domenica 22 luglio 2012

Update italiota

Alcuni articoli sulle ultime vicende italiote, relative in particolar modo all'approvazione del Fiscal Compact da parte del Parlamento.



Fiscal Compact: la sovranità dal popolo all'Europa
di Alberto Lucarelli - Il Fatto Quotidiano - 21 luglio 2012

In nome della crescita europea l’Italia sacrifica il suo fondamento costituzionale: approvando, senza dibattito e in via definitiva il disegno di legge di ratifica del Trattato sulla stabilità, sul coordinamento e la governance nell’Unione economica e monetaria (il cosiddetto fiscal compact), la Camera ha spostato la sovranità dal popolo (come recita l’art. 1 della Costituzione) alla burocrazia europea.

In pratica, il voto impone all’Italia di tagliare per 20 anni 45 miliardi di debito pubblico all’anno: solo per dare un’idea della dimensione della scure Ue, a confronto la spending review cancella spese per un di 29 miliardi in tre anni.

A questo esborso, inoltre, va aggiunto quello previsto dal trattato istitutivo del Mes (Meccanismo Europeo di Stabilità), ratificato contestualmente al fiscal compact, che impegna l’Italia a versare 15 miliardi in 5 anni per la realizzazione di un fondo “paracadute” per le banche.

Quella che può essere considerata una vera e propria cessione all’Europa della sovranità politica economica e fiscale, è irrigidita da una serie di clausole “di rigore”, tese a sanzionare a sanzionare gli inadempienti con una multa fino allo 0,1% del Pil.

Un Paese, dunque, non può rifiutarsi né di ridurre il debito né di obbedire alle correzioni richieste. Un meccanismo, voluto dall’Eurogruppo, che indebolisce la commissione europea, rafforzando un’Europa intergovernativa fortemente voluta dai governi di destra negli ultimi anni.

Oltre ad immaginare dove il Governo andrà ad operare questi tagli (dove l’ha fatto finora, penalizzando ulteriormente il welfare e accelerando le politiche di privatizzazione), il fiscal compact ci impone una riflessione sul grado di democrazia operante oggi, ma direi sin dalla sua fase costitutiva, all’interno dell’Unione.

L’unico principio all’interno dell’Europa che sembra orientato ad esprimere una dimensione democratica è il principio di coesione economico sociale quale paradigma dei diritti sociali.

Tale principio, seppur tra mille contraddizioni, va considerato quale vero e unico fondamento “costituzionale” europeo, dal valore prescrittivo e non meramente programmatico, tale da costituire il presupposto di un ampio concetto di partecipazione alla convivenza sociale, politica ed economica.

Questo principio, finora assolutamente disatteso, deve essere messo in grado di attivare politiche pubbliche tese a realizzare un governo europeo dei beni comuni, in contrapposizione al modello mercantile e concorrenziale che sempre più spesso viene utilizzato quale paravento a scelte di politiche pubbliche.

Su questo versante tutte le norme relative alla privatizzazione sono state intese, con estrema ipocrisia e mistificazione, come “comunitariamente necessarie”, ovvero norme alle quali il nostro legislatore, per non violare il diritto comunitario, non si sarebbe potuto sottrarre.

Dietro il meccanismo del fiscal compact, ma ancor di più dietro il Mes, il grande burattinaio è rappresentato dalla Bce, la Banca Centrale Europea, che ha adottato, in maniera assolutamente illegale e illegittima, misure fuori dall’ordinario quali lo stanziamento di fondi, tramite aste a tasso fisso ed a piena aggiudicazione, con scadenza a 36 mesi, e l’abbassamento temporaneo del coefficiente di riserva obbligatoria dal 2 all’1%.

Queste iniziative, “motivate” dalla crisi internazionale, violano il seppur debole diritto pubblico europeo dell’economia (come anche riconosciuto dalla sentenza della Corte Costituzionale n. 24 del 2011 di ammissibilità del quesito referendario contro la privatizzazione dell’acqua) che sancisce i diritti fondamentali quale fattore irrinunciabile di tutela sociale e territoriale ed elemento imprescindibile della coesione europea (eguaglianza sostanziale).

