domenica 4 novembre 2012

Update italiota

Una serie di articoli sulle ultime vicende italiote.


Monti-Napolitano, servitù d'Europa
di Antonio Rei - Altrenotizie - 31 Ottobre 2012
 
L'agenda Monti dimostra ogni giorno di più la sua logica fallimentare, ma secondo il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano non potrà essere archiviata nemmeno dopo le elezioni politiche di aprile. 

Fra i vari "moniti scagliati" negli ultimi mesi dal Quirinale, quello arrivato la settimana scorsa su espressa richiesta del Premier non ha destato particolare clamore.

Eppure si è trattato di un violazione grave del ruolo che la nostra Costituzione assegna al Capo dello Stato. "Mi auguro non manchi il senso di responsabilità nell'Italia post elettorale - ha detto Napolitano durante una visita in Olanda - il resto però dipenderà dai partiti. In Italia, com'è inevitabile e salutare, si dovrà tener conto dell'importantissima esperienza portata avanti nell'ultimo anno dal governo Monti".

Con queste parole il Presidente ha alimentato una convinzione sbagliata ma assai diffusa: quella che vede nei tecnici dell'attuale esecutivo una sorta d'intellighenzia illuminata, guidata dal lume della competenza e del tutto libera da condizionamenti politici. Secondo i profeti del montismo, gli euroburocrati senza partito hanno ragione a prescindere dai risultati che ottengono. La loro strada va seguita con un abbandono quasi mistico, "com'è inevitabile e salutare".

Una posizione da respingere con forza per due ragioni macroscopiche. La prima è che il governo Monti non è affatto apolitico. A inizio mandato fu lo stesso Presidente del Consiglio a rivendicare la continuità con l'esecutivo del suo predecessore, Silvio Berlusconi, nell'ispirazione politico-economica. 

Certo, il Pdl è ancora il partito più rappresentato in Parlamento, e questo ha inciso nello snaturare provvedimenti nati con intenzioni migliori (l'ultimo esempio è la ridicola legge anticorruzione approvata dal Senato). 

Tuttavia, in nessuna circostanza il Professore ha smentito il suo orientamento destrorso: dalla politica fiscale a quella sul lavoro, passando per i rapporti con banche, industriali e sindacati.

Ecco perché l'appello di Napolitano va oltre i limiti che la Costituzione impone alla sua carica. All'articolo 87 della Carta si legge che "il Presidente della Repubblica è il capo dello Stato e rappresenta l'unità nazionale". 

Può inviare messaggi alle Camere, ma deve rimanere super partes: non gli è consentita alcuna intromissione nella scelta dell'indirizzo politico. Questa funzione spetta in primo luogo al governo, liberamente eletto dai cittadini. 

E gli elettori potrebbero benissimo ritenere che l'agenda Monti non sia affatto da portare avanti. La seconda ragione attiene a quello che i tecnici hanno effettivamente prodotto in quasi un anno di mandato. Ossia un disastro completo, da ogni punto vista: sociale, economico e persino della finanza pubblica.

La debacle più clamorosa è stata senz'altro quella del ministro del Lavoro, Elsa Fornero. Con la riforma della previdenza, la Professoressa torinese ha cancellato i diritti acquisiti da milioni di persone, cambiando in corsa le regole per ottenere la pensione. 

Così facendo ha creato addirittura una nuova categoria sociale, quella degli esodati, lavoratori che rischiano di ritrovarsi senza stipendio né assegno previdenziale. 

Nemmeno il numero delle persone coinvolte nel provvedimento è stato in grado di produrre il suo dicastero. Una mostruosità dovuta solo a negligenza, al pressappochismo e a una buona dose di ferocia sociale con cui è stata scritta la legge.

Quanto alla riforma de lavoro, l'obbrobrio più noto è la modifica all'articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, che consente di non reintegrare le persone licenziate ingiustamente per motivi economici o disciplinari. Ora le imprese, nella maggior parte dei casi, se la cavano con un semplice indennizzo. 

Varie misure anche per i giovani, peccato che nessuna combatta seriamente il dramma del precariato (si pensi al geniale aumento dei giorni da lasciar passare fra un contratto e l'altro). 

A riprova dell’inutilità del provvedimento, nessun incremento dell’occupazione ha fatto seguito alla modifica dell’art.18. Che, va precisato, non era stato mai posto dalle imprese come primo terreno d’intervento per la ripresa dell’occupazione.
Precari umiliati e offesi anche nel mondo della scuola. 

La spending review  prevede di riutilizzare "in ambito provinciale" 10 mila insegnanti in esubero, che saranno impiegati per coprire posti vacanti e supplenze, ma in classi di concorso diverse dalla propria. 

Un'altra misura prevede l'impiego come lavoratori Ata (personale amministrativo, tecnico e ausiliario) di 3.765 docenti "inidonei all'insegnamento" per motivi di salute. Infine, è stato bandito un concorsone-truffa che rischia di far perdere il posto a lavoratori abilitati e già vincitori di un concorso passato. Insegnanti che spesso hanno retto la nostra scuola per decenni.

