martedì 31 maggio 2011

Update italiota

Qualche articolo sulla realtà italiota...


Il delirio demagogico
di Franco Cardini - www.francocardini.net - 23 Maggio 2011

Forse, dopo tutto, ha tragione Giuliano Ferrara. Nel fronte berlusconiano abbondano i moralisti. Ma che i moralisti siano di conseguenza anche ipocriti, questo non è vero.

Ed è davvero troppo comodo, da parte di chi ha – da “ateo devoto” – fatto da dieci anni l’apologia delle Sante Bombe seminate a grappoli sull’Iraq e questa l’Afghanistan a maggior gloria del Dio e della “civiltà cristiana” dell’Occidente, rivestire poi i panni di un’etica dalle maniche larghe per accusar d’ipocrisia chi in fondo è reo soltanto di far appello alla morale cristiana.

Dal che si deduce che, secondo il catechismo del beato Silvio da Arcore, veramente cosa buona e giusta sia tanto l’ammazzare dei disgraziati, quanto l’organizzare dei bunga-bunga. Con Berlusconi, si va davvero in Paradiso in carrozza.

Pazienza. Da moralisti, ci accontenteremo a questo punto di andar in Purgatorio. Ma, proprio in quanto siamo tali, ormai del Berluska e dell’Elefantino non ci stupiamo e nemmeno ci scandalizziamo più.

Diverso è però il discorso quando la corruzione arriva a colpire personaggi che ci si augurava ancora non del tutto compromessi. Specie quando fanno confessione di un cattolicesimo che vogliamo continuar ad augurarci serio: perché, dicevano i latini, corruptio optimi pessima.

E’ il caso che sta emergendo in questo dibattutissimo ballottaggio milanese, che mi vede costretto - e Dio sa se me ne duole – ad augurarmi che la mia vecchia amica Letizia Moratti, della quale sono stato collaboratore in Rai fra ’94 e ’96, esca battuta.

Ma, anche in questo frangente, non riesco più a scandalizzarmi di Berlusconi che impazza in TV a reti unificate (a me sabato 14 maggio la RAI negò una rapida comparsa al Salone del Libro, dove stavo facendo il mio lavoro di professore, in quanto candidato al Consiglio comunale di Latina nella lista Pennacchi: quando si dice la par condicio); né mi meraviglia che, per accalappiare i voti dei peggiori cittadini, ne accarezzi gli istinti più vergognosi promettendo condoni edilizi e cancellazioni delle multe.

L’uomo di Arcore è questo: un corrotto corruttore del quale è ormai chiaro che ci si deve liberare al più presto, come si fa con le zecche e gli scarafaggi. Senza neppur scomodarsi a odiare. Magari, solo con un po’ di schifo.

Ma quando il contagio attacca persone come un altro mio vecchio amico, Roberto Formigoni, con il quale condivisi nell’ormai lontano 1993 un viaggio nell’Iraq minacciato dagli americani, allora il discorso è diverso.

Mi ha offeso e mi ha fatto male la sua requisitoria elettorale contro lo “scandalo” e il “rischio” di una moschea a Milano: e vorrei che non si abbassasse più al livello della peggiore xenofobia leghista pur di ramazzar quattro voti da una teppaglia ignorante.

Ma lo sa, il Presidente Formigoni, che i musulmani nel mondo sono già un miliardo e mezzo, dei quali molti milioni indispensabili alla nostra economia sia come lavoratori, sia come clienti?

Lo sa che a Parigi, oltre a una monumentale moschea, ce nesono ben altre 20, e che a Londra sono 19?

Vogliamo davvero far sapere a tutti che ormai Milano è una città di provincia, nella quale si ragiona piuttosto alla maniera del capoluogo friulano che non della capitale britannica?

Nella Luce del mondo, Benedetto XVI ha ricordato che i musulmani hanno il diritto “naturale” a disporre di luoghi di culto come chiunque altro. Chi esprime riserve in nome del principio di reciprocità – un argomento ambiguo, sul quale torneremo tra breve – deve ben rendersi conto che, presupposto alla reciprocità, deve esserci l’esempio di una buona volontà che attualmente in Italia non si vede.