In questa visione la regola della concorrenza sarebbe limitata dal raggiungimento de fini sociali e dal rispetto dei valori fondanti dell’Unione, quali lo sviluppo armonioso, equilibrato e sostenibile delle attività economiche, la solidarietà, l’elevato livello dell’occupazione e la protezione dell’ambiente, della salute, dei consumatori. Ma non è mai stato così!

L’Europa può rinascere solo attraverso processi di mobilitazione e di affermazione di principi decisamente antiliberisti, che pongano al centro del confronto politico il lavoro, lo Stato sociale ed i beni comuni.

Quindi, ridando piena effettività all’art. 1 della Costituzione, riconoscendo nel lavoro il fondamento della Repubblica e nel popolo, e non nei potentati economico-finanziari europeo, l’esclusiva sovranità.


E' macelleria sociale: approvato il Fiscal Compact
di Paolo Becchi  - www.byoblu.com - 19 Luglio 2012

Poche ore fa, l’Assemblea ha approvato la ratifica del cosiddetto fiscal compact, ossia il trattato che introduce i meccanismi di stabilità, coordinamento e governance nell’unione economica e monetaria, e che mira – così si dice – «a salvaguardare la stabilità di tutta la zona Euro».

In realtà, dubbi ed incertezze sulla bontà del “fiscal compact” sono stati espressi in tutta Europa: la Germania per prima ha rinviato l’approvazione del trattato, e sarà la Corte Costituzionale a decidere, il prossimo 12 settembre, se il fondo di salvataggio (ndr: il trattato Mes http://www.byoblu.com/post/2012/07/19/La-guerra-dellEuropa.aspx ) ed il patto fiscale europeo potranno entrare in vigore.

In Italia, invece, si è assistito ad un “allineamento” non solo degli organi di stampa – che evitano quasi di dare notizia dell’avvenuta approvazione – ma dello stesso Parlamento, il quale ha ratificato, senza discussione, senza neppure che sia stato necessario al Governo porre la questione di fiducia, il Trattato: maggioranza bulgara oggi alla Camera, 368 sì contro 65 no. In Italia tutto accade ormai in un’atmosfera grigia e silenziosa, quasi spettrale.

Ma cosa significa l’approvazione del “fiscal compact”? Il “patto” prevede che i Paesi che detengono un debito pubblico superiore al 60% del PIL di rientrare entro tale soglia nell'arco di 20 anni, ad un ritmo pari ad un ventesimo dell'eccedenza in ciascuna annualità.

Gli Stati si obbligano a mantenere il deficit pubblico sempre sotto al 3% del PIL, a pena di sanzioni. Tutto ciò significa né più né meno la semplice rinuncia ad ogni possibilità di intraprendere una politica fiscale capace di stimolare la domanda.

Significa condannarsi ad una rigidità ulteriore di politica economica che va ad aggiungersi a quella del cambio fisso dettato dalla moneta unica. L’Italia, la nazione prima al mondo per pressione fiscale, si impegna oggi a sostenere 50 miliardi di Euro all’anno di tasse e tagli per 20 anni.

Rispettare parametri fiscali sempre più rigidi e stringenti, rinunziando ad ogni spazio possibile di manovra, vorrà dire dover imporre agli italiani, per i prossimi vent’anni, un regime di austerità radicale: si colpiranno ancora salari, stipendi e prestazioni del Welfare, si aggraveranno le condizioni di vita delle classi sociale medio-basse, si assisterà a nuove tasse.

Gli italiani devono sapere che il prezzo imposto dall’Europa è una macelleria sociale: tagli dappertutto, dalla sanità alla scuola, dall’università ai trasporti.

Tutto questo avviene, ed avverrà, senza alcuna consultazione diretta o indiretta del popolo italiano, ma unicamente per rispettare decisioni prese al di fuori del Paese. Siamo passati senza accorgercene da un sistema politico democratico ad un sistema oligarchico, in cui il Governo è nelle mani di un gruppo di “tecnici” che rappresentano interessi esterni.

