martedì 30 dicembre 2008

Il terrorismo israeliano

Proseguono senza sosta i bombardamenti aerei israeliani su Gaza, con un bilancio finora di circa 400 morti e 1700 feriti secondo l'agenzia di stampa palestinese Maan.

E tutto cio' nel silenzio tombale dei vari leader mondiali.


Qui di seguito si affronta il tema della violenza insita nel popolo israeliano e dei vari significati della parola terrorismo.


Come i leader israeliani uccidono in cambio di voti

di Gilad Atzmon - http://palestinethinktank.com - 29 Dicembre 2008
Traduzione di Gianluca Freda

Per capire l’ultima devastante spedizione omicida degli israeliani contro Gaza bisogna comprendere a fondo l’identità israeliana e il suo odio innato verso chiunque non sia ebreo, l’odio verso gli arabi in particolare. Questo odio è contenuto nel curriculum israeliano, viene predicato dai leader politici e sottinteso dalle loro azioni. E’ veicolato da categorie culturali, perfino all’interno della cosiddetta “sinistra israeliana”.

Sono cresciuto in Israele negli anni ’70, gli individui della mia generazione oggi sono in Israele a capo dell’esercito, della politica, dell’economia, della cultura e delle arti. Siamo stati abituati a pensare che “un arabo buono è un arabo morto”. Qualche settimana prima che entrassi a far parte della IDF [le Forze di Difesa Israeliane, NdT] nei primi anni ’80, il generale Raphael Eitan, all’epoca capo di stato maggiore, annunciò che gli arabi erano come “scarafaggi imprigionati in una bottiglia”. La fece franca, così come la fece franca dopo l’assassinio di migliaia di civili libanesi durante la prima guerra del Libano. In una parola, gli israeliani riescono sempre ad ammazzare la gente e passarla liscia.

Fortunatamente, e per ragioni che tuttora sfuggono alla mia comprensione, a un certo punto mi risvegliai da questo mortifero sogno ebraico. A un certo punto me ne andai dallo stato degli ebrei, evasi dal dilagare dell’odio ebraico, diventai oppositore dello stato ebraico e di ogni altra forma di politica ebraica. In tutti i modi, sono fortemente convinto che sia mio dovere primario informare chiunque desideri ascoltarmi di cosa abbiamo contro.

Se il sionismo mirava a trasformare gli ebrei, e se pensava che “donandogli un proprio stato” li avrebbe resi simili a qualunque altro popolo, allora ha miseramente fallito. La barbarie israeliana, quale abbiamo potuto osservarla questa settimana e in infinite occasioni precedenti, va ben al di là della bestialità pura e semplice. E’ l’uccidere per il gusto di uccidere. Ed è indiscriminata.

Poche persone in occidente si rendono conto di una realtà devastante: che ammazzare gli arabi, e i palestinesi in particolare, è una ricetta politica israeliana di grande efficacia. Gli israeliani sono in realtà un popolo confuso. Per quanto insistano a vedere se stessi come una nazione in cerca di “Shalom” (1), in realtà amano essere guidati da politici che abbiano alle spalle un impressionante curriculum di massacri ingiustificati. Che si tratti di Sharon, Rabin, Begin, Shamir o Ben Gurion, gli israeliani vogliono che i loro “leader democraticamente eletti” siano falchi bellicosi, con le mani grondanti sangue e con alle spalle un solido background di crimini contro l’umanità.

Manca qualche settimana alle elezioni in Israele e sembra che tanto il candidato di Kadima, il ministro degli esteri Tzipi Livni, quanto il candidato laburista, il ministro della difesa Ehud Barak, si trovino molto indietro nelle preferenze rispetto al candidato del Likud, il noto falco Benjamin “Bibi” Netanyahu. Livni e Barak hanno bisogno della loro piccola guerra. Devono dimostrare agli israeliani che sanno come gestire uno sterminio di massa.

Sia Livni che Barak devono offrire all’elettore israeliano un’esibizione di devastante carneficina, così che gli israeliani possano aver fiducia nella loro leadership. E’ la loro unica possibilità contro Netanyahu. In pratica, Livni e Barak stanno lanciando tonnellate di bombe sui civili palestinesi, sulle scuole e sugli ospedali perché questo è esattamente ciò che gli israeliani vogliono vedere.

