giovedì 24 settembre 2009

Assemblea Generale ONU e G20: a nudo la crisi dell'Occidente

Ieri si è svolta l'annuale Assemblea Generale dell'ONU dove hanno parlato tutti i leader dei Paesi membri, con l'esordio sia del presidente USA Barack Obama che del leader libico Muammar Gheddafi. Il quale, sforando di gran lunga il tempo consentito, ha pronunciato un discorso tra il serio e l'ironico su cui comunque farebbero bene a riflettere i leader occidentali che si sono alzati sprezzanti senza ascoltare le sue parole.

Ma è stato il discorso di Obama che, pur con la sua consueta accattivante retorica, ha messo a nudo tutti i limiti in cui è costretto a operare, grazie all'eredità disastrosa che gli ha lasciato in dote George W. Bush.
Limiti e impotenza con cui gli USA dovranno fare i conti per la prima volta nella loro storia, aggravate inoltre anche dalla pesantissima situazione economica interna.

Per le (ex) potenze occidentali si annunciano tempi difficili.
I loro "boicottaggi" saranno presto controproducenti e dovrebbero fin da subito prestare molta attenzione a ciò che dicono i leader dei cosiddetti Stati canaglia (alcuni ormai considerati già ex), e non solo loro.

Ne avranno già un assaggio al G20 di Pittsburgh.


Ma il carisma non basta
di Vittorio Zucconi - La Repubblica - 24 Settembre 2009

Dietro le parole sempre nobili, e la sua impareggiabile capacità di enunciarle con la passione che incendiò la campagna elettorale, la storia che Barack Obama ha dipanato per i rappresentanti del mondo nel suo primo discorso all'Onu è la spietata narrazione di un fallimento, insieme globale e americano. Il fallimento della comunità internazionale di fronte a inutili stragi da fame e da guerre.

Delle impotenti Nazioni Unite nell'essere qualcosa più di una agenzia per la protezione civile globale e la distribuzione di pacchi e coperte. Il ritardo colpevole nell'affrontare il disastro del riscaldamento e dei gas industriali. E il fallimento del suo predecessore, George Bush nel lasciare, dopo due guerre, un mondo che somigli alla promessa di sicurezza e di egemonia, come voleva il testamento dei neo conservatori sull'impossibile "Nuovo Secolo Americano".

Senza mai sconfessare, accusare o anche soltanto nominare il suo predecessore, che sarebbe un atto imperdonabile nel galateo civico americano, i 38 minuti di arringa obamania hanno tracciato un ritratto amaro del mondo che lui, e altre 189 nazioni raccolte all'Onu, hanno ereditato dalla allucinazione dell'interventismo unilaterale spacciato per idealismo e che ora dovrebbero raddrizzare attraverso una nuovo di "multilateralismo pragmatico".

Nel quale, pensa il Presidente riprendendo in chiave diplomatica il tema che sollevò temerariamente di fronte alla comunità afro-americana sempre esposta al vittimismo razziale, l'America per prima, ma tutte le altre nazioni, "devono assumersi le proprie responsabilità", anziché scaricare gli altri, specialmente sugli Stati Uniti, le conseguenze delle loro scelte e del maltrattamento dei propri cittadini.

La critica forte, anche se implicita, che questa nuova amministrazione muove a chi l'ha preceduta è in quella impossibilità di "imporre la democrazia", dice Obama, a chi non è pronto ad accettarla o a chi non ha maturato le condizioni interne per radicarla. Non si tratta di rinunciare al "diritto di usare la forza per difendere la sicurezza degli Stati Uniti, per la quale non chiederò il permesso a nessuno".

Ma di riconoscere che la premessa ideologica fondamentale di quella dottrina Bush alla quale lo stesso Bush aveva rinunciato nel suo secondo turno nello Studio Ovale, indignando il suo vice Cheney, era fallace. E l'America non può essere da sola, o con chi la segue (ricordate la "coalizione dei volontari sbriciolata in Iraq"?) la forza che decide, con sospetta selettività, dove e quando cambiare regimi sgraditi. Perché "se nessuna nazione deve essere condannata a subire la tirannide del proprio governo, nessuna nazione deve essere sottoposta alla tirannide di un governo straniero".

Il limite di questo "multilateralismo pragmatico" spiegato da Obama a un'assemblea che non sempre lo ha accolto entusiasticamente, è che occorre essere almeno in due, per fare progressi e risolvere problemi. E non sempre la capacità persuasiva, il carisma oggi un po' calante e la forza della storia personale del presidente bastano per convincere avversari, nemici, fanatici, a più ragionevoli consigli.