Il Parlamento obbedisce, senza neppure un minimo accenno di protesta. Il Paese è stato “pacificato”: niente più aspri scontri politici, disinteresse diffuso per la politica, tensione sociale apparentemente sotto controllo. Eppure si annuncia, per i prossimi vent’anni, una sanguinosa e violenta “economia di guerra”: la guerra senza guerra, ossia la più terrificante delle possibilità.


Italia in saldo: svendere il Paese per 20 miliardi l'anno
da www.libreidee.org - 16 Luglio 2012

Svenditalia! Il piano di privatizzazione di Grilli farà contente (guarda caso) le banche, azioniste col 30% della cassa depositi e prestiti attraverso le fondazioni. In offerta speciale solo le aziende che producono utili (ma và?): Fintecna, Save e Simesty passeranno alla CDP per sei miliardi. La corte dei conti avverte: “Rischio svendita patrimonio immobiliare dello Stato”. Giapponesi sceicchi, americani, affrettatevi per i saldi ...
Dagospia

Eutanasia dell’Italia, a colpi di 20 miliardi di euro all’anno. Il suicidio programmato del patrimonio pubblico della nazione che ha appena festeggiato i primi 150 anni di vita è «una strada praticabile», secondo il neo-ministro dell’economia Vittorio Grilli, per ridurre strutturalmente il debito pubblico.

Regalando – di fatto – i beni pubblici degli italiani al grande capitale finanziario: lo stesso che ha provocato la crisi e sottratto agli Stati la leva della moneta sovrana, strategica per risalire la china senza dover ricorrere a tagli criminosi.

Intervistato dal “Corriere della Sera”, Grilli auspica un piano pluriennale per garantire «vendite di beni pubblici per 15-20 miliardi l’anno, pari all’1% del Pil».

E’ la legge – folle – del “pareggio di bilancio” imposto dall’élite tecnocratica dell’Unione Europea mediante trattati-capestro come il Fiscal Compact: drenare a sangue le risorse pubbliche, costringendo lo Stato a comportarsi come un’azienda privata – neppure virtuosa, ma fallimentare: un’azienda che non è più in grado di fare investimenti vitali.

«Già abbiamo un avanzo primario del 5%», ammette Grilli, confermando che lo Stato spende per i propri cittadini meno di quanto riceva sotto forma di tasse. Calcolando «una crescita nominale del 3%», aggiunge Grilli, la svendita a rate del patrimonio pubblico italiano produrrebbe una riduzione del debito pari al 20% in soli cinque anni.

Nel colloquio con Ferruccio De Bortoli, Grilli difende anche la famigerata spending review, che «consente risparmi al di là delle cifre di cui si parla in questi giorni», dal momento che «si possono ridurre ancora le agevolazioni fiscali e assistenziali, intervenire sui trasferimenti alle imprese».

Il tecnocrate arruolato da Monti parla addirittura di tagli alla tassazione sul lavoro, mentre collabora alla demolizione del welfare su cui si sono basati cinquant’anni di benessere e di sicurezza sociale.

Vittorio Grilli ha un curriculum perfettamente adeguato alle sue attuali performance: è stato assistente professore alla Yale University e poi docente al Birkbeck College dell’università di Londra.

Nel 1994 è entrato al Ministero del Tesoro come capo della direzione per le privatizzazioni: super-tecnocrate di scuola anglosassone, ha firmato il suo ingresso nell’amministrazione statale in qualità di liquidatore, secondo i dettami dell’élite neoliberista che prescrive la sparizione progressiva dello Stato come garante dei cittadini.

Dirigente bancario del Crédit Suisse, è tornato al ministero nel 2002 come Ragioniere Generale dello Stato, per poi dirigere il Tesoro e sfiorare, nel 2011, la super-poltrona di governatore di Bankitalia poi andata ad Ignazio Visco. Un uomo con le carte in regola, dunque, per sforbiciare quel che resta dei beni comuni in via di sparizione.

