giovedì 6 agosto 2009

Ronde, inni, bandiere e questione meridionale: un cocktail deleterio

Tra due giorni le ronde diventeranno una realtà ufficiale nel desolante panorama italiota.

Il regolamento attuativo della cosiddetta legge sui volontari della sicurezza è già pronto e prevede un certificato di "buona salute mentale" per gli aspiranti rondisti.
Dovrebbero poi in teoria sparire le ronde politicizzate, come quelle leghiste ("camicie verdi" e "guardia nazionale padana") e le "nere" ("guardia nazionale italiana").

Quindi oltre ai punti già noti (le associazioni dovranno essere senza fini di lucro, non potranno avere finanziamenti, sono vietate uniformi, i volontari dovranno girare con pettorine di riconoscimento), il decreto prevede che gli "osservatori volontari" presentino un "certificato medico dell'Asl di buona salute fisica e mentale". E che le associazioni non "siano espressione di partiti o movimenti politici, né di organizzazioni sindacali, né essere in alcun modo riconducibili a questi".

Ma non è ancora ben chiaro come l'aspirante rondista possa procurarsi il certificato di "buona salute mentale". Una visita dallo psichiatra, forse?
Mentre per Enzo Letizia, segretario dei funzionari di Polizia, "la mancanza della sanzione nella legge in caso di "volontari" non autorizzati consente a chiunque di farsi ronde da sé, anche armate, senza rischiare nulla". Perfetto...

Alla questione delle ronde si è aggiunta anche un'altra "geniale" iniziativa della Lega, quella degli inni e bandiere regionali.
L’articolo 12 della Costituzione recita "La bandiera della Repubblica è il tricolore italiano: verde, bianco e rosso".
Ma alla Lega ormai non basta più. Infatti, secondo la proposta di legge del suo capogruppo al Senato Federico Bricolo, bisognerebbe aggiungere le parole "Ciascuna regione ha come simboli la bandiera e l’inno".
I vessilli regionali sarebbero così equiparati al tricolore, mentre gli inni lombardo, toscano o campano, supererebbero per rango l’inno di Mameli, che non è citato dalla Costituzione e a cui la Lega ha sempre preferito il "Va pensiero" di Giuseppe Verdi.

Entusiasti di questa proposta i siciliani dell'Mpa di Lombardo, mentre il Presidente del Senato, il siciliano Renato Schifani ha voluto precisare che "Il tricolore costituisce un intangibile valore di unità del Paese. Sono proposte della Lega, deciderà il Parlamento". Ma tu guarda...

Aspre critiche sono però giunte non solo dall'opposizione ma anche da esponenti del Pdl come Alessandra Mussolini "C’è la bandiera italiana, punto e basta [...] Ci sono le regionali e la Lega si prepara a questa competizione" e Carmelo Briguglio, vicepresidente dei deputati del Pdl "Nella Costituzione immaginata dalla Lega non c’è la nostra Repubblica, ma un’Italia pre-unitaria".

C'è insomma da stare tranquilli, la balcanizzazione dell'Italia s'intravede già all'orizzonte...


I sindaci si dividono sulle ronde
di Mario Porqueddu - Il Corriere della Sera - 6 Agosto 2009

«Ronde? Le faccio già io, in moto...». Scherza ma non troppo il sindaco di Bari, Michele Emiliano. «Non c'era bisogno di questo pasticcio — dice —. E a noi le ronde non credo serviranno». Ma per un amministratore pd contrario, eccone un altro possibilista: a Padova Flavio Zanonato si prepara a incontrare il nuovo prefetto, Ennio Mario Sodano, per stabilire criteri di azione. «Bisogna togliere di mezzo un po' di ideologia — ha spiegato —. Invece di polemizzare e non far nulla, penso sia mio dovere applicare al meglio la nuova disposizione. Se segnalare i reati è obbligo di tutti, i gruppi organizzati possono dare anche notizia di problemi e situazioni di disagio, tenendosi in contatto con Croce Verde o servizi sociali. Una sorta di ronda, ma solidale».

A parte il cosiddetto modello-Verona, città apripista, a due giorni dal varo del decreto attuativo sulle ronde — «sabato si parte» ha detto il ministro Maroni — da Nord a Sud si avanza in ordine sparso. A Treviso si celebra una vittoria politica: «Ci adegueremo subito. Del resto, siamo tra i precursori: Maroni istituzionalizza un servizio che qui c'è già» dice Enrico Chinellato dell'associazione «Veneto Sicuro», operativa in città da tempo. Nel Trevigiano sono pronti anche i corsi per rondisti «Giubbe azzurre», idea del consigliere regionale di Forza Italia Remo Sernagiotto: «Chiederemo al prefetto se il nostro formatore, Antonio Romeo, ex carabiniere agli ordini del generale Dalla Chiesa, può operare o serve qualche certificato particolare». Ma le amministrazioni di grandi città come Roma e Milano presentano posizioni più sfaccettate. «Le ronde non ci piacciono» diceva il sindaco della capitale, Gianni Alemanno, ieri dalle colonne del Secolo d'Italia.

