarlo. Michel Aoun si allea allo Hezbollah attorno ad una piattaforma patriottica. Era tempo: Israele attacca.

In tutti i casi, Washington prepara in anticipo il governo “democratico„, cosa che conferma bene che si tratta di un colpo di Stato mascherato. La composizione del nuovo gruppo è tenuta segreta il più a lungo possibile. È per questo che la designazione del capro-espiatorio è realizzata senza mai evocare un'alternativa politica. In Serbia, i giovani “rivoluzionari„ filo-USA hanno scelto un logo che appartiene all’immaginario comunista (il pugno teso) per mascherare la loro subordinazione agli Stati Uniti. Hanno preso come slogan “egli è finito! „, federando così gli insoddisfatti contro la personalità di Slobodan Milosevic che hanno ritenuto responsabile dei bombardamenti del paese, tuttavia effettuati dalla NATO. Questo modello è stato duplicato, ad esempio il gruppo Pora! in Ucraina, o Zubr in Bielorussia.

Una non-violenza di facciata

I comunicatori del Dipartimento di Stato vegliano sull'immagine non violenta “delle rivoluzioni colorate„. Davanti a tutte, le teorie di Gene Sharp, fondatore di Albert Einstein Institution. Ma, la non-violenza è un metodo di combattimento destinato a convincere il potere a cambiare politica. Affinché una minoranza si impadronisca del potere e lo eserciti, gli occorre sempre, prima o poi, l’uso della violenza. E tutte “le rivoluzioni colorate„ lo hanno fatto.

Nel 2000, nonostante il mandato del presidente Slobodan Milosevic durasse ancora per un anno, convocò elezioni anticipate. Lui stesso e il suo principale oppositore, Vojislav Koštunica, si trovarono al ballottaggio. Senza attendere il secondo giro di consultazioni, l'opposizione gridò alla frode e scese nelle strade. Migliaia di dimostranti affluirono verso la capitale, tra i quali minatori di Kolubara. I loro giorni di lavoro erano indirettamente pagati dalla NED, senza che loro fossero a coscienza di essere remunerati dagli Stati Uniti. Essendo la pressione della manifestazione insufficiente, i minatori attaccarono gli edifici pubblici con i bulldozer che avevano trasportato, da cui il nome “di rivoluzione dei bulldozer„. Qualora la tensione si perpetui e vengano organizzate contro-manifestazioni, la sola soluzione per Washington è di immergere il paese nel caos. Agenti provocatori sono allora inviati tra i due campi per colpire la folla. Ogni parte può constatare che quelli di fronte hanno colpito mentre avanzavano in modo pacifico. Il confronto si generalizza.

Nel 2002, la borghesia di Caracas scende in strada per contestare la politica sociale del presidente Hugo Chavez (11). Con abili montaggi, le televisioni private danno l'impressione di una marea umana. Sono 50.000 secondo gli osservatori, 1 milione secondo la stampa ed il Dipartimento di Stato. Si verifica allora l'incidente del ponte Llaguno. Le televisioni mostrano chiaramente filo- chavisti, armi alla mano, che sparano sulla folla. In una conferenza stampa, il generale della guardia nazionale ed il vice-ministro della sicurezza interna conferma che “le milizie chaviste„ hanno sparato sul popolo facendo 19 morti. Si dimette e chiama al capovolgimento della dittatura. Il presidente non tarda ad essere arrestato dai soldati insorti. Ma il popolo a milioni scende nella capitale e ristabilisce l'ordine costituzionale. Un'indagine giornalistica successiva ricostituirà in dettaglio il massacro del ponte Llaguno. Metterà in evidenza un ingannevole montaggio delle immagini, il cui ordine cronologico è stato falsificato come attestano i quadranti degli orologi dei protagonisti. In realtà, sono i chavisti ad essere stati attaccati e questi, dopo aver ripiegato, tentavano di liberarsi utilizzando armi da fuoco. Gli agenti provocatori erano poliziotti locali formati da un'agenzia US (12).

Nel 2006, la NED riorganizza l'opposizione al presidente kenyano Mwai Kibaki. Finanzia la creazione del partito arancione di Raila Odinga. Quest'ultimo riceve il sostegno del senatore Barack Obama, accompagnato da specialisti della destabilizzazione (Mark Lippert, attuale capo di gabinetto del consigliere della sicurezza nazionale, ed il generale Jonathan S. Gration, attuale inviato speciale del presidente US per il Sudan). Partecipando ad una riunione di Odinga, il senatore dell’Illinois si inventa un vago legame di parentela con il candidato filo-USA. Tuttavia Odinga perde le elezioni legislative del 2007. Sostenuto dal senatore John McCain, in qualità di presidente del IRI (prolungamento repubblicano della NED), contesta la sincerità dello scrutinio e chiama i suoi partigiani a scendere in strada. È mentre SMS anonimi sono inviati in massa agli elettori di etnia Luo. “Cari Keniani, Kikuyu ha rubato il futuro dei nostri bambini… noi dobbiamo trattarli nel solo modo che comprendono… la violenza„. Il paese, tuttavia uno dei più stabile dell’Africa, si infiamma improvvisamente. Dopo giorni di sommosse, il presidente Kibaki è costretto ad accettare la mediazione di Madeleine Albright, in qualità di presidente del NDI (il prolungamento democratico della NED). Viene creato un posto di primo ministro con il reintegro di Odinga. Ci si chiede, gli SMS dell’odio, non essendo stati inviati da impianti keniani, quale potenza straniera abbia potuto spedirli.