E' importante che il nuovo capo della nazione americana spieghi di avere obbiettivi concreti, come i quattro che ha elencati - l'arresto della proliferazione nucleare, la messa al bando degli esperimenti atomici, la guerra collettiva al degrado della Terra provocato dall'attività umana e la nuova regolamentazione dell'economia e della finanza globali - ma la falla nella "dottrina Obama" è nella disponibilità degli altri a partecipare alla partita. "Purtroppo né l'Iran né la Corea del Nord hanno rispettato i loro obblighi internazionali". E allora?

E allora il paradosso è che la soluzione dipende da coloro che hanno creato il problema, come Ahmadinejad, che ha parlato ieri sera. Un dilemma evidente soprattutto in quel conflitto fra Israele e Palestina per il quale Obama chiede al governo Netanyahu di mettere fine agli insediamenti, una richiesta pubblica che ha immediatamente infuriato il governo ebraico, e ai governi arabi di rinunciare a quella "propaganda al vetriolo" contro Israele che danneggia la stessa causa della Palestina sovrana.

Sul fallimento continuo che questa istituzione, l'Onu, e il bushismo, si sono lasciato dietro, anche il giudizio dell'America è chiaro, dimostrato nella crescente opposizione anche alla "guerra giusta", quella a Kabul. Ma è il passaggio alla persuasione diplomatica, al multilateralismo pragmatico che lascia scettici i duri a morire del bushismo, come l'ex ambasciatore di Bush all'Onu, John Bolton, che ha subito accusato Obama di avere "messo la testa di Israele sul bancone del macellaio".

Il Presidente, predicando la responsabilità collettiva e la fine dell'America "cavaliere solitario" si limita in sostanza a fare i conti con il mondo devastato da crisi ambientali, belliche, etiche e finanziarie, costate finora "duemila miliardi di dollari" che ha ereditato da Bush, puntando su una razionalità e una ragionevolezza che scarseggia.

Lo ha dimostrato parlando dopo di lui Gheddafi in uno sproloquio tragicomico trascinato per 100 minuti strazianti di fronte a un'assemblea sbigottita e progressivamente deserta. Ha fatto a Obama il dubbio favore di chiamarlo "il nostro figlio", il figlio d'Africa, e all'Italia il dubbio onore di indicarci come esempio. Ma se a Gheddafi pochi hanno dato ascolto, abbandonando in massa l'aula dell'assemblea, la domanda seria è: il mondo presterà attenzione alla mano tesa da Obama, dopo avere respinto il pugno di Bush?


Pittsburgh parte già col piede sbagliato, ci vorrà una nuova crisi per capirlo?
di Stefano Cingolani - www.ilsussidiario.net - 24 Settembre 2009

Sarà il G20 della ripresa, dicono non senza retorica. A Pittsburgh oggi e domani i leader dei paesi ai quali si vorrebbe affidare una sorta di kantiano “governo mondiale”, sono chiamati a discutere gli strumenti non più per salvare l’economia dal collasso o per attenuare le conseguenze della recessione, ma per rimettere in moto un nuovo ciclo di sviluppo. La svolta si sta manifestando un po’ ovunque. Cina e India viaggiano già a un buon ritmo (7-8 per cento).

Negli Stati Uniti, giugno ha rappresentato il mese in cui si può datare l’inizio della ripartenza. L’Europa segue, spinta da Francia e Germania. Ma davanti ai venti capi di stato e di governo si presenta un ostacolo che difficilmente riusciranno a rimuovere. La condizione della ripresa è il risanamento e la riforma del sistema bancario. Un crack grave, ma limitato come quello dei subprime, è diventato collasso sistemico per colpa delle banche. La debolezza del loro capitale e l’eccesso di rischi assunti, ha creato un “acceleratore finanziario” negativo e ciò resta la principale palla al piede della ripresa.

Meglio non farsi incantare dai facili profitti messi in conto in questi sei mesi, grazie al nuovo boom delle borse e alla compravendita di titoli, per lo più pubblici. La struttura patrimoniale dei colossi bancari è fragile. Il capitale che hanno a disposizione è troppo poco. Aumentarlo è la parola d’ordine che rimbalza tra le sponde degli oceani.

Ma su come e quanto, i principali paesi sono divisi. Gli Stati Uniti spingono per una consistente ricapitalizzazione che punti verso un rapporto tra mezzi propri e impieghi attorno al dieci per cento almeno.

Gli europei sono contrari. E’ vero, le banche del vecchio continente sono sottocapitalizzate anche rispetto a quelle americane, ma queste ultime hanno ricevuto iniezioni consistenti da parte dello stato. In Europa continentale si arrabattano per farcela da sole (vedi Unicredit che sta valutando una ricapitalizzazione di 4 miliardi non attraverso i Tremonti bond, ma direttamente sul mercato). E non si sa se ci riusciranno. I governi europei sono forse troppo sensibili alle grida di dolore dei loro banchieri, ma non hanno torto nel temere che la soluzione americana sarebbe troppo onerosa. Difficilmente si uscirà dall’impasse, a meno di non prendere in esame una riforma più radicale del sistema.

