Nel mirino di Moody's anche 9 banche portoghesi a causa della loro esposizione con i titoli del debito pubblico di Lisbona.
Ma se l'Europa e gli USA piangono, in Cina si sta cominciando a ridere di meno...
La Cina si è rotta?
di Mike Whitney - www.counterpunch.org - 30 Settembre 2011
Traduzione per www.comedonchisciotte.org a cura di Alez
La crescente crisi del debito nell’eurozona e il cattivo stato dell’economia USA hanno oscurato le condizioni in rapido deterioramento della seconda economia mondiale.
Il miracolo cinese sta rapidamente diventando un incubo mentre i CDS [Ndt: credit default swaps – polizze contro il rischio di mancato pagamento obbligazionario] si sono impennati ai massimi da tre anni e l’azionario è caduto, l’indice Hang Seng ha registrato il peggior trimestre nella decade.
La bolla immobiliare cinese ha aperto una falla nelle prospettive di crescita e direzionato l’economia cinese verso un brusco atterraggio. Gli investitori stanno febbrilmente abbandonando l’azionario, anticipando una contrazione del credito.
La Cina potrebbe risultare la tessera del domino che gli analisti non sono riusciti a vedere a causa della loro preoccupazione per l’Europa e gli Stati Uniti.
Detto questo, i problemi cinesi non sono più nascosti e il disastro sta attirando sempre più attenzione.
I problemi cinesi sono attribuibili a un sistema bancario nascosto sottocapitalizzato, che ha fornito enormi prestiti a privati e industrie che non sono più in grado di servire il debito. Già sentito? Ecco un breve riassunto della questione di Waiching Li su Credit Writedowns:
Secondo uno studio della People’s Bank of China, nel 2010 il credito non bancario è cresciuto fino a 63,3 trilioni di Yuan (10 trilioni di dollari) pari al 44,4% del credito totale in Cina. […]
Il credito non bancario in Cina è principalmente del tipo cooperativo [Bank and Trust Cooperation], ma anche piccole finanziarie e banchi dei pegni giocano un ruolo nella finanza ombra.
Anche se la cartolarizzazione dei mutui non è un problema in Cina, la “Bank and Trust Cooperation” è un mezzo per fornire prestiti nascosti, aggirando i limiti dati dalle riserve bancarie. Come avvenuto con i problemi di cartolarizzazione negli Stati Uniti, le banche utilizzano degli intermediari. […]
Secondo China Trustee Association, al 31 Marzo la dimensione delle “Bank and Trust Cooperation” ha raggiunto i 15,3 trilioni di Yuan (2,35 trilioni di dollari). I rischi di tali attività finanziarie sono trasferiti agli acquirenti. Poiché non ci sono rating disponibili per questi crediti, gli acquirenti devono fidarsi delle raccomandazioni delle banche, sperando che queste siano oneste e competenti, nonostante guadagnino commissioni anche in caso di perdite per l’investitore.”
L’incontrollata espansione del credito è alla base delle crisi finanziarie, e la Cina non fa eccezione. L’incombente implosione cinese può scuotere l’economia globale, spingendo USA ed Europa in recessione.
Le compagnie statali non finanziarie, in aggiunta alla loro normale attività, hanno emesso finanziamenti per aumentare i profitti. La liquidità abbonda e quando il credito è facilmente disponibile si formano bolle e ne conseguono disastri.
Ora che la bolla è scoppiata, l’industria ha iniziato a rallentare, il credito si sta prosciugando e il flusso di capitali si è invertito. Ecco perché la People’s Bank of China sta diminuendo le riserve obbligatorie e sta iniettando “36 miliardi di yuan (5,6 miliardi di dollari) nei mercati questa settimana, continuando lo stimolo da ormai 11 settimane”. (Bloomberg)
Finora il flusso di credito non regolamentato è stato più che sufficiente ad annullare le azioni della banca centrale contro l’inflazione (adesso al 6,5%). Secondo il Financial Times “i flussi annui di capitale nei mercati non regolamentati [shadow market] potrebbero ammontare a 2.000 miliardi di Yuan (310 miliardi di dollari), circa il 5% del PIL.