La mobilitazione dell'opinione pubblica internazionale

Negli ultimi anni, Washington ha avuto occasione di lanciare “rivoluzioni colorate„ con la convinzione che pur fallendo a prendere il potere esse consentissero di manipolare l'opinione pubblica e le istituzioni internazionali. Nel 2007, numerosi Birmani insorgono contro l'aumento dei prezzi del combustibile domestico. Le manifestazioni degenerano. I monaci buddisti prendono la testa della contestazione. È “la rivoluzione zafferano„ (13). In realtà, Washington non è interessata al regime di Rangoon; ciò che le interessa, è di strumentalizzare il popolo birmano per fare pressione sulla Cina che ha interessi strategici in Birmania (condutture e base militare di informazioni elettroniche). Di conseguenza, l'importante è mettere in scena la realtà. Immagini prese da telefoni portatili appaiono su YouTube. Sono anonime, inverificabili e fuori contesto. Precisamente, la loro apparante spontaneità gli dà credibilità. La Casa-Bianca può imporre la sua interpretazione dei video.

Più recentemente, nel 2008, manifestazioni studentesche paralizzano la Grecia a seguito dell'omicidio di un giovane ragazzo di 15 anni da parte di un poliziotto. Rapidamente rompitori fanno la loro comparsa. Sono stati reclutati nel vicino Kosovo e trasportati su autobus. I centri delle città saccheggiati. Washington cerca di fare fuggire i capitali verso altri cieli e di riservarsi il monopolio degli investimenti nei terminali gaziferi in costruzione. Una campagna stampa dunque farà passare il governo ansante Karamanlis per quello dei colonnelli. Facebook e Twittter sono utilizzati per mobilitare la diaspora greca. Le manifestazioni si estendono ad Istanbul, Nicosia, Dublino, Londra, Amsterdam, La Haye, Copenaghen, Francoforte, Parigi, Roma, Madrid, Barcellona, ecc.

La rivoluzione verde

L'operazione condotta nel 2009 in Iran si iscrive in questo lungo elenco di pseudo rivoluzioni. In primo luogo, il congresso vota nel 2007 un finanziamento di 400 milioni di dollari “per cambiare il regime„ in Iran. Questo si aggiunge ai bilanci ad hoc del NED, del USAID, della CIA e tutti quanti [NDR in italiano nel testo]. Si ignora come questo denaro è utilizzato, ma tre gruppi principali ne sono destinatari: la famiglia Rafsandjani, la famiglia Pahlevi, e i Moudjahidin del popolo.

L'amministrazione Bush prende la decisione di finanziare “una rivoluzione colorata„ in Iran dopo avere confermato la decisione dello stato maggiore non di attaccare militarmente questo paese. Questa scelta è convalidata dall'amministrazione Obama. Per difetto, si riapre dunque la cartella “di rivoluzione colorata„, preparata nel 2002 con Israele nell'ambito dello American Enterprise Institute. All'epoca avevo pubblicato un articolo su questo metodo (14). Basta farvi riferimento per identificare i protagonisti attuali: è stato poco modificato. È stata aggiunta una parte riguardante il Libano con la previsione di un sollevamento a Beyrouth in caso di vittoria della coalizione patriottica (Hezbollah, Aoun) alle elezioni legislative, ma essa è stato annullata. Lo scenario prevedeva un sostegno massiccio al candidato scelto dall’ ayatollah Rafsandjani, la contestazione dei risultati dell'elezione presidenziale, degli attentati globali, il capovolgimento del presidente Ahmadinejad e della guida suprema l’ayatollah Khamenei, l'installazione di un governo di transizione diretto da Mousavi, quindi il restauro della monarchia e l'installazione di un governo diretto da Sohrab Sobhani.

Come immaginata nel 2002, l'operazione è stata supervisionata da Morris Amitay e Michael Ledeen. Ha mobilitato in Iran le reti dello Irangate. Qui piccoli cenni storici sono necessari. L’Irangate è una vendita di armi illecita: la Casa-Bianca desiderava rifornire in armi i Contras nicaraguensi (per lottare contro i sandinisti) da un lato e l'Iran dall'altro (per far durare fino all0esaurimento la guerra Iran-Iraq), ma cià era proibito dal congresso. Gli Israeliani proposero allora di dare in subappalto le due operazioni allo stesso tempo. Ledeen che ha la doppia nazionalità statunitense/israeliana funge da agente di collegamento a Washington, mentre Mahmoud Rafsandjani (il fratello dell’ayatollah) è il suo corrispondente a Teheran. Il tutto su un fondo di corruzione generalizzata.

