Decreto Monti, liberalizzazioni col trucco
di Guido Scorza - Il Fatto Quotidiano - 24 Gennaio 2012
Ci sono alcune liberalizzazioni col trucco nel decreto che il Governo dei Professori ha appena licenziato, liberalizzazioni che liberalizzano mercati già liberi, risparmiando i veri monopoli fonte di inefficienza, e soprattutto liberalizzazioni solo annunciate.
Cominciamo da queste ultime.
L’art. 1 del Decreto stabilisce un principio sacrosanto e indispensabile per liberare il sistema Paese dalla morsa della burocrazia e dei privilegi: tutte “le norme che prevedono limiti numerici, autorizzazioni, licenze, nulla osta o preventivi atti di assenso dell’amministrazione comunque denominati per l’avvio di un’attività economica non giustificati da un interesse generale, costituzionalmente rilevante e compatibile con l’ordinamento comunitario nel rispetto del principio di proporzionalità” o “che pongono divieti e restrizioni alle attività economiche non adeguati o non proporzionati alle finalità pubbliche perseguite” sono abrogate.
Giusto così. Troppo spesso, nel nostro Paese, limiti e autorizzazioni all’esercizio di attività economiche vengono utilizzati per garantire agli amici degli amici ingiustificate posizioni di privilegio e per ostacolare l’accesso al mercato a realtà più giovani ed efficienti. Il tutto in assenza di valide ragioni di interesse pubblico.
Nelle prime versioni dello schema di Decreto Legge, il testo si fermava qui. Poi qualcosa deve essere accaduto, o meglio qualcuno deve aver fatto presente al Governo dei Professori che l’Italia non è Paese nel quale si possa pensare di travolgere privilegi e centri di potere dalla sera alla mattina. L’esecutivo, a quel punto, ne ha preso atto e ha inserito nel disegno di legge il “trucco”.
Eccolo il trucco.
L’abrogazione di tutte le norme è rinviata sino alla “dalla data di entrata in vigore dei decreti di cui al comma 3 del presente articolo” che, a sua volta dispone che “il Governo è autorizzato ad adottare entro il 31 dicembre 2012 uno o più regolamenti… per individuare le attività per le quali permane l’atto preventivo di assenso dell’amministrazione, e disciplinare i requisiti per l’esercizio delle attività economiche, nonché i termini e le modalità per l’esercizio dei poteri di controllo dell’amministrazione, individuando le disposizioni di legge e regolamentari dello Stato che… vengono abrogate a decorrere dalla data di entrata in vigore dei regolamenti stessi”.
Chiaro no? Da un lato si annuncia la super-liberalizzazione ma dall’altro la si rinvia di un anno e, soprattutto, si demanda a un’attività regolamentare, da svolgersi nelle segrete stanze di Palazzo Chigi, la scelta delle attività destinate davvero a essere liberalizzate e, conseguentemente, dei privilegi effettivamente destinati – senza urtare troppo la sensibilità degli amici e degli amici degli amici – ad essere eliminati.
Se a questo si aggiunge che nessuno può dire chi siederà a Palazzo Chigi da qui alla fine dell’anno, la super-liberalizzazione del Governo dei Professori, risulta ridimensionata e ridotta alla definizione che più le si addice: un annuncio tutto politico di una liberalizzazione col trucco.
Ma non finisce qui.
Come anticipato, infatti, accanto a liberalizzazioni solo annunciate ci sono anche liberalizzazioni di mercati, in realtà, già liberi.
E’ il caso della cosiddetta liberalizzazione del mercato dell’intermediazione dei diritti connessi degli artisti interpreti ed esecutori. I primi a leggere l’art. 39 del Decreto Legge che, appunto, la prevede hanno esclamato “urrà!”, pensando che il Governo avesse, finalmente, eliminato l’anacronistico monopolio della Siae, fonte di sprechi ed inefficienze colossali. Sfortunatamente, tuttavia, non è così.
La norma, infatti, annuncia – anche in questo caso la sua operatività è demandata al varo di un regolamento – di voler liberalizzare un mercato confinante con quello nel quale opera la Siae e in tutto e per tutto analogo a quest’ultimo sia in termini di dinamiche che di soggetti coinvolti.
C’è, però, un “ma” che giustifica, ancora una volta, l’espressione “liberalizzazioni con il trucco”: in questo mercato non esiste nessun monopolio e, quindi, si tratta di un mercato già libero.
Perché il Governo dei professori individua correttamente l’esigenza di liberalizzare il mercato della gestione dei diritti d’autore ma poi non ha il coraggio di smantellare l’unico monopolio che l’opprime?
E’ una domanda che varrebbe la pena porre al prof. Monti che, peraltro – vista la sua esperienza europea – sa bene che un monopolio non indispensabile a garantire l’efficienza di un mercato o la tutela di interessi pubblicistici è un mercato incompatibile con le norme Ue.
Gli equilibrismi del Professore
di Carlo Musilli - Altrenotizie - 23 Gennaio 2012
C'è il partito del "meglio che niente" e quello del "si poteva fare di più". Poi c'è la posizione di chi ritiene in senso lato che liberalizzare sia dannoso per l'economia. Ma a prescindere dal giudizio di merito, il decreto varato venerdì sera dal governo Monti ci racconta anche una storia politica. Ci dà qualche dettaglio in più per capire di chi è l'Italia oggi e di chi probabilmente continuerà a essere nel prossimo futuro.
Gli aspetti fondamentali sono due: il rapporto dell'Esecutivo con il Pdl e i conflitti d'interesse che zavorrano la squadra del Professore. Sul primo versante, è evidente come il pacchetto di liberalizzazioni non danneggi in modo sostanziale l'establishment berlusconiano, la sua politica e la sua visione della società.
Anzi, spuntando la pallottola del decreto, i pidiellini hanno limitato i danni al minimo proprio sul versante che li vedeva più vulnerabili. Evidentemente le pressioni di Gianni Letta sul sottosegretario Antonia Catricalà hanno funzionato. E chissà se il Pd troverà il modo di uscire altrettanto indenne dalla riforma del lavoro, ormai alle porte.
L'unica vera sconfitta per Silvio Berlusconi è arrivata sul campo delle frequenze televisive. Con una mossa chirurgica, da politicante consumato più che da banchiere, il ministro Corrado Passera ha deciso di congelare per tre mesi - ma non di revocare - il beauty contest varato dal Cavaliere (la procedura che avrebbe di fatto regalato i nuovi canali digitali a Mediaset, Rai e Telecom Italia). In questo modo Passera si è attribuito il ruolo di mediatore fra le parti, lasciando pendere una spada di Damocle hi-tech sulle teste del Pdl.