E i tagli ai costi della politica? Su questo capitolo il governo si è speso in tante promesse, salvo poi disattenderle. Quasi irridente la riduzione delle auto blu, peraltro non rispettata dalle amministrazioni. Caduti ovviamente nel dimenticatoio i propositi di ridurre numero e stipendio dei parlamentari.

Sembrerà strano a chi s'illude di fare sacrifici in vista di un bene superiore, ma da quando il Professore è entrato a Palazzo Chigi anche i conti dello Stato sono peggiorati.

Gli ultimi dati parlano chiaro. Eurostat ha comunicato che nel secondo trimestre del 2012 il debito pubblico italiano è schizzato al 126,1% del Pil (+4,4% su base annua). Fra gennaio e marzo aveva già raggiunto il picco del 123,7%. In termini assoluti il nostro debito è ancora il più alto d'Europa (un miliardo e 982 milioni, circa 72 milioni in più rispetto allo stesso periodo dell'anno scorso), mentre in rapporto al Pil è secondo solo a quello della Grecia (al 150,3%).

A fine settembre, nell'ultima nota d'aggiornamento al Def (Documento di economia e finanza), il governo ha rivisto in peggio tutte le sue stime: nel 2012 il debito salirà al 126,4% (123,4% nei calcoli di aprile), per arrivare poi al 127,1% nel 2013 e iniziare a scendere dall'anno successivo.

Quanto al rapporto deficit/Pil, sarà del 2,6% quest'anno (contro l’1,7% previsto) e dell’1,8% nel 2013 (ma solo ad aprile si parlava dello 0,5%). Con tanti saluti al fantomatico "pareggio di bilancio", a meno di non parlare in termini strutturali, ossia al netto del ciclo economico. 

E' questa la nuova modalità di valutazione introdotta dal Fiscal Compact europeo: una correzione per nulla chiara, volutamente ambigua a livello tecnico. L'unica certezza è che, nei fatti, il nostro bilancio non sarà per nulla in pareggio.

Sempre secondo il Def, il Pil viaggerà in recessione del 2,4% nel 2012 e dello 0,2% nel 2013 (le precedenti stime indicavano rispettivamente di -1,2% e +0,5%). Ancora più pessimista la Banca d'Italia, che nell'ultimo bollettino economico parla di un -0,7% per l'anno prossimo.
Veniamo ora alle reali condizioni di vita degli italiani. 

Stando ai dati Istat, il mese scorso le retribuzioni sono aumentate dell'1,4% su base annua. Un incremento molto inferiore a quello dell'inflazione (+3,2%), che ha portato la forbice prezzi-salari fino all'1,8%, con inevitabili ripercussioni negative sui consumi.

Ad agosto il tasso di disoccupazione è rimasto stabile per il terzo mese consecutivo al 10,7%, il dato più alto dal 2004, anno d'inizio delle serie storiche mensili Istat. Rispetto allo stesso mese del 2011, invece, si è registrato un aumento del 2,3%. Intanto, la produzione industriale è calata del 5,2% su base annua (dopo il -7,3% di luglio), mentre nella media dei primi otto mesi del 2012 il crollo è stato del 6,8%.

Di fronte a numeri simili, è ragionevole parlare del montismo come di un'esperienza positiva? E' davvero questa la scelta migliore, e anzi l'unica possibile anche per la prossima legislatura? 

Certo che no. Il sospetto è che del nostro debito pubblico non importi nulla a nessuno, men che meno all'Europa, il cui obiettivo è semplicemente ottenere il controllo politico dei singoli Stati. 

E fin qui l'unico beneficio portato da Monti all'Italia è stato proprio sul piano dei rapporti internazionali. Un risultato ottenuto più per appartenenza che per merito: in sostituzione dell'euro-giullare Berlusconi, i tecnocrati di Bruxelles hanno visto arrivare un uomo dalla lunga esperienza in Commissione europea, alla quale deve praticamente tutta la sua carriera. Uno di loro, insomma. Uno disposto ad obbedire senza fare domande.


La mano visibile del mercato. Intervista a Luciano Gallino
di Pietro Raitano - www.altreconomia.it - 25 Ottobre 2012

Disoccupazione, contrazione dei salari, precarietà. Viaggio nell’economia reale, dal mercato dell’auto all’ascensore sociale mondiale: le classi esistono ancora, ed è falso sostenere che maggiore flessibilità aumenta i posti di lavoro.

“Si sente dire spesso che ‘si vede la luce in fondo al tunnel’, che la ripresa non è lontana. Sono dichiarazioni totalmente slegate dalla realtà. E chi le afferma, se ne deve assumere la responsabilità”. 

Luciano Gallino, classe 1927, sociologo di fama internazionale e autore di innumerevoli manuali e saggi, è lucido nella sua analisi, forte di un incessante lavoro di studio e ricerca che dura da oltre 50 anni.