Quando scoppia lo scandalo negli Stati Uniti, una commissione d'indagine indipendente viene diretta dal senatore Tower ed il generale Brent Scowcroft (il mentore di Robert Gates). Michael Ledeen è un vecchio gitante delle operazioni segrete. Lo si trova a Roma in occasione dell'assassinio di Aldo Moro, lo si trova nell'invenzione della pista bulgara in occasione del tentativo d'assassinio di Giovanni Paolo II, o più recentemente nell'invenzione dell'approvvigionamento di uranio nigeriano da parte di Saddam Hussein. Lavora oggi allo American Enterprise Institute (15) (al fianco di Richard Perle e Paul Wolfowitz) ed alla Foundation for the Defense of Democracies (16). Morris Amitay è ex direttore dello l’American Israel Public Affairs Committee (AIPAC). È oggi vicepresidente del Jewish Institute for National Security Affairs (JINSA) e direttore di un consiglio di gabinetto per grandi ditte d'armamento. Il 27 aprile scorso, Morris e Ledeen organizzavano un seminario sull'Iran allo American Enterprise Institute a proposito delle elezioni iraniane, attorno al senatore Joseph Lieberman.

Il 15 maggio scorso, nuovo seminario. La parte pubblica consisteva in una tavola rotonda animata dall'ambasciatore John Bolton a proposito del “grand marchandage„: Mosca accetterebbe di lasciare cadere Teheran in cambio della rinuncia di Washington allo scudo anti-missile in Europa centrale? L'esperto francese Bernard Hourcade partecipava a questi scambi. Simultaneamente, l'istituto lanciava un sito Internet destinato alla stampa nella crisi a venire: IranTracker.org. Il sito include una rubrica sulle elezioni libanesi. In Iran, spettava all’ayatollah Rafsandjani capovolgere il suo vecchio rivale, l’ayatollah Khamenei. Proveniente da una famiglia di agricoltori, Hachemi Rafsandjani ha fatto fortuna nella speculazione immobiliare sotto lo Scià. È diventato il principale grossista di pistacchi del paese ed ha arrotondato la sua fortuna durante l’Irangate. I suoi averi sono valutati in molti miliardi di dollari. Diventato l'uomo più ricco dell’Iran, è stato successivamente presidente del Parlamento, presidente della repubblica ed oggi presidente del Consiglio di discernimento (organo arbitrale tra il Parlamento ed il Consiglio dei custodi della costituzione). Rappresenta gli interessi del bazar, cioè i commercianti di Teheran. Durante la campagna elettorale, Rafsandjani aveva fatto promettere al suo ex-avversario diventato il suo puledro, Mirhossein Mousavi, di privatizzare il settore petrolifero. Senza connessione alcuna con Rafsandjani, Washington ha fatto appello ai Moudjahidines del popolo (17).

Quest'organizzazione protetta dal pentagono è considerata come terrorista dal Dipartimento di Stato e da parte dell'Unione Europea. Ha effettivamente condotto operazioni terribili negli anni 80, fra cui un mega-attentato che costò la vita all’ayatollah Behechti, a quattro ministri, a sei ministri aggiunti ed a un quarto del gruppo parlamentare del partito della repubblica islamica. L'organizzazione è comandata da Massoud Rajavi, che sposa in prime nozze la figlia del presidente Bani Sadr, quindi Myriam la crudele in seconde nozze. La sua sede è installata nella regione parigina e le sue basi militari in Iraq, inizialmente sotto la protezione di Saddam Hussein, quindi oggi sotto quella del dipartimento della difesa. Sono i Moudjahidin che hanno garantito la logistica degli attentati durante la campagna elettorale (18). Spetta a loro di causare incidenti tra i militanti pro e anti- Ahmadinejad, quel che hanno probabilmente fatto.

Qualora il caos si fosse rafforzato, la guida suprema avrebbe potuto essere capovolta. Un governo di transizione, diretto da Mirhussein Mousavi avrebbe privatizzato il settore petrolifero ed avrebbe ristabilito la monarchia. Il figlio del vecchio Scià, Reza Cyrus Pahlavi, sarebbe risalito sul trono ed avrebbe designato Sohrab Sobhani come primo ministro. In questa prospettiva, Reza Pahlavi ha pubblicato in febbraio un libro di interviste con il giornalista francese Michel Taubmann. Quest'ultimo è direttore del bureau d’information parisien d’Arte e presiede il Cercle de l’Observatoire, il club dei neo-conservatori francesi. Ci si ricorda che Washington aveva previsto in modo identico il ristabilimento della monarchia in Afganistan. Mohammed Zaher Shah doveva riprendere il suo trono a Kabul e Hamid Karzai doveva essere suo primo ministro.

Purtroppo, a 88 anni, il pretendente era diventato demente. Karzai diventò dunque presidente della repubblica. Come Karzai, Sobhani ha la doppia nazionalità statunitense. Come lui, lavora nel settore petrolifero del Caspio. Dal lato della propaganda, il metodo iniziale era affidato al gabinetto Benador Associates. Ma è evoluto sotto l'influenza dell'assistente del segretario di Stato per l'istruzione e la cultura, Goli Ameri. Questo iraniano-statunitense è un ex collaboratore di John Bolton. Specialista dei nuovi mass media, ha organizzato programmi di mezzi e di formazione ad Internet per gli amici di Rafsandjani. Ha anche sviluppato radio e televisioni in lingua farsi per la propaganda del dipartimento di Stato ed in coordinamento con la BBC britannica.