Tenere in sospeso la vicenda vuol dire mantenere alta la tensione fra i berluscones - che fra il Parlamento e l'azienda del padrone non avranno dubbi su cosa scegliere - e intanto far passare il tempo.
E' probabile che alla fine l'Agcom troverà una soluzione di compromesso (asta a pagamento più generoso contentino al Biscione), ma quando ciò avverrà i decreti più controversi saranno già diventati legge. E sarà ormai troppo tardi per andare alle elezioni anticipate.
Il secondo punto fondamentale è quello che riguarda le dinamiche interne al drappello dei tecnici. Quando si tratta di legiferare è prassi che i governanti cedano alle pressioni delle lobby di turno.
Ed essendo questo un governo di banchieri, non stupisce che le mancanze più gravi dell'ultimo decreto riguardino proprio le banche e le loro cugine, le assicurazioni.
Partiamo dagli istituti di credito. Nella versione finale del provvedimento troviamo una brutta sorpresa per quanto riguarda il nuovo conto corrente di base (quello a costi ridotti, pensato ad esempio per gli anziani, che dovranno aprirlo per legge se vogliono incassare pensioni superiori a mille euro).
Il funzionamento del nuovo tipo di conto non sarà stabilito dal governo - com'era scritto nelle bozze precedenti - ma da un'intesa fra banche, Poste e Banca d'Italia.
Vale a dire i diretti interessati. Non basta: anche la riduzione delle commissioni sull'utilizzo della moneta elettronica è affidata a un accordo fra le parti in causa (Associazione bancaria, consorzio bancomat e Associazione dei prestatori di servizi a pagamento).
Un altro aspetto riguarda le polizze vita che le banche obbligano a stipulare per accendere un mutuo. Di solito la compagnia assicuratrice è legata alla banca stessa, che così incrementa i profitti.
L'Antitrust aveva suggerito di abolire il binomio obbligatorio polizza-mutuo, ma il governo si è limitato a imporre agli istituti di credito di presentare al cliente i preventivi di almeno due diverse compagnie. C'è da scommettere che le banche sapranno indirizzare a dovere i loro clienti.
Un regalino molto simile è stato pensato anche per le compagnie d'assicurazione. Dal punto di vista dei cittadini, la scelta più vantaggiosa sarebbe stata di sostituire i cosiddetti agenti monomandatari con i broker assicurativi.
Si trattava di rimpiazzare le figure legate ai singoli gruppi (di cui vendono i prodotti) con dei professionisti pagati direttamente dai clienti e quindi interessati a suggerire di volta in volta le soluzioni più convenienti per i consumatori piuttosto che per le compagnie.
Anche in questo caso niente da fare. Il decreto - che peraltro parla solo dell'RC auto - obbliga gli agenti ad informare i clienti sulle proposte di almeno tre compagnie. Ma secondo voi vi consiglieranno la loro polizza o quella della concorrenza?
Fra le altre posizioni di potere che non sono state intaccate, spicca quella di Trenitalia. Dal decreto sono scomparse in corso d'opera almeno due misure fondamentali: la scissione fra la holding Fs e la rete ferroviaria Rfi (rinviata a una decisione della nuova Autorità dei Trasporti) e l'obbligo di gara per la concessione del trasporto regionale da parte delle Regioni. Per non parlare poi dell'inchino fatto all'Unione Petrolifera, che ha portato a ridurre drasticamente le liberalizzazioni in materia di carburanti.
Ci sono infine le querelle legate a quelle categorie che, pur avendo un impatto economico minore, suscitano inspiegabilmente un'attenzione mediatica senza pari. Vale la pena di rifletterci, altrimenti si rischia di perdere contatto col quadro generale. E si finisce col pensare che il rilancio del Pil dipenda solo dai taxi.
Liberalizzazioni. L'ho detto e lo confermo: Mario il Grigio è grande!
di Aldo Giannuli - www.aldogiannuli.it - 23 Gennaio 2012
Mario il Grigio ha assicurato che, con le sue liberalizzazioni, ha sconfitto i “poteri forti”, libererà gli italiani dalle tasse occulte e (udite, udite!) il Pil italiano, nei “prossimi anni aumenterà del 10%. Queste non sono dichiarazioni; questi sono i fuochi d’artificio della notte di Capodanno! Vediamo.
a- così apprendiamo che i “poter forti” in questo paese sono taxisti, farmacisti, avvocati e via di questo passo. Noi credevamo che i “poteri forti” fossero le banche, le multinazionali, il Vaticano, la Nato e invece… d’ora in poi, quando prendete un taxi o entrate in farmacia fatelo con circospezione: avete a che fare con un uomo dei poteri forti!
b- gli italiani saranno liberati dalle “tasse occulte”: può darsi, per ora Mario il Grigio li sta abboffando di tasse palesi; che poi, con le sue liberalizzazioni, diminuiranno le tariffe degli avvocati e le corse dei taxi è tutto da dimostrare. Una decina di anni fa, quando venne liberalizzato il settore telefonico, si disse che sarebbero calate le tariffe: ve ne siete accorti?
c- ma la più bella è quella del Pil “che crescerà del 10%” secondo imprecisate stime di Ocse e Bankitalia. Benissimo, ma in quanto tempo? Perchè, se si tratta di un incremento in nove anni (al ritmo dell’1% in più, ogni anno) non è che stiamo parlando di una performance eccezionale: visto che, dobbiamo pagare interessi sul debito che vanno verso il 5-6% (che significa intorno al 2 e qualcosa sullo stock) e che lo stock è al 120% sul Pil, una crescita del 2,5-2,7% è quello che ci vuole per mantenerci a galla.
E dunque, non ci sarebbe ragione di strombazzare come un risultato miracoloso neanche una crescita al 2%.
E’ dunque evidente che si vuole dire altro: diciamo ritmi da 3-4% all’anno. Bene, ma da dove può venire una simile impennata dopo anni di incrementi dell’1%?
Può anche darsi che per effetto delle sue liberalizzazioni, Monti riesca ad ottenere una impennata anche del 4% il primo anno (non ci crediamo neppure un po’, ma vogliamo concederlo), dopo che succede?
Abbiamo una bilancia commerciale in rosso da lungo tempo e non è che le corse di taxi e le vendite di farmaci da banco aumentino il ritmo delle esportazioni. Anche le consulenze legali su piazza internazionale non sembrano suscettibili, da sole, di sortire chissà quali effetti. Insomma, ci vuole altro.