E mentre il Parlamento dorme e lascia fare ai “tecnici”, i freddi esecutori dei diktat impartiti da Bruxelles e Francoforte per devastare il sistema socio-economico europeo mettendo in salvo soltanto le banche e il loro capolavoro speculativo, la moneta “privata” chiamata euro, l’economista Grilli se la prende con l’ultimo declassamento di “Moody’s”, come se le agenzie di rating non fossero parte integrante del piano mondiale per spodestare i cittadini europei, retrocessi a sudditi da “punire” con selvaggi “sacrifici”, senza una sola contropartita ragionevole né un’idea di sviluppo per uscire dalla crisi.

Grilli attacca addirittura i mercati, cioè i “mandanti” del governo Monti, perché «non riconoscono ancora la bontà degli sforzi compiuti dal nostro Paese per mettere in ordine i conti».

E’ il copione mediatico del “risanamento”: i becchini si presentano come salvatori. «Il pareggio di bilancio è a portata di mano, le riforme strutturali sono avviate», si vanta Grilli: «Nessun altro Paese ha fatto tanto in così poco tempo».

Record forse sfuggito ai mercati “distratti” ma non certo agli italiani, tragicamente ingannati e finiti nella trappola mortale del “rigore”.


CASERME, UFFICI, AREE DEMANIALI, ECCO LA LISTA DELLE PRIVATIZZAZIONI
di Antonella Baccaro - Il Corriere della Sera - 16 Luglio 2012

Entro luglio 6 mld dal passaggio di Sace e Fintecna a Cassa depositi. Il patrimonio immobiliare vale circa 300 miliardi

Vendere beni pubblici per 15-20 miliardi all'anno, pari all'1% del Pil (prodotto interno lordo) per dare «un colpo secco al debito pubblico» e portarlo sotto quota 100 del Pil. E' questo l'obiettivo indicato dal ministro dell'Economia, Vittorio Grilli, nell'intervista di ieri al Corriere.

L'operazione è già in corso. Prima ancora che venga creata la Sgr (società gestione risparmio) che opererà come «fondo dei fondi» per la messa sul mercato dei migliori cespiti dello Stato e degli enti locali, immobili e società di servizi, il ministro si è già messo al lavoro per verificarne la concretezza.

Per questo Grilli avrebbe già incontrato banche d'affari, come i giapponesi di Nomura, e fondi potenzialmente interessati, cogliendo in particolare l'attenzione di quelli statunitensi, ma anche arabi, a partire da quell'emiro del Qatar che ha appena acquistato in Italia la casa di moda Valentino.

L'intenzione del governo è di procedere con pacchetti da offrire sul mercato in rapida successione. Solo il patrimonio dello Stato, secondo l'indagine conoscitiva della commissione Finanze della Camera, conta 222 milioni di metri quadri e vale 300 miliardi di euro. Altri 350 miliardi vale il patrimonio dei Comuni, secondo uno studio del Cresme.

IL RUOLO DELLA CDP

Ma il primo risultato tangibile, del valore di circa mezzo punto di Pil, è quello che verrà colto con il passaggio immediato delle quote di Fintecna, Sace e Simest dal Tesoro alla Cassa depositi e prestiti, operazione che dovrebbe fruttare circa 10 miliardi. Cifra cui bisogna sottrarre quella parte di risorse che il decreto sulle dismissioni ha destinato al pagamento dei crediti della pubblica amministrazione.

L'esborso della Cdp di una prima tranche sarà subitaneo: 6 miliardi già entro luglio. A giorni si conoscerà il nome dell'advisor (consulente) che realizzerà la due diligence (valutazione) delle tre società che porteranno alla Cassa depositi e prestiti, controllata dal Tesoro per il 70% e per il resto dalle fondazioni bancarie, una buona dote di liquidità e di utili: solo Sace ne ha fatti per 3,4 miliardi a partire dal 2004, quando è stata trasformata in società per azioni, e ha distribuito all'azionista 2,3 miliardi di dividendi.