Professor Gallino, che cosa ci dicono i recenti dati sul lavoro in Italia?“Ci dicono che la situazione dell’economia e del lavoro è gravissima. La disoccupazione tocca livelli altissimi: tra disoccupati ‘dichiarati’ e lavoratori ‘scoraggiati’ siamo arrivati ormai a quasi 4 milioni di persone. Se il tasso di disoccupazione è diminuito quindi è solo perché molte persone hanno semplicemente smesso di cercare lavoro.

Ma non solo. Ancora in questi giorni ho letto che i cosiddetti ‘precari’ sono soprattutto giovani. Ora, è senz’altro vero che l’80% delle nuove ‘assunzioni’ (se così possiamo chiamarle) riguarda persone poco avanti con gli anni. È anche vero, però, che ormai milioni di lavoratori hanno seguito questa trafila: dopo 15, 20 anni di contratti di breve durata di vario genere, non sono più tanto giovani. 


Si stima che almeno un 30% dei precari oggi abbia passato i 40 anni. Le stime dicono che i precari sono 3 milioni. Io ipotizzo 4 milioni. Quel che conta però è il totale: stiamo parlando di 7, 8 milioni di persone che non hanno lavoro, o lo hanno scadente e mal pagato (ricordiamoci che i precari quando hanno uno stipendio ragionevole lo hanno per 8, 9 mesi). Non vedo proposte adeguate per questa situazione. 

Eppure si dovrebbe ridurre di almeno 1 milione o 2 i disoccupati. Senza dimenticare un altro dato: per il 2012 è previsto un miliardo di ore di cassa integrazione, pari a mille ore in media per un milione di persone. 

La Cig vuol dire per un lavoratore ricevere meno di 750 euro netti al mese, per chi ne prendeva 1.200. La nostra situazione è più simile a quella della Spagna che a qualunque altro Paese europeo”.

Quali conseguenze ha la disoccupazione?“La disoccupazione è peggio di non avere reddito, o averlo senza essere occupati. È una ferita profonda del proprio senso di autostima. Soprattutto per i giovani: perché non ho lavoro? Ho studiato, ho esperienza... Senza contare i problemi familiari: anche coi 750 euro della cassa integrazione, il reddito è insufficiente, i rapporti in famiglia si logorano, si inaspriscono.

La disoccupazione è un enorme spreco economico e sociale. L’unica cosa che crea valore reale è il lavoro: 4 milioni di persone che non producono, 4 milioni che producono poco e male. 


Poi ci sono le professionalità che si perdono: il 50% dei disoccupati ha superato un anno di inattività, un’eternità se comparato con lo sviluppo della produzione e il mutamento delle tecnologie. Per strada si perdono forme di conoscenza. La disoccupazione è il più grande scandalo che la società possa conoscere. Che non se ne parli è uno degli aspetti più gravi”.

Perché colpisce il sistema produttivo italiano?“La finanziarizzazione dell’economia ha stravolto i criteri delle imprese. Il risultato è stato che queste cercano di comprimere i costi del lavoro, spremute dagli azionisti e dagli investitori, per inseguire rendimenti elevati, assurdi dal punto di vista industriale. Rendimenti tipici della speculazione, ovvero 3, 4 volte superiori rispetto a quelli tecnicamente sostenibili nel periodo medio lungo per una normale azienda.

Il risultato sono compressione dei salari, intensificazione dei ritmi, emarginazione dei sindacati. Attenzione, però, vale per tutti i Paesi europei, anche per la Germania, dove milioni di lavoratori hanno pagato questa situazione. Tuttavia la Germania ha una ventina di grandi industrie che vanno abbastanza bene, e parecchi altri elementi che spiegano la differenza con noi.
 

Uno fra tutti è il tasso di investimento in ricerca e sviluppo. Sui 27 Paesi dell’Unione europea, l’Italia è al quindicesimo posto, dietro all’Estonia, con un tasso di investimento dell’1,25% del Pil. Il tasso tedesco è più del doppio, quasi il triplo. 

Anche l’Inghilterra, che di per sé ha un prodotto interno lordo molto legato alla finanza, investe molto di più in ricerca. Un altro dato: sono particolarmente carenti gli investimenti in capitale fisso. 

Gli stabilimenti italiani sono irrimediabilmente invecchiati, con un’età media di 25 anni. In Europa la media è la metà. Neanche a dirlo, l’insufficienza degli investimenti è equamente divisa tra pubblico e privato”.

Quanto hanno influito le riforme del mercato del lavoro che si sono susseguite nel tempo?“Le cosiddette riforme del lavoro progettate dalla fine degli anni 90 in poi hanno aumentato il lavoro precario. In particolare, se si guarda la curva del lavoro precario, dal 2003 -anno della stesura del decreto attuativo della legge 30- c’è una fortissima impennata. La precarietà peraltro contribuisce alla crescita del coefficiente di disoccupazione, perché tra un contratto e l’altro passa sovente qualche mese.

È una delle conseguenze delle dottrine neoliberali, che per quanto sconfitte, smentite e sconfessate, sono sempre lì, si insegnano nelle università, costituiscono la forma mentale dominante nei media.