Anche perchè, con la grandinata di tasse, di tagli alla spesa pubblica ecc. non si capisce da dove dovrebbe venire la ripresa: non ci riesce manco se ci pittiamo la faccia di giallo e ci facciamo venire gli occhi a mandorla!
E qui sta la trovata: la ricetta tedesca della “austerità espansiva”, uno dei più divertenti ossimori del secolo (come dire “la carestia nutriente” “il solido liquido” “la perversione virtuosa” ecc.) di cui si fa giustamente beffe Paul Krugman:
… è particolarmente irritante vedere che la Germania continua ad essere così ostinatamente fedele alla tesi dell’austerità espansiva, nonostante sia stata clamorosamente e completamente smentita dai fatti dell’ultimo anno e mezzo. I tedeschi però sono convinti che la loro esperienza sia la dimostrazione che l’austerità funziona. Un decennio fa il paese teutonico aveva serie difficoltà economiche: i tedeschi scelsero di stringere la cinghia e tutto finì per il meglio. …vale la pena di far notare che l’esperienza tedesca può essere estesa ad altri paesi solo se troviamo qualche spazio alieno con cui commerciare, e in fretta. Perchè il segreto del successo della Germania nel decennio trascorso è stato il passaggio da una situazione di deficit a una situazione di surplus nella bilancia delle partite correnti. Gli altri europei potrebbero imitare quello che ha fatto la Germania in passato se la Germania stessa fosse disposta a rinunciare al suo surplus nel saldo con l’estero, ma ovviamente la Germania non ci pensa neanche. Berlino pretende che tutti siano in attivo nel saldo con l’estero, proprio come loro: peccato che sarebbe possibile solo se trovassimo qualcun altro disposto a comprare le nostre esportazioni.
Infatti, la fetta più sostanziosa degli incrementi venne dalle esportazioni tedesche verso l’area Euro.
Certo, sarebbe possibile migliorare la bilancia commerciale dei paesi europei, magari aumentando le esportazioni verso Giappone, Usa e paesi emergenti, ma per fare questo occorrerebbe finanziare la produzione di beni e servizi da esportare e la cosa non sembra semplicissima con i tempi che corrono e con gli interessi che le banche impongono alle aziende.
Peraltro, una politica di esportazioni verso l’area non Euro si gioverebbe di un Euro meno forte (e che, invece, nonostante tutto, è ad 1,20-1,30 sul dollaro), cosa vista dai tedeschi come fumo negli occhi. Inoltre la cosa non sembra facilissima con il rischio di una nuova recessione generalizzata.
Per cui, la cosa più probabile è che la politica del pareggio di bilancio subito e ad ogni costo, non produrrà crescita e, al posto di una austerità espansiva, ci troveremo una politica deflattiva, che non coglierà neppure il pareggio di bilancio, perchè determinando recessione, produrrà anche meno gettito fiscale.
Insomma questa del 10% del Pil in più, fa il paio con il milione di posti di lavoro di Berlusconi. Ma questo non importa a Mario il Grigio che, sprezzante del ridicolo, offre sempre nuove performances per suggestionare gli italiani. Inimitabile!
A proposito: Monti ha nuovamente ripetuto che lui ed il suo governo non hanno intenzione di presentarsi alle prossime elezioni politiche. Il che mi sembra un’ennesima conferma che, in qualche modo, lo farà.
Ma davvero qualcuno crede che cambiando le tariffe degli avvocati, gli orari delle farmacie e le licenze dei taxisti l’Italia possa crescere “del dieci per cento?
Qualche tempo fa scrissi un post intitolato “caro Monti, sia gentile, non ci prenda in giro”, oggi avrei dovuto riproporre lo stesso titolo; dovrei proporlo quasi ogni giorno.
Mario Monti ci sta prendendo chiaramente in giro, visto che non è ipotizzabile che un economista del suo livello sia convinto delle cose che dice in conferenza stampa e ai microfoni dei tanti giornalisti compiacenti. Sta facendo propaganda, sapendo di poterla fare. Tanto è e resterà, mediaticamente, impunito.
Il decreto in realtà propone una novità importante, ma non è affatto positiva, nonostante le apparenze. Mi riferisco alla norma che consente ai giovani imprenditori di creare società senza nemmeno bisogno di un notaio. Zero burocrazia, zero costi. Evviva! Sì, evviva se non fossimo un Paese senza camorra, senza ndrangheta e senza mafia.
Di una misura di questo tipo non c’era in realtà bisogno, perché chiunque voglia avviare un’attività può farlo avvalendosi già dei regimi agevolati varati da Tremonti, che però erano meno spericolati legalmente, mentre con la misura proposta da Monti, alla criminalità organizzata basterà intestare una società a un giovane picciotto incensurato per aggirare con straordinaria facilità ogni controllo. Ma il nostro presidente del Consiglio se ne rende conto?
L’altra misura che il governo si appresta a varare è quella anticipata oggi dall’ottimo Massimo Mucchetti in questo articolo. In estrema sintesi: lo Stato intende trasferire azioni e partecipazioni di aziende pubbliche (di quelle sane naturalmente) alla Cassa depositi e prestiti; in questo modo farebbe cassa e abbatterebbe il debito pubblico. Operazione brillante, che però se sa tanto di contabilità creativa.
La Cassa depositi e prestiti è posseduta al 70% dallo Stato e al 30% da fondazioni bancarie; dunque lo Stato vende a se stesso e fa… un altro regale alle banche. Idea dell’ex banchiere Passera, naturalmente.
Da un bluff all’altro. Chiamatelo pure stile Monti.
Amanti traditi
di Giuseppe Germinario - www.conflittiestrategie.it - 23 Gennaio 2012
“Sono convinto che non avremo mai gli Stati Uniti d’Europa. Già solo per il fatto che non ne abbiamo bisogno. La sussidiarietà è il grande tema dell’Europa, e questo vale in due direzioni”
“Occorre comprendere che questa crisi non è la conseguenza di un difetto del modello europeo, bensì deriva dagli Usa. In Europa questa crisi – e ciò è parte della nostra storia di successo – non avrebbe mai potuto succedere. L’Europa è virtualmente in un’ottima posizione. Dobbiamo comprenderlo e accettarlo”. Così Monti nell’ultima intervista a “Die Welt”.
Come se non bastasse, il Premier, nei giorni precedenti dichiara perentoriamente di aspettarsi una flessione significativa dei tassi di interesse ad opera dei mercati; in quelli successivi, corrispondenti alla decisione paradossale di declassamento del paese e di promozione del suo capo di governo operata da S&P, gli stessi ambienti governativi parlano di “attacco all’Europa”.