Questo, però, non significa rinunciare alla partecipazione dei cittadini in tema di sicurezza. E quindi: fratino giallo con scritto «Roma Sicura», turni di 4 ore, gruppi di tre persone con precedenza ad ex membri delle forze dell'ordine, età 18-70 anni. Potrebbe essere l'identikit dei romani chiamati, in autunno, a vigilare su scuole e parchi. Solo che Alemanno alla parola «ronda» preferisce la locuzione «volontariato cittadino».

A Milano il vicesindaco Riccardo De Corato, anche lui scuola An, ferma tutto fino a settembre e sottolinea i problemi economici della nuova norma: «Siamo sorpresi dalla severità: l'impossibilità di contribuire al servizio con aiuti pubblici ci ha costretto a congelare convenzioni consolidate come con i City Angels e i Blue Berrets». In effetti, come a Milano, associazioni di cittadini impegnati nel controllo del territorio ce ne sono da tempo in varie città.

I City Angels appunto, i «nonni vigile» davanti alle scuole, o i «tutor d'area» al lavoro a Genova da un anno: agenti in pensione (e pure in attività) che dedicano tempo libero a pattugliare i parchi contro spaccio e pedofili. Nel capoluogo ligure tra un mese esordiranno le guardie ecologiche: cittadini che potranno fare multe a chi getta rifiuti, lascia a terra le deiezioni del cane o non lo porta al guinzaglio. E il sindaco Marta Vincenzi (Pd) manda a dire al Viminale: «Per noi questa è la sicurezza partecipata. Diciamo no alle ronde. Sono grata al presidente Napolitano per aver influito nel far modificare il decreto, che pare impostato sul modello Genova».

Ognuno la vede a modo suo. Bergamo (da anni) e Como (da un mese) l'esperienza di cittadini-vigilantes la conoscono già e proseguiranno. Bologna dice no alle ronde: «Non servono» ha ribadito il sindaco Flavio Delbono di fronte all'insistenza leghista. Ma si tiene i City Angels e i pensionati del gruppo Primavera di Borgo Panigale. «Napoli aspetta il testo del decreto — dice l'assessore alla Sicurezza Luigi Scotti —. Anche se siamo convinti che la sicurezza sia responsabilità dello Stato».

Il sindaco di Firenze Matteo Renzi parla da un po' di «sentinelle della bellezza: giovani, italiani e stranieri, in giro per la città a controllare strade e monumenti». A Torino l'assessore Domenico Mangone annuncia: «Valutiamo l'idea di allargare il servizio dei City Angels a tutta la città. Ma non ha niente a che vedere col decreto Maroni». Da Venezia il vicesindaco Michele Vianello rilancia una battuta di Cacciari: «Ronde? Se arriva qualcuno che supera il test di sanità mentale...». Poi spiega: «Vengo dalla riunione per l'uso di soldati in città: ne mandano 30, dieci fanno logistica, non ne avremo più di 4 in strada. Ecco a cosa si riduce la sicurezza: un po' di slogan».


L'Italia frantumata

di Michele Serra - La Repubblica - 6 Agosto 2009

Esiste una bandiera marchigiana? Qualcuno di voi conosce il vessillo della Calabria? E come sarà l'inno regionale del Lazio? E l'inno del Trentino? Avete mai sventolato il drappo della Liguria? Da qualche parte esisteranno già.

Magari a cura di qualche eccentrico di paese, o di qualche maestro di banda. Ma se anche non esistessero, la bandiera e l'inno di tutte e venti le Regioni italiane, non ha importanza. Li si inventa. La storia italiana recente lo ha dimostrato in modo lampante: la tradizione è una contraffazione di successo.

La Lega ha proposto, con tanto di riforma della Costituzione (articolo 12), di introdurre ufficialmente, accanto al Tricolore e all'inno di Mameli, la bandiera e l'inno di ciascuna regione. La mossa fa parte, insieme a infinite altre, di quella laboriosa costruzione mitica, oramai ventennale, di un'Italia Federale destinata a fare le scarpe all'odiata Repubblica centralista, e a Roma ladrona e padrona.

Trasformando confini puramente amministrativi in Patrie e in altrettante Identità Popolari, spremendo e centrifugando ben bene il vecchio localismo italiano, laddove ha ragioni storiche (Veneto, Sicilia) ma anche laddove non è mai esistito: proprio la Lombardia è un caso clamoroso di autonomismo artificiale, inventato di sana pianta, e nella costruzione nazionale fu la regione più vicina, non solo geograficamente, al disegno annessionista dei Savoia.

Di tutto questo, come già detto, alla Lega importa nulla. Per sperimentare quanto fragile sia l'identità nazionale, ha potuto saggiare il grado zero, o quasi, di reattività istituzionale e politica alle sue continue sortite anti-italiane. Dal Parlamento padano alle sparate sediziose di Bossi, dal tasso di xenofobia altamente anticostituzionale (e ciò che è anticostituzionale è anche anti-italiano) alla rimasticazione insieme ottusa e aggressiva dei dialetti come "lingue locali", il partito di Bossi ha messo l'Italia (compresa la maggioranza di italiani che non la sopportano) di fronte a un fatto compiuto.