La destabilizzazione dell'Iran è fallita perché la principale molla "delle rivoluzioni colorate" non è stata correttamente attivata. MirHussein Mousavi non è riuscito a cristallizzare l'insoddisfazione sulla persona di Mahmoud Ahmadinejad. Il popolo iraniano non si è fuorviato, non ha reso il presidente uscente responsabilie delle conseguenze delle sanzioni economiche statunitensi sul paese. Di conseguenza, la contestazione si è limitata alla borghesia delle zone del nord di Teheran. Il potere si è astenuto da opporre le manifestazioni le une contro le altre ed ha lasciato i complottatori scoprirsi. Tuttavia, occorre ammettere che l'intossicazione dei mass media occidentali ha funzionato. L'opinione pubblica straniera ha realmente creduto che due milioni di iraniani fossero scesi in strada, quando la cifra reale è almeno dieci volte inferiore. Il mantenimento sul posto dei corrispondenti della stampa ha facilitato queste esagerazioni dispensandoli di fornire le prove delle loro imputazioni. Avendo rinunciato alla guerra e fallito nel tentativo di capovolgere il regime, quale carta resta nelle mani di Barack Obama?

NOTE

[1] Les multiples rapports et documents publiés par ces commissions sont disponibles en ligne sur le site The Assassination Archives and Research Center. Les principaux extraits des rapports ont été traduits en français sous le titre Les Complots de la CIA, manipulations et assassinats, Stock, 1976, 608 pp.
[2] « Les New York Intellectuals et l’invention du néo-conservatisme », par Denis Boneau, Réseau Voltaire, 26 novembre 2004.
[3] « La NED, nébuleuse de l’ingérence démocratique », par Thierry Meyssan, Réseau Voltaire, 22 janvier 2004.
[4] « L’Albert Einstein Institution : la non-violence version CIA », par Thierry Meyssan, Réseau Voltaire, 4 janvier 2005.
[5] « Tienanmen, 20 ans après », par le professeur Domenico Losurdo, Réseau Voltaire, 9 juin 2009.
[6] À l’époque, la NED s’appuie en Europe orientale sur la Free Congress Foundation (FCF), animée par des républicains. Par la suite, cette organisation disparaît et cède la place à la Soros Foundation, animée par des démocrates, avec laquelle la NED fomente de nouveaux « changements de régime ».
[7] Soucieux d’apaiser les relations franco-US après la crise irakienne, le président Jacques Chirac tente de se rapprocher de l’administration bush sur le dos des Géorgiens, d’autant que la France a des intérêts économiques en Géorgie. Salomé Zourabichvili, n°2 des services secrets français, est nommée ambassadrice à Tbilissi, puis change de nationalité et devient ministre des Affaires étrangères de la « révolution des roses ».
[8] « Les dessous du coup d’État en Géorgie », par Paul Labarique, Réseau Voltaire, 7 janvier 2004.
[9] « Géorgie : Saakachvili jette son opposition en prison » et « Manifestations à Tbilissi contre la dictature des roses », Réseau Voltaire, 12 septembre 2006 et 30 septembre 2007.
[10] L’administration Bush espérait que ce conflit ferait diversion. Les bombardiers israéliens devaient simultanément décoller de Géorgie pour frapper l’Iran voisin. Mais, avant même d’attaquer les installations militaires géorgiennes, la Russie bombarde les aéroports loués à Israël et cloue ses avions au sol.
[11] « Opération manquée au Venezuela », par Thierry Meyssan, Réseau Voltaire, 18 mai 2002.
[12] Llaguno Bridge. Keys to a Massacre. Documentaire d’Angel Palacios, Panafilms 2005.
[13] « Birmanie : la sollicitude intéressée des États-Unis », par Thierry Meyssan, Réseau Voltaire, 5 novembre 2007.
[14] « Les bonnes raisons d’intervenir en Iran », par Thierry Meyssan, Réseau Voltaire, 12 février 2004.
[15] « L’Institut américain de l’entreprise à la Maison-Blanche », Réseau Voltaire, 21 juin 2004.
[16] « Les trucages de la Foundation for the Defense of Democracies », Réseau Voltaire, 2 février 2005.
[17] « Les Moudjahidin perdus », par Paul Labarique, Réseau Voltaire, 17 février 2004.
[18] « Le Jundallah revendique des actions armées aux côtés des Moudjahidines du Peuple », Réseau Voltaire, 13 juin 2009.


La fantasia al potere: le invenzioni della propaganda occidentale contro la Repubblica Islamica dell’Iran
di Enrico Galoppini - www.eurasia-rivista.org - 25 Giugno 2009

In questi giorni, a chi segue le notizie provenienti dall’Iran e cerca d’interpretare la portata degli eventi in corso, non sarà sfuggito il totale allineamento pro-“dimostranti” di tutte le opinioni ammesse dal sistema mediatico occidentale.