Un mese da Presidente del Consiglio ha potuto più di anni e anni di onorato servizio in veste di Commissario Europeo, di advisor di G&S e, con qualche caduta di stile dovuta a sindrome gorvacioviana, Coca Cola, di autorevole componente di Trilateral e Gruppo Bilderberg.
Sessant’anni di retorica europeista, di annunci di progressivo avvicinamento alla meta degli Stati Uniti d’Europa ridotti tutti ad un vacuo miraggio, con le istituzioni europee ridotte ad una funzione sussidiaria, senza capacità coercitiva propria e politica autonoma, rispetto alle competenze dei singoli stati europei e con poteri effettivi, in realtà, in mano ai singoli stati, a cominciare da quella dominante extraeuropea.
Trenta anni di fede nelle capacità autoregolative, apolitiche e di giustizia inappellabile dei mercati di fatto incrinata da una esortazione e un’accusa.
Ad opera di chi, poi! Proprio dalla bocca di uno dei profeti e apologeti più in vista ed ossequiati di quelle due visioni.
Tanta deferenza è riuscita, sino ad ora, ad accecare gli occhi e le menti delle migliori penne tra le fila della “libera stampa” e a celare le nudità non più acerbe del regnante.
La sagacia, non si sa se teleguidata o di “motu proprio”, del personaggio è evidente; se il Cavaliere era avvezzo agli annunci maramaldeschi, il Professore usa affidare a testate amiche le bozze ufficiose dei provvedimenti, salvo smentirne o correggerne i contenuti in caso di reazioni e rimostranze eccessive.
Ciò nonostante, già due volte il Premier è scivolato dall’annuncio di una palingenesi rigeneratrice e purificatrice ad una prosaica trattativa a porte socchiuse con le varie categorie interessate ai provvedimenti.
In questo, il conflitto tra il rigore teorico e la coerenza di immagine dell’accademico e la sagacia accomodante del commissario avvezzo alle frequentazioni e mediazioni lobbistiche proprie di quel luogo di elezione all’uopo che è la Commissione Europea deve probabilmente dilaniare la personalità del personaggio.
La sua cooptazione nei gruppi informali della Trilateral e di Bilderberg, dovrebbe consentirgli di padroneggiare al meglio gli impulsi contrastanti e affidare alla politica e alla strategia il ruolo guida nei comportamenti. Tutto dipende dal ruolo effettivo svolto in essi: da protagonista, come potrebbe essere quello di Mario Draghi oppure da servitore, sia pure di rango.
I servitori, si sa, sono spesso accecati dalla gratitudine verso i padroni e dal compiacimento verso il proprio status.
Sta di fatto che su uno dei cavalli di battaglia del liberal-liberismo, quello della liberalizzazione delle professioni, si è partiti annunciando sfracelli: riduzione degli ordini a semplici associazioni, abolizione del valore legale dei titoli di studio, totale libertà di avvio delle attività, eliminazione delle tariffe minime; si sta arrivando ad una trattativa che punta, di fatto, ad un semplice incremento della quota di licenze disponibili in alcune categorie (notai, farmacisti, tassisti) e alla compilazione di elenchi di prodotti vendibili da operatori diversi (farmaci) ad opera di apposite commissioni, luoghi deputati, solitamente, a ospitare interminabili contrattazioni e oscure compensazioni.
Nelle more si scopre che la gran parte dei ceti professionali, in particolare quelli tecnici legati alle attività industriali non sono inquadrati in ordini professionali; le tariffe minime sono rimaste solo in un paio di ordini professionali; gli accessi sono regolati in maniera differente nei vari ordini.
Una situazione talmente variegata, per di più in un contesto di crisi economica che sta intaccando pesantemente i margini operativi, da rendere velleitario e superficiale ogni approccio ideologizzato e semplificato.
A prescindere dalla eventuale condivisione della impostazione di fondo, tutt’altro che scontata, men che meno dallo scrivente, sono evidenti le fasi di stallo cui andrà sempre più incontro questo Governo a causa della divaricazione tra una realtà complessa ed una interpretazione semplicistica.
La condizione migliore per giustificare distrazioni laddove la liberalizzazione potrebbe riservare qualche effetto (notai), accanimenti unilaterali in ambiti in cui una categoria (i tassisti) è relativamente chiusa all’interno ma in competizione con altre nel settore; il brodo di coltura per favorire la conduzione di trattative di tipo lobbistico e con risultati, a detta degli stessi fautori, diluiti nel tempo e di entità risibile dallo stesso punto di vista del consumatore, totem indiscutibile e comodo paravento del pensiero liberal-liberista.
La condizione migliore per additare l’untore di turno e eludere il fattore scatenante della proliferazione della quantità e dei costi dei servizi professionali, in particolare di quelli legati alla pubblica amministrazione: la farraginosità, la ridondanza, il parassitismo di gran parte della pubblica amministrazione accompagnate da una organizzazione interna e di formazione e classificazione del personale incapace di adeguarsi ai processi di lavoro informatizzati.
Ernesto Galli della Loggia sembra aver scoperto solo mercoledì scorso che una delle fonti del potere effettivo risiede più che nei politici in scena, in quei “Gran Commis di Stato”, “un ceto di oligarchi i quali, dietro le quinte delle istituzioni democratiche e sottratti di fatto a qualunque controllo reale, compiono scelte decisive, governano più o meno a loro piacere settori cruciali, gestiscono quote enormi di risorse e di potere: essendo tentati spesso e volentieri di abusarne a fini personali.” “È un’oligarchia che non è passata attraverso nessuna selezione specifica né alcuna speciale scuola di formazione (giacché noi non abbiamo un’istituzione analoga all’Ena francese).” “Designati dalla politica con un g r a d o a l t i s s i m o d i arbitrarietà” “si svincola dalla diretta protezione politica, si autonomizza e tende a costruire rapidamente un potere personale. Grazie al quale ottiene prima di tutto la propria sostanziale inamovibilità.”
E’ già qualcosa per la corrente liberale che, da sempre, tende ad identificare la fonte del potere negli organi rappresentativi ed elettivi; è, però, ancora una interpretazione riduttiva, fuorviante e autoreferenziale del ruolo di figure che fanno parte a pieno titolo, in grado diverso, dei gruppi strategici decisionali del paese, impegnati, quindi, non solo al mantenimento delle proprie prerogative e nicchie di potere.