Ecco un estratto da “Le Shadow Banks mettono a rischio l’Economia Cinese”:
L’economista Chaoan Jushi afferma: “Nelle condizioni attuali di contrazione economica per le piccole e medie imprese che necessitano molta liquidità è difficile, dopo essersi indebitate, arrivare a profitti del 60, del 100%. E’ un grosso rischio. Alcuni pensano “se posso indebitarmi per affrontare le difficoltà continuo, se no scappo”.
Il denaro che le autorità locali e le imprese statali stanno prestando è però denaro che hanno esse stesse preso a prestito dalle quattro grandi banche cinesi. Il vicepresidente del comitato del National People’s Congress ha denunciato la scorsa settimana al World Economic Forum di Dalian: “La versione cinese della crisi dei mutui subprime americani è prestare denaro ad autorità locali che non potranno ripagarlo”. (“Shadow Banks endanger Chinese Economy”, NTDTV.com)
Molti di questi prestiti non verranno mai ripagati poiché, come i mutui subprime americani, sono stati fatti a chi non ha i mezzi per ripagarli. Così, quando si inceppa la catena dei pagamenti, ha inizio la spirale negativa. In Cina questo fenomeno sta adesso prendendo forza.
C’è già evidenza che più multinazionali sono in crisi finanziaria quest’anno. Credit Suisse, in una nota della settimana scorsa, ha detto che il suo indice di prestiti in sofferenza è salito bruscamente nel primo semestre 2011 al 4,9%, dall’1% del 2010. […]
Secondo Zhu Min, vicedirettore del Fondo Monetario Internazionale e già dirigente cinese, la Cina ha già raddoppiato il sui rapporto debito/PIL da meno del 100% prima della crisi di Lehman Brothers a circa il 200% di oggi”. (“More warnings on China’s debt”, Marketwatch)
I prezzi immobiliari, schizzati del 60% circa dal 2006, hanno trovato un muro e hanno iniziato a declinare in tutta la Cina, spingendo le azioni dell’edilizia a un ribasso del 40% nell’anno.
Questo mette ulteriormente sotto pressione i costruttori, già oberati di debiti. Se i prezzi continuano a scendere gli stessi costruttori dovranno affrontare nuovi pagamenti sul debito, dovendo liquidare azioni e obbligazioni per recuperare la liquidità necessaria.
Ora che le shadow banks hanno ristretto il credito, il denaro facile si sta prosciugando e il mercato immobiliare è pronto a un crollo che esporrà il marcio nel sistema, mandando in bancarotta molte oscure società finanziarie. Ciò porterà a un ulteriore ribasso o innescherà una crisi finanziaria totale, nessuno lo sa per certo.
Dunque la Cina è nei guai, adesso, come se non avessimo già abbastanza di che preoccuparci.
La crisi del credito ora minaccia il colosso Cina
di Joseph Zarlingo - Il Fatto Quotidiano - 7 Ottobre 2011
Giovedì l’agenzia di stampa Xinhua ha riferito che nella città di Wenzhou, nella provincia dello Zhejiang, circa un quinto delle 360 mila piccole e medie imprese locali è stato costretto a bloccare le attività. Motivo: carenza di credito
La locomotiva cinese sembra finora al sicuro dagli effetti più gravi della crisi finanziaria ed economica iniziata nel 2008. Le cose potrebbero invece non essere così lineari.Giovedì infatti l’agenzia di stampa ufficiale Xinhua ha riferito che nella città di Wenzhou, nella provincia sudorientale dello Zhejiang, circa un quinto delle 360 mila piccole e medie imprese locali è stato costretto a bloccare le attività negli ultimi mesi.
La causa sembra essere una micidiale carenza di credito, che spinge gli imprenditori cinesi a rivolgersi ai canali del cosiddetto «credito informale», spesso a tassi da usura.
Secondo la stampa locale, almeno 80 imprenditori sono scappati dalla provincia perché non erano in grado di ripagare i prestiti contratti con le banche e con gli usurai. E c’è anche un caso accertato di suicidio di un imprenditore, proprietario di una fabbrica di scarpe, che per questo motivo si è ucciso lanciandosi dal tetto del suo stabilimento.
Alla base della contrazione delle attività delle piccole imprese dello Zhejiang, secondo le stime del Credit Suisse, c’è la diminuzione dei prestiti e della disponibilità di contante, conseguenza a sua volta delle misure di stretta creditizia decise dal governo per tenere a freno l’inflazione.