Sfortunatamente, gli israeliani non sono conosciuti per la loro pietà o per la loro compassione. Al contrario sono appagati dalla ritorsione e dalla vendetta, gioiscono della loro stessa brutalità senza limiti. Quando all’ex comandante in capo delle Forze Aeree Israeliane, Dan Halutz, fu chiesto che cosa si provasse a sganciare una bomba su un quartiere di Gaza densamente popolato, la sua risposta fu breve e precisa: “Si prova una leggera turbolenza sull’ala destra”. La freddezza omicida di Halutz fu sufficiente a garantirgli la promozione a capo di stato maggiore della IDF poco tempo dopo. Fu il generale Halutz a guidare l’esercito israeliano nella seconda guerra del Libano, fu lui a perpetrare la distruzione delle infrastrutture libanesi e di ampie zone di Beirut.

A quanto sembra, nella politica israeliana il sangue degli arabi si traduce in voti. Ovviamente sarebbe molto ragionevole incriminare Livni, Barak e l’attuale capo di stato maggiore della IDF, Ashkenazi, per omicidio di primo grado, crimini contro l’umanità e per la palese infrazione delle Convenzioni di Ginevra. Ma è molto più comprensibile tenere conto del fatto che Israele è una “democrazia”. Livni, Barak e Ashkenazi stanno dando al popolo israeliano ciò che vuole: si chiama sangue arabo e deve essere fornito in abbondanti quantità. Questa ininterrotta pratica omicida condotta dai politici israeliani riflette le attitudini del popolo israeliano nel suo insieme piuttosto che quelle di un manipolo di politici e generali. Abbiamo a che fare con una società barbarica, guidata, sul piano politico, da inclinazioni sanguinarie e assassine. Non può esservi dubbio, non c’è posto per questa gente fra le nazioni.

Perché gli israeliani siano un popolo così lontano da qualsiasi nozione di umanità è una bella domanda. Gli studiosi della natura umana più generosi ed ingenui potrebbero sostenere che la Shoah abbia lasciato un’enorme cicatrice nell’animo degli israeliani. Ciò potrebbe spiegare perché gli israeliani coltivino tale ricordo in modo ossessivo, con il sostegno dei loro fratelli e sorelle della Diaspora. Gli israeliani dicono “mai più” e ciò che vogliono dire è che non dovrà più esserci una nuova Auschwitz, il che in qualche modo li fa sentire legittimati a punire i palestinesi per i crimini commessi dai nazisti. I più realistici tra noi non credono più a questa tesi. Oggi iniziano ad ammettere che è più che probabile che gli israeliani siano così incredibilmente brutali perché semplicemente è questo che sono. E’ qualcosa che va oltre la razionalità e le teorizzazioni pseudo-analitiche. Essi affermano: “Questo è ciò che gli israeliani sono e non c’è più nulla da fare”. I realistici arrivano perfino ad ammettere che uccidere sia il modo in cui gli israeliani interpretano il significato dell’essere ebrei. Con tristezza, molti di noi sono arrivati ad ammettere che non esiste un sistema di valori laici alternativo con cui gli ebrei possano sostituire la pulsione ebraica all’omicidio. Lo stato ebraico sta lì a dimostrare che l’autonomia nazionale ebraica è un concetto inumano.

Sono cresciuto nell’Israele degli anni dopo il 1967. Sono stato allevato nel culto della mitica vittoria israeliana, siamo stati abituati ad adorare l’”israeliano che combatte in posizione di svantaggio”, l’eroico plotone che punta il suo Uzi automatico verso gli arabi e riesce a sconfiggere quattro eserciti in soli sei giorni.

Mi ci sono voluti due decenni di troppo per capire che l’”israeliano che combatte svantaggiato” era in realtà un maestro dello sterminio indiscriminato. Barak era uno di quegli eroi del 1967, un maestro dell’assassinio indiscriminato. A quanto sembra, l’esecutivo israeliano ha appena approvato un progetto per il più massiccio attacco contro Gaza dal 1967. Livni ha più o meno la mia età e, a giudicare dalle notizie, ha interiorizzato quel messaggio. Ora si sta costruendo le necessarie credenziali come assassina indiscriminata. Sia Barak che la Livni stanno conducendo Israele in una campagna elettorale di sterminio. Il sangue degli arabi e dei palestinesi è il carburante della politica israeliana.