Il continuo rinvio della riorganizzazione delle amministrazioni statali, sancito ulteriormente dal patto scellerato informale tra Governo, Confindustria e Sindacati teso a penalizzare i pensionati in cambio della temporanea salvaguardia della condizione del pubblico impiego porterà, in tempi non molto lontani, a scelte sempre più drammatiche ed improvvisate, all’interno delle quali ci saranno pochi spazi per distinguere compiti e funzioni delle varie frazioni; ce ne saranno al contrario molti per la salvaguardia dei gruppi, magari importanti nella forza d’urto, ma parassitari nel ruolo e nelle scelte.
Sono processi già verificatisi nella riorganizzazione delle grandi aziende di servizio pubblico, come le Poste e le Ferrovie, laddove i drastici ed improvvisi ridimensionamenti di personale hanno portato all’esodo del personale tecnico più specializzato e all’impoverimento professionale delle aziende; alla salvaguardia di consistenti sacche di occupati, magari concentrati ed agguerriti sindacalmente ma presenti proprio in quei settori decotti e parassitari teoricamente più interessati alla riorganizzazione, a scapito di settori professionalmente più importanti per il futuro delle aziende, ma più dispersi e frammentati; alla selezione professionale di figure dirigenziali in prevalenza da quei settori genericamente detti parassitari e residuali.
Si stanno creando tutte le premesse per riproporre su scala ben più ampia, nei settori essenziali dello Stato e della Pubblica Amministrazione, quegli stessi processi con la certezza di procrastinare una politica subalterna e parassitaria su basi economiche più compatibili.
L’altro aspetto su cui Monti sembra scivolare progressivamente, anche se ancora ben puntellato dalle forze politiche nazionali, è il contesto europeo entro cui deve agire.
Parlare di contesto europeo non significa ignorare il ruolo fondamentale e prevalente che gli Stati Uniti di Obama hanno nel determinare la condizione del nostro paese.
Al contrario, la nomina dei ministri degli esteri e della difesa sono il miglior certificato del peso avuto dall’Amministrazione Americana in questo rivolgimento; tutte le scelte successive di politica estera, dall’Iran, alla Turchia, ad Israele, alla Libia, sono state l’espressione di quanto di più codino e, quindi, insignificante nel condizionare le scelte geopolitiche si possa immaginare negli ultimi decenni.
La stessa conferma, roboante, dell’acquisto dei caccia F35 sancisce in maniera definitiva, per un paio di decenni almeno, l’integrazione e la dipendenza tattica della difesa italiana da quella statunitense, il monopolio della difesa strategica americana, la rinuncia a un minimo progetto di difesa e attacco aereo comune europeo, legato al declino del progetto “Eurofighter”, ormai relegato a qualche residua velleità tedesca.
Se a questo si aggiungono, tra i tanti elementi, l’incapacità dell’industria aeronautica militare francese ad uscire dai confini nazionali, non ostante la spettacolare campagna promozionale in Libia e la probabile prossima crisi del progetto franco-tedesco dell’Airbus si intuisce che non sarà certo dall’Europa che potrà nascere un polo se non indipendente, almeno autonomo dalle prepotenze americane.
In questo “grande gioco” l’Italia sta compiendo il miracolo di essere nello stesso tempo la principale vittima designata e la complice sottomessa dello schieramento “amico”.
Rispetto al gioco duro e ai colpi bassi dietro le quinte, il palcoscenico riserva al teatrino della Unione Europea e degli stati europei una visibilità predominante.
Monti è stato il primo caso, in centocinquanta anni di unità d’Italia, di investitura pressoché esplicita di un Capo di Governo esterna al paese. Non è stato un complotto putschista da ventesimo secolo, così come si usava rappresentare semplicisticamente i colpi di mano da parte della sinistra novecentesca; al contrario, il sapiente dosaggio di decisioni, colpi di mano, condizionamenti dei vari ambiti di azione (da quello finanziario, a quello produttivo, a quello istituzionale, a quello più propriamente geopolitico) è proseguito negli ultimi due anni con certosina ostinazione sino alla resa, ma con una costante imprescindibile per il loro successo: la totale disponibilità e permeabilità dei vari schieramenti politici e delle varie fazioni nazionali nel ricercare il sostegno di gruppi di potere filoatlantici per le loro guerre intestine.
In questo quadro il Professore ha condotto la propria campagna promozionale invocando politiche di rientro del deficit e del debito pubblici e di sviluppo fondate sulle capacità autoregolanti del mercato, frutto comunque di regole negoziate, necessarie a salvare l’Europa e salvaguardare la permanenza in essa dell’Italia.
È l’illusione su cui conta di poter costruire un consenso accettabile sulla futura nuova classe dirigente italiana sulla base di un accordo tra Chiesa Cattolica, associazioni imprenditoriali e sindacali da una parte e tra i partiti in via di riaggregazione dall’altra.
È una visione che potrebbe legittimare la riproposizione delle politiche di svendita e dismissioni degli anni ’90 e di subalternità del paese. Su queste basi Monti ha ricevuto l’investitura esterna e l’accondiscendenza interna al suo incarico.
Dopo trenta anni si tratta di una quadratura difficile da conseguire con il consenso prevalente del paese, come accaduto due decenni fa; molto più probabile che possa riuscire solo con una ulteriore disgregazione e feudalizzazione del paese; su questo gli “investitori”, tanto quelli politici che quelli economico-finanziari, si sono dimostrati tanto cortesi ed accoglienti nella forma quanto intransigenti nella sostanza dell’incarico assegnato.
Non che il personaggio sia del tutto arrendevole e accondiscendente nella stessa misura verso tutti i suoi signori; da servitore avveduto e furbo conosce il peso diverso dei suoi padroni e su questo gioca e centellina le sue carte, per meglio dire le sue due carte: l’europeismo classico degli anni ’90 e le liberalizzazioni-dismissioni-privatizzazioni della residua industria strategica e dei servizi pubblici.
1. L’europeismo di Monti
Monti ha ricevuto i primi due schiaffi da due suoi sponsor: Standard & Poor, Angela Merkel. Trattandosi dei primi, si può dire che la reazione sia stata adeguata, anche se almeno il primo potrebbe essere addirittura un assist. S&P ha declassato di recente pesantemente l’Italia ed altri otto paesi europei.
A prescindere dal giudizio di imparzialità di una agenzia espressione della potenza americana, costituita da quelle stesse forze finanziarie dominanti impelagate a pieno titolo nei giochi speculativi, a detta di Monti S&P ha promosso l’Italia e bocciato l’Europa.
In realtà S&P ha stroncato l’Italia, promosso paradossalmente Mario Monti, cioè il governo di quel paese stroncato e avvertito l’Unione Europea che, senza una politica comunitaria di crescita, il continente rischia l’insolvenza. Una prima dicotomia, quindi, tra Governo e paese, confermata dal differenziale di spread sul debito a breve e lungo termine.