Dall’inizio dell’anno il governo ha cercato di raffreddare le spinte inflattive ordinando per ben tre volte un aumento del tasso di interesse di base e per sei volte alle banche di aumentare le proprie riserve valutarie.
Secondo gli analisti del Credit Suisse, questo ha spinto molti piccoli imprenditori, ma anche famiglie indebitate per l’acquisto di una casa, verso il settore del credito informale, che può arrivare a tassi del 70 per cento, per prestiti a breve termine che le piccole imprese usano talvolta come «ponte» in attesa dei finanziamenti bancari.
Le stime del Credit Suisse valutano una crescita del 50 per cento annuo di questo mercato dei prestiti a usura, con un valore complessivo che quest’anno potrebbe superare i 600 miliardi di dollari, circa l’8 per cento del valore del settore bancario ufficiale.
Dong Tao, capo economista della sezione del Credit Suisse che si occupa dei mercati asiatici, ha definito la questione dei prestiti a usura come «una bomba a tempo» inserita nel sistema economico cinese.
Ulteriore indicazione delle aspettative negative degli economisti sono i dati pubblicati giovedì dal Financial Times, secondo cui il mercato dei credit default swaps (in pratica «assicurazioni» finanziarie contro il rischio di fallimento) per i debiti del governo cinese, è arrivato a quasi 8,5 miliardi di dollari, rispetto agli 1,6 miliardi di due anni fa.
È come se una parte del mondo finanziario stesse scommettendo (o sperando) su quello che viene chiamato “hard landing”, atterraggio duro, dell’economia cinese.
Gli osservatori fanno notare che ci sono segni di «surriscaldamento» già in alcuni settori, come quello delle proprietà immobiliari, dove i prezzi continuano a salire da ormai due anni e sono a livelli altissimi.
Più dei numeri dei mercati, però, pesano le parole del premier cinese Wen Jiabao che questa settimana ha lanciato un allarme sulla questione del credito per le piccole imprese.
Wen Jiabao ha usato proprio la visita a Wenzhou per dire che “bisogna assumere misure efficaci per contenere questa tendenza del ricorso all’usura, colpire il mercato del credito illegale e assicurare un’adeguata gestione dei problemi della mancanza di capitale per impedire che si estendano su scala regionale”.
Non è quello del credito l’unico problema che la Cina si trova ad affrontare. Secondo i dati diffusi a giugno dal governo cinese, i governi locali hanno accumulato debiti per oltre un trilione e mezzo di dollari, pari a circa il 25 per cento del pil cinese.
L’agenzia di rating Fitch, all’inizio di settembre, stimava che tra l’8 e il 10 per cento di questi debiti potrebbe essere “cattivo”, ovvero impossibile da riscuotere da parte delle banche.
La combinazione dei due fattori, debiti e mancanza di liquidità, potrebbe, nella peggiore delle ipotesi, innescare un terremoto finanziario ed economico capace di far deragliare anche la locomotiva cinese.
Martoriati dalla crisi economica i greci si danno ai networks del baratto
di Dimitris Bounias - www.nytimes.com - 3 Ottobre 2011
Volos, Grecia - La prima volta che ha comprato uova, latte e marmellata in un mercato all'aperto utilizzando non l'euro, ma una moneta di scambio informale, Theodoros Mavridis, un elettricista disoccupato, era entusiasta.
"Mi sentivo liberato, mi sentivo libero per la prima volta", ha detto Mavridis in una recente intervista in un caffè di questa città portuale della Grecia centrale. "Io istintivamente ho messo la mano in tasca, ma non ce n'era bisogno."
Mr. Mavridis è il co-fondatore di una rete sempre più ampia qui a Volos che utilizza la cosiddetta Unità Locale Alternativa, o TEM in greco, per scambiare beni e servizi - corsi di lingua, baby-sitting, supporto informatico, pasti cucinati in casa - e per avere sconti da alcune aziende locali.
In parte moneta alternativa, in parte baratto, in parte mercato a cielo aperto, il network di Volos è cresciuto in modo esponenziale nell'ultimo anno, da 50 a 400 membri.
Si tratta di uno dei numerosi gruppi che saltano fuori in tutto il paese, man mano che i Greci, spremuti dai tagli salariali, aumenti delle tasse e crescenti timori sul fatto se continueranno a utilizzare l'euro, cercano modi creativi per far fronte a uno scenario economico in cambiamento radicale.
