mercoledì 14 settembre 2011

Il nuovo protagonismo turco

Una serie di articoli sul ritorno da protagonista della Turchia in Medio Oriente e Nord Africa.

Un Paese che, dopo l'esclusione dall'Ue, da qualche anno continua a crescere economicamente a ritmi incredibili (8% circa) e che ora, approfittando del vuoto creatosi con la cosiddetta Primavera Araba, cerca di presentarsi come esempio da seguire di democrazia moderna ma legata ad altri due pilastri: esercito e religione.

Inoltre la recente forte tensione con Israele, culminata con l'espulsione dell'ambasciatore israeliano ad Ankara, ha consentito al premier turco Erdogan di ergersi nel mondo arabo a paladino dei palestinesi e del riconoscimento della Palestina.

Ma naturalmente Erdogan dovrà dimostrare presto doti di notevole equilibrio, dal momento che non gli sarà affatto facile riconquistare quell'influenza economica e politica in aree che fino a un secolo fa erano dominate ancora dall'Impero Ottomano senza tenere conto dell'Iran in primis e degli Stati Uniti in subordine.

Anche se va detto che, con la decisione di installare lo scudo anti-missile Nato sul proprio territorio, la Turchia ha già avuto il via libera dagli Usa che in questo momento hanno ben altri problemi da risolvere.


«Non temete la democrazia». Il messaggio del premier turco ai dirigenti del Cairo
di Michele Giorgio - Il Manifesto - 13 Settembre 2011

«Non abbiate paura della democrazia». Sarà questo il messaggio che il premier turco Recep Tayyip Erdogan lancerà oggi al Cairo, dove è arrivato ieri in tarda serata per dare inizio a un viaggio ufficiale che lo porterà anche in Tunisia e Libia.

Ad accompagnarlo ci sono il ministro dell'economia Zafer Caglayan e ricchi uomini d'affari turchi, oltre al ministro degli esteri Ahmet Davutoglu. Stando a quanto preannunciava ieri il giornale turco Milliyet, Erdogan sottolineerà il valore delle libertà democratiche e sosterrà che la laicità è importante per promuovere quelle libertà.

Si rivolgerà al popolo egiziano in quanto leader di un paese musulmano e laico allo stesso tempo. Fonti del ministero degli esteri turco, citate da Milliyet, hanno sottolineato che l'obiettivo del viaggio del premier è la democratizzazione, non mobilitare un sostegno contro Israele come si è scritto e letto da più parti.

Della crisi nelle relazioni con lo Stato ebraico - dovuta alle mancate scuse per il sanguinoso raid israeliano alla Freedom Flotilla dell'anno scorso e al blocco di Israele su Gaza -, Erdogan discuterà a lungo con i suoi interlocutori arabi: ma lontano dai riflettori, a porte chiuse.

Pare che i generali egiziani e il primo ministro Essam Sharaf abbiano chiesto al leader turco di non alimentare le tensioni nel loro paese, fortissime dopo l'assalto all'ambasciata israeliana al Cairo. Ieri la giunta militare al potere in Egitto ha reagito imponendo lo stato d'emergenza (mai revocato dopo la caduta dell'ex presidente Mubarak).

L'Unione dei Giovani della Rivoluzione ha indetto per questo venerdì una manifestazione per dire «no alla legge d'emergenza» e per respingere il tentativo dei militari e degli uomini legati a Mubarak di usare gli incidenti all'ambasciata di Israele per riportare indietro il paese.

I generali egiziani hanno imposto a Erdogan anche di rinunciare alla visita a Gaza che avrebbe rappresentato una sfida diretta al blocco israeliano.

Così prima di partire per il Cairo, il premier turco ha fatto uso dell'artiglieria pesante per criticare la politica israeliana nella regione. «L'atteggiamento turco nei confronti di Israele è stato chiaro fin dall'inizio: scuse al popolo e al governo turco, indennizzo delle famiglie delle vittime (dell'attacco alla Freedom Flotilla del 31 maggio 2010, ndr), revoca del blocco illegale imposto a Gaza.