Una prima soluzione, secondo il Premier, sarebbe quindi il potenziamento significativo del fondo salva stati e l’emissione di eurobond, l’allentamento dei vincoli di bilancio in base alla congiuntura economica e una maggiore integrazione del mercato europeo.
S&P, però, parla di crescita ma intende, in realtà, sovranità dei paesi, associati o meno; l’agenzia stessa è un’arma di un paese sovrano usata contro paesi più deboli e ricattabili. Tanto è vero che gratifica di giudizi positivi paesi ben più esposti sul debito e sulla stagnazione.
La stessa idea di sovranità non è legata esclusivamente a quella monetaria, la panacea tanto in voga anche tra i critici indignati di un mondo dominato dalla finanza, ma a tutta la gamma di arnesi che consentono agli stati ed ai paesi di garantirsi l’autonomia decisionale e la potenza; per non parlare poi dell’equivoco che ingenera il termine di “politiche della crescita” con il quale si esprimono sia le raccomandazioni del FMI, della Banca Mondiale e degli americani le quali hanno contribuito all’asservimento ed impoverimento di interi continenti, sia le politiche “listiane” dei paesi emergenti. Si sa dove si rivolgono le nette preferenze del professor Monti.
Sta di fatto che il Presidente del Consiglio sta utilizzando anche questi ceffoni per riproporre, sotto altre spoglie, una politica europeista fondata sulla concertazione tra tutti gli stati europei tesa a rompere il duopolio francotedesco già pesantemente incrinato dai movimenti finanziari e indebolito dal comportamento ballerino della Francia; in questo sta trovando l’appoggio della Commissione Europea, desiderosa di recuperare almeno in parte le antiche prerogative.
Si tratta, però, del solito ecumenismo capzioso teso a ridurre il problema dell’unità geopolitica continentale al consolidamento e integrazione del mercato comune, delegando di fatto agli Stati Uniti il ruolo di supervisore e collante del continente.
Non è un caso che Monti stia cercando nella Gran Bretagna (the voice of America in Europe) e nella Polonia gli alleati necessari a condurre questa politica destinata a frammentare ulteriormente il continente e a riproporre i futuri conflitti tra gli stati ad una competizione tesa a conquistare i favori del dominus.
Quanto sia capzioso, nella sua stessa arida visione economicista, il comportamento del Presidente del Consiglio, ex Commissario Europeo lo dimostra l’accanimento velleitario verso i “corporativismi” di tassisti e avvocati, l’ostinazione mediatizzata nel perseguire, anni fa, i comportamenti di Microsoft sull’offerta del browser Explorer contrapposto al totale silenzio attuale e precedente sulle commistioni che hanno consegnato la quasi totalità delle borse europee in mano americana e inglese, gestite da società impegnate esse stesse nei movimenti speculativi che le stesse borse dovrebbero controllare e sull’assenza di controllo delle operazioni finanziarie esterne al mercato borsistico.
Non sarà certo Monti a determinare l’esito di questo scontro; tutto dipenderà, piuttosto, dalla capacità della Germania di tenere assieme i cocci del simulacro europeo e degli Stati Uniti di rientrare direttamente nel defatigante gioco tra i tanti stati europei.
La propensione di questi ultimi verso la prima opzione pare ancora evidente, semplicemente perché la Germania non ha ancora scelto nessuna reale politica autonomista.
2. L’integrazione subordinata del paese vista da Monti.
È la grande missione di questo governo, grazie alla quale sono in tanti, molti di più di quanti appaiono, quelli che cercheranno, nel paese e fuori, di tenerlo in vita.
Non un ruolo meramente distruttivo, come l’opposizione radicale ama comodamente disegnare per giustificare la battaglia del 99% contro il residuo 1% di satrapi dominanti; quello, bensì, di costruzione del paese in una posizione ancora più subordinata e complementare.
Un compito cruciale e complesso, dall’esito incerto, con l’obbiettivo ambizioso di creare quel blocco sociale necessario a dare forza al progetto.
Il ruolo della grande industria strategica; la riorganizzazione delle grandi reti di servizio nazionali: gas, ferrovie, poste (soprattutto bancoposta e rete di sportelli), elettricità, porti; la riorganizzazione delle reti di servizio locali; i sistemi di incentivazioni alle attività piccole e medie e di semplificazione delle procedure non sono un problema meramente economico, ma di ricostruzione delle basi di consenso e di riorganizzazione dell’apparato statale.
Si tratta, tendenzialmente, di cercare di salvaguardare almeno in parte l’autonomia della gestione delle grandi reti in cambio del cedimento criminale sul ruolo internazionale residuo delle imprese strategiche; di favorire la sopravvivenza del ceto manageriale ed imprenditoriale medio-alto con una integrazione subordinata alle grandi imprese, americane soprattutto e franco-tedesche; di orientare la piccola e media industria, sempre più fondamentale, purtroppo, in questo disegno, ad un ruolo meno complementare rispetto all’economia tedesca; di garantire, con l’accesso alla gestione della rete di servizi locali, posizioni di rendita ai ceti imprenditoriali di media grandezza; di sviluppare attività coordinate di ricerca con una solo parziale industrializzazione dei brevetti.
In questo quadro, a mio avviso, vanno lette le recenti operazioni su Edison e in minor misura Italo, le modalità di ricapitalizzazione di Unicredit, le incertezze sul destino di Bancoposta la cui separazione e privatizzazione porterebbe alla totale esposizione del debito pubblico e del finanziamento bancario agli umori ed ai ricatti geopolitici e finanziari dei dominanti occidentali; un po’ troppo anche per i più fedeli servitori. Non è un caso che gli strali contro il mercenario
Marchionne siano ormai indirizzati anche dalle sedi più conformiste come quella del Corriere e che i veri strateghi, come il Presidente di General Electric Europa dichiari in controtendenza che l’Italia è un ottimo paese per investire e con il quale collaborare perché “fa ricerca, si assume il rischio delle sperimentazioni imprenditoriali ma non dispone di grandi piattaforme industriali necessarie a costruire e realizzare le attività”, che “il paese dispone ancora di attività significative ma con una realtà imprenditoriale e manageriale limitata”. Un leit motiv già ascoltato negli anni ’60, ’70 e ’90.