Non solo quello “ufficiale” delle tv e dei giornali ad alta visibilità (garantita dal meccanismo delle rassegne stampa), ma anche di gran parte di quello per così dire “alternativo” dei siti e delle agenzie “pacifiste”. La voce unanime che accomuna tutti costoro è che le elezioni presidenziali iraniane sono state “falsate da brogli” e che gli iraniani vogliono “libertà e democrazia”. E tanto basterebbe per convincere un pubblico naturalmente distratto e non qualificato della bontà dei motivi per cui “gli iraniani” scendono in piazza per protestare contro “il regime”.

Tra tutti i motivi messi in giro dalla macchina disinformativa ci ha colpito in particolare quello di chi è giunto – in una sede considerata “autorevole”, gestita da “accademici” - a definire "resistenza" un'organizzazione come quella dei “Mujahidin del Popolo” resasi responsabile di una catena ininterrotta di attentati in tutto l’Iran (v. il famoso "terrorismo" contro cui tutti dovremmo unirci). Forse costoro credono sia giunto il loro momento di gloria? Ci si può documentare facilmente sulle imprese di questa organizzazione e la scia di sangue che sin dall’inizio della Rivoluzione del ’79 ha colpito la Repubblica Islamica dell’Iran.

Purtroppo per gli sponsor di questi "resistenti", accolti non molto tempo fa con grandi onori presso il Parlamento Europeo (!) dagli agenti che in quella sede ha il partito americano-sionista, la nuova "rivoluzione colorata" (di verde!) pare già abortita prima di condurre all'agognato abbattimento del "regime". Non ce la possono fare dall'esterno, militarmente, sia perché impantanati in Iraq e Afghanistan, sia perché l'Iran è inattaccabile, iperprotetto ed armato com’è fino ai denti, quindi hanno scelto di giocare la carta della sovversione interna, resa difficilissima però dall'assenza in loco delle ONG delle "rivoluzioni colorate" e delle tv private.

La macchina della propaganda occidentale, come detto, va a tutto gas, sempre più patetica e dalla fervida immaginazione. Gli inviati-fotocopia che si dolevano di non poter più "informare" a causa della scadenza dei visti (hanno mai intervistato, questi "professionisti", un sostenitore di Ahmadinejad?) si sono ridotti a smanettare su Facebook e su qualche altro arnese simile alla ricerca dell’ultimo “video-verità”.

S’è narrato d’un inesistente "attentato suicida" al mausoleo dell'Imam Khomeyni, sul quale ora, guarda caso, s’allunga postumo lo zolfo della “benevolenza” del Mossad nei mesi che precedettero la rivoluzione (“potevamo ucciderlo, ma non lo facemmo: ne siamo pentiti”, hanno messo in circolazione)... Si sparano cifre tonde di "martiri" senza uno straccio di prova: anche la "martire Neda" presto si rivelerà essere l'ennesima trovata mediatica da affiancare al mitico “cormorano iracheno” inzuppato di petrolio (del Mare del Nord). In apici di sbornia mediatica s’è gridato anche all’acido lanciato dagli elicotteri dei Basij!

Le foto che circolano dalla rete anche nei tg dimostrano solo che c'è una “mobilitazione di piazza” dei sostenitori di Moussavi contro Ahmadinejad e quel che rappresenta, in politica interna ed estera. Dimostrano anche che c'è una "repressione". Ma la cosa finisce qui. Perché se i risultati delle elezioni sono veritieri (ed i "brogli" non possono essere dell'ordine dei 30 punti di scarto!), questa operazione si chiama "colpo di Stato". E come ad ogni latitudine le autorità non possono non intervenire per sedare ogni tentativo di questo tipo. Nel “democratico” Occidente, per molto meno, non succederebbe una carneficina (al di là del giudizio su quelle vicende, ci si ricordi di quel che accadde a margine del G8 di Genova)? Si assiste, inoltre, a tentativi di “colonialismo elettorale”; così, sulle prime, i “verdi” hanno sperato di far ripetere le elezioni alla presenza di "osservatori". Ma da quando un Paese sovrano accetta simili imposizioni?

Ahmadinejad viene presentato sempre più come un "nuovo Hitler", mentre giganti eurasiatici del calibro di Turchia e Russia, a margine della riunione della Organizzazione della Conferenza di Shanghai gli riconoscono la rielezione (e poi sarebbero loro, due terzi d’Eurasia, che “si isolano”…). Un presidente che è amato dalle classi popolari perché incarna i valori della "tradizione", detestato dalle classi già agiate (simili a quelle mandate a ''spentolare' a Caracas nel 2002, aizzate dalla Cia e dalle tv private) che vorrebbero diventarlo sempre di più!

Il Presidente iraniano – nella neolingua dei megafoni dell’informazione – sarebbe addirittura ‘reo' d'aver aumentato pensioni e stipendi, il che ha dato lo spunto, per i soliti in malafede, di dire che "è in campagna elettorale da 3 anni": insomma, non è importante cosa si fa, ma "chi fa cosa"!
Quanto al posizionamento dell'Iran in politica estera, un'inversione di rotta farebbe molto comodo a Usa e soci. La linea seguita sin qui è quella giusta, compreso il "nucleare iraniano", che nasconde la vera posta in gioco, quella energetica (quindi, politica con la P maiuscola). Ecco cosa sono gli “studenti e gli operai” di cui vaneggiano vecchie ciabatte dell’”antimperialismo” totalmente a digiuno di geopolitica.