Chiunque abbia studiato a fondo la questione si rende conto che non c’è nessuno studio empirico di peso che metta in correlazione flessibilità nel lavoro e aumento dell’occupazione. Semmai molti studi dimostrano il contrario. Negli anni 90 l’Ocse insisteva molto sulla flessibilità, ma già dal 2004 ha cominciato a ricredersi.


L’evidenza ci dice che dal 2000 in poi l’indice Ocse della rigidità del lavoro in Italia è diminuito moltissimo, passando dal 3,50 del 2003 a meno di 1,8 oggi, in una scala da 0 a 5, dove il massimo significa quasi impossibilità di licenziare (tra gli indicatori c’è ad esempio il costo per il licenziamento). Ma questo nella testa degli economisti non entra. Eppure si danno l’aria di scienziati, e dovrebbero sapere che si fa se un esperimento fallisce”.


Molti spingono sulla retorica del costo del lavoro e della scarsa produttività, come nel caso Fiat.“Assistiamo a dell’umorismo nero: 5 anni fa Sergio Marchionne disse ‘Che cos’è questa storia del costo del lavoro, che incide 5/6% sul totale! Bisogna occuparsi di cose serie’. Anni dopo pare abbia scoperto che il lavoro costa troppo... Chissà, forse non aveva previsto la crisi...

Continuano a sperare di produrre 6 milioni di auto. Nel 2007 -l’ultimo anno buono per l’industria automobilistica- in Europa si sono vendute di 17 milioni di auto. Quest’anno saremo sotto i 13 milioni, 4 milioni di pezzi in meno. Tutte le società automobilistiche sono in crisi, tranne forse la VolksWagen. I manager non hanno tenuto conto che l’auto è alla fine dei suoi giorni. E ciò vale soprattuto per l’Italia, visto che detiene il maggior numero di auto per abitante (in Francia è inferiore di un terzo)”.


Non c’è però solo l’auto: tutto il nostro sistema industriale pare in crisi. “Come nel caso dell’acciaio: siamo il maggior produttore d’Europa, ma non è un segno di buona salute. Le acciaierie dovrebbero essere più piccole, per fare acciai più adatti. Noi abbiamo l’impianto più grande d’Europa, espressione di un vecchio modello produttivo, difficilmente riformabile. Negli Stati Uniti hanno chiuso gli impianti per realizzarli 5 volte più piccoli. 

Il sistema va ripensato, anche per ragioni ecologiche. Occorrerebbe pensare a produrre valore in settori differenti. Il territorio italiano è un disastro, da riqualificare. Il 50% delle scuole non è a norma, tra soffitti che crollano e pavimenti che cedono. C’è poi il risparmio energetico: 9 case su 10 riscaldano anche l’esterno...

Poi c’è da sviluppare nuovi sistemi di mobilità. Basti solo pensare alla metropolitana: l’Italia avrà meno di 250 chilometri di linee. Da sola, Parigi ne ha il doppio, Londra anche di più, così come Berlino. Tradotto stiamo parlando di grandi investimenti, per decine di migliaia di posti di lavoro”.


Come si può creare lavoro?“La cementificazione è un fatto orrendo: in 20 anni la popolazione è aumentata di 2 milioni, ma sono stati costruiti 20 milioni di vani. Pura follia, così come costruire senza fine fiumi di automobili e lavastoviglie. Molte altre scelte creerebbero lavoro specializzato ad alta intensità: riqualificazione del territorio, di quel 70% di edifici non antisismici, degli acquedotti che perdono, delle scuole non a norma. C’è un’ampia platea di settori che richiederebbero lavori che sono altamente tecnici, che richiedono l’impiego di tecnologie avanzate e al tempo stesso hanno utilità collettiva ampia e diffusa”.

Il suo ultimo libro parla esplicitamente di lotta di classe. “Le classi ci sono più che mai: quando una persona guadagna 1.200 euro al mese, è totalmente soggetto a ordini dall’alto, addirittura fino al modo in cui si muove. Prendiamo come esempio l’accordo per lo stabilimento Fiat di Pomigliano. In realtà è un diktat: 19 pagine sono dedicate alla metrica del lavoro, ovvero come e in quanti secondi si devono muovere la mani, le braccia, il collo, le gambe.

Ma questo vale non solo per l’industria meccanica, anche per la ristorazione, per l’agricoltura. Lavoratori con uno stipendio scarso, e una pensione che si annuncia da fame. Questa è una prima classe, distinta da altre, che hanno un minimo di indipendenza in più e di controllo fisico in meno: insegnanti, funzionari, fascia alta degli impiegati, commercianti.


Infine c’è la classe dominante, quella espressione di un potere politico ed economico enorme, che dice al 90% della popolazione che cosa fare, e controlla i mezzi per farglielo fare. Diffonde quella che viene chiamata ‘la mentalità del governare’. Sul piano internazionale è una classe dominante formata da tante classi locali.