Per il conseguimento di questi obbiettivi Mario Monti e le figure emergenti del suo schieramento, destinate a prendere in futuro le redini del paese, si stanno dotando di armi pesanti ed insidiose; tra queste i poteri di accertamento fiscale e di intervento sul prelievo che mettono in condizione alcuni di quegli “oligarchi di stato”, citati da Della Loggia, di determinare pesanti politiche selettive verso soprattutto i settori dei ceti medi. La campagna antievasione, compresi i blitz nelle località vip, è qualcosa di molto più pesante di una semplice trovata propagandistica, come adombrato dall’ex ministro Visco.
Su questi progetti Monti dispone di molte più accondiscendenze di quelle manifestate nel teatrino mediatico.
Non solo i bacchettoni rigoristi della spesa e dell’evasione fiscale i quali, urlando al lupo degli sprechi e dei grandi evasori, in realtà alimentano la fuga dei capitali e la pelatura dei ceti medi, in particolare quelli produttivi ed il taglio e degrado dei servizi; anche la quasi totalità dei sindacati i quali non sanno far altro che balbettare su una politica redistributiva velleitaria e limitata perché ormai del tutto separata e avulsa da una politica industriale e di potenza.
Su questo basterebbe consultare l’ultimo pietoso documento dei tre sindacati confederali. Inaspettatamente, anche il fronte degli ottimisti, tra questi l’economista Marco Fortis, i quali riconoscono i limiti evidenti della struttura industriale e di servizi del paese, ma alla fine tessono le magnifiche sorti e progressive della piccola e media industria e del terzo settore nel garantire (sic) la coesione del paese ed il suo sviluppo futuro.
Il rapporto sull’Italia nel 2009 dell’economista è, a tal punto, emblematico anche se interessante da esaminare.
In realtà tutta la politica appariscente di questa compagine, sufficiente ad ingannare i tordi e le allodole ben disposte a farsi infilzare, poggia su una politica dei diritti anche di per sé accettabile(contratto unico di lavoro, diritto al lavoro di giovani e donne) in grado di innescare di per sé, assieme alle liberalizzazioni, a loro detta, lo sviluppo del paese e su una politica di drenaggio dei redditi medi ed assistenziale dei ceti umili la quale, a detta degli oppositori di comodo favorirebbe la sparizione dei ceti medi e il dualismo sociale, ponendo, quindi, le premesse per l’ennesima battaglia redistributiva utile premessa alla compravendita di settori della società.
Quello che si produrrà, invece, è una ulteriore frammentazione e precarizzazione dei ceti professionali, magari disconosciuta dal punto di vista della capacità di reddito, ma ancora importante ed essenziale nel ruolo e nelle funzioni.
Su questa visione il Governo può trovare ferventi sostenitori, come al solito fuori tempo massimo e fuori luogo, tipico dei servi sciocchi, come ad esempio il PD, impegnato attivamente da qualche settimana nella riproposizione degli Stati Uniti d’Europa.
Non a caso chi sta programmando la formazione di nuovi gruppi dirigenti, guarda a ben altri lidi, riservando agli apologeti schiocchi il compito di fornire la truppa. Ha bisogno, però, di promoters professionisti, ben conosciuti nelle varie fasi di restaurazione del paese.
Dopo quelli dell’antifascismo, dell’antimafia e della moralità è arrivato il momento dei professionisti dell’antitrust; molto meglio remunerati dei precedenti proprio per il carattere particolarmente disgustoso e mercantilistico dell’incarico.
A giorni un articolo sulla funzione di questo ennesimo spezzone del ceto medio semicolto e sulle conseguenze delle politiche da questo propagandate e attuate dagli attuali funzionari.
Le uniche incognite, comunque importanti, in grado di destabilizzare questo disegno sono i margini operativi consentiti dall’attuale élite dominante nel paese egemone e l’effettivo grado di rappresentatività e coesione delle organizzazioni politiche e sociali coinvolte nei processi. Su questo, nonché sulla effettiva capacità di gestione, Monti ha manifestato già qualche limite evidente.
Il circo mediatico martella: il governo Monti è il più serio tra i governi che tassano, con sempre più nuove tasse, nuove manovre che annunciano le successive all’insegna – questo non lo dicono – del pagherete caro, pagherete tutti, voi ceti deboli, voi nuovi poveri, voi pensionati.
La manovra di Monti, il programma lacrime e sangue, la pressione fiscale e le leggi da dittatura fiscale e da stato d’eccezione toccheranno il massimo storico.
Tutti sono favorevoli alle stangate fiscali.
In Italia, a differenza di altri paesi europei, non esiste alcuna forza politica, né di sinistra né di destra, la cui priorità sia effettivamente la riduzione delle tasse e un autentico programma di sviluppo e di crescita.
I partiti si illudono, fanno i furbi, fingono di contrastare i provvedimenti del governo tecnico, però poi lo votano: rischiano l’estinzione. Mario Monti alla ricerca del consenso svela la doppia verità dei partiti. “Il loro appoggio è più grande di quello che a volte dichiarano…”
Gas e luce corrono più del carovita, da gennaio corrono nuovi aumenti.
Decreto Salva Italia con la sua sonorità retorica e truffaldina?
I commercianti, per dirne un’altra, denunciano al nuovo governo che nelle nostre città sono scomparse negli ultimi sette anni centomila imprese commerciali, trecentomila posti di lavoro e che nei prossimi cinque anni 80 mila imprese usciranno dal mercato e andranno persi altri 240 mila posti di lavoro.
È questo che si vuole, tenendo aperti gli esercizi commerciali 24 ore su 24 festivi e domeniche comprese, a favore della Grande Distribuzione? Perché si vuol fare quest’altro regalo alla Grande Distribuzione che già oggi detiene il 70 per cento della quota mercato di consumi alimentari?
Impiegati e operai da licenziare, questa è un’altra priorità della direttiva segreta di agosto della Banca Centrale Europea. Nessuno protesta seriamente.
Scrive Guido Ceronetti, a proposito di tracciabilità e nostalgia per le banconote di fronte all’insistente minaccia della moneta elettronica: “Tra poco il libretto di conto corrente sarà una reliquia del passato, perché il furore governativo di rincorrere la tracciabilità (parola da gergo squisitamente totalitario) l’avrà reso, per sfinimento dell’utente, inutilizzabile”.
Lo stesso Romano Prodi è costretto ad ammettere: “Tuttavia non si avrà mai la quiete fino a che le divisioni europee spingeranno la finanza senza volto a colpire il paese più debole, al fine di lucrare sulla sua debolezza. Francia e Germania non hanno ancora capito che, se questo processo va avanti, saranno loro stessi a rimanere con il cerino in mano”.
Romano Prodi, amici e compagni non hanno ancora capito che con l’alta finanza pigliatutto, irritabile e minacciosa, senza volto, c’è poco da scherzare con le parole.