Potrei suggerire a Barak e alla Livni che non è detto che ciò li aiuti nei sondaggi. Netanyahu è un falco autentico e genuino. Non ha bisogno di atteggiarsi ad assassino e, per quanto io possa disprezzarlo, non ha ancora condotto Israele in una guerra. Probabilmente egli capisce meglio di loro che cosa sia il potere della deterrenza.

(1) Non bisogna confondere “Shalom” con “pace” o con “Salam”. “Pace” e “Salam” esprimono riconciliazione e compromesso, mentre “Shalom” significa sicurezza per il popolo ebraico a spese del territorio circostante.



Gaza. È terrorismo. È strage. Si può raccontare il crimine
di Pino Cabras - Megachip - 30 Dicembre 2008

Nei giorni dell’atroce strage di Gaza l’orrore si condensa inevitabilmente sulle immagini e le voci delle vittime. Tanti piccoli tasselli che non riescono a ricomporre ancora il quadro della tragedia. Capire e riflettere in mezzo a tanta sciagura è difficile. Ma dobbiamo farlo, per ricostruire i fatti e il contesto.

Dopo anni di occupazione, l’11 settembre 2005, l’esercito israeliano ammainò la bandiera a Gaza, non appena fu completato il rapido sgombero delle colonie ebraiche sulla Striscia, troppo costose da tenere. Lunghe colonne di mezzi militari si allontanavano. Era il disimpegno unilaterale di Ariel Sharon: nessun riconoscimento politico che mettesse alla pari gli interlocutori palestinesi. Gli israeliani salutavano, ma non se ne andavano. Il mare e il cielo erano interamente sotto controllo israeliano. E che controllo.

In mare, la misera marineria palestinese non aveva più diritto a pescare nemmeno sulla battigia. Nessun molo funzionante, nemmeno per commerciare un po’ di derrate alimentari fresche.
In cielo, nel corso degli ultimi tre anni non si contano le azioni di bombardamento. In cielo, soprattutto, i jet con la stella di David hanno volato di proposito e di continuo a velocità supersonica, specie di notte, per creare insopportabili rumori. Un trauma senza posa che non ha risparmiato i bambini.

In terra, tutto il confine con Israele era una barriera chiusa e impenetrabile. Non bastava lo sfiato esiguo del confine con l’Egitto a trasformare questo territorio in qualcosa di diverso da una prigione. Serrato in via definitiva il passaggio di Karni, da cui potevano entrare le importazioni palestinesi sbarcate nel vicinissimo porto israeliano di Ashdod, pochi chilometri a nord, i palestinesi dovevano affidarsi ai porti egiziani di Port Said o Alessandria, a 200 chilometri l’uno, a 400 l’altro, con costi insostenibili per una popolazione già stremata. Questa era Gaza resa libera. La più grande prigione del mondo, un popolo intero, un milione e mezzo di persone. E più di ogni altra prigione, piena di innocenti.

Quando nel 2005 ci fu il “ritiro” unilaterale, uno sguardo spassionato alle circostanze avrebbe permesso di capire al volo che quello non era un refolo di speranza, ma la base per un aggravarsi della situazione. Sarebbe bastato rileggersi l’intervista concessa il 6 ottobre 2004 al quotidiano «Haaretz» da Dov Weisglass, braccio destro di Sharon, quando dichiarò che il cosiddetto piano di disimpegno da Gaza (che prevedeva anche la costruzione del muro in Cisgiordania) era solo una manovra diversiva intesa a fornire a Israele «una quantità di formaldeide sufficiente affinché non ci sia un processo politico con i palestinesi».

Un mese dopo, moriva Yasser Arafat, il padre della patria, presidente dell’Anp, l’Autorità nazionale palestinese. Gli esponenti della classe dirigente laica di al-Fatah, fino ad allora tenuta insieme dal carisma di Arafat, apparivano ormai nudi nei loro terribili difetti. Avevano rubato a man bassa e si costruivano ville palladiane in mezzo alla miseria dei Territori occupati, mentre non avevano risultati tangibili da offrire come frutto della loro negoziazione continuamente soverchiata dal pugno di ferro del governo israeliano e mestamente instradata verso un percepito collaborazionismo.