Vent'anni fa, la proposta di bandiere e inni regionali che "correggessero" la presenza dell'odiato Tricolore avrebbe fatto ridere, tal quale gli esami di "cultura locale" ai professori extra-regionali e dunque stranieri.
Oggi queste vere e proprie truffe identitarie sono nell'agenda politica, e come vedete siamo qui a parlarne tutti quanti insieme, gli umbri a domandarsi come diavolo sia l'inno umbro, i campani in cerca sul web dei loro colori regionali, i sardi (i soli ad avercela davvero, una bandiera nazionale, i Quattro mori) a meditare sulla fine ingloriosa del loro autonomismo, grazie alla furba Lega ormai confuso nel corteo posticcio degli autonomismi inventati.

Già: perché il risultato di tutto questo agitare bandierine, canzoncine, dialetti, "tradizioni" sortite da bauli fortunatamente dimenticati oppure inventate ex novo, è alla fine la cancellazione delle differenze vere, delle radici autentiche. La minoranza tedesca di Alto Adige (vera) tal quale i finti celti di Calderoli, la complicata ricerca di un'identità sarda (vera) tal quale la fandonia del Dio Eridanio. Frantumi di Italia, briciole di identità, schegge di storia da spargere, come sale, sulle rovine di Roma. Balle locali, balle regionali, balle spaziali.

L'obiettivo (dichiarato) della Lega era puntare a un secessione impossibile, quella della piccola borghesia benestante e riottosa del Nord (ribattezzata da Bossi "popolo padano", non si sa a quale titolo,) per poi ripiegare su una separazione strisciante, senza professori terrori e senza immigrati tra le scatole, camuffata da "federalismo".

Tirare in ballo un inno marchigiano o una bandiera molisana, dei quali nessun marchigiano o molisano ha mai avvertito l'esigenza, serve solo a creare quella confusione simbolica e quel caos identitario che stanno avvelenando la Repubblica e ingrassando la Lega e, attraverso di lei, il governo più anti-repubblicano della nostra storia. I professori e i sapienti che stanno lavorando al Centocinquantenario dell'Unità d'Italia sono avvertiti: la Lega è al governo di questo paese. Loro no.


Chi è il nemico dell'Unità d'Italia

di Mercedes Bresso* - www.lastampa.it - 6 Agosto 2009

Caro direttore,
fra meno di due anni cade il 150° anniversario dell’Unità d’Italia, ma sembra che la questione sia vissuta con un certo imbarazzo dalla compagine attualmente al governo, discretamente impermeabile alle inquietudini di Carlo Azeglio Ciampi e del Capo dello Stato, Giorgio Napolitano.

In questa cornice, noi presidenti di Regione abbiamo un compito non facile: come far capire che si può - si deve - essere per il federalismo senza per questo essere contro l’unità nazionale? Come distinguere la lunga battaglia per un assetto istituzionale più moderno dalla lotta, tecnicamente reazionaria, di chi vorrebbe farci regredire, restituendo piena applicazione al concetto di sangue e suolo?

E come, infine, far capire che non abbiamo niente in comune con austriacanti e sanfedisti, tutti appartenenti alla medesima schiera di revisionisti che punta a riscrivere l’intera storia nazionale, dipingendo come una masnada di banditi e usurpatori le figure migliori degli ultimi due secoli, da Cavour ai fratelli Rosselli e da Garibaldi fino ai magistrati Falcone e Borsellino?

La mia opinione circa la necessità di pervenire rapidamente a un autentico federalismo fiscale è nota: in tutta Europa sono stati avviati processi di redistribuzione delle competenze a livello territoriale. Tutti i grandi Paesi dell’Unione, Francia compresa, stanno prendendo atto del fatto che lo Stato centrale non ce la fa più ad assicurare alcuni servizi essenziali.

D’altra parte è sempre più evidente che l’alternativa al federalismo non sarà un più efficiente centralismo, ma la pura e semplice privatizzazione di interi spezzoni di servizi pubblici. Un esempio sopra tutti gli altri: la sanità italiana o sarà sempre più regionale, con la possibilità di utilizzare risorse proprie, o diventerà privata. Al principio di sussidiarietà verticale rischia di sostituirsi il principio di sussidiarietà orizzontale, con la salute dei cittadini affidata a una precarietà costituita interamente dall’alternativa fra beneficenza e mercato.

Ma questo non significa che lo Stato nazionale debba rinunciare, anche simbolicamente, a una serie di funzioni essenziali. La politica estera, l’esercito, la sicurezza pubblica, la bandiera, la difesa della lingua italiana in Italia e all’estero, la trasformazione e il pieno utilizzo degli Istituti italiani di cultura, l’organizzazione della Giustizia nel rispetto della Costituzione e dell’autonomia dei magistrati.

Le Regioni non possono volere uno Stato più debole. In primo luogo perché non riuscirebbero a gareggiare in Europa con aree che invece si muovono con il potente sostegno di esecutivi efficienti e in secondo luogo perché la fragilità trasforma fatalmente quelle istituzioni che inevitabilmente debbono rimanere centrali in fattori che indeboliscono fortemente la competitività dei territori (un esempio: la giustizia civile).