In molti Paesi queste classi si assomigliano sempre di più, sono sempre più legate tra loro, dormono in alberghi identici, hanno gli stessi parametri di riferimento. Parecchi anni fa fu coniata l’espressione ‘classe capitalistica transnazionale’.


Tra classi, infine, la mobilità è dovunque inferiore a quanto si pensi. Un Paese in cui è particolarmente bassa sono gli Stati Uniti. La rigidità intergenerazionale negli Usa è drammatica. Anche in Italia la rigidità dell’ascensore sociale è molto rilevante, anche perché la cuspide della piramide del lavoro è sempre più stretta e c’è sempre meno posto”.


I salari fanno parte di questa dinamica.“Con patrimoni finanziari ingenti si può fare tutto. Ma invece di spendere in investimenti o in impianti fissi, una quota rilevantissima degli utili delle aziende è stata utilizzata per compensare i top manager, sia Usa sia in Europa. Oppure l’impresa compra azioni proprie per far salire il valore di mercato, perché su questo si misura l’operato del manager. Il risultato è crescita di disuguaglianze. 

I salari italiani sono fermi dal ‘95, negli Usa fermi addirittura dal 1975. Si stima anzi siano leggermente regrediti. Il fenomeno riguarda l’80, 90% della popolazione, mentre si è enormemente arricchito il famoso 1%. Tanto è vero che in alcuni Paesi europei troviamo indici di disuguaglianza astronomici. 

La Germania ha un indice di Gini (misura la distribuzione del reddito in una scala da 0 -massima distribuzione- a 1 -massima concentrazione-, ndr) tra i più alti del mondo: 0,8. Un Paese sull’orlo dell’esplosione sociale, dove a 5 milioni di persone sono corrisposti 500 euro al mese per 15 ore di lavoro la settimana, e il 22% dei lavoratori dipendenti, soprattutto operai, ricevono meno della metà del salario mediano”.

Come giudica la recente riforma del lavoro del Governo?“A leggerne i provvedimenti, è chiaro che si ispira quasi alla lettera alle indicazioni contenuti in alcuni documenti della Commissione europea e dell’Ocse di una ventina di anni fa. 

Nel 1996 l’Ocse aveva pubblicato un rapporto in cui si insisteva molto sul fatto che la rigidità dei contratti manteneva bassi i tassi di occupazione. Dopo vari rapporti intermedi la stessa Ocse ha pubblicato altri studi in cui diceva che tutto sommato non c’è evidenza empirica del rapporto tra rigidità e tasso di occupazione. Vi sono stati dunque casi di Paesi con rigidità elevata accompagnata a occupazione elevata, e viceversa. 

In sostanza, l’Ocse ha smentito se stessa. Eppure, la riforma del mercato del lavoro riprende pari pari queste indicazioni. Devo dire a questo punto che pensare sia utile in un momento di grave crisi (finanziaria, ma con forti radici nell’economia reale) facilitare i licenziamenti per accrescere il tasso di occupazione, significa applicare una ricetta del tutto sbagliata. 

Diciamo che da una parte c’è l’orientamento preconcetto di persone che hanno la mente intrisa delle dottrine neo liberali. Ma ci sono anche ragioni più dirette: qualcosa bisognava dire o dare al Fondo monetario internazionale, all’Ocse, alla Bce, un testo che li accontentasse. A ogni riunione che si fa si dice che l’Italia ha fatto passi in avanti sulla strada delle riforme”.

Perché la finanza ha preso tutto questo potere?“Perché non ha avuto opposizione. Non certo dai partiti, che a partire dagli anni 80 si sono adoperati per la finanziarizzazione, la liberalizzazione di movimenti di capitale, la produzione a valanga dei titoli come i derivati strutturati. Tra questi i partiti di sinistra e di centro-sinistra, che hanno ispirato molti documenti degli anni 80 in quella direzione, spinti da illustri personaggi della sinistra. Lo dico con una certa ambasce: i francesi Mitterand, Delors e Camdessus, il tedesco Schröder.

Le dottrine neo liberali, diffuse e propagandate a suon di dollari investiti in decine di ‘pensatoi’ e centri studi, hanno avuto un successo straordinario anche tra uomini politici, intellettuali e accademici. Poi c’è stata la caduta del Muro, e molte sinistre hanno fatto il possibile per mostrare di essersi allontanati dalle ideologie che vedevano nello Stato un soggetto di peso.
 

A dire il vero, soprattutto in Francia, furono dei problemi coi movimenti di capitale a sollecitarne la liberalizzazione. Si cominciò a dire che i capitali fuggivano, anche se il dato era falsato. Il risultato fu di liberalizzarne i movimenti.Questi fattori hanno fatto sì che la finanza non abbia avuto la minima opposizione. Il risultato sono state direttive, norme, leggi: l’Unione europea è diventata più liberale degli Usa.

Il fatto straordinario è che le banche oggi hanno convinto i governi che andavano salvate per la seconda volta. In meno di tre anni il debito pubblico europeo è aumentato del 20%. A partire dal 2008 si sono dissanguati i bilanci pubblici per salvare le banche. I tedeschi si sono trovati con miliardi di debiti. L’istituto Hypo Re è costata ai tedeschi 142 miliardi di euro: troppo grande per fallire, avrebbe trascinato con sé milioni di piccoli risparmiatori.
 