LE SINERGIE POSSIBILI

Oltre che a trovare risorse per abbattere il debito pubblico, l'operazione ha anche l'obiettivo di razionalizzare il portafoglio delle partecipazioni statali e valorizzare le collaborazioni possibili, e già esistenti, fra la Cassa depositi e prestiti e le tre società che adesso passeranno sotto il suo controllo.

A partire da Fintecna, che probabilmente controllerà al 40%, insieme con l'Agenzia del Demanio, con il 60%, la Sgr che gestirà tutta l'operazione delle dismissioni. In realtà tale veicolo non sarà creato dal nulla: la ristrettezza dei tempi a disposizione renderà necessario l'utilizzo di una società già esistente.

Intanto entro la fine del mese l'Agenzia del Demanio, guidata da Stefano Scalera, avrà messo a punto la lista dei primi cento immobili dello Stato e degli enti locali da conferire alla Sgr sui potenziali 350 già individuati (valore complessivo di base 1,5 miliardi).

LA «WHITE LIST»

Di certo della lista faranno parte molte caserme, come la Sani, quella bolognese che si trova in pieno centro, o il vecchio carcere militare di Forte Boccea e l'ex caserma di via Guido Reni, entrambe a Roma. E poi due magazzini, quelli di via Papareschi e di via del Porto fluviale, sempre nella Capitale.

Nella maggior parte dei casi si pescherà dalla cosiddetta white list, l'elenco di 13 mila immobili che in base al decreto di due anni fa sul federalismo demaniale sarebbero dovuti passare dallo Stato agli enti locali.

Per questi immobili il ricavato del conferimento al fondo che verrà istituito dalla Cassa depositi e prestiti sarà destinato per tre quarti all'abbattimento del debito del Comune e per un quarto alla riduzione del debito pubblico nazionale.

Ma nel piano potrebbero entrare anche altri immobili che non fanno parte di quella lista. Per quelli tuttora di proprietà dello Stato l'incasso servirà tutto a far scendere il debito nazionale, mentre per quelli interamente dei Comuni il valore dell'immobile assegnato sarà destinato tutto all'ente locale, ma diviso in due parti: un quarto come liquidità, tre quarti come partecipazione al fondo immobiliare che avrà il compito di valorizzare e mettere a reddito tutti i beni da dismettere.

La normativa esclude espressamente dalla procedura gli immobili utilizzati per finalità istituzionali. Questo perché la previsione di un eventuale trasferimento di detti beni ai fondi determinerebbe effetti pregiudizievoli in termini di finanza pubblica, generando costi ascrivibili a locazioni passive. Di conseguenza, dei 62 miliardi di beni statali collocabili subito sul mercato, ne potranno essere venduti per ora soltanto sette.

LE DIFFICOLTÀ

Fin qui tutto sembra filare liscio. Ma è stato lo stesso ministro Grilli a mettere in guardia circa l'esito del piano di dismissioni per l'abbattimento del debito pubblico. «Non ci sono più gli asset vendibili dello Stato e degli enti pubblici, come vent'anni fa» ha avvertito nell'intervista.

C'è «un patrimonio immobiliare di difficile valorizzazione, come insegnano le esperienze non felici di Scip 1 e Scip 2 (società create per vendere o cartolarizzare le proprietà degli enti), molte attività sparse a livello locale».

E a questo proposito, si avrebbe gioco facile a ricordare come, quando si mise mano alla privatizzazione dell'Ina, una delle difficoltà fu quella di ripercorrerne l'intero patrimonio immobiliare.

Quanto all'esito delle precedenti operazioni immobiliari, è stata la Corte dei Conti, di recente, in audizione, a avvertire che nelle attuali condizioni di mercato, che solo nel primo trimestre di quest'anno ha visto le quotazioni scendere del 20%, «c'è il rischio di una svendita».

Come sta accadendo per gli immobili degli enti previdenziali: dopo il fallimento dell'operazione di cartolarizzazione Scip2, ad Inps, Inail ed Inpdap sono rimasti invenduti migliaia di appartamenti.