Chi sostiene che le moschee potrebbero trasformarsi in “centrali di terrorismo”, dovrebbe capire che questa è una ragione di più per favorirne l’apertura: un centro pubblico e aperto è molto meglio controllabile di un sottoscala o di un garage.

Chi si preoccupa dell’igiene, non può non adire ad analoghe conclusioni per motivi ovvii: permetter la preghiera in locali poco agibili o all’aria aperta è improponibile, vietarla tout court è incostituzionale.

Chi ritiene che non sia giusto incoraggiare l’Islam in quanto religione oppressiva e oscurantista, dovrebbe riflettere sul fatto che in tal caso è opportuno che i musulmani, disponendo di un luogo pubblico nel quale liberamente convenire, si espongano piu agevolmente al contatto con i nostri piu liberi quadri mentali e sociali, possano esercitare un confronto e siano per questo indotti a scegliere per il meglio. Non c’è quindi alternativa.

Insomma, forse sono proprio gli antimusulmani quelli che, per primi, dovrebbero convincersi della convenienza dell’apertura di un numero di moschee necessario ai fedeli islamici: giustizia a parte, per ragioni di controllo, di ordine, di pulizia, di libertà.

Tutte ragioni che stanno dalla parte della cultura occidentale. Ovviamente, parliamo di antimusulmani che siano anche onesti e intelligenti. Ammesso che ciò non sia un ossimoro.

E veniamo con ciò a un tema specifico. Fra le ragioni in buona o in mala fede addotte da chi si oppone all’apertura di luoghi di culto per i musulmani nel nostro paese, una di quelle in apparenza più equanimi e decorose riguarda il cosiddetto “principio di reciprocità”. Apriamo pure delle moschee da noi: a patto che anche da loro siano consentiti l’apertura di chiese e il libero esercizio del culto cristiano.

Sembra un ragionamento impeccabile. Ma basta pensarci un po’ su - magari con l’ausilio del metodo dialettico del buon Pietro Abelardo, padre della scolastica (ricordate il suo Sic et Non?) - per rendersi conto che le cose non stanno affatto così.

E allora, udite udite. Il “principio della reciprocità”, invocato nello specifico caso delle moschee, è impraticabile per due ragioni. A livello giuridico, è assurdo. A livello morale, è infame.

Assurdo al livello giuridico. Lasciamo perdere il fatto che di chiese, in molti paesi musulmani – dall’Egitto alla Siria alla Giordania all’Iran; e all’Iraq, dove prima della “liberazione” erano luoghi di culto anche sicuri - ce ne sono eccome (esse mancano semmai nel paese arabo più amico dei governi occidentali, l’Arabia Saudita): e talvolta ospitano perfino culti comuni allo stesso Islam, come accade nel santuario della madonna del Latte a Betlemme o in quello della Vergine Incarnata di Seidenaya in Siria. Ma non è questo il punto.

L’assurdità della richiesta dipende dallo statuto giuridico ordinario della reciprocità, che per esser tale dev’essere il risultato di atti paritetici tra soggetti omogenei: ad esempio, due stati.

Ora, nel nome di che cosa, per esempio, gli italiani potrebbero chiedere l’apertura di una chiesa a un paese musulmano che la vieta?

Ve lo immaginate un diplomatico della laica repubblica italiana che contratta l’apertura di un luogo sacro, salvo non si tratti di qualcosa ad esclusivo uso dei suoi compatrioti?

Oppure potrebbe configurarsi un’azione, ad esempio, delle Nazioni Unite? Ma le Nazioni Unite hanno una veste per rappresentare le comunità cristiane?

E presso chi dovrebbero esse insistere, dal momento che l’Islam non ha una Chiesa, né una disciplina ecclesiale, né un apparato dogmatico-istituzionale?

E lo stesso papa, se volesse negoziare l’apertura di chiese cattoliche, a chi dovrebbe rivolgersi, salvo ai singoli governi uno per uno: e fornendo in cambio quale tipo di garanzie, visto che il suo potere temporale si estende sul solo Vaticano?

E infine, non è ridicolo pensare che un qualunque sindaco potrebbe vietare, che so, a una comunità di musulmani marocchini presenti sul suo territorio comunale di aprire una moschea, adducendo il fatto che il re dell’Arabia Saudita non consente l’apertura di chiese? Come potrebbero aver a che fare, dei marocchini, col sovrano di Riad?