Mi sembrano molto pericolosi, a questo proposito, alcuni provvedimenti (pochi, per fortuna) e le (molte, malauguratamente) parole di ministri ed esponenti della maggioranza.

Paradossalmente, mentre si frena sul federalismo «buono», si accelera l’applicazione di quello «cattivo». Vale a dire: da un lato il governo si tiene ben strette le competenze e i denari che ci servirebbero per far funzionare al meglio i servizi, dall’altro delega a terzi (le famose ronde) compiti - la sicurezza pubblica - cui nessun altro Paese al mondo rinuncerebbe.

Neppure le ultime uscite governative sulla scuola sono sembrate confortanti. Sarei curiosa di sapere che cosa si intende con precisione quando si parla (e si scrive) di insegnanti «più vicini alla cultura del territorio». A Torino abbiamo interi quartieri abitati da famiglie che arrivarono dal Sud cinquant’anni fa. Cosa dovremmo fare? Reclutare docenti esperti in dialetto calabrese? E se cinquant’anni sono troppo pochi per creare l’intreccio fra sangue e suolo, qual è la misura giusta? Un secolo? O un millennio? O magari duemila anni? sarebbe interessante: il latino si potrebbe studiare come lingua «del territorio» di venti secoli fa.

Ma, superata l’ironia, si torna al punto di partenza, vale a dire ai motivi autenticamente politici che impediscono al governo di dedicare non solo le risorse economiche, ma anche e soprattutto la doverosa attenzione istituzionale e culturale al centocinquantesimo anniversario dell’Unità d’Italia. E la verità è sotto gli occhi di tutti: i fatti dimostrano che la Lega Nord è la detentrice della golden share in grado di determinare la filigrana culturale dell’esecutivo, del tutto subalterno a una formazione che intende fare a brandelli un Paese che esiste da secoli nella percezione degli italiani e degli stranieri.

La legislazione antiimmigrati, i dialetti nelle scuole, il ritiro dall’Afghanistan, l’ostilità alle celebrazioni per l’Unità d’Italia cui si è aggiunta la trasmissione in televisione dell’elezione di Miss Padania, la legislazione sulle ronde, i limiti posti all’acquisizione della cittadinanza, le proposte di separare le carrozze degli indigeni da quelle degli immigrati, i cori antinapoletani registrati su Facebook, le invettive da bar dello sport trasformate senza mediazione in programmi politici. L’ultima: introdurre in Costituzione il suono di «inni regionali» che neppure esistono. Ce n’è abbastanza per capire che attorno dal concetto di unità nazionale dobbiamo ricostruire i temi della cittadinanza, dei diritti civili, della democrazia.

Il Piemonte non è soltanto la regione da cui partì il Risorgimento. E’ la terra in cui per la prima volta in Italia si abolirono istituti che oggi si vogliono ripristinare: dalle legislazioni speciali per «non autoctoni» (allora ebrei e valdesi, oggi africani e musulmani) al «foro particolare del clero», che al momento mi pare in procinto di rinascere sia pure con altri beneficiari e beneficiati. Per questo è importante celebrare degnamente l’anniversario dell’Unità d’Italia: perché nel nostro Paese lo Stato unitario e la Repubblica hanno garantito prosperità e libertà.

*Presidente della Regione Piemonte


Chiudere gli occhi non bastano più
di Mario Deaglio - www.lastampa.it - 6 Agosto 2009

Alle nazioni come agli individui succede spesso di chiudere gli occhi di fronte a un problema nella speranza che il problema scompaia, e di riaprirli per trovarlo irrisolto e ingigantito. Così ha fatto l’Italia con la questione meridionale: per quindici anni il Paese l’ha sostanzialmente rimossa, nella speranza che, grazie al mercato e alla globalizzazione, il problema dell’arretratezza del Mezzogiorno si risolvesse da solo.

Ora che la crisi finanziaria ha dimostrato che mercato e globalizzazione non fanno miracoli, l’Italia scopre che la questione meridionale non è scomparsa ma si è, anzi, aggravata; che il divario tra il Centro-Nord e il Mezzogiorno nei redditi per abitante (e in quasi tutti gli altri aspetti della qualità della vita) è ai livelli massimi da almeno trent’anni, con la tendenza a crescere ancora; che, per quanto riguarda una vasta gamma di indicatori economici e sociali, il Mezzogiorno è stato superato o sta per esserlo da quasi tutti i Paesi dell’Europa mediterranea.

Ma anche da un buon numero di Paesi dell’Europa centro-orientale diventando l’«ultimo della classe» nell’Unione Europea. Di fronte alla nuova virulenza di questo male grave e antico dell’Italia, la classe politica italiana sembra capace di proporre soltanto rimedi già sperimentati e di provata inefficacia. Si punta infatti su infrastrutture, intese più come stimolo produttivo nel momento della costruzione che come strumento di crescita nel lungo periodo; sulla spesa pubblica più per assorbire disoccupati che per rimuovere arretratezze strutturali; su una Banca del Sud, idea senz’altro lodevole, che rischia però di diventare una seconda Cassa del Mezzogiorno, ossia un veicolo di nuovi finanziamenti a pioggia con scarsa attenzione alla redditività.