Per la precisione, all'Inps sono ritornati 542 immobili da Scip 1 e ben 10 mila dal pacchetto conferito a Scip2, mentre all'Inpdap, dalla seconda operazione di cartolarizzazione sono stati stornati 12 mila appartamenti. Ed in tre anni, dal 2009 al 2011, ne sono stati venduti solo 1.200, quindi appena il 10%, con un incasso di 93 milioni di euro (per una media di 77.500 euro ad immobile).

LE MUNICIPALIZZATE


L'altro punto difficile del piano riguarda il «capitalismo municipale»: le 6.800 società che fanno capo non solo ai Comuni ma anche alle Province e alle Regioni.

Il pacchetto più appetibile riguarda le 4.800 aziende comunali, con un fatturato complessivo di 43 miliardi di euro, e 16 mila manager tra presidenti, amministratori e componenti dei consigli d'amministrazione.

Di queste, circa 3 mila svolgono in realtà servizi un tempo interni alle amministrazioni e adesso esternalizzati, come la riscossione dei tributi. E quindi sono fuori dalle dismissioni. Ne restano però 1.800 che si occupano di sevizi pubblici locali: acqua, elettricità, gas, rifiuti e trasporti.

Ed è proprio su queste che si concentra l'attenzione. Anche qui la Corte dei Conti avverte che oltre il 20% delle società risulta in perdita soprattutto nel Mezzogiorno.

Quanto alle società quotate, hanno perso in media il 30% del loro valore e quindi potrebbero essere non proprio un affare. L'operazione di dismissione lascia fuori alcuni cespiti importanti dello Stato: le partecipazioni nelle grandi aziende pubbliche, da Eni a Enel a Finmeccanica.

Com'è noto, la Cassa depositi e prestiti ha appena acquisito una quota della Snam appena sotto il 30%. Grilli ha escluso per la Cdp un ruolo come quello giocato dall'Iri fino al 2002. 


L'estate del contagio
di Stefano Feltri - Il Fatto Quotidiano - 21 Luglio 2012

Il senso della crisi è nell’agenda di Mario Monti: il primo di agosto vola in Finlandia a trattare con l’inflessibile governo di Jyrki Katainen, il giorno dopo si trasferisce a Madrid per discutere con Mariano Rajoy.

Perché, se mai c’è stato un momento in cui servirebbe il meccanismo anti-spread proposto a Bruxelles da Italia e Spagna è questo: ieri lo spread spagnolo tra i titoli di Stato a 10 anni e gli omologhi tedeschi è arrivato a 600 punti (cioè il 6 per cento in più), quello dell’Italia è andato a rimorchio, a 500.

Era da gennaio che non si vedeva un numero simile. Ieri la Spagna ha avuto i primi 30 dei 100 miliardi europei per ricapitalizzare le sue banche, ma presto serviranno soldi anche allo Stato. La Borsa spagnola è precipitata quando la Comunità Valenzana ha dichiarato un sostanziale default. Se la Spagna non ha i soldi per le banche, non li ha neppure per le sue Regioni insolventi.

Il contagio è in corso, e non da oggi”, ammette Mario Monti dopo una lunga lista di precisazioni sullo stato di salute dell’Italia e sui giornali che non riconoscono al governo i suoi meriti. Molto piccato il premier precisa: “Nel novembre del 2011 lo spread tra Italia e Germania era a 574. Undici mesi prima era a 160. Oggi siamo a 490. C’è una riduzione, che è certamente deludente, perché me la sarei aspettata molto più rilevante, di 84 punti”. Mentre parla lo spread però sale ancora a 500.
La sicurezza ostentata dal premier si scontra con la cronaca finanziaria.  

La situazione spagnola sta degenerando, l’intervento sulle banche non ha rassicurato la Borsa e gli investitori non sono convinti che il circolo perverso tra debiti privati e pubblici si sia spezzato.

Se il costo di titoli di Stato spagnoli continua a crescere, ormai ha superato abbondantemente il 7 per cento, l’effetto valanga finirà per travolgere in fretta le finanze spagnole. Il governo ha annunciato una manovra di risanamento da 65 miliardi ma non è affatto scontato che riesca ad approvarla con il Paese in rivolta.