Ma chiediamoci: perché tutta questa agitazione intorno all'Iran? Perché il risultato delle elezioni (alle quali ha partecipato l'85% degli aventi diritto, a differenza delle nostre elezioni, che ormai non entusiasmano più nessuno) dovrebbe essere "falsato"? Chi lo dice? Qualche istituto "indipendente"? E chi è che ha l'autorità per ficcare il naso in questo modo in casa d'altri? Noi lo sopporteremmo (in effetti lo facciamo, dal '45 in poi, passando per i "casi" Mattei, Moro, “misteri d’Italia”, servizi cosiddetti "deviati" e "terrorismo rosso” e “stragismo nero", Cermis, Mani Pulite, fino alle ultime uscite su "Papi&Noemi", e la cosa non ci fa molto onore come "popolo italiano"). Insomma, qual è il "problema" con l'Iran? Quale "pericolo" rappresenta per noi? Parliamone, magari in un confronto tra “punti di vista” divergenti così come piace alla retorica “democratica”, così vediamo di chiarire una cosa che altrimenti rischia di non assumere connotati chiari (le manfrine sui "diritti umani" lasciamole perdere, perché chi ne fa uno strumento di pressione in giro per il mondo è il primo che dovrebbe starsene zitto).

La verità – oltre al dato geopolitico - è che non si vuol prendere atto da trent'anni che nel 1979 in Iran è avvenuto un evento di quelli che andrebbero studiati sui manuali di Storia, come l'89 della Rivoluzione francese o il '17 della Rivoluzione bolscevica, che a torto o a ragione sono considerate delle date-simbolo. Questo rifiuto di accettare che anche i non europei possano scrivere pagine di "storia universale" è uno dei tanti segni della boria della cosiddetta "civiltà occidentale" e dei suoi rappresentanti. Una cosa è certa: dall'esito di questa situazione in Iran dipenderà molto di quel che resta di speranza, per noi italiani ed europei, di affrancarsi dalla presa del dominio occidentale.
*Enrico Galoppini, saggista e traduttore dall'arabo, diplomato in lingua araba a Tunisi e ad Amman, ha lavorato nell’ambito di progetti internazionali (ad es. in Yemen) ed ha insegnato per alcuni anni Storia dei Paesi islamici presso le Università di Torino e di Enna. È nel comitato di redazione della rivista di Studi geopolitici “Eurasia” (www.eurasia-rivista.org). Particolarmente interessato agli aspetti religioso e storico-politico del mondo arabo-islamico, alla storia del colonialismo, all'attualità politica internazionale, ma anche ai viaggi e a fenomeni di costume, collabora o ha collaborato a riviste e quotidiani tra cui "LiMes", "Imperi", "Eurasia", "Levante", "La Porta d'Oriente", "Kervàn", "Africana", "Meridione. Sud e Nord del mondo", "Diorama Letterario", "Italicum", "Rinascita". Tra le sue pubblicazioni: "Il Fascismo e l'Islàm" (Edizioni All'Insegna del Veltro, Parma 2001), Islamofobia (Edizioni All'Insegna del Veltro, Parma 2008).


L'ignoranza è forza
di Paul Craig Roberts - Online Journal - 25 Giugno 2009
Traduzione per www.comedonchisciotte.org a cura di Carlo Pappalardo

La copertura unilaterale e propagandistica delle elezioni iraniane da parte dei media statunitensi ha trasformato il candidato perdente, Mousavi, in un eroe americano.

C'è da restare a bocca aperta, e domandarsi se qualcuno dei giornali nazionali o dei membri del governo ricorda ancora che Mir-Hossein Mousavi, primo ministro della Repubblica islamica iraniana dal 1981 al 1989 (il decennio successivo alla caduta del governo fantoccio americano ad opera di Khomeini), fu definito il Macellaio di Beirut e venne considerato la testa pensante dei sanguinosi attacchi contro l'ambasciata americana e la base dei marine nella capitale libanese all'epoca dell'amministrazione Reagan , che fece a pezzi 241 marine, soldati e marinai.

Come ha scritto Jeff Stein in CQ Politics del 22 giugno 2009, Mousavi "aveva scelto personalmente come uomo di punta per la campagna terroristica a Beirut Ali Akbar Mohtashemi-pur, che diresse la cellula terroristica responsabile degli attentati".

Secondo l'ammiraglio a riposo James Lyons, all'epoca vicecapo delle Operazioni navali, la National Security Agency disponeva di una registrazione sull'ambasciatore iraniano in Libano. L'ammiraglio ha dichiarato a Jeff Stein che "l'ambasciatore iraniano aveva ricevuto istruzioni dal Ministro degli esteri di scegliere vari obiettivi tra il personale statunitense nel paese, e soprattutto di condurre un'azione spettacolare contro i Marine".

Stein afferma che Lyons "considerava Mousavi responsabile anche del camion bomba usato nel 1988 contro la base della flotta navale statunitense a Napoli".

Bob Baer, all'epoca responsabile della CIA per il Medio oriente, afferma che Mousavi "discusse direttamente con Imad Mughniyah", che organizzò entrambi gli attacchi.