Ma a livello morale la cosa si fa piu chiara e più dura. Noialtri che ci diciamo “occidentali”, abbiamo tra i fondamenti del nostro esser tali qualcosa che riposa sulla morale cristiana, ma anche sulla filosofia di Locke e di Voltaire: la tolleranza.

Voltaire l’ha tradotta in una formula splendida, anche se noialtri l’abbiamo purtroppo tradita: io non condivido in nulla il tuo pensiero, ma sono disposto a farmi ammazzare per difendere il tuo sacrosanto diritto di pensare liberamente quello che vuoi.

Ebbene: come cattolico e come cittadino italiano, fino dall’infanzia sono stato fedele a questo principio, che mi è stato confermato in famiglia, a scuola e in anche in parrocchia.

Io non permetterò mai a nessun beduino fanatico, fosse anche travestito da re-petroliere, d’indurmi a recedere da questo sacrosanto fondamento della mia etica civile provocandomi con la sua intolleranza e tentandomi a seguire, per ritorsione, il suo cattivo esempio.

Non gli permetterò mai di averla vinta. I principii non si barattano. Chi non capisce ciò non è degno della libertà della quale gode e della quale va tanto fiero.




A dieci anni dal G8 di Genova. Un'inchiesta contro l'insabbiamento

di Davide Pelanda - Megachip - 29 Maggio 2011

Nel libro “L'eclisse della democrazia. Le verità nascoste sul G8 2001 a Genova” (Feltrinelli editore) scritto da Vittorio Agnoletto e Lorenzo Guadagnucci in vista della triste ricorrenza dei dieci anni dei drammatici fatti del G8 di Genova 2001, compare anche la figura di un uomo d’affari siriano scoperto casualmente grazie a un’intercettazione telefonica «che era nella black list dell’Onu – spiega Agnoletto - e che aveva contatti con pezzi importanti della questura genovese».

Il personaggio in questione è Ahmad Fouzi Hadj, «sotto inchiesta a Montecarlo per riciclaggio – scrivono Agnoletto e Guadagnucci – e sospettato dall’organizzazione umanitaria Human Rights Watch, sulla base di un rapporto di esperti dell’Onu, di coinvolgimento nel traffico internazionale di armi».

Nel libro si parla poi di un «bonifico che attraverso una banca lettone (la Multibanka di Riga, inserita dal dipartimento di Stato Usa nella “black list” dopo l’11 settembre 2011) dirotta 53.000 euro sul conto di Oscar Fioriolli, fra il 2001 e il 2007 questore di Genova. Fioriolli ha spiegato che si trattava di un prestito personale – in via di restituzione – ottenuto da un vecchio amico del quale non conosceva le disavventure giudiziarie…».

Tutti argomenti, questi ed altri, contenuti nel libro ma non altrove. Già questo slancio da grande inchiesta, unitamente al coraggio degli autori, fa fare grandi passi alla ricerca della verità sulla scandalosa vicenda di Genova 2001.

«Non c’è ombra di dubbio – spiega Vittorio Agnoletto, che all’epoca dei drammatici fatti era il portavoce del Genoa Social Forum - che la Costituzione e la democrazia, nei giorni di Genova 2001, sono stati completamente cancellati. Quello che noi ci auguriamo è che questo paese possa ritornare nel pieno della democrazia.»

Una delle questioni principali ricordate nel libro riguarda i massimi responsabili di quanto avvenuto a Genova. Nei dieci anni seguenti e durante i processi, sono tutti quanti rimasti al loro posto.

Agnoletto lancia un allarme preoccupato: «Fino a quando la sicurezza dello Stato, la difesa della Costituzione in questo paese viene affidata a delle persone che hanno costruito prove false, firmato verbali falsi, montato false accuse contro dei manifestanti, commettendo anche delle violenze e che per questo sono state condannate per istigazione e falsa testimonianza, noi non possiamo dire che nel nostro Paese siamo nel pieno di un sistema democratico.»

La speranza che cercano di trasmettere gli autori è che si possa tornare al pieno compimento della democrazia. Ma uno dei passaggi assolutamente necessari è «la destituzione delle persone condannate».