Per contro cresceva nella popolazione il prestigio del "Movimento di Resistenza Islamico". Il suo acronimo arabo, Hamas, significa “zelo, entusiasmo”. I dirigenti di Hamas conducevano una vita frugale, intanto che in mezzo alle rovine tessevano reti di solidarietà materiale, una sorta di welfare residuale, ma infinitamente più credibile del disastro in cui sprofondava l’Anp.

Fu così che nel gennaio 2006 Hamas vinse le elezioni parlamentari palestinesi, con 76 seggi della camera su 132, mentre al-Fatah ne prese 43. Una vittoria autentica ed elettoralmente pulita, ma anche una variabile che nei calcoli delle potenze coinvolte non si considerava accettabile. Quando la democrazia ha due pesi e due misure.

Ancora Dov Weisglass, stavolta in veste di coordinatore di una squadra di governo che comprendeva anche i capoccioni delle forze armate e incaricata delle azioni anti-Hamas, commentò così subito dopo le elezioni l’intento di avviare una crudele stretta economica all’Autorità palestinese: «è come andare dal dietista: i palestinesi dimagriranno un bel po’, ma non moriranno mica». I presenti, tra cui Tzipi Livni, scoppiarono a ridere (vedi Gideon Levy, “As the Hamas team laughs”, «Haaretz», 19 febbraio 2006).

Weissglass in fondo è uno spiritoso. Nella famosa intervista ad «Haaretz» del 2004 aveva ben rimarcato quanta formaldeide servisse per imbalsamare le velleità di un accordo di pace: «noi abbiamo istruito il mondo, affinché capisca che non c’è nessuno con cui trattare. E abbiamo ricevuto un attestato... [che non c’è nessuno con cui trattare]. L’attestato sarà revocato solamente quando la Palestina diventerà come la Finlandia». La versione moderna delle calende greche, per chi osasse ancora vagheggiare due popoli in due stati.

I palestinesi della grande prigione non sono diventati finlandesi. Hanno subito fino in fondo la dieta, giorno dopo giorno. Nonostante la difficile tregua, la vite si stringeva sempre di più, venivano fatti passare sempre meno camion di aiuti, e nulla usciva dal campo della disperazione concentrata.

Gaza è il caso più disgraziato. Ma anche in Cisgiordania non si scherza. Il governo israeliano ha disposto la chiusura di decine di organizzazioni caritatevoli. La scusa è tagliare qualsiasi flusso che possa favorire Hamas. Quel che accade in realtà è la desertificazione di tutti i corpi intermedi, di tutte le formazioni sociali in seno alla popolazione palestinese, per lasciare spazio solo all’emergenza umanitaria in mano altrui. Magari in mano all’Onu, purché non rompa le scatole come faceva con Richard Falk, relatore speciale delle Nazioni Unite sui territori palestinesi, un ebreo cui è ormai vietato entrare in Terra Santa per aver espresso forti critiche sulla politica di occupazione israeliana.

Al solito, di fronte a vicende di guerra, i media occidentali più importanti manipolano pesantemente le notizie. Sono complici di quelle classi dirigenti che – dopo l’11 settembre - hanno fatto di tutto per distruggere un ordinamento giuridico internazionale che ammetteva norme non basate sul solo diritto di potenza, inquinare i punti di riferimento concettuali per la definizione di ciò che è aggressione o tirannia o resistenza, mentre potenti interessi imperialistici condizionano l’economia – vicina a un baratro finanziario – entro la gabbia delle priorità militari. Gli Stati Uniti non stanno sollevando alcuna obiezione, rispetto all’ennesima azione scellerata del governo israeliano. Ma anche le voci europee sono flebilissime.

Ernesto Balducci, quando nel 1991 scorreva il bollettino delle vittime nella Guerra del Golfo notava che a fronte di qualche centinaio di americani, c’erano centinaia di migliaia di morti iracheni: non più una guerra codificata dalla ragione e dal diritto, ma una strage. Credo che anche oggi la parola strage sia la più adatta a descrivere la scena di Gaza. Un’immane strage.

Fra i responsabili dell’eccidio c’è il ministro della difesa israeliano, l’ex premier Ehud Barak. Giustifica anche lui tutta questa ferocia pianificata in nome della lotta al terrorismo.
Pur essendo la parola ‘terrorismo’ una delle più usate nella politica degli ultimi anni, la sua definizione non ha affatto interpretazioni univoche. In molte occasioni i vertici di capi di stato e di governo hanno trovato difficoltà quasi insormontabili quando hanno cercato una definizione minima comune.