Sono tutti fatti evaporati dalla memoria comune. I media e il governo statunitensi hanno trasformato Mousavi, il sanguinario macellaio dei militari americani, in colui che potrebbe liberare l'Iran dalla teocrazia.

Solo negli USA e tra i personaggi del profetico libro di George Orwell, 1984, possiamo trovare una tale ignoranza dei cittadini.

Ogni giorno negli Stati Uniti, o se vogliamo in Oceania (una delle tre potenze mondiali nel romanzo di Orwell, di cui faceva parte il continente nordamericano. NdT), constatiamo il crescente potere dei tre slogan del Grande Fratello: LA GUERRA È PACE, LA LIBERTÀ È SCHIAVITÙ, L'IGNORANZA È FORZA.

Dall'ignoranza nasce la forza per trasformare in eroe Mousavi, il terrorista nemico degli USA.

Dalla libertà nasce la protezione offerta dall'essere costantemente spiati, senza più i rischi della privacy che potrebbe impedire al Grande Fratello di scoprire un qualche complotto terroristico. E questo ci porta dalla libertà alla schiavitù di essere in stato di detenzione perpetua senza prove a carico. L'habeas corpus si è trasformato nel nemico della libertà, perché c'impedisce di essere protetti dai terroristi.

Il 23 giugno il Grande Fratello Obama, nel solco della tradizione dei Grandi Fratelli Bush e Cheney, ha dichiarato che Oceania e il "mondo intero" erano "sconvolti e indignati" per i violenti sforzi dell'Iran di porre fine alle proteste alimentate dalle interferenze straniere nelle elezioni del paese. Nel frattempo, Oceania porta avanti le sue guerre in Iraq, Afghanistan e Pakistan, uccidendo gente a destra e a manca, e si prepara a portare la pace in Iran. Nessuno si scandalizza per queste violenze: la guerra è pace, e chi non combatte le guerre non può elargire la pace. La pace si ottiene quando l'egemonia del Grande Fratello si estende su quelle regioni che non si rendono conto che la Guerra è Pace, la Libertà è Schiavitù, l'Ignoranza è Forza.
v "Il volto del Grande Fratello parve però indugiare per diversi secondi sullo schermo, come se l'impatto che aveva esercitato sulle pupille dei presenti fosse troppo intenso per poter essere eliminato all'improvviso. La donna dai capelli color sabbia, allungandosi al di sopra del sedile che aveva davanti, tese le braccia verso lo schermo e mosse le labbra in un tremulo bisbiglio nel quale parve di poter distinguere le parole "Mio Salvatore!", dopodiché nascose il volto tra le mani. Era chiaro che stava pregando.

"In quel momento tutti intonarono una sorta di salmodia lenta, ritmata, solenne: Grande Fratello, Grande Fratello, Grande Fratello!", incessantemente, lentamente, con una lunga pausa tra la G e la F, un murmure sordo e in un certo senso selvaggio, nel cui fondo sembrava di udire il battito cadenzato di piedi nudi e le vibrazioni dei tam-tam. Continuarono a cantare per quasi trenta secondi, seguendo un rituale che si ripeteva quasi tutte le volte in cui l'emozione si faceva particolarmente forte. Si trattava in parte di un inno alla saggezza e alla maestà del Grande Fratello, ma soprattutto di un atto di autoipnosi, di un volontario ottundimento della coscienza, raggiunto per mezzo del ritmo" [ 1984]

Il volontario ottundimento della coscienza, raggiunto per mezzo del ritmo, riassume in modo perfetto la funzione del Ministro della Verità di Oceania.

Quanto manca agli Americani prima che Grande Fratello e il Ministro della Verità diano vita allo Psicoreato? "Che scrivesse o meno ABBASSO IL GRANDE FRATELLO! non faceva alcuna differenza. La Psicopolizia lo avrebbe preso lo stesso. Aveva commesso quel reato fondamentale che conteneva dentro di sé tutti gli altri. Psicoreato, lo chiamavano".

In America, i neoconservatori i neoconservatori hanno creato comitati di controllo dei Psicoreati tra i professori. I membri del mondo accademico che si allontanano dalla loro linea, o la rimettono in discussione, sono additati e sottoposti a campagne denigratorie: la carriera di Sami Al-Arian, un docente di scienza informatica della Florida University, è stata distrutta dal Dipartimento della giustizia [sic!] statunitense perché aveva difeso il punto di vista palestinese.

L'operazione di spionaggio accademico dei neoconservatori è stata rilanciata da Dennis C. Blair, direttore della National Intelligence. Su CounterPunch del 23 giugno , David Price segnala che Blair ha annunciato piani per addestrare funzionari dello spionaggio, la cui identità e attività saranno celate ai docenti e agli amministratori, destinati a condurre operazioni segrete nelle aule universitarie.

Ecco avverarsi le profezie di Orwell: pensare in modo indipendente sta rapidamente diventando un grave Psicoreato. Winston Smith era l'unico, tra gli schiavi del Grande Fratello, capace di un pensiero indipendente, ma il crimine venne scoperto e punito.