"Da quando c'è la crisi c'è stato un boom di questi networks in tutta la Grecia", ha detto George Stathakis, professore di economia politica dell'Università di Creta. Nonostante il forte settore pubblico in Grecia che impiega uno su cinque lavoratori, ha aggiunto, i servizi sociali del Paese spesso non sono all'altezza di aiutare le persone nel bisogno. "Ci sono così così tante enormi lacune che devono essere compensate da nuovi tipi di networks".
Anche il governo ne sta prendendo atto. La scorsa settimana, il Parlamento ha approvato una legge promossa dal Ministero del Lavoro per favorire la creazione di "forme alternative di imprenditorialità e sviluppo locale", compresi i networks basati sullo scambio di beni e servizi. La legge per la prima volta riempie in una zona grigia normativa, dando a questi gruppi lo status di no-profit.
Qui a Volos, i fondatori del gruppo sono convinti di lavorare in parallelo con l'economia regolare, ispirati più da un bisogno di solidarietà nei momenti difficili che da una spinta politica per l'uscita della Grecia dall'eurozona e il ritorno alla dracma.
"Non siamo rivoluzionari o evasori fiscali", ha detto Maria Houpis, un'insegnante in pensione e una dei sei co-fondatori del gruppo. "Noi accettiamo le cose come stanno."
“Eppure - ha aggiunto - se la Grecia avrà una svolta verso il peggio e alla fine esce dall'euro, reti come questa sono pronte a entrare nella breccia. In uno scenario immaginario - e sottolineo immaginario - saremmo pronti per questo."
Il concetto del gruppo è semplice. Le persone si iscrivono online e accedono a un database che è una specie di lista per soli membri. Una unità di TEM è uguale in valore a un euro, e può essere utilizzata per scambiare beni e servizi.
I membri iniziano i loro conti da zero, e accumulano credito offrendo beni e servizi. Si possono prendere in prestito fino a 300 TEM, ma si è tenuti a rimborsare il prestito entro un determinato periodo di tempo.
I soci ricevono anche dei libretti di vouchers della moneta alternativa se stessa, che assomigliano a buoni regalo e sono stampati con un sigillo speciale che rende difficile la contraffazione. Questi buoni possono essere utilizzati come assegni. Diversi uomini d'affari a Volos, tra cui un veterinario, un ottico e una sarta, accettano la moneta alternativa in cambio di uno sconto sul prezzo in euro.
Una rapida occhiata al database mostra persone che offrono lezioni di chitarra e di inglese, servizi di contabilità, assistenza tecnica per i computer, sconti presso parrucchieri e l'uso dei giardini privati per le feste. C'è un sistema di valutazioni per cui le persone possono descrivere le loro esperienze, al fine di mantenere un trasparente controllo di qualità.
(La rete utilizza software open-source ed è ospitata su un server olandese, cyclos.org, che offre bassi costi di hosting.)
Il gruppo tiene anche un mercato mensile all'aperto che è un incrocio tra una vendita di oggetti usati e un mercato contadino, dove il Sig. Mavridis ha usato il suo credito in TEM per comprare uova, latte e marmellata. I beni in questione provenivano da allevatori locali coinvolti nel progetto.
"Siamo ancora all'inizio" ha dichiarato Mavridis, che l'anno scorso ha perso il suo lavoro da elettricista in una fabbrica. “Nei prossimi mesi, il gruppo spera di avere uno spazio in un ufficio dove le persone senza computer potranno collegarsi alla rete più facilmente.”
Per la signora Houpis, la rete ha una dimensione psicologica. "La cosa più emozionante che si prova quando si inizia è questo senso di collaborazione", ha detto. "Hai molto di più di quanto dice il tuo conto in banca. Hai la tua mente e le tue mani. "
Mentre si affaccendava sul suo tavolo da cucito nel suo piccolo negozio nel centro di Volos, Angeliki Ioanniti, 63 anni, ha detto che accetta sconti per lavori di sartoria ai membri della rete, e scambia anche lavori di cucito per aiuto con il computer.
"Essere in una piccola città aiuta, perché c'è fiducia", ha detto. In cambio di euro e moneta alternativa, vende anche olio d'oliva, olive e sapone al profumo di bergamotto fatto in casa da sua figlia, che vive nella campagna fuori Volos.