Se si ragiona un po’ sulla questione, si scoprono tante sfumature che sottostanno alle definizioni polimorfe di un fenomeno sfuggente. A stento troverete fattispecie ben delineate, mentre vi imbatterete più spesso in parole che si adatterebbero tranquillamente alla descrizione di certi atti di guerra e di spionaggio che invece sono coperti da una qualche vernice di legalità.
Dimenticate per un minuto i bersagli di solito segnalati da politici e mass media, scordate l’iconografia di un gruppo di kamikaze che si auto-organizza. Troppo facile.

Provate invece a pensare a certe azioni fatte con la copertura di eserciti, Stati, organizzazioni non governative, servizi, multinazionali della security imparentate con il mondo dello spionaggio. Saranno diversi i gradi di visibilità della copertura dei governi, ma vedrete che quelle definizioni tornano indietro come un boomerang.

La prima grande ondata di attacchi aerei in Iraq nel 2003 venne chiamata «Shock and Awe». Non è facile tradurre questa espressione in due parole, per la densità di richiami che contiene. Normalmente i giornali italiani tradussero “colpisci e terrorizza”, “colpisci e sgomenta”, per mantenere la forza icastica dell’espressione e approssimarsi comunque al significato. Ma è interessante perdere un po’ dell’effetto per cogliere i significati di un’altra possibile traduzione: “sconvolgi e induci in soggezione”. Si coglie così non tanto la furia cieca del fanatico rozzo, quanto la risolutezza metallica del fanatico freddo, che distilla la ‘strategia della tensione’ in un blitzkrieg.

Quante volte ritorna l’espressione ‘Terrorismo di Stato’ e di ‘Stato terrorista’, nella Grozny annientata dai carri armati russi, nel Libano devastato dall’aviazione israeliana, nelle lotte di potere in Pakistan, nella memoria degli anni di piombo italiani? A ogni buon conto, l’organo neocon italiano, «Il Foglio», ha plaudito anche stavolta in prima pagina alla rivendicata “strategia shock and awe”.

Cos’è dunque il terrorismo? Il terrorismo non è solo una questione di terroristi. In un certo senso ce lo dicono anche le Convenzioni di Ginevra. Anche se non definiscono la nozione di “terrorismo”, le quattro Convenzioni di Ginevra del 1949 si riferiscono a “misure di terrorismo” e ad “atti di terrorismo”.

L’articolo 33 della IV Convenzione di Ginevra in modo esplicito vieta che la popolazione civile venga fatta oggetto di «pene collettive, come pure [di] qualsiasi misura d’intimidazione o di terrorismo». La vicenda di Gaza è un caso lampante di pena collettiva inflitta alla popolazione. E gli ultimatum che dicono “stiamo per bombardarvi”, lungi dal significare “vogliamo salvarvi la vita, spostatevi” sono atti d’intimidazione e induzione del terrore. Come stupirsi delle parole non prevenute di Richard Falk, pronunciate nel 2007, quando ancora l’assedio di Gaza non era giunto alle punte di crudeltà più recenti?

Falk dichiarava: «È forse un’esagerazione irresponsabile associare il trattamento dei palestinesi alle pratiche di atrocità collettiva dei nazisti? Non credo. I recenti sviluppi a Gaza sono particolarmente inquietanti perché esprimono in modo sconvolgente un’intenzione deliberata da parte di Israele e dei suoi alleati di sottoporre una comunità umana nella sua interezza a condizioni di massima crudeltà che ne mettono in pericolo la vita. La suggestione che questo modello di comportamento sia un olocausto in erba rappresenta un appello disperatissimo ai governi del mondo e all’opinione pubblica internazionale affinché agiscano d’urgenza per impedire che queste attuali tendenze al genocidio finiscano in una tragedia collettiva».

L’articolo 4 del Secondo Protocollo Aggiuntivo delle Convenzioni di Ginevra stabilisce che contro tutte «le persone che non partecipano direttamente o non partecipano più alle ostilità […] siano proibiti in ogni tempo e in ogni luogo […] atti di terrorismo». Ancora una volta, senza arrivare alle definizioni “teologiche” di terrorismo, quelle della Guerra al Terrorismo per intenderci, il diritto internazionale ha cercato di codificare fattispecie precise. In entrambi i disposti delle Convenzioni di Ginevra si enfatizza che né singoli individui né la popolazione civile in quanto tale possono essere fatti oggetto di punizioni collettive che, fra l’altro, indurrebbero in essa una condizione di terrore.