In Italia, anche per altri drammatici eventi rimasti misteri insoluti, la Verità con la V maiuscola non viene mai tirata fuori, si hanno sempre mille problemi. Perché anche voi avete avuto tante difficoltà sui fatti di Genova 2001, fino a subire spiacevoli intimidazioni ed episodi inquietanti, descritti, ad esempio, nel paragrafo iniziale dal significativo titolo “A vostro rischio”?

«Perché non è semplice in Italia pubblicare un libro dove una delle persone che viene condannata, e di cui si spiegano tutti i comportamenti, è l’ex capo della Polizia ed attuale dirigente unico di tutti e due i Servizi Segreti italiani.

Non è un caso che lo stesso Pubblico Ministero dell’inchiesta della Diaz e in tutti questi anni che ha celebrato e preparato il processo, abbia ricevuto diversi segnali inquietanti.

Non è un caso che tutte le trasmissioni televisive, anche quelle che tra virgolette diciamo essere di sinistra, hanno rifiutato di presentare questo nostro libro. I segnali sono molto, molto pesanti.

Eppure i regolamenti europei prevedono che, se una persona viene anche solo inquisita come Pubblico Ufficiale per reati commessi durante la propria funzione, deve sospendersi e, se viene condannato, deve essere dimessa. In Italia nulla di tutto ciò avviene né è avvenuto. E qual è quel magistrato che decide di andare fino in fondo contro il capo della Polizia e contro i Servizi Segreti ecc… ?

Non c’è nessun politico che abbia osato dire “si devono dimettere”, non uno nell’arco parlamentare odierno. Fare un libro come questo è dunque molto scomodo. Noi l’abbiamo fatto a nostro rischio e pericolo, continuiamo a parlarne a nostro rischio e pericolo. Perché siamo in pochissimi che abbiamo osato scrivere tutte queste cose».

E’ stato difficile trovare un editore coraggioso per pubblicare il libro?

«Diciamo che alla fine abbiamo trovato Feltrinelli che è stato disponibile»

Ma quanti ne avete girati prima del sì di questo editore?

«Diciamo che o lo pubblicava Feltrinelli o non lo pubblicava nessuno. La stessa cosa è che o ne parlano i giornali del movimento o non ne parla nessuno Non è un caso che i grandi quotidiani, il giorno che è uscito il nostro libro, hanno preferito dedicare una pagina intera ad un altro libro che su Genova 2001 non aggiunge assolutamente nulla e quindi….»

Vi siete fatti un’idea sul perché, sui fatti di Genova 2001, destra e sinistra hanno condiviso in qualche maniera il dissolversi della democrazia in Italia?

«La questione è un po’ più complicata, non è che destra e sinistra hanno condiviso un’ipotesi sovversiva. Diciamo che la destra ha costruito attorno a Genova 2001 un cinismo fortemente repressivo, con l’idea di stroncare un movimento che, in un anno e mezzo, era cresciuto in maniera estremamente forte: infatti, dal novembre 1999 (Seattle) al luglio 2001, il movimento di diffondeva in tutto il mondo.

Quindi l’unica posizione che esisteva nei disegni della destra era quello di stroncarlo in modo molto duro in una logica assolutamente eversiva.

Il centrosinistra nazionale invece ha due grandi responsabilità. La prima è l’aver contribuito a preparare Genova 2001 in tutte le azioni che si sono susseguite, non però in una logica eversiva. In tali preparativi è possibile individuare i limiti del centrosinistra nazionale e mondiale tutti interni alla globalizzazione: esso individuava nel G8, nelle organizzazioni mondiali del commercio, nella Banca Mondiale e nel Fondo Monetario Internazionale delle istituzioni positive che avevano solo bisogno di modificare un po’ le loro azioni.

Come dire che un’automobile che va bene dipende anche da chi si mette al volante, ma di fondo l’automobile va comunque bene. C’è quindi un Centrosinistra che continua muoversi nella logica della globalizzazione liberista, collocandosi tragicamente dentro il liberismo.

L’altro limite del centrosinistra a Genova 2001 e che di fronte alle violenze commesse dalla Polizia, il cui vertice è stato nominato dallo stesso schieramento politico, preferisce non vedere, non prendere posizione, difendere comunque i vertici della Polizia e insabbiare la commissione d’inchiesta e non volersi costituire parte civile. In questo secondo punto si può iscrivere tranquillamente la decisione dell’ex sindaco Giuseppe Pericu di non costituire il Comune di Genova parte civile contro la Polizia.