E intanto il Mezzogiorno rimane pieno di strade non completate che non portano da nessuna parte - triste metafora della sua condizione generale -, di dighe prive dei necessari allacciamenti idrici, di ospedali costruiti con sabbia al posto del cemento, come nel caso di Agrigento che movimenta le cronache di questi giorni; l’immondizia delle sue città viene accantonata da qualche parte per il ritardo nelle tecnologie di smaltimento, con la minaccia latente, come nel caso di Palermo, che venga lasciata marcire nelle strade; i suoi boschi vengono dati alle fiamme da «piromani» che distruggono un patrimonio secolare spesso con la speranza di essere pagati cifre modeste per spegnere i roghi da loro stessi appiccati.

In questi aspetti patologici, Campania, Calabria e Sicilia si distinguono per la gravità della loro situazione. Non fa meraviglia la riluttanza crescente del Nord nel convogliare nuove risorse (e quindi nel pagare imposte sensibilmente più alte di quelle del resto d’Europa) per un progetto non chiaro di crescita che non offre alcuna speranza di un rapido decollo.

Per uscire da questa situazione, che rende sempre più difficile parlare di un «sistema economico italiano», non bastano le ricette degli studiosi o i programmi, largamente carenti, dei politici. Il vero ingrediente mancante è il coinvolgimento dei meridionali e non servono partiti nuovi, espressione di una classe politica vecchia che ha difficoltà a gestire le risorse in funzione della crescita. Cari meridionali, potrebbero legittimamente dire gli altri italiani, non limitatevi a constatare che nel Mezzogiorno c’è molta povertà e molta disoccupazione e a chiedere che «lo Stato provveda»; individuate le carenze non dell’intervento pubblico ma di un sistema politico-sociale che ha finora reso vano, in termini di sviluppo e crescita economica relativa, qualsiasi intervento pubblico.

Sta prima di tutto agli abitanti del Mezzogiorno delineare come dovrebbe essere il Mezzogiorno nei prossimi vent’anni. La prospettiva di una crescita trainata dall’industria tradizionale dovrebbe essere ormai tramontata, visto che l’industria tradizionale conta sempre meno nella produzione di ricchezza delle economie avanzate, eppure gran parte delle richieste riguarda precisamente l’apertura - o la non chiusura - di «fabbriche».

La prospettiva turistica può rappresentare almeno una parte della risposta al problema, e lo stesso si può dire per certe produzioni agricole e per certe «nicchie» artigianali da reinterpretare in senso moderno, ma i progetti, talora coraggiosi e promettenti, naufragano regolarmente nelle pastoie di una burocrazia insensata.

La strada dell’alta tecnologia pare la più allettante ma richiede forti investimenti in capitale umano, in marcato contrasto con la perdurante debolezza delle università meridionali, alimentate da un sistema scolastico con altissimi tassi di abbandono, i cui diplomati mostrano un livello di preparazione sempre più lontano non solo dai livelli europei ma anche da quelli raggiunti da numerosi Paesi emergenti.

E’ tempo, quindi, di un vero dibattito sul Mezzogiorno, incentrato sulle compatibilità economiche in tempi lunghi e tale da coinvolgere non solo la classe politica ma la società civile meridionale. In assenza di tale dibattito si continua a privilegiare «il mattone», ossia la costruzione di infrastrutture, e a vagheggiare di «una banca».

Da almeno un secolo il binomio mattone-banca si è rivelato inadatto al decollo del Mezzogiorno ed è difficile che rappresenti la soluzione ideale nel mondo tecnologico di oggi; così come il decollo è difficile quando l’ufficio stampa di una Regione meridionale occupa più persone di un centro di ricerca e quando un usciere della stessa Regione è pagato di più di un ricercatore universitario. I contributi esterni non possono essere risolutivi se il Mezzogiorno non prende in mano il proprio destino; se non lo fa, nonostante nuovi partiti e (forse) nuovi fondi, il suo allontanamento dal resto d’Italia è destinato ad aggravarsi.


Questua o sfascio totale?
di Carlo Bertani - http://carlobertani.blogspot.com - 31 Luglio 2009

“Oggi faccio scaturire la materia per più tracotanti Repubbliche
Walt Whitman

Verrebbe quasi la voglia di non scrivere nulla, tanto la querelle del cosiddetto “partito del Sud” potrebbe apparire come la solita questua estiva, il consueto affilare le lame nell’attesa della Finanziaria. Ci sono, però, alcuni elementi che tendono a farci ritenere che quella che sta emergendo sia solo la punta dell’iceberg, e che il futuro ci riserverà molte sorprese.
Avevo già indicato rischi del genere in due lunghi articoli – “Non può che finire così” (1 e 2) (1)– perciò, rimando chi desiderasse approfondire l’argomento a quella lunga e dettagliata analisi.

I nodi che stanno venendo al pettine – dopo un solo anno di governo, con una maggioranza schiacciante, è bene ricordarlo – non sono “interni” alla maggioranza di governo, come i meno attenti potrebbero concludere, bensì sono “interni” al Paese-Italia, alla sua composizione sociologica, ai suoi livelli di reddito ed alla re-distribuzione della ricchezza.