La situazione pare fuori controllo. Ma il governo italiano prova a resistere al panico: Monti aveva messo in conto che la giornata di ieri sarebbe stata vivace, dopo le dichiarazioni del ministro del Bilancio spagnolo Cristobal Montoro (“non avevamo più un soldo in cassa, senza la Bce saremmo falliti”, parlava del 2011 ma molto hanno equivocato).

A Palazzo Chigi sanno che il problema dell’Italia è una crisi di fiducia, quindi bisogna evitare di dare l’impressione di annaspare, o i mercati penseranno di aver avuto ragione a scommettere al ribasso.

É una strategia rischiosa, ma non ci sono molte alternative, finché la Banca centrale europea di Mario Draghi resta immobile. “Certo, se la Bce nel pieno rispetto della sua autonomia decidesse di intervenire tutti ne saremmo contenti”, ammette un ministro.

Ma per ora da Francoforte non arriva alcun segnale, Draghi si è già esposto molto fornendo oltre 1.000 miliardi di liquidità alle banche e senza il via libera politico dei tedeschi difficilmente tenterà altre forzature, come l’acquisto di titoli di Stato sul mercato secondario (quello del debito già in mano ai privati) sperimentato l’estate scorsa.

A Monti restano solo due cose da fare: convincere i partner europei più scettici sulla necessità di difendere l’Italia e dimostrare che siamo davvero così virtuosi come ci presentiamo. A questo serve l’incontro di Helsinki: il ministro per gli Affari europei Enzo Moavero gira da mesi tra le Capitali per spiegare come è cambiata l’Italia, ad agosto con il Parlamento fermo si può muovere anche Monti.

Se almeno con la Germania di Angela Merkel si può trattare, con i finlandesi non c’è margine. Il governo di Helsinki voleva il Partenone in garanzia prima di dare gli aiuti ad Atene. E all’Italia suggeriva, come alternativa al meccanismo anti-spread, di mettere i gioielli del Paese (perché no, anche il Colosseo) in un fondo che poi emetteva titoli di debito.

Nel vertice di fine giugno i finlandesi hanno abbozzato, soltanto perché la Germania, capofila dei rigoristi, ha scelto di non sfasciare tutto. Ma dal giorno dopo hanno promesso una guerra di trincea, che stanno facendo.

Pochi giorni fa hanno ottenuto dalla Spagna un accordo bilaterale, cioè a due, senza coinvolgere il resto d’Europa: in cambio della sua tranche di prestiti alle banche iberiche (1,9 miliardi), Helsinki ha avuto garanzie per 770 milioni di euro.

Così, se le cose andassero male e la Spagna finisse in default, i finlandesi recupererebbero almeno il 40 per cento della somma. La stessa diffidenza la dimostrano verso l’Italia che, per ora, non ha intenzione di chiedere aiuto, ma la cui indipendenza è tanto più credibile quanto più solidi sono gli eventuali strumenti di salvataggio.

L’Esm, il meccanismo europeo di stabilità da 500 miliardi, è rimandato a ottobre, dopo che la corte costituzionale tedesca avrà dato il suo benestare.

Resta il vecchio Efsf, fondo provvisorio fatto di garanzie teoriche e non di capitale versato, che, dopo i 100 miliardi promessi alla Spagna, ha solo 148 miliardi per un eventuale salvataggio italiano. Poca roba, ma meglio di niente.

Per questo Monti deve assicurarsi che in caso di emergenza gli aiuti arrivino alle sue condizioni, cioè con un memorandum leggero , senza l’invasione della troika Ue-Bce-Fmi che ci ridurrebbe come la Grecia.

Per trattare da una posizione non umiliante bisogna avere i conti in ordine. Anche a prezzo di anticipare ad agosto il taglio delle agevolazioni fiscali (cioè un aumento delle tasse) che serve a evitare l’aumento del’Iva nella seconda metà del 2013. Monti spera di non dover intervenire. Magari le cose migliorano da sole.