In sostanza la gravità di ciò che è successo a Genova 2001 è che c’è stato un tentativo repressivo fortissimo da parte della destra in accordo con vertici della Polizia di nomina del centrosinistra: per salvare le loro carriere, sono state il braccio dirigente e operativo di ciò che è avvenuto. E la conseguenza dell’intervento del centrosinistra è volta a coprire tutto ciò».

Lei ha fatto anche il parlamentare europeo: che cosa si è pensato e si è detto nelle varie sedi europee ed all'estero, che cosa si è percepito dei fatti di Genova 2001?

«Il Parlamento europeo ha preso una posizione molto dura sul G8 di Genova, nel 2002 votò una risoluzione di condanna dell'Italia, mentre le diplomazie dei paesi europei hanno protestato tutte perchè tra le persone pestate e ferite c'erano dei loro concittadini. In Europa il comportamento delle forze dell'ordine venute a Genova è assolutamente inaccettabile.

Infatti noi proponiamo che anche in Italia si realizzino alcune misure proposte dall'Europa a cominciare dalla riconoscibilità dei tutori dell'ordine, che cioè ognuno abbia un codice identificativo ben visibile e che ne risponda. Oppure che nei corsi di formazione ci siano anche delle pratiche nonviolente che possano essere utilizzate per bloccare il contrasto, quando ci sono problemi di piazza. Oppure la legge contro le torture che l'Italia non ha ancora recepito...

Comunque tutte le inchieste fatte su Genova 2001 non avrebbero potuto proseguire se non ci fossero state le intercettazioni e se non ci fosse stata una autonomia dei magistrati rispetto al Governo».

Si può dire che, dopo dieci anni da quei drammatici giorni, in Italia su questo argomento come su altri c’è una “memoria corta”? Una “memoria scomoda”?

«Sì, c’è un tentativo forte di rimozione da parte della politica per le ragioni che ho detto prima. Da parte della politica non c’è nessuna voglia di andare a rievocare questi fatti. Tantomeno da parte della Polizia. C’è stato invece qualche magistrato disponibile che ha contribuito con noi a fare questo libro».

Che aria si respirava nelle varie udienze del processo a Genova?

«Il pubblico ministero Zucca lo spiega molto bene nel libro. Egli dice in sostanza: attenzione, perchè quando si fa un processo contro la Polizia, contro i suoi vertici, si ripetono scene che avvengono quando si svolge un processo per stupro, dove molte volte la colpevole sembra la donna che ha subito la violenza.

C'è un episodio molto semplice che noi raccontiamo: quando c'è il processo per i fatti della scuola Diaz, a dover passare sotto i metaldetector e ad essere perquisiti sono le vittime che devono andare a testimoniare le violenze subite: gli imputati invece entrano nell'aula senza essere perquisiti e senza passare per il metaldetector. Ecco, questa immagine credo sia sufficiente a rispondere alla domanda che mi ha fatto».

Secondo lei esistono ancora delle istituzioni che hanno un’etica? Diciamo un’etica istituzionale?

«Ci sono persone sia nelle Forze dell’Ordine che in Magistratura che continuano a mettere al primo posto l’onestà, la coerenza, che fanno il loro dovere definito dalla Costituzione.

Se invece la domanda è: ci sono istituzioni che, su questa vicenda, hanno sposato la ricerca della verità e della giustizia… Beh di istituzioni come tali non tanto; abbiamo un pezzo della Magistratura che ha cercato di fermare il processo, la politica che ha cercato di difendere gli imputati e i responsabili.

Non parliamo delle forze di polizia i cui vertici si sono comportati come una vera e propria banda….Leggere il libro e scoprire i comportamenti di dieci anni di vicende processuali è incredibile. E se uno non legge che sono poliziotti li può collocare tranquillamente nei processi contro la criminalità organizzata.