Sappiamo che la causa primigenia del collasso della nazione risiede soprattutto nell’accoppiata fra il signoraggio bancario e la debolezza industriale ed economica italiana, ma ci vorremmo soffermare oggi più sulle istanze relative all’azione di governo, al suo incedere.

Apparentemente sopraffatto dalle vicende di gossip – fin troppo esacerbate da alcuni giornali, i quali hanno costruito sopra quelle carte un castello, per vederlo crollare il giorno dopo la “splendida” rappresentazione mediatica del G8, un nulla di fatto trasformato in uno show, in pieno stile Mediaset – Silvio Berlusconi si ritrova fra le mani una patata bollente di non facile soluzione.
E, gli stessi giornali che hanno calcato la mano (giungendo al cattivo gusto) sulle “escort”, hanno “dimenticato” che è sempre dall’economia che si parte per comprendere gli sviluppi politici, e non dagli harem. It’s the economy, stupid. Ricordate?

Se la questione potesse essere confinata semplicemente nei recinti delle lotte di potere – comunque presenti, come sempre – allora non ci sarebbe da preoccuparsi: il Governo ha sbloccato qualche miliardo di fondi FAS per il Sud (per altro, già destinati da tempo) e Lombardo, Micchiché & Co sono tornati a sorridere a Palazzo Grazioli.
Invece, abbiamo la netta sensazione che la cosa non terminerà qui: perché?

Poiché la schiacciante vittoria elettorale del 2008 consegnò nelle mani di Berlusconi un potere senza limitazioni, compresa un’opposizione inesistente, numericamente e politicamente.
Il fenomeno, ingenerò nel Presidente del Consiglio un ben strano sillogismo: ho vinto l’Italia al Superenalotto, adesso basta trattarla come si fa con un’azienda ed il gioco è fatto. In fin dei conti, tutto il battage orchestrato sulle “escort” – dopo i “fasti” (in realtà, solo fumo mediatico) del G8 – è stato declassato a semplice scopata con la segretaria.
Le vicende interne al Governo ed al Parlamento sono gestite da Letta e Bonaiuti, e “papi” non si scomoda troppo per quelle incombenze: giunse a chiedere il voto per i soli capigruppo!
Fin qui, la solita politichetta italiota.

Invece, i dati economici indicano per Giulio Tremonti una strada sempre più in salita.
Il buon Giulio, ogni tanto, si ricorda d’essere (o di dover giocare la parte di) un economista: per questa ragione, è l’unico a tener d’occhio l’andamento del debito pubblico, il quale continua a salire in modo progressivo e costante, senza cedimenti.

"Sembra infatti che i conti pubblici vadano sempre peggio e che il debito italiano abbia infilato un nuovo record negativo arrivando a ben 1.752 miliardi di euro, mentre le entrate crollano a 4,5 miliardi. Secondo i dati di Bankitalia il debito pubblico aveva raggiunto nei primi 5 mesi del 2009 quota 1.752.188 milioni di euro, crescendo di ben il 5,4%.
Per avere un idea più chiara basta solo pensare che al 31 dicembre 2008 il debito pubblico si era attestato a 1.662,55 miliardi, un incremento notevole quindi che viene anche amplificato dal fatto che nei primi 5 mesi del 2009 le entrate fiscali sono anche diminuite del 3,2%, ovvero 134,8 miliardi, contro i 139,3 miliardi dello scorso anno"
(2).

Se l’UE stima un rapporto Debito/PIL superiore al 116%(3), ed “in corsa” nel prossimo anno verso il 120%, Tremonti sa che, in Finanziaria, gli interessi saliranno, che bisognerà trovare altri mezzi per taglieggiare gli italiani, ma la coperta si va facendo ogni giorno più corta.
Con i decreti dello scorso anno, riuscirono a reperire risorse tagliando 8 miliardi sulla scuola, ossia la famosa “riforma Gelmini”, scritta da Brunetta e Tremonti e poi controfirmata da Mariastella: assisa allo scranno più elevato di Viale Trastevere c’è soltanto una passacarte, null’altro.
Oggi, 2009, non basta: bisogna cercare altro sangue da spremere agli italiani.

Spero che nessuno abbia creduto alla pietosa balla del “richiamo UE” per elevare l’età pensionabile delle donne a 65 anni, poiché si è trattato di un “giochetto in famiglia”: mia cugina è appena andata felicemente in pensione, in Francia, a 60 anni e, là, nessuno ha sentito parlare di richiami UE. Oltretutto, le giustificazioni “giuridiche” sono pietose: perché solo le dipendenti pubbliche? Nessuno, dall’Europa, ha scritto una riga per chiedere come mai l’Italia non tenga conto – nella valutazione dell’età pensionabile – dei figli partoriti, una clausola presente in molti impianti pensionistici europei.