Dal 2010 la crisi delle banche è stata travestita da crisi del debito pubblico. E quando i bilanci pubblici sono esangui non ce la fanno più, e scattano i tagli. Ci sono dei progetti in sede di Parlamento Ue per regolare i derivati (che sono stati definiti da Warren Buffet un’ ‘arma finanziaria di distruzione di massa’) e per suddividere la banche commerciali da quelle di investimento, ma sinora non si è fatto nulla. La crisi ora è vagamente sotterrata ma potrebbe riservarci amare sorprese.
 

In America nel 2010 è stata introdotta la Wall Street Reform, ma è talmente complicata che richiede 500 decreti attuativi, che a oggi sono solo una trentina. La legge è farraginosa, e le lobby fanno la loro parte per svuotarla”.

Perché il lavoro è così colpito dalla finanza?“Sin dagli anni 80 e 90, con lo sviluppo tecnologico, i mercati di consumo hanno cominciato a essere saturi, poiché l’industria aveva capacità produttiva in eccesso. Eccesso di capacità produttiva vuol dire che il capitale investito rende poco. Vuol dire che il rendimento è basso. 

La proprietà -non solo brutti personaggi panciuti col sigaro, ma anche gli investitori istituzionali, compresi i fondi pensione- chiedono rendimenti molto più alti. Sono i proprietari di metà delle azioni dei capitali delle imprese di tutto il mondo. 

Coi bassi profitti che non si possono far salire perché si produce troppo e si vende poco, i dirigenti, per dare retta agli investitori, hanno puntato a comprimere il costo del lavoro. 

Quindi flessibilità, precarietà, e compressione dei diritti. Si chiama la ‘strada bassa’, la strada impervia delle relazioni industriali. Nessuno però ne parla. E non parlarne fa parte dello straordinario successo ideologico delle dottrine”.


Il cappello del ministro Passera
di Rosa Ana De Santis - Altrenotizie - 3 Novembre 2012

“Non entro nel merito di decisioni interne, ma non mi è piaciuta la mossa che è stata fatta”. Così il (teoricamente) ministro delle Infrastrutture ha commentato l’ultimo episodio di bullismo aziendale di Marchionne. 

Le parole del Ministro Passera, che ormai rimbalzano ovunque, testimoniano invece tutta l’anima di questo governo che traghetta con orgoglio il paese in un’era storica in cui la politica va percepita come uno spreco tout court, una vanità, un lusso al tempo della crisi. 

La cosiddetta “strigliata” mediatica del Ministro assomiglia piuttosto a una tolleranza codarda per la policy Marchionne a nome di tutto il governo tecnico. La smania di togliersi il cappello davanti alle imprese è il segno più evidente di come il governicchio sia nient’altro che una propaggine delle stesse.

Mentre Marchionne compie una scandalosa “rappresaglia” sui lavoratori, causa ordine del Tribunale di reintegrare i 19 della FIOM, la politica non può fare a meno di spendere due parole di commento su questa ingloriosa pagina di storia economica del Paese. 


Ormai Marchionne è scansato da tutti e persino un suo fan come Renzi, che ai tempi del referendum vedeva in lui la panacea della produttività nazionale a tasso ridotto di diritti e di sindacati, deve prendere le distanze. Non si può fare diversamente in aria di primarie e di mandato elettorale restituito finalmente ai cittadini.

I licenziamenti annunciati sono "politici": non lo dice la FIOM, ma la Fiat stessa, che in un comunicato afferma che i destinatari dei provvedimenti avevano esposto posizioni critiche nei confronti del piano industriale proposto dall'azienda. 


Dopo circa un quarto d'ora, qualcuno in Fiat  si é reso conto delle ricadute anche giudiziarie che avrebbe avuto produrre il comunicato ed é corso ai ripari, rilanciando un nuovo comunicato, stavolta depurato dalle reali motivazioni. 

L’assenza totale di reazioni all'altezza della situazione, sostituite da dichiarazioni di maniera, è la fotografia che immortala la resa ufficiale della politica non alla tecnica, ma alla legge del più forte. 

E’ il funerale di quello che dovrebbe significare governare un paese e occupare le sedi delle Istituzioni, che non è proprio la stessa cosa che sedere nel cda di una banca. Il laconico messaggio del Ministro è stato aggravato dal tentativo di giustificare l’indifferenza del governo e quasi le scuse per aver espresso commenti, spiegando che si tratta di azioni e decisioni interne all’azienda e in virtù di questo, avrà voluto dire,  al di sopra e al di fuori di ogni possibile competenza e intervento di governo.