Nel negozio di ottica della sua famiglia, Klita Dimitriadis, 64 anni, offre sconti ai clienti che utilizzano moneta alternativa, ma ha detto che la rete non ha veramente ancora preso piede o portato molti affari. "E' utile, ma ancora non funziona molto, perché tutti stanno facendo sconti", ha detto.
In una e-mail, il sindaco di Volos, Panos Skotiniotis, ha detto che la città segue la rete della moneta alternativa con interesse ed è generalmente di sostegno alle iniziative di sviluppo locale.
Ha aggiunto che la città sta guardando anche ad altri modi di gestire la situazione economica, per esempio mettendo a disposizione del suolo pubblico per una fattoria urbana comunale dove i cittadini possano coltivare prodotti per uso proprio o da vendere.
Dopo anni di consumismo sfrenato e di credito facile, queste iniziative nascenti parlano del nuovo clima in Grecia, dove l'austerità imposta ha portato la gente a unirsi - non solo per protestare in massa, ma anche per aiutarsi l'un l'altro.
Iniziative simili stanno spuntando dappertutto in Grecia. A Patrasso, nel Peloponneso, nel 2009 è stato fondato un network chiamato Ovolos, dal nome di un'antica moneta Greca, e comprende una moneta locale di scambio, un sistema di baratto e una cosiddetta banca del tempo, in cui i membri si scambiano servizi come cure mediche e corsi di lingua.
Il gruppo ha circa 100 transazioni alla settimana, e volontari per monitorare i servizi illegali, ha detto Nikos Bogonikolos, il presidente e socio fondatore.
La Grecia ha avuto per lungo tempo altre reti di scambio, in particolare tra i contadini. Dal 1995, un gruppo chiamato Peliti ha raccolto, conservato e distribuito gratis semi delle varietà locali ai coltivatori, e dal 2002 opera come rete di scambio in tutto il paese.
Al di là degli scambi, vengono fuori anche altri segni di collaborazione. Quando gli autobus e i dipendenti della metropolitana di Atene sono scesi in sciopero due settimane fa, gli Ateniesi hanno inondato Twitter alla ricerca di carpools, utilizzando un account fondato nel 2009 per aumentare la consapevolezza sui problemi del trasporto ad Atene. La diffusione di questa pratica ha fatto notizia, come un segno di qualcosa di impensabile prima che la crisi colpisse.
Con l'aumento della disoccupazione sopra il 16 per cento e l'economia che continua a diminuire, molti Greci si preparano al peggio. "Le cose andranno molto male l'anno prossimo", ha dichiarato Stathakis, il professore di economia politica.
Christos Papaioannou, 37 anni, che gestisce il sito Web per la rete a Volos, ha dichiarato: "Siamo in un territorio inesplorato", e spera che il gruppo si espanda. "Ci saranno un sacco di cambiamenti. Forse è l'inizio del futuro. "
Islanda, stato d'eccezione?
di Giacomo Gabellini - www.eurasia-rivista.org - 4 Ottobre 2011
“Sovrano è chi decide lo stato di eccezione”, scrive Carl Schmitt.
Applicando tale enunciato all’isolato caso islandese emerge che il governo di Reykjavik è titolare di reale sovranità, specialmente in relazione alla ricetta adottata per superare il totale dissesto finanziario che aveva provocato il fallimento nazionale del 2008.
Durante i periodi di crisi “la normatività – afferma Schmitt – è impotente” e dal momento che nel caso specifico tale “normatività” è eminentemente rappresentata dal Fondo Monetario Internazionale essa è stata sospesa dal governo islandese, che ha abbandonato la tutela dei creditori esteri – inesaustamente raccomandata dal Fondo – per il bene della comunità islandese.
Qualcosa di affine era accaduto durante la Repubblica di Weimar, quando il popolo tedesco richiese l’apertura di uno stato d’eccezione che soppiantasse un ordinamento giuridico finalizzato esclusivamente ad arricchire le grandi oligarchie finanziarie e ad alimentare un circuito falsato di corruzione funzionale al mantenimento di alcuni privilegi di determinati strati sociali a scapito della comunità.
Si tratta quindi di un raro atto di audacia politica, specialmente in relazione alla stagnante realtà europea.