Perché questo strano balletto? Poiché il Governo deve fare cassa. Dove va a farla? All’INPS il quale, lo scorso anno, aveva una gestione previdenziale in attivo per 17 miliardi di euro. Non separando la previdenza dall’assistenza, hanno trovato il modo per attingere alle casse dell’INPS come e quando vogliono. I pretesti si trovano. Ma non basta ancora: il debito che “galoppa” lo dimostra.

In buona sostanza, il buon Giulio si sta scervellando per trovare cifre da incolonnare nella sezione “attivi”, ma è sempre più difficile scovarle.
Il problema è che – già nella legislatura 2001-2006 – si dedicarono alacremente alla demolizione dell’art 53 della Costituzione:

Art. 53: Tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva. Il sistema tributario è informato a criteri di progressività.

Quei criteri di progressività sono andati via via ad annullarsi, con mille mezzi e mezzucci, poiché il Gran Capo aveva decretato di non “mettere le mani nelle tasche degli italiani”. Ovvero, d’alcuni italiani, i più ricchi come lui.
Il Gran Capo, però, si dedica più che altro all’aspetto mediatico: gli abruzzesi sanno benissimo che passeranno l’Inverno nessuno sa come ma, nella vulgata imperante, a Settembre rimarranno solo da attivare le gare d’appalto per chi dovrà fornire i gerani per le finestre delle casette.
Di qui la discrepanza fra l’apparenza mediatica e la realtà, che per ora tiene, ma fino a quando?

Purtroppo, con i numeri non si scherza e questo è il nervo scoperto che sta facendo “scoppiare” il centro/destra del Sud.
Già colpiti dalla riforma cosiddetta Gelmini – le decine di migliaia di docenti ed ATA “tagliati” sono soprattutto al Sud – oggi il Meridione s’interroga, cerca di comprendere se il tanto sbandierato federalismo fiscale non significherà la fine di quel trasferimento (valutato molto approssimativamente in un 10% del PIL) che consente alla sfasciata burocrazia meridionale di sopravvivere.

Da un lato, vengono a mancare posti di lavoro tradizionali, dall’altro – con la riduzione dei fondi FAS – quel groviglio di soldi generato dalle elargizioni politiche (progetti del nulla, assistenze inesistenti, ecc) finiranno per ridursi ad un misero rigagnolo. E non finisce qui.
Micciché – personaggio assai strano – s’era lamentato che nel decreto governativo anti-crisi non c’era una parola sul Ponte di Messina: probabilmente, con i chiari di luna che ci sono, il governo non se la sente più di fornire i 3,5 miliardi per la costruzione del ponte, più un’identica cifra come “copertura” per gli investimenti privati.

Anche perché, come tutti sanno, quei 7 miliardi iniziali chissà a quanto giungeranno alla fine dei (probabili?) lavori.
Insomma, per le regioni meridionali – soprattutto per la Sicilia, uno stato nello stato – appare all’orizzonte lo spauracchio della fine della “solidarietà”, la quale è sempre stata – dall’Unificazione in poi – una sorta di “tassa” per il Mezzogiorno.

Tremonti deve far fronte anche alle richieste del Nord, poiché il federalismo fiscale partorito dal “porcaro” Calderoli dovrebbe garantire tutti: dal Sud al Nord, Province, Regioni e Comunità Montane comprese (magari sotto altra forma e cambiandone il nome).
Come si potrà notare, si tratta di una politica da brivido, nella quale appare sullo sfondo il fantasma d’aver evocato la questione meridionale (e, per la deindustrializzazione in atto, quella settentrionale) in modo assolutamente stregonesco, senza comprendere che – quella – è la mina che può far saltare per aria il Paese.

Ovviamente, oggi i siciliani possono cantare vittoria e – da politici navigati quali sono – si guardano bene dal tirare la corda fino a romperla: l’essenza della loro sopravvivenza – collegata ai mille rivoli di corruzione e nepotismo che gestiscono – sta proprio nell’intangibilità di quel rapporto, che deve continuare sul filo di un rasoio sempre più stretto e tagliente.

Le rassicurazioni del commercialista Tremonti sono, ovviamente, pienamente soddisfacenti (!): resusciteranno la Cassa per il Mezzogiorno (sic!) e tutti i progetti finanziati saranno accuratamente monitorati(!)(4). Parole da conservare come oro colato.
Ricordiamo che il suo compare Sacconi, solo pochissimi mesi or sono (10/3/2009), riguardo all’aumento dell’età pensionabile delle donne affermava che “Non c'è nessun innalzamento dell'età delle donne”(5): ah già, c’era la campagna elettorale…
Siamo quindi autorizzati a credere che il gozzoviglio siciliano [in pensione a 47 anni!(6)], continuerà, che i 4 miliardi appena stanziati si trasformeranno – come sempre – in capannoni abbandonati, cemento a gogò e relative tangenti. Il “comparto” più ambito dagli amministratori siculi.

La sconfitta del “Partito del Nord” è cocente è completa: gli strilli di Brunetta, le minacce di Bossi, i silenzi di Maroni e tutto il resto rimarranno sullo sfondo. Perché?
Poiché, nella visione aziendale del Capoccia, sono soltanto strategie di mercato: oggi conviene investire nel comparto immobili, domani nella pubblicità, dopodomani nelle giacenze di magazzino.
Si dà il caso che la politica sia faccenda assai diversa dalla gestione aziendale: difatti, la preparazione universitaria ai due settori è completamente diversa e distante per impostazione, piani di studio, ecc.