Come se le aziende fossero non soltanto extra legem (cosa smentita dai tribunali dove Marchionne ha perso) ma aree della vita pubblica estrinseche alle funzioni di controllo e di naturale competenza della politica. Facile - ovvio - se la politica non c’è più. Mai nella Prima Repubblica un rappresentante di governo avrebbe potuto togliersi il cappello in modo tanto plateale di fronte a un’azienda, senza perdere la testa.


Il Piano Fabbrica Italia di Marchionne è passato in cavalleria con la promessa di non chiudere gli impianti, anche se questo, come sta accadendo, significa null’altro che tenerli fermi e con i lavoratori in mobilità. 


Tra il modello capitalismo della nuova FIAT e il governo non c’è alcuna discontinuità. Marchionne potrebbe essere degno ministro del governo Monti e Passera essere quello che mette i sigilli a Pomigliano d’Arco.

La scienza della politica alla lezione numero uno recita che la politica ha il pieno diritto di vigilare su quando accade nel paese, dentro al quale risiedono anche le aziende. I diritti, le tutele sul lavoro, il business stesso sono voci sottese al rispetto imprescindibile della legge e della carta costituzionale e non c’è recinto aziendale che tenga di fronte a queste inalienabili priorità di principio la cui sovranità non è questione per i tecnici dell’economia, ma per la politica e le Istituzioni. La proprietà privata in Italia è sottesa al valore del bene comune ed è l’articolo 42 della Costituzione a recitarlo, non il manifesto della FIOM.

Ed è evidente che non è l’esubero di 19 posti di lavoro il problema da cui partire per il risanamento di un’azienda che registra ogni giorno un tracollo delle stime di fatturato: dai 104 miliardi di ricavi previsti per il 2014 a poco più di 88. 


L’evidenza di una misura discriminatoria, irragionevole e intimidatoria avrebbe dovuto esigere un intervento di ben altra natura da parte del governo. La resa della politica cui assistiamo nulla c’entra con gli sprechi del potere, evidentemente nocivi e pericolosi, che tanto vanno di moda nella vulgata dell’antipolitica.

Senza i guardiani del diritto e della legge il paese non soltanto perde la strada della giustizia, ma anche la capacità di arginare svolte eversive del tessuto sociale. Forse è questo quello che vedremo alle prossime elezioni, quando una società sempre più afflitta dall’iniquità andrà alla ricerca della politica e troverà un vuoto di pensiero da riempire, con la prima ricetta populista disponibile e il primo uomo utile della provvidenza e “non importa come”. 


Così come insegna la storia di tutte le più odiose tirannidi e la spirale dei corsi e dei ricorsi che rischia di non fare eccezioni per questo governo, inflessibile con gli ultimi e con il cappello in mano davanti ai suoi miti.


I partiti esistono solo nei talk show
di Massimo Fini - Il Fatto Quotidiano - 3 Novembre 2012
  
Un giorno di fine settembre di quest'anno ero a colazione da Beppe Grillo nella sua bella casa di Sant'Ilario, sopra Genova, da cui, nelle giornate limpide, si domina tutto il Golfo, da Spezia fino alla costa francese. Beppe mi faceva vedere, sotto, il braccio di mare in cui si allena, nuotando, anda e rianda, per circa un chilometro. 

Ma la traversata dello Stretto di Messina era ancora di là da venire. Si parlava, oltre che di cose che con la politica non c'entrano niente, delle elezioni amministrative del maggio precedente. “Tu hai salvato il sistema dei partiti e la finzione democratica” gli dicevo. “Perché?”.

"Perchè se il movimento 5 Stelle non si fosse presentato, quelli che l'hanno votato avrebbero disertato le urne e ci sarebbe stata un'astensione vicina al 50% che avrebbe reso evidente che un italiano su due non crede più alla democrazia rappresentativa”.

L'argomento vale, a maggior ragione, dopo le elezioni regionali siciliane se a un'astensione enorme (quasi il 53%) mai raggiunta in Italia, si aggiunge il 18% dei voti presi da Grillo e i suoi che sono innanzitutto, anche se non esclusivamente, voti contro la democrazia partitocratica.

La somma dice che due siciliani su tre hanno voltato le spalle alla democrazia rappresentativa, ai partiti e il dato si proietta, legittimamente, sulle prossime elezioni politiche di aprile (l'astensionismo siciliano è sempre stato, più o meno, nella media nazionale).

Se questo avverrà (è anzi molto probabile che l'astensionismo cresca ancora, per- ché negli ultimi anni è sempre andato aumentando) i partiti cosiddetti tradizionali si troveranno a spartirsi un 30% del parterre elettorale. Potranno avere ancora, formalmente, percentuali roboanti (come il 30,5% del Pd-Udc in Sicilia) ma in realtà inesistenti perché calcolate solo su un terzo degli italiani con diritto di voto. 


E se a questo già magro bottino sottraessimo i voti degli apparati, dei clientes, di coloro la cui sussistenza dipende direttamente dalla fidelizzazione a una forza politica, i voti obbligati insomma, vedremmo che il voto vero, il voto libero, non esiste praticamente più se non nelle forme del non-voto, cioè dell'astensione.