Al momento del crac il debito pubblico accumulato da ogni cittadino islandese ammontava a circa 500.000 euro (a fronte di una popolazione composta da 320.000 persone circa), le principali banche nazionali erano fallite nel giro di poche settimane, l’inflazione aveva superato la soglia del 18% e la recessione aveva toccato la doppia cifra percentuale.
Il debito greco lambisce il 150% del Prodotto Interno Lordo, quello islandese raggiunse nel 2008 il 1.100%.
I primi a fornire assistenza al governo di Reykjavik impegnato a raccogliere le macerie finanziare cui era stata ridotta la nazione furono gli inviati del Fondo Monetario Internazionale, che impartirono direttive affini a quelle attualmente adottate dall’Unione Europea per “salvare” la Grecia; tagli delle pensioni, erosione del Welfare, privatizzazione dei beni statali.
Stessa cosa era accaduta in Argentina.
Buenos Aires aveva iniziato nel lontano 1989 a seguire pedissequamente le indicazioni del Fondo Monetario Internazionale, privatizzando l’intero patrimonio pubblico (petrolio, acqua, ferrovie, telecomunicazioni, poste, autostrade, elettricità, miniere, compagnie aeree), liberalizzando il commercio estero, riducendo stipendi e pensioni, eliminando il controllo dei cambi e tagliando il personale per contenere il debito pubblico.
La Costituzione venne modificata per fissare la parità tra peso e dollaro onde evitare che moneta potesse essere svalutata.
Parte dei proventi ottenuti per mezzo della dismissione dell’immenso patrimonio pubblico fu dilapidata dalla corrotta e inefficiente classe politica argentina e ciò che restava non fu sufficiente nemmeno a estinguere gli 8 miliardi di dollari di debito pubblico.
Nonostante il debito pubblico del paese crebbe esponenzialmente fino a lambire l’incredibile soglia di 132 miliardi di dollari nell’arco di pochi mesi, il Ministro dell’Economia Domingo Cavallo, molto vicino al Fondo Monetario Internazionale e pianificatore di tutte le manovre finanziarie argentine, fu nominato “eroe liberale dell’anno” dal New York Times.
La ricetta dell’”eroe liberale dell’anno” provocò una recessione economica che si protrasse ininterrottamente per quattro lunghi anni, portando al fallimento nazionale proclamato nel dicembre del 2001.
La lezione argentina è stata evidentemente imparata dall’Islanda, che ha scelto di ignorare i precetti del Fondo Monetario Internazionale svalutando la moneta, trasferendo i risparmi della popolazione sui conti correnti delle tre banche nazionali e congelando i fondi dei creditori stranieri depositati negli istituti di credito in fase di liquidazione.
Sullo sfondo di un’Eurozona che sforna manovre finanziarie “lacrime e sangue” imponendo enormi privazioni alla popolazione, si staglia quindi l’eccezione rappresentata dall’Islanda, che ha ridotto l’inflazione al 5% e che il prossimo anno riuscirà, secondo le stime, a incrementare il proprio Prodotto Interno Lordo del 2,8% rigettando le direttive del Fondo Monetario Internazionale.
Come guidare il default italiano
di Guido Viale - Il Manifesto - 5 Ottobre 2011
Il fallimento di uno Stato (il cosiddetto default) non è un evento puntuale ma un processo. L'evento puntuale è la dichiarazione con cui lo Stato comunica che non intende più o non è più in grado di pagare alcuni dei suoi debiti: cioè di rimborsare alla loro scadenza i titoli (bond) che ha emesso.
L'evento può assumere varie forme: se la cosa avviene "inaspettatamente" può gettare nel caos il paese debitore, ma anche alcuni dei paesi creditori (quelli le cui banche o i cui risparmiatori hanno accumulato quei bond) e, poi, il resto del mondo; o quasi.
Oggi la cosa sembra impensabile; ma abbiamo di fronte anni di turbolenza finanziaria che renderanno sempre più difficile prepararsi a eventi del genere.