Interpretare la politica nazionale come una semplice gestione aziendale richiede un convitato di pietra: il debito. Senza il debito, non è possibile accontentare almeno 30 italiani su 100(7), quelli che sostengono con il loro voto questo governo.
La differenza fra le due gestioni, che Berlusconi comprende ma tende a negare – lo spregio per la Costituzione, per gli organismi di controllo, per il sindacalismo, ecc – risiede in quel semplice assioma: non devo rispondere ad un ristretto numero di azionisti, ma ad una platea di 60 milioni d’abitanti. Questa è la cosa che più lo disturba: gli italiani, quei tizi che non lo adorano abbastanza.

Il gioco, però, continua a procedere con una “navigazione a vista” – come afferma Tito Boeri(8)– ed è vero: fino a quando?

L’ago della bilancia non sarà il Sud, bensì ancora una volta il Nord, come sempre è stato nella storia italiana: i morsi della delocalizzazione industriale, della vetustà dell’apparato produttivo, della perdita di competitività si faranno presto sentire.
E, ci teniamo a precisare, la completa assenza di piani di sviluppo nelle nuove tecnologie energetiche, nei trasporti, nell’istruzione e nella gestione del territorio (agricoltura di qualità, captazione d’energia rinnovabile diffusa, turismo, ecc) sono proprio i temi che potrebbero catalizzare una “ripresa” italiana dopo i decenni dell’industria pesante e manifatturiera, oramai svaniti e lontani.

La cultura aziendal/politica di questo governo, invece, impedisce di guardare oltre, poiché la pletora di ministri in carica – “veline” a parte – è formata da un guazzabuglio di ex socialisti craxiani ed ex missini claudicanti. I primi, ripetono come pappagalli la politica del debito che fu di Craxi (in questo, pienamente appoggiati dai pochi residuati bellici ex democristi), i secondi stanno a guardare, accontentandosi di qualche “sparata” autoritaria che li fa sentire soddisfatti, quasi come se “Lui” li adunasse ancora sotto il balcone di Palazzo Venezia.
In definitiva, vecchiume: roba da portare al mercatino delle pulci e sperare di cavarci i soldi del gasolio.

Sull’opposizione non è nemmeno il caso di sprecare righe: stanno andando al macero, e lo sanno benissimo.
Merita invece qualche riga la strana dicotomia fra una cultura nascente, quella che s’interessa d’energia, di nuovi sistemi economici, di decrescita, di moneta, ecc, e la completa assenza di peso politico della stessa.

Non c’è da stupirsi: qualsiasi basso impero della Storia, ha percorso fino al dirupo la sua parabola. Perché? Poiché il primo, più impellente imperativo è quello del controllo: una classe politica debole non può permettersi il confronto, tanto è vero che sono stati costretti – nonostante i “chiari di luna” di bilancio – a ripristinare i fondi per la stampa.
Senza la catarsi, non ci sarà nessun mutamento: ciò non significa che il dibattito sia inutile; basta essere coscienti che, nell’immediato, non condurrà a nessun frutto. Domani, certamente. Quando? Ah…

Infine, per chi crede che lo “stellone” italiano salverà sempre tutto e tutti, vorrei ricordare che appena due decenni or sono – per le strade di Sarajevo – nessuno blaterava d’uccidere i turchi bosniaci o di lanciare i bambini serbi giù dai ponti. Semplicemente, ciascuno iniziava a soppesare quanto ci avrebbe guadagnato se avesse abbandonato l’altro al suo destino.

La Storia non si ripete, bensì si manifesta per parallelismi che tengono conto delle differenze esistenti in tempi e luoghi diversi: in mancanza di una vera politica nazionale, però, l’esito è certo.

Note:

(1)Vedi:http://carlobertani.blogspot.com/2009/05/non-puo-che-finire-cosi-prima-parte.html e http://carlobertani.blogspot.com/2009/05/non-puo-che-finire-cosi-parte-seconda.html
(2)Fonte:http://www.finanzaoggi.it/blog/2009/07/14/italiacresce-ancora-il-debito-pubblico/ (su dati Banca d’Italia). 14/7/2009.
(3)Fonte:http://borsaitaliana.it.reuters.com/article/businessNews/idITMIE54309K20090504
(4)Fonte:http://www.repubblica.it/2009/07/sezioni/politica/partito-sud/sblocco-fondo/sblocco-fondo.html
(5)Fonte:http://unionesarda.ilsole24ore.com/Articoli/Articolo.aspx?id=109917 10/3/2009.
(6)Fonte:http://www.repubblica.it/2009/06/sezioni/cronaca/pensionato-sicilia/pensionato-sicilia/pensionato-sicilia.html
(7)Calcolando i voti realmente espressi, non le percentuali (che sono calcolate solo sui votanti).
(8)Fonte:http://www.repubblica.it/2009/07/sezioni/politica/bilancio-governo/bilancio-governo/bilancio-governo.html