La verità è che i partiti sono finiti. Esistono ancora, per il momento, nei talk-show e nel girotondo mediatico, che da loro dipende, dove i loro uomini si comportano come se fossero i padroni del vapore, tracciano strategie per il futuro, intessono alleanze, si propongono di cambiar nome, e faccia, di allargare il proprio elettorato quando non esiste più un elettorato, battibeccano sconciamente fra di loro somigliando molto ai polli di Renzo che si beccavano furiosamente l'un l'altro senza rendersi conto che sarebbero finiti, di lì a poco, nella padella dell'Azzeccagarbugli. 


Vivono nel virtuale. Con le elezioni di aprile questa farsesca rappresentazione di un potere che non hanno più, di una credibilità che hanno perso per strada, una lunga strada, durata 30 anni di abusi, di soprusi, di prepotenze, di malversazioni, di ruberie, di grassazioni volgari da domestiche infedeli, finirà. 

Realizzando quello che in un preveggente pamphlet di Simone Weil del 1943 era ancora un wishful thinking e che era intitolato "Manifesto per la soppressione dei partiti politici". 

Grillo non si ferma più e spaventa anche la finanza. L'esperto: se vince le elezioni lo spread vola oltre 500

di Vito Lops - Il Sole24Ore - 30 Ottobre 2012 

Che sia giusto o sbagliato siamo entrati in una fase storica in cui non si può negare che i mercati abbiano un peso notevole nell'influenzare la politica dei governi. 

Lo ha confermato anche il premier Mario Monti, rispondendo alle domande sull'eventuale "minaccia" all'esecutivo rappresentata dalle recenti esternazioni di Berlusconi che ha ventilato l'ipotesi di staccare la spina al governo. Monti ha detto: «Lo chieda ai mercati».

Del resto, in un certo qual modo, è stato proprio l'impennarsi dello spread fino a 575 punti base l'autunno scorso a spingere il presidente Giorgio Napolitano a nominare d'urgenza Monti senatore a vita, atto necessario prima del passaggio a premier dell'attuale governo semi-tecnico. 

Quindi, a conti fatti, sono stati propri i mercati a spingere un tecnico come Monti alla guida dell'Italia. 

Gli stessi mercati che hanno avuto il loro peso nel vanificare il tentativo di referendum anti-euro in Grecia a fine 2011 e hanno spinto Atene a elezioni ripetute sine die fino ad ottenere una maggioranza più solida. E gli esempi in questo senso, quelli della pressione dei mercati sulle scelte politiche, potrebbero essere ampliati.

A questo punto, è forse opportuno porsi un'altra domanda. Dopo lo straordinario successo che il Movimento 5 stelle ha ottenuto nelle elezioni in Sicilia - difatti il primo partito nell'Isola con il 15% dei voti e con un investimento in campagna elettorale di soli 25mila euro - come potrebbero reagire i "fantomatici" mercati a un eventuale analogo successo di Grillo alle elezioni parlamentari della prossima primavera? 

Un successo che, stando ai sondaggi, potrebbe concretizzarsi visto che attualmente il Movimento 5 stelle è intorno al 20% e si proietta al momento come seconda forza politica del Paese, dopo il Pd.

«I mercati cercano politiche che siano coerenti con gli interessi dei detentori del debito: chiunque e in qualunque forma tuteli il rimborso delle obbligazioni detenute dagli investitori globali è sostenuto e non avversato dai flussi di investimento; nel caso contrario - si veda il referendum greco cancellato con un colpo di spread - si innescano quelle vendite che molti identificano con la cosiddetta speculazione», spiega Gabriele Roghi, responsabile gestioni patrimoniali di Invest Banca. 

«Il discorso generale è che la politica e la democrazia sono state messe sotto scacco da una finanza che ha ormai da tempo esondato dal proprio alveo naturale, quello del Glass Steagal Act (legge varata nel 1933 negli Stati Uniti per contenere la speculazione finanziaria introducendo il principio della separazione tra attività bancaria tradizionale e attività bancaria di investimento, abrogata nel 1999 dal Gramm-Leach-Bliley Act, ndr) per intenderci, e ormai non è sottomessa al legislatore ma lo guida in un rapporto innaturale che sta causando forti tensioni sociali. 

Il caso di Obama è eclatante: partito come il messia che ci avrebbe salvato dalla finanza, ha dovuto chinare il capo di fronte a lobby più potenti dello stesso Commander in Chief, che ha potuto solo emanare una legge di oltre 3.000 pagine che non riesce a disporre quello che le 125 pagine del Glass Steagal tanto bene ha definito per 70 anni».

E Grillo piacerebbe ai mercati? «Se dovesse confermarsi come seconda forza politica e addirittura essere cruciale per la formazione di un governo - prosegue Roghi - o se a un certo punto i sondaggi dessero queste indicazioni, credo che i "mercati" farebbero tornare lo spread in area di pericolo, oltre i 500 punti per convincere gli italiani, prima delle elezioni, o i parlamentari dopo il voto, a dirigersi verso un Monti/altro tecnocrate a loro gradito».