Questo concetto si rafforza nel Primo Protocollo Aggiuntivo, laddove, all’articolo 51, è stabilito che «sia la popolazione civile che le persone civili non dovranno essere oggetto di attacchi» e che «sono vietati gli atti o minacce di violenza, il cui scopo principale sia di diffondere il terrore fra la popolazione civile.»

Qualche azzeccagarbugli del diritto umanitario proverà a confondere le acque, giocando fra le definizioni di politica interna e internazionale degli interventi militari. Ma il disposto ricompare quasi alla lettera nel Secondo Protocollo Aggiuntivo: la qualificazione del conflitto come internazionale o interno non ha grande rilevanza.

La strage di Gaza è una misura di terrorismo. Un atto di terrorismo. Affermare che si volevano colpire i soldati di Hamas è una giustificazione sottile come la carta velina. I poveri poliziotti massacrati nel giorno del loro giuramento non erano certo persone che “partecipano direttamente alle ostilità”. Erano parte di una fragile infrastruttura di sicurezza interna del territorio. Fragile come il miraggio del misero stipendio– cosa rara in un luogo in cui ormai tutti sono disoccupati - che forse li allontanava dallo spettro della denutrizione toccata in sorte ai loro connazionali. In tutto e per tutto vittime civili anche i poliziotti morti, come i bambini morti nelle macerie delle scuole.

Che l’obiettivo fosse distruggere qualsiasi dimensione civile dei territori, lo dimostra in modo flagrante la disintegrazione dell’Università. Che si aggiunge alle devastazioni inflitte anni addietro a tutte le infrastrutture palestinesi. Sono rimasti i forni, senza elettricità e senza pane.

Nelle indecenti corrispondenze di molti giornali e telegiornali si asseconda il concetto che l’incursione delle forze armate israeliane servirà a distruggere la percezione di utilità di Hamas nella popolazione civile. Ridurre tutti alla disperazione per rovesciare Hamas, insomma.

Di fronte a questo intendimento, ci basta rispolverare la definizione ufficiale di “terrorismo” adottata dal Dipartimento della Difesa Usa: «Il terrorismo è l’uso calcolato della violenza o della minaccia di violenza per indurre paura, intesa a coartare o intimidire stati o società nonché al perseguimento di obiettivi che sono generalmente politici, religiosi e ideologici».

Non vi piace? Volete quella dell’Fbi? Eccola: «Il terrorismo è l’uso illegale della forza o della violenza a danno di persone o proprietà per intimidire o coartare un governo, la popolazione civile o un loro segmento, seguendo obiettivi politici o sociali».

Definizioni troppo americane? Torniamo in Europa, allora. La Decisione quadro sulla lotta contro il terrorismo, adottata dal Consiglio Europeo il 13 giugno 2002 lo definiva come «ogni atto terroristico commesso, da uno o più individui, contro uno o più Stati, intenzionalmente, o tale da arrecare pregiudizio a un’organizzazione internazionale o a uno Stato. Deve trattarsi di atti terroristici commessi con l’intenzione di minacciare la popolazione e di ledere gravemente o distruggere le strutture politiche, economiche o sociali di uno Stato (omicidi, lesioni personali, cattura di ostaggi, ricatti, fabbricazione d’armi, attentati fatti eseguire da terzi, minaccia di porre in atto simili azioni …).».

Ecco, sfumiamo i termini statuali dei soggetti, andiamo agli atti concreti. Siamo lì. Siamo nell’ambito di fattispecie che definiscono forme di azione violenta e illegale, tali da mettere in pericolo la popolazione civile, e quindi indurre una condizione di “terrore” diffuso così da ottenere alcuni risultati di tipo politico.

Possiamo certo riconoscere questa definizione anche a carico di chi lancia i razzi Kassam, che lo spudorato corrispondente del Tg1 definisce missili, ma che sono poco più che delle catapulte, dagli effetti drammatici ma strategicamente trascurabili. Ma perché non riconoscerla a carico di chi invece – tranne le sue bombe atomiche – ha usato sinora tutto il resto di un armamentario spaventoso e senza proporzione?