Quando a un certo punto un uomo dei vertici della polizia, uno dei più importanti, arriva a dire “non ho mai visto una molotov, io non sapevo neanche che c’erano quelle molotov alla Diaz” e poi viene presentato un filmato dove si vede che lui ha in mano il sacchetto con le molotov e a quel punto dice “usufruisco della possibilità di non rispondere”… Beh, questi sono comportamenti che vediamo nei processi alle mafie. Che questi siano al loro posto è incredibile, che la politica li abbia lasciati al proprio posto è ancora peggio».

Ha paura degli inquietanti episodi descritti nel libro?

«Per tutti questi anni io, assieme a pochi altri quasi isolato, ho sempre sostenuto che è stato giusto individuare chi ha picchiato alla Diaz e chi ha fatto le torture a Bolzaneto… ma bisognava risalire ai vertici, questo è il punto discriminante.

Bisognava risalire a chi ha ordinato di mettere le molotov dentro la Diaz, a chi ha coordinato. Quanto più io ho sostenuto questa cosa, tanto più si sono verificate quelle forme intimidatorie molto pesanti descritte nel libro e che, attraverso l’avvocato Pisapia, abbiamo sempre denunciato in Tribunale. Ma senza che fosse mai svolta alcun tipo di indagine. E l’avviso che ho ricevuto mentre iniziavo a scrivere il libro, e che riporto nelle prime pagine iniziali, credo sia molto chiaro.

D’altra parte noi raccontiamo anche di diversi tentativi di bloccare le indagini con nomi e cognomi: un capitolo, ad esempio, l’abbiamo titolato “La proposta indecente” quando ad un certo punto qualcuno chiede alla Procura di Genova di chiudere tutto e di far finta che le leggi non ci siano, oppure quando l’avvocato difensore di De Gennaro dice che “è inutile andare avanti nel processo perché queste accuse sono istituzionalmente incompatibili con il ruolo svolto dal mio assistito”. Come dire che, siccome è il capo dei Servizi, non può essere accusato di questo. Non è che tutti i giorni si trova un libro che racconta per filo e per segno questa ed alte questioni che riportiamo».


Anno Zero

di Massimo Gramellini - La Stampa - 31 Maggio 2011

Ieri in Italia sono finiti gli Anni Ottanta. Raramente nella storia umana un decennio era durato così a lungo. Gli Anni Ottanta sono stati gli anni della mia giovinezza, perciò nutro nei loro confronti un dissenso venato di nostalgia.

Nacquero come reazione alla violenza politica e ai deliri dell’ideologia comunista. L’individuo prese il posto del collettivo, il privato del pubblico, il giubbotto dell’eskimo, la discoteca dell’assemblea, il divertimento dell’impegno.

La tv commerciale - luccicante, perbenista e trasgressiva, ma soprattutto volgarmente liberatoria - ne divenne il simbolo, Milano la capitale e Silvio Berlusconi l’icona, l’utopia realizzata.

Nel pantheon dei valori supremi l’uguaglianza cedette il passo alla libertà, intesa come diritto di fare i propri comodi al di fuori di ogni regola, perché solo da questo egoismo vitale sarebbe potuto sorgere il benessere.

Purtroppo anche il consumismo si è rivelato un sogno avvelenato. Lasciato ai propri impulsi selvaggi, ha arricchito pochi privilegiati ma sta impoverendo tutti gli altri: e un consumismo senza consumatori è destinato prima o poi a implodere.

Il cuore del mondo ha cominciato a battere altrove, la sobrietà e l’ambientalismo a sussurrare nuove parole d’ordine, eppure in questo lenzuolo d’Europa restavamo aggrappati a un ricordo sbiadito.

La scelta di sfidare il Duemila con un uomo degli Anni Ottanta era un modo inconscio di fermare il tempo. Ma ora è proprio finita. Mi giro un’ultima volta a salutare i miei vent’anni. Da oggi si guarda avanti. Che paura. Che meraviglia.


Il dramma di Emilio Fede
di Gisella Ruccia - Il Fatto Quotidiano - 31 Maggio 2011

Sconsolato e annichilito dal sonoro sganascione rifilato al centrodestra, un cereo Emilio Fede ha offerto ai suoi telespettatori, nel suo tg4 di ieri sera, un notiziario “sui generis”.

Sin dall’anteprima Umilio dedica solo una manciata di secondi alle amministrative e ai risultati di Napoli e Milano, riservando un tempo ben maggiore ai cetrioli spagnoli.