E che bisognerà fronteggiare l’aumento dei poteri della Banca Centrale Europea e che anche quelli che hanno un adeguato posto nei banchi della classe superiore e hanno fatto i compiti a casa sono delle semplici marionette dei banchieri.
Il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano dice che la democrazia “è stata sospesa”; non è vero: è stata abrogata, perché il governo Monti non è un governo eletto dal popolo.
E quando si chiedono “ulteriori sacrifici per i meno abbienti”, significa che da tempo si sta percorrendo la strada dell’ingiustizia sociale a favore della classe dei superricchi e di una avidità usuraria e demoniaca. Siamo all’impazzimento dei codici e dei linguaggi, ché la diritta via era smarrita.
“Per incontrare la speranza, bisogna andare al di là della disperazione. Quando si va alla fine della notte, si incontra una nuova aurora”.
Georges Bernanos, qui, indica la strada dei viandanti in cammino fino alla fine della notte, senza rassegnarsi mai alle tenebre e ai suoi padroni perché c’è la certezza dell’aurora che anticipa una nuova giornata.
Mai dimenticare che la vita è un eterno ritorno.
La prima (e ad oggi unica) vera protesta contro l'esproprio bancario, portato avanti dal governo dell'usura, sta facendo saltare i nervi di mr. Goldman Sachs e della congrega di servoprofessori che lo coadiuvano nell'impresa di rendere l'Italia un grande successo come la Grecia.
Per ironia della sorte a far barcollare Monti non sono i sindacati, già preventivamente cooptati sul libro paga del professore, non è la sinistra antagonista in profonda crisi d'identità e decisamente a corto di antagonismo quando si tratta di combattere Bruxelles e le banche e neppure la Lega di Bossi dispensatrice di aria fritta.
Sono i camionisti, che ridotti con le pezze al culo hanno messo i propri mezzi di traverso, bloccando la macchina del consumo e toccando nel vivo l'unico nervo scoperto di un banchiere con tanto aplomb: il portafoglio!
Quello suo e dei suoi padroni naturalmente, perchè i portafogli degli italiani somigliano ogni giorno di più a dei porta monete.
Mario Monti è rimasto un poco spiazzato, (ma solo un poco non fatevi illusioni) perchè fermamente convinto di avere comprato tutti coloro che era necessario comprare, per garantirsi l'acquiescenza del paese dai partiti politici di ogni colore, oggi uniformemente dipinti di grigio, alle associazioni dei consumatori, dai sindacati ai giornalisti, giù a cascata fino ad arrivare ai leader antagonisti in grado di fomentare una qualche protesta imprevedibile.
Con un tacito accordo di chiarezza adamantina. Non si protesta, e se lo si fa occorre sia una protesta puramente di facciata, utile a dare un contentino ai gonzi che menate per il naso da una vita, ma assolutamente priva di qualsiasi valenza pratica.
Un paio d'ore di sciopero qua, un altro paio là, un corteo con qualche pietra contro le vetrine a sinistra (così da poter affogare ogni ambizione rivoltosa nell'anatema contro la violenza) una manifestazione dove i leghisti possano parlarsi addosso (e non è un bel vedere) più a destra, qualche mugugno della Camusso, qualche astratta esternazione di Vendola e Ferrero, riscopertisi paladini dei lavoratori, qualche rimbrotto degli ambientalisti immersi nell'illusione dell'acqua pubblica, fino a al punto da non riuscire a vedere le nuove trivelle del banchiere e il project financing che cementificherà il paese.
Tutti buonini, o muti e rassegnati fate voi, tutti zitti, perfino di fronte ad un folle che racconta loro in TV (quella TV buona e certificata politicamente corretta e un poco di sinistra) come massacrando tassisti, benzinai, edicolanti e farmacisti farà salire il mitico pil dell'11% ed i salari (quali?) del 12%.
Tutti buonini, in fila per tre (per usare l'eufemismo caro a Bennato) alle pompe di benzina e agli sportelli di Equitalia, pronti per riempire i centri commerciali anche la notte, felici dell'eliminazione del denaro contante, che tanto in tasca pesa, e della nuova IMU che si paga volentieri, non fosse altro che per fare un dispetto a Berlusconi.
E poi arrivano loro, i camionisti (coadiuvati pure dai tassisti e da chissà quali armate di satana risalite dagli inferi per l'occasione) sporchi, brutti e volgari a rompere le uova nel paniere.
Paralizzano l'Italia, bucano le gomme a chi non sciopera, sono a rischio d'infiltrazioni mafiose (tuonano Confindustria e la Cancellieri) e d'infiltrazioni fasciste (tuona il partito di Soros), ma soprattutto mettono a repentaglio la macchina del consumo e gli italiani tutti che altro non devono essere se non tubi digerenti dello stesso.
Bloccano strade ed autostrade, impedendo la più preziosa libertà del cittadino, costituita dal pendolarismo e dallo shopping selvaggio. Osano mostrare il muso duro contro il professore che sta lavorando per il bene del paese.
Ma soprattutto sfuggono al controllo dei partiti e dei sindacati, non obbediscono, non cadono nel trappolone destra vs sinistra e sembrano veramente incazzati.
A questo punto bisogna spazzarli via, prima che facciano altri danni, non tanto quelli alla spesa degli italiani, contabilizzati da Confcommercio (che se non fosse una congrega di burattini senza spina dorsale avrebbe già reso pubblici i danni ben più corposi provocati dal professore) ma piuttosto quelli alla stabilità del governo della BCE, organizzata e studiata a tavolino e costata in prebende almeno quanto una manovra finanziaria.
Pensate il disatro prossimo futuro se mai gli italiani sull'onda di questi disperati iniziassero a capire che protestare si può. Anche se non ti chiama in piazza il partito o il sindacato. E si può perfino protestare seriamente, non 2 ore di sciopero nella pausa caffè o sfilatine folkloristiche concordate con la digos, ma proteste vere, ad oltranza (quella parolina magica che brucia come acido) portate per ottenere un risultato e non solamente per fare colore.
Inaccettabile, blasfema, una prospettiva da stroncare sul nascere senza se e senza ma. Chiamate la celere, l'esercito o se preferite il servizio d'ordine della Cgil ma fateli smettere! E smettere subito sia chiaro!
Tutti sopra i propri mezzi e dritti a casa in fila per tre, altrimenti oltre alla patente gli confischiamo anche quelli, che tanto di clandestini da far lavorare a nero e mettere alla guida di un camion ce ne sono a profusione nel paese.