Questa critica dura e senza sconti alle classi dirigenti israeliane e ai loro alleati significa avere la volontà o la velleità di distruggere Israele? No, è la semplice opposizione alla ‘normale’ e spregiudicata politica di potenza di uno Stato guerresco contemporaneo. Uno Stato che – al pari degli altri Stati – non deve essere considerato in odore di santità né pervaso da fumi demoniaci, ma semplicemente valutato con tutto l’arsenale della critica razionale, per quello che fa e che progetta, per il potere che ha e per lo scontro che il suo potere genera.
Relativizziamo, anche in questo caso.

Il processo di costruzione di Israele come nazione non si è risparmiato indicibili crudeltà e ingiustizie, ma è stato così anche per gli Stati-nazione più forti che conosciamo. La Francia che passa per guerre civili e religiose e accresce la sua economia a spese delle colonie, la Spagna della "limpieza de la sangre" e della Conquista, gli Stati Uniti con la Nuova Frontiera che schiaccia i nativi, la Russia che edifica un impero con impressionanti democidi, la Germania che prende le misure del mondo con enormi massacri e genocidi, la Cina che calpesta le minoranze, la stessa nostra Italia che si unifica con grandi tributi di sangue e dove Cristo è più o meno sempre fermo a Eboli.

Dietro tante epopee nazionali c’è un terribile bagno di sangue, che dovrebbe spingere a non demonizzare, ma semplicemente a riconoscere il crimine quando esso si manifesta con tanta capacità di devastazione. In questo caso, oltre al diritto alla vita delle persone, oltre al diritto del popolo palestinese, oltre al diritto internazionale, è in gioco la pace a livello globale, per l’insieme di relazioni che si disputano nello scenario mediorientale. Cui si aggiunge la pericolosissima tradizionale unilateralità del governo israeliano, ancora una volta “pares non recognoscens”, ora in una polveriera più sconvolta.

E, per come si stanno comportando i mass media, è in gioco la possibilità di raccontare ancora delle verità sulla barbarie.
Denunciare la strage di Gaza con una capacità di esecrazione equivalente a quella consumata per la strage di Mumbai. Si può?

Contrastare subito le aggressioni, adesso, non con invisibili autocritiche “a babbo morto”, come è avvenuto per l’aggressione della Georgia all’Ossetia del Sud. Si può?
Non lasciar passare in cavalleria terrificanti crimini di guerra, come si è fatto per Bush che candidamente ha ammesso che la devastazione dell’Iraq è nata da falsi pretesti. Si può? Si può farlo ora?

Raccontare che i razzi Kassam di questi giorni non c’entrano nulla, perché anche «Haaretz» riferisce che l’attacco era pianificato da mesi e mesi. Si può?
Se non si fa disinformazione, si può.


“IL GOVERNO ISRAELIANO E' UN PERICOLO PER LA PACE NEL MONDO”

Solidarietà al popolo palestinese

L'assalto sanguinoso, e vile, di Israele contro la popolazione della striscia di Gaza è una vergogna per la comunità internazionale che ha permesso che avvenisse e che non ha fatto nulla per impedirlo e per fermarlo.
La stampa occidentale descrive gli eventi con la stessa, intollerabile faziosità con cui raccontò l'aggressione georgiana contro l'Ossetia del Sud, lo scorso agosto.

Vorrei che si ricordasse che la Russia fu condannata dal Parlamento Europeo per reazione "sproporzionata". Cosa firmeranno adesso i parlamentari europei che allora firmarono quella condanna? Se ne rimarranno in silenzio?

La mia solidarietà piena va al popolo palestinese, Popolo martire.

Il governo israeliano, con questo ennesimo massacro, dimostra di essere un pericolo per la pace del mondo. E, come accade sovente agli stupidi, finisce per essere un pericolo per se stesso, come tutti coloro che ignorano non solo la legge internazionale, ma anche la storia dei popoli.

Giulietto Chiesa

parlamentare europeo


A Gaza è un lento morire in vano ascolto
di Vittorio Arrigoni -
http://guerrillaradio.iobloggo.com/ - 30 Dicembre 2008

Nell'aria acre odore di zolfo, nel cielo lampi intermezzano fragorosi boati.
Ormai le mie orecchie sono sorde dalle esplosioni e i miei occhi aridi di lacrime dinnanzi ai cadaveri.