Oppure può assumere forme "pilotate", con accordi che ripartiscano gli oneri del default tra debitore e creditore, cercando di contenere i danni; può avvenire in forma parziale, attraverso la promessa di rimborsare solo una parte del valore nominale dei bond; o in forma "selettiva", differenziando l'entità del rimborso a seconda della tipologia dei creditori (garantendo un rimborso maggiore ai piccoli risparmiatori, uno minore ai grandi investitori nazionali e uno ancora inferiore o nullo a quelli esteri). Oppure può avvenire sterilizzando il debito, il cui valore nominale resta inalterato, ma il cui rimborso viene procrastinato nel tempo.
Scelte del genere non comporterebbero necessariamente "l'uscita dall'euro" degli Stati insolventi: non ci sono "procedure per farlo" - e non è una cosa semplice - e scatenerebbero una fuga dall'euro di tutti gli Stati a rischio; cioè la dissoluzione della moneta unica, gettando l'Europa in un caos anche peggiore.
Inoltre, non è detto che il ritorno a una moneta nazionale comporti, per lo Stato in default, un recupero di competitività con una svalutazione e il ritorno a una bilancia dei pagamenti in equilibrio.
Se il tessuto produttivo non c'è, o è inadeguato, la svalutazione non basta per togliere quote di mercato ai più forti in campo tecnologico e amministrativo: soprattutto in un mercato in contrazione, come sarà quello europeo, e mondiale, nei prossimi anni.
In ogni caso, di fronte a una stretta del credito (credit crunch) potrebbero svolgere un ruolo decisivo la creazione e la moltiplicazione di "monete" a base locale emesse, in circuiti ristretti, su basi fiduciarie. È un tema che meriterebbe maggiore attenzione.
Le conseguenze delle alternative qui prospettate non sono ovviamente le stesse; ma in tutti i casi il default non è una passeggiata: una notevole contrazione della circolazione monetaria, della produzione, dell'occupazione legata alle attività in essere, dei redditi e del potere di acquisto è inevitabile, come lo sono una fuga di capitali - se le reti per intercettarli non sono adeguate - un blocco degli investimenti esteri e privati e l'impossibilità, per diversi anni, di ricorrere a nuove emissioni (cioè di fare altri debiti).
Ma, a ben vedere, questi non sono che in minima parte "effetti" dell'evento default, bensì i fenomeni che lo precedono e lo preparano: sono il default come processo. Quello che stiamo vivendo.
Prendiamo il caso della Grecia. È palesemente in default da oltre un anno: da quando Papandreou ha preso atto delle condizioni in cui era stato lasciato il bilancio dello Stato.
Non avrà più, per decenni, la possibilità di ripagare il suo debito, ma nemmeno di far fronte agli interessi per rinnovarlo alle scadenze. Le politiche imposte dalla "troika" dell'Unione europea (Commissione, Bce, Fmi) ne strangolano l'economia rendendo irreversibile la corsa al default.
Tuttavia solo da qualche settimana alcuni economisti mainstream cominciano a dirlo e qualche politico o banchiere a prospettarlo.
Gli speculatori invece lo sanno da tempo (stanno acquistando bond greci a un terzo del loro valore nominale, perché, quando il default sarà dichiarato, la Bce glieli ricomprerà al doppio).
Ma allora, perché la troika non impone subito alla Grecia un default pilotato? Perché nel frattempo, con la scusa di evitarlo, la depreda; cioè, la fa depredare dalla finanza internazionale che è il suo mandante: stipendi, occupazione, pensioni, sanità, scuole, servizi pubblici, spiagge, isole, porti, tutto viene messo in vendita - a prezzi di saldo, per costituire il "tesoretto" da devolvere ai creditori; e per cedere alla finanza internazionale i beni comuni del paese. Questo è il default come processo.
E l'Italia? Siamo sulla stessa strada, a una tappa di poco precedente: ma anche il processo del nostro default è in pieno corso. Le imposizioni della Bce all'Italia sono state dettagliate nella lettera "segreta" di Trichet e Draghi, che contiene un vero e proprio programma di governo; il che manda all'aria le lamentele di coloro che attribuiscono la crisi in corso alla mancanza di un vero governo dell'Unione europea: quel governo invece c'è, eccome!
Solo che non fa quello che chi ne denuncia la mancanza vorrebbe che facesse. Anzi, fa l'esatto opposto; e non per insipienza, ma per corrispondere agli interessi di chi manovra i cosiddetti mercati; che poi mercati non sono, bensì potere di vita e di morte sull'intero pianeta.