Già adesso vediamo che i media nazionali sono incapaci di pensare in modo autonomo, e anche nel mondo universitario, dove le carriere dipendono dall'elargizione dei fondi statali, l'indipendenza di giudizio è quasi scomparsa. E non la troviamo certo nei think tanks, che servono gl'interessi dei donatori. Negli USA il pensiero indipendente si sta velocemente trasformando in un atto anti-americano, e di conseguenza in un atto terroristico.

Il gergo giornalistico opera incessantemente per drogare e trasformare la realtà. Le nuove generazioni, nate nel nuovo sistema, non percepiscono la differenza, e non hanno quindi bisogno di essere messe a tacere. Quando le generazioni più vecchie saranno scomparse, la verità sarà qualsiasi cosa dica il Grande Fratello.

Paul Craig Roberts [contattatelo via email ] è stato assistente nella segreteria del ministero del tesoro durante il primo mandato del presidente Reagan. È stato coeditore del Wall Street Journal. Ha ottenuto numerosi incarichi accademici (tra l'altro la William E. Simon Chair, Center for Strategic and International Studies, Georgetown University,e la Senior Research Fellow, Hoover Institution, Stanford University), ed è stato insignito della Legione d'onore dal Presidente francese Francois Mitterrand. Ha scritto Supply-Side Revolution : An Insider’s Account of Policymaking in Washington ; Alienation and the Soviet Economy e Meltdown: Inside the Soviet Economy , ed è coautore con Lawrence M. Stratton di The Tyranny of Good Intentions : How Prosecutors and Bureaucrats Are Trampling the Constitution in the Name of Justice.


Mousavi è stato il macellaio di Beirut di Jeff Stein - Information Clearing House - 23 Giugno 2009
Traduzione per www.comedonchisciotte.org a cura di Carlo Pappalardo

Potrà anche diventare il nuovo idolo della democrazia iraniana, ma trent'anni fa Mir-Hossein Mousavi stava guidando un'ondata di attacchi terroristici contro gli USA, tra cui i sanguinosi attentati contro l'ambasciata statunitense e la base dei marine a Beirut.

Secondo vari funzionari della CIA e dell'esercito, Mousavi, primo ministro per buona parte degli anni '80, aveva scelto personalmente Ali Akbar Mohtashemi-pur come uomo di punta per la campagna terroristica a Beirut, e lo aveva spedito a Damasco in qualità di ambasciatore iraniano.

E il neo ambasciatore aveva ospitato varie riunioni della cellula che avrebbe poi condotto gli attacchi di Beirut, analizzati dalla National Security Agency.

"Abbiamo una registrazione sull'ambasciatore iraniano in Libano", ha dichiarato lunedì per telefono James "Ace" Lyons, ammiraglio della marina in pensione, che nel 1983 era vicecapo delle Operazioni navali e coinvolto in prima persona negli avvenimenti libanesi.

"L'ambasciatore iraniano aveva ricevuto istruzioni dal Ministro degli esteri di scegliere vari obiettivi tra il personale statunitense nel paese, e soprattutto di condurre un'azione spettacolare contro i Marine", ha dichiarato l'ex ammiraglio.

"Era primo ministro" ha detto Lyons riferendosi a Mousavi "e dunque non si era preoccupato di fornire dettagli, ma essendo al vertice doveva essere al corrente di quel che si preparava".

Lyons, ricordato talvolta come "il padre" dell'unità di controterrorismo Red Cell delle SEAL (forze speciali della Marina USA usate in guerre non convenzionali, missioni speciali e azioni di antiterrorismo. NdT), addebita inoltre a Mousavi il camion bomba contro il centro della flotta navale statunitense a Napoli, che uccise cinque persone (tra queste, la prima donna soldato a morire in un attacco terroristico).

Anche Bob Baer concorda sul fatto che Mousavi, esaltato in Occidente per aver riempito le strade con dimostrazioni di piazza contro il regime di Teheran dopo aver perso le elezioni, ha diretto l'intera campagna terroristica degli anni '80.

Ma Baer, ex ufficiale della CIA per il Medio oriente le cui avventure sono hanno ispirato il film di George Clooney "Siriana," ritiene Mousavi ancora più direttamente coinvolto negli attentati di Beirut.

"Ne discusse direttamente con Imad Mughniyah", che organizzò gli attacchi a Beirut e "fu considerato il massimo responsabile delle due azioni", ha scritto Baer nel TIME di questa settimana.

"Quando era primo ministro, Mousavi diresse il servizio incaricato delle operazioni all'estero, dal Libano al Kuwait e all'Iraq" ha continuato Baer. "Fu il punto culminante della visione teocratica dell'Ayatollah Khomeini, quando l'Iran pensava di poter realmente esportare la sua rivoluzione in tutto il Medio oriente e forniva fondi e armi a chiunque dicesse di poter assestare un colpo definitivo al vecchio ordine".

Baer ha aggiunto: "Mousavi non si limitò a coltivare questa illusione ma cercò attivamente di realizzarla".

L'ammiraglio Lyons ha sostenuto che avrebbe potuto distruggere i terroristi nel covo individuato dai servizi segreti statunitensi, ma che venne bloccato da altri elementi del gabinetto del presidente Ronald Reagan.

"Stavo per eliminarli" ha dichiarato Lyons "ma il segretario alla difesa Caspar Weinberger sabotò l'operazione".