A rompere le uova nel paniere ci ha pensato Paul Volcker. Il vecchio capo della Federal Reserve che negli anni di Reagan stroncò l’inflazione e gettò le premesse per uno dei più energici boom del dopoguerra, propone che venga impedito alle banche commerciali, le quali si alimentano con i depositi dei risparmiatori, di operare per proprio conto in borsa e su mercati finanziari troppo ampi, impersonali e pericolosi. Uscire dalla logica del supermercato per passare alle boutique (magari raccolte in spazi comuni), consente di impostare in modo diverso anche la questione del capitale, calibrando i requisiti di sicurezza e le norme di vigilanza in modo diverso a seconda del mestiere svolto e del grado di rischio preso.

Si tratta di recuperare la distinzione tra banche commerciali e d’investimento e ai limiti della vecchia legge bancaria, il Glass Steagal Act, abolito nel 1999 quando era al massimo la pressione globalizzatrice di Wall Street. Volcker andrà in Congresso a spiegare in dettaglio la sua proposta dirompente che non trova, per la verità, né il consenso dei colossi bancari che sono usciti vincitori dalla grande selezione (Bank of America, Citigroup, Goldman Sachs, Merrill Lynch, JP Morgan Chase, le cinque sorelle), né dell’amministrazione.

Il segretario al Tesoro Geithner è intervenuto mercoledì alla Camera dei rappresentanti per perorare la riforma della regolazione finanziaria che in molti trovano nello stesso tempo confusa e timida. Mentre non si sono spente le polemiche politiche sui salvataggi e il potere discrezionale esercitato dalla Fed e dal Tesoro.

Intanto, l’Unione europea ha varato il suo schema di riforma basato su due nuove autorità: il System of Financial Supervisors composto dai banchieri centrali e presieduto da Trichet, presidente della Bce, che rappresenta una sorta di superviliganza continentale; e il Systemic Risk Board presieduto da Mervyn King, governatore della Banca d’Inghilterra, che deve vegliare sugli equilibri tra borsa e moneta, portando a bordo anche la City. Ma nessuna delle grandi architetture di regole e regolatori è in grado di affrontare il problema dei problemi che, ancora una volta, non sta nella sovrastruttura, ma nel cuore del capitale bancario. Ci vorrà un nuovo G20. Speriamo non una nuova crisi.


Ecco dove guadagnare e speculare di più (per la gioia delle banche)
di Mauro Bottarelli - www.ilsussidiario.net - 24 Settembre 2009

Solitamente sono io a porre legittimi dubbi sull’eccessivo ottimismo di alcuni politici e regolatori riguardo i tempi della crisi e l’arrivo della sua fine. Stavolta, invece, è stato il Monetary Policy Committee della Bank of England a spegnere sul nascere i facili entusiasmi parlando a chiare lettere di «false albe per l’economia» e di un inverno che potrebbe portare in dote ulteriore aumento della disoccupazione, contrazione del credito e della domanda interna oltre a nuove, pesanti svalutazioni nel comparto bancario. Insomma, una nuova ondata di crisi.

La decisione all’unanimità di mantenere pressoché a 0 i tassi di interesse, d’altronde, parla questa lingua: il paese europeo che più di ogni altro ha pagato il prezzo prima allo shock finanziario e poi alle ripercussioni sull’economia reale resta pesantemente sulla difensiva. Insomma, i dati macro parlano chiaro e i rally borsistici di queste ultime settimane potrebbero essere nulla più che assalti alla diligenza della speculazione, ovvero interventi a freddo su commodities e cross monetari che innescano sì acquisti in grande stile, ma al primo segnale di “stop” fanno crollare il castello di carta.

E non è un caso, in tal senso, che alla vigilia del G20 la Federazione mondiale delle Borse si sia lanciata all'attacco dei mercati paralleli, i sistemi "over-the-counter" od Otc, mettendo in guardia i paesi appartenenti al consesso dei Grandi che queste piattaforme di trading potrebbero non funzionare in maniera appropriata e favorire la volatilità anche sui mercati ufficiali e regolamentati.

Secondo quanto riportava ieri il Financial Times, alla vigilia del vertice di Pittsburgh, la World Federation of Exchanges si è fatta avanti con una lettera a Mario Draghi, che oltre ad essere governatore della Banca d'Italia è anche il presidente del Financial Stability Board, l'ente transazionale con sede a Basilea che cura il coordinamento tra i vari paesi su regole e stabilità del settore finanziario.