Il programma di governo di Draghi e Trichet è uguale a quello che sta accompagnando la Grecia al default: privatizzazione dei servizi pubblici e dei beni comuni, taglio delle pensioni, degli stipendi e dell'occupazione nel pubblico impiego (scuola e sanità al primo posto); abolizione dei contratti, libertà di licenziare; azzeramento del deficit a suon di tasse sui meno abbienti.
Ha quel programma la minima possibilità di rimettere in sesto l'economia italiana? Di rilanciare la crescita (parola magica e assolutamente vuota in nome della quale si giustifica ogni assalto alle condizioni di vita di intere nazioni)?
Dimenticando tra l'altro che la crescita (del Pil) si sta dileguando in tutta Europa e segna il passo, o sta per farlo, anche nei principali paesi "emergenti", cui era affidata la speranza di un traino dell'economia mondiale fuori dalle secche della crisi.
E dimenticando, soprattutto, che un nesso tra la crisi economica e l'impossibilità di una crescita illimitata in un pianeta finito ci deve pur essere (ma si contano sulle dita di una mano, anche tra gli economisti non mainstream, quelli che se ne ricordano).
L'economia italiana, quand'anche raggiungesse il pareggio di bilancio con le manovre decise e quelle ancora da fare (cosa improbabile), avrebbe pur sempre 70 miliardi di interessi da sborsare ogni anno (il 5 per cento del Pil); in più, per rispettare il patto euro-plus, dovrebbe recuperare ogni anno il 5 per cento del 40 per cento del suo debito (40 miliardi circa: un altro 3 per cento di Pil): una cura da cavallo a cui anche un tessuto produttivo come quello italiano - che pure ha potenzialità maggiori di quello greco - non potrà che soccombere.
In un mondo percorso da continue turbolenze finanziarie e da una crescita evanescente, l'economia italiana non potrà mai raggiungere performances sufficienti a centrare obiettivi del genere.
Il default come processo è quindi in corso. Certo la situazione potrebbe cambiare se cambiassero le regole di governance dell'euro.
Se la Bce emettesse gli eurobond (ma forse non basterebbe); se potesse creare moneta come fanno le vere banche centrali; se l'Unione europea adottasse politiche fiscali comuni a tutti gli Stati; se si varasse subito una consistente Tobin tax; se... Ma non sta succedendo nulla di tutto ciò; e niente lascia pensare che succeda. A meno che...
A meno che gli Stati messi alle corde - come hanno fatto banche e assicurazioni nel 2008 - non prendano atto che il coltello dalla parte del manico ce l'hanno i debitori e non i creditori, perché sono too big to fail, mettendo in campo la vera alternativa del momento: quella tra il default come processo e il default come evento, fatto compiuto.
Allora sì che l'Europa correrebbe ai ripari! Certo ad adottare una politica del genere non sarà l'attuale governo, né quello che si sta allenando a bordo campo con la benedizione di Confindustria: quella che ha coccolato per diciassette anni Berlusconi dimostrando - tra l'altro - di essere un allenatore da strapazzo.
Questa alternativa è un varco obbligato per chiunque accetti di dare voce alle forze, sempre più ampie, sempre meno disperse, sempre più transnazionali, che ieri dicevano «la vostra crisi non la paghiamo» e che oggi hanno tradotto questo comune sentire in un obiettivo preciso: «il debito non si paga!»
Certo un obiettivo del genere non basta: ci vogliono anche non grandi opere per rilanciare la crescita, come è nella proposta degli eurobond e negli sproloqui di Confindustria, bensì programmi di conversione ecologica: promozione delle energie rinnovabili, efficienza energetica, agricoltura e mobilità sostenibili, riciclo totale nella gestione di risorse e rifiuti, manutenzione del territorio e rinaturalizzazione di quello non costruito, accoglienza e istruzione per tutti e tutte le età, ricerca mirata alla conversione; e poi, reperimento delle risorse "mettendo le mani nelle tasche" di quegli italiani che Berlusconi e Tremonti hanno protetto per anni; e azzerando gradualmente produzioni e opere inutili o dannose.
Ma se non si affronta in modo radicale il nodo del debito, la politica scompare (anzi, non ricompare più) perché vuol dire che si accetta come fatto compiuto il trasferimento della sovranità dal popolo ai "mercati".