Mi trovo dinnanzi all'ospedale di Al Shifa,
il principale di Gaza, ed è appena giunta la terribile minaccia che Israele avrebbe deciso di bombardare la nuova ala in costruzione.
Non sarebbe una novità, ieri è stato bombardato l'ospedale Wea'm.
Insieme ad un deposito di medicinali a Rafah,
l'università islamica (distrutta),
e diverse moschee sparse per tutta la striscia.
Oltre a decine di installazioni CIVILI.

Pare che non trovando più obbiettivi "sensibili",
l'aviazione e la marina militare si diletti nel bersagliare luoghi sacri, scuole e ospedali.

E' un 11 settembre ad ogni ora, ogni minuto, da queste parti,
e il domani è sempre una nuovo giorno di lutto, sempre uguale.
Si avvertono gli elicotteri e gli aerei costantemente in volo,
quando vedi il lampo, sei già spacciato,
è troppo tardi per mettersi in salvo.

Non ci sono bunker antibombe in tutta la Striscia,
nessun posto è al sicuro.

Non riesco a contattare più amici a Rafah,
neanche quelli che abitano a Nord di Gaza city,
spero perchè le linee sono intasate.
Ci spero.
Sono 60 ore che non chiudo occhio,
come me, tutti i gazawi.

Ieri io e altri 3 compagni dell'ISM abbiamo trascorso tutta la nottata all'ospedale di al Awda del campo profughi di Jabalia. Ci siamo andati perchè temevamo la tanto paventata incursione di terra che poi non si è verificata.
Ma i carri armati israeliani stazionano pronti lungo il confine tutto il confine della Striscia,
il loro cingoli affamati di corpi pare si metteranno in funerea marcia questa di notte.

Verso le 23:30 una bomba è precipitata a circa 800 metri dall'ospedale,
l'onda d'urto a mandato in frammenti diversi vetri delle finestre, ferendo i feriti.
Un' ambulanza si è recata sul posto, hanno tirato giù una moschea, fortunatamente vuota a quell'ora.
Sfortunatamente, anche se non di sfortuna ma di volontà criminale e terroristica di compiere stragi di civili,
la bomba israeliana ha distrutto anche l'edificio adiacente alla moschea, distruggendolo.

Abbiamo visto tirare fuori dalle macerie i corpicini di sei sorelline.
5 sono morte, una è gravissima.

Hanno adagiato le bambine sull'asfalto cabonizzato,
e sembravano bamboline rotte, buttate via perchè inservibili.
Non è un errore, è volontario cinico orrore.

Siamo a quota 320 morti,
più di un migliaio i feriti,
secondo un dottore di Shifa il 60% è destinato a morire nelle prossime ore,
nei prossimi giorni di una lunga agonia.

Decine sono i dispersi,
negli ospedali donne disperate cercano i mariti, i figli,
da due giorni, spesso invano.
E' uno spettacolo macabro all'obitorio.
Un infermiere mi ha detto che una donna palestinese dopo ore di ricerca fra i pezzi di cadaveri all'obitorio,
ha riconosciuto suo marito da una mano amputata.
Tutto quello che di suo marito è rimasto,
e la fede ancora al dito dell'amore eterno che si erano ripromessi.

Di una casa abitata da due famiglie,
è rimasto ben poco dei corpi umani.
Ai parenti hanno mostrato un mezzo busto,
e tre gambe.

Proprio in questo momento una delle nostre barche del Free Gaza Movement sta lasciando il porto di Larnaca in Cipro. Ho parlato coi miei amici a bordo. Eroici, hanno ammassato medicinali un pò in ogni dove sull'imbarcazione.
Dovrebbe approdare al porto di Gaza domani verso le 0800 am.
Sempre che il porto esista ancora dopo quest'altra notte di costanti bombardamenti.
Starò in contatto con loro tutto questo tempo.

Qualcuno fermi questo incubo.
Rimanere in silenzio significa supportare il genocidio in corso.
Urlate la vostra indignazione, in ogni capitale del mondo "civile",
in ogni città, in ogni piazza,
sovrastate le nostre urla di dolore e terrore.

C'è una parte di umanità che sta morendo in pietoso ascolto.

Vik in Gaza