Tuttavia le accuse delle Borse rischiano di innescare forti attriti con le grandi banche internazionali, i principali operatori di questi mercati paralleli, chiamati anche "dark pools", o "pozzi oscuri" in quanto i dettagli delle transazioni che vi vengono effettuate sono resi noti solo dopo la loro chiusura. Secondo le Borse «l'elevata opacità» di queste piattaforme «inibisce la capacità di determinare i prezzi», che deriva dall'incontro tra domanda e offerta, riportava il Ft «e può portare a ripercussioni negative, tra cui una maggiore volatilità dei mercati».

Le banche rivendicano che si tratti di una attività legittima, che riguarda operazioni rilevanti su titoli finanziari (azioni, obbligazioni o derivati), che è difficile e costoso effettuare sui mercati ufficiali, dove l'ammontare massimo del singolo ordine viene continuamente assottigliato. Inoltre le stesse Borse gestiscono in certi casi dei loro mercati Otc: secondo il Ft la mossa della federazione delle Borse mette in rilievo un’intensificazione delle attività di lobbying per persuadere la politica a far confluire tutte le operazioni di trading sui titoli finanziari nei loro circuiti.

Nei mesi scorsi i mercati Otc sono stati oggetto di critiche da più parti e alcune di queste piattaforme sono state accusate di aver esacerbato la volatilità dei prezzi sui titoli derivati, riportava ancora il quotidiano della City. Lo scontro, quindi, sta diventando non tra Robin Hood e lo sceriffo di Nottingham come vorrebbe farci credere la bozza preventiva del G20, tagliata su misura per il populismo di Sarkozy, bensì tra due diversi tipi di sceriffi di Nottingham: quello regolare, trasparente ancorché non limpido né immune da colpe delle Borse regolamentate e quello dei “pink sheets”, dei mercati oscuri dove si fanno i veri soldi, dove si avviano i processi speculativi - l’Ice di Londra con il suo mercato dei futures sul petrolio Usa ne è la conferma - che poi si ripercuotono sui mercati e soprattutto dove le grandi banche internazionali hanno maggiori interessi.

Siamo certi che, purtroppo, sui grandi giornali si darà poco conto di questa contrapposizione, per il semplice fatto che le banche hanno interessi su quei mercati e le stesse sono spesso editori dei principali quotidiani: il fatto che il Financial Times abbia lanciato la notizia appare un chiaro segnale verso Basilea più che verso Pittsburgh.

Tanto più che se la logica delle nuove norme invocate da più parti per i mercati deve essere quella della trasparenza e della fine dell’epoca dei “derivati dei derivati”, allora il mercato Otc appare davvero il luogo deputato per la prima mossa. In quanti, però, saranno davvero pronti a compierla non è dato a sapere. I sistemi over-the-counter sono veri e propri campi minati, sono il palcoscenico preferito dei grandi player perché si può operare nell’ombra e metterci mano potrebbe risultare da un lato controproducente - ricordo ancora qualche giacobino che chiedeva l’eliminazione dei contratti futures, salvo poi rendersi conto che senza quei contratti le linee aeree ci farebbero pagare un volo Milano-Londra 1.000 euro - e dall’altro poco salutare per amministrazioni politiche come quella americana o britannica che alle lobby dei mercati devono molto, anche in termini di ricchezza del paese e posti di lavoro.

Il fatto che ieri al Congresso il segretario Usa al Tesoro, Tim Geithner abbia parlato di necessità di uno schema di protezione per i consumatori e del miglioramento dei meccanismi di funzionamento dell’agenzia chiamata a vigilare sul fatto che le banche non debbano diventare “too big to fail” fa capire quale sia l’impostazione Usa nello scegliere le priorità da affrontare: c’è quindi il forte rischio che al G20 si consumi uno strappo ma anche che i troppi temi sul tappeto facciano passare in secondo piano le reali battaglie in atto tra i partecipanti al vertice.

È di ieri infatti la conferma che il Caspio sia il teatro della nuova corsa alle risorse energetiche e che il Turkmenistan potrebbe essere un paese-chiave, su cui si addensano gli appetiti geopolitici delle più grandi potenze del mondo: la Russia, la Cina, gli Stati Uniti, l'Unione europea, l'Iran e l'India.

Gurbanguly Berdymukhamedov, il "dominus" della repubblica centro-asiatica, ne è consapevole e sta giocando la sua partita su diversi tavoli: ieri l’agenzia di stampa Interfax dava infatti conto di un incontro a New York tra il presidente turkmeno e il segretario di Stato Usa, Hillary Clinton, durante il quale Berdymukhamedov ha ricevuto la promessa di aiuto americano nella complessa opera di diversificazione delle forniture di gas, risorsa di cui il Turkmenistan è uno dei Paesi più ricchi al mondo. Mossa che, come potete facilmente intuire, non suscita gli entusiasmi di Russia a Cina. Ma al G20 si parlerà di bonus ai banchieri e nuove regole. Poveri noi.