Finzione e comicità, archetipi del tg di Fede, ricorrono costantemente durante i 53 minuti dello show: dapprima un esordio sotto tono, con il quale il direttore scomoda il povero Casini per convincersi che la sconfitta della compagine berlusconiana e leghista “non ha valenza nazionale, ma solo locale”.

Poi, imbeccato dall’inviata Marina Dalcerri, che parla di “qualche bandiera rossa che dalla Galleria va verso il Duomo” mostra le immagini di una piazza Duomo rutilante e festante per la vittoria di Pisapia. Ed è una delle ospiti in studio, la senatrice Roberta Pinotti (Pd) a puntualizzare ironicamente: “Sono arancioni, direttore, le bandiere. Non rosse”.

Ma il clou della sceneggiata si registra con l’intervista a Maurizio Baruffi, portavoce di Pisapia. L’inviata Stella Carraro, dal teatro Elfo Puccini, lagna quasi istericamente di non essere stata considerata dal futuro sindaco Pisapia, che le avrebbe preferito altre testate e tg a cui rilasciare le proprie dichiarazioni. La giornalista, però, riesce a fermare Baruffi, che ha una spassosa diatriba con un Fede sempre più alterato.

Il portavoce di Pisapia spiega che la scaletta programmata non prevedeva un’intervista al Tg4, ma promette che nei giorni a venire il nuovo sindaco milanese avrebbe concesso il suo tempo al nostro Umilio. “Troveremo sicuramente il modo per poter raccontare finalmente anche agli ascoltatori del Tg4 chi è Giuliano Pisapia”, afferma serafico Baruffi.

Fede si sente profondamente oltraggiato per non essere stato sfiorato tangenzialmente dall’attenzione di Pisapia e incalza con le domande: “E allora cosa prevede la scaletta del sindaco?”.

Baruffi non si scompone e rifila il carico da briscola: “Festeggeremo a piazza Duomo e tutti i milanesi potranno finalmente festeggiare una campagna elettorale che è stata condotta col sorriso sulle labbra e con la cifra dell’ironia nei confronti delle menzogne e delle diffamazioni che venivano da più parti. Per fortuna non ha vinto la logica della paura, ha vinto la logica della speranza e del guardare al futuro.”

Fede non ci sta e, autodefinendosi comepiccolissimo , modestissimo, giovanissimo giornalista”, si lancia in un soliloquio comico e delirante. Baruffi replica prontamente, rifilando una nuova stoccata all’informazione al soldo di Berlusconi. Umilio difende eroicamente il suo notiziario e sbotta: “Mamma mia! Io speravo di trovare in lei una persona serena….”.

Baruffi, sempre imperturbabile, tranquillizza il povero Fede: “Assolutamente non da parte sua, direttore, che è stato sempre un esempio di grande correttezza nel mondo dell’informazione.

“Ecco, appunto!”, gongola il devastato direttore. “Questo me lo conceda, perchè quando ci sono state polemiche io mi sono sempre tirato fuori, rispettoso, come sono, dei pareri degli uni e degli altri”. Qualche minuto più tardi, si sconfina davvero nel surreale: “Io sono sempre al di sopra delle parti”.

L’effetto comico, soprattutto della palese presa in giro ad opera di Baruffi, è devastante. D’altro canto, non è la prima volta che una giornalista sguinzagliata dal fido umilio di Silvio viene snobbata spudoratamente da un esponente del centrosinistra.

Già nell’ottobre del 1996, Romano Prodi, in visita a New York, rifiutò con sdegno la richiesta di un’intervista da parte di un’inviata del Tg4. “Il Tg4 no. Ne ho avuto già abbastanza“, furono le sue lapidarie parole.

La polemica prosegue, stavolta tra lo stesso Baruffi e la pidiellina ex missina Viviana Beccalossi (quella del celebre slogan coniato proprio da Silvio: “Forza Viviana! Fagliela vedere”), la quale, sfoderando la musicalità del bresciano eloquio, si cimenta in una critica spietata di “Bella Ciao”.

Che, invece, “non dispiace affatto” al direttore. Outing clamoroso, spiegabile forse con il malefico effetto Pisapia.