Ma questa posizione non è stata presa sul serio», ha detto il premier al quotidiano egiziano Shurouq. «Israele - ha proseguito Erdogan - è abituato a non essere giudicato per i suoi comportamenti e a essere trattato come se fosse al di sopra della legge».

«È diventato come un bambino viziato - ha affermato - e non si accontenta di esercitare il terrorismo di stato contro i palestinesi, ma agisce senza senso di responsabilità e non vuol riconoscere che il mondo, quello arabo in particolare, è cambiato».

Al termine degli incontri, Sharaf ed Erdogan dovrebbero annunciare la creazione di un consiglio strategico di cooperazione e siglare alcuni accordi nel settore economico e degli investimenti. Oggi Erdogan pronuncerà anche un atteso discorso all'Università, mentre domani si rivolgerà ai ministri della Lega Araba.

Prova sfruttare a vantaggio palestinese la forte iniziativa turca il presidente dell'Olp e dell'Autorità nazionale palestinese Abu Mazen, giunto ieri al Cairo, certo non per una coincidenza. Nei prossimi tre giorni Abu Mazen avrà incontri con l'alto rappresentante dell'Unione europea per la politica estera, Catherine Ashton, e, appunto, con Erdogan.

Al centro l'intenzione palestinese di presentare domanda di adesione di uno Stato palestinese durante la sessione dell'assemblea generale dell'Onu, prevista la prossima settimana. Ieri il quotidiano Haaretz ha riportato che, stando ai risultati di un sondaggio, la maggioranza dei cittadini dei principali paesi europei sostiene la proclamazione unilaterale d'indipendenza palestinese e si augura che venga accolta favorevolmente dall'Onu.

Ben diverso è l'atteggiamento di diversi governi dell'Ue. L'esecutivo di Silvio Berlusconi è alla testa di un gruppo di accaniti oppositori dell'iniziativa palestinese composto da Germania, Repubblica Ceca, Olanda e Bulgaria.


Erdogan, tra il dire e il fare
di Christian Elia - Peacereporter - 13 Settembre 2011

Il premier turco osannato in Egitto, prima di andare in Libia e Tunisia, mentre resta tesa la situazione con Israele

Lo hanno già ribattezzato Eroe d'Egitto, senza alcun intento ironico. La stampa egiziana sottolinea il clima di trionfo che accompagna la visita ufficiale del premier turco Erdogan in Egitto.

All'aeroporto un bagno di folla, si può scommettere che sarà così fino al 15 settembre, dopo le tappe in Libia e Tunisia.

Chissà se il convoglio del primo ministro di Ankara è passato davanti alle macerie dell'ambasciata israeliana al Cairo, assaltata da dimostranti inferociti il 9 settembre scorso.

Chissà, soprattutto, se Erdogan avrebbe spento i tizzoni ardenti, o alimentato le fiamme sotto la cenere. Difficile dirlo, perché le parole di Erdogan - quasi sempre - sono di fuoco. Le sue azioni lo sono molto meno.

Puntuale è arrivata la dichiarazione di sostegno all'indipendenza palestinese, in agenda alle Nazioni Unite per il 20 settembre. Ormai è evidente: Erdogan in questa fase sta parlando alle opinioni pubbliche arabe e islamiche.

L'Unione Europea, per anni, ha tenuto fuori dalla porta i turchi, troppe promesse, troppi rinvii. Meglio essere un partner debole dell'asfittico ensamble di Bruxelles, o un Paese leader di un mondo povero, certo, ma che sta ridisegnando se stesso a colpi di rivoluzione?

La risposta è scontata, come lo strumento diplomatico per ottenerla. La causa palestinese. Ci hanno provato tutti, in passato, con il presidente iraniano Ahmadinejad buon ultimo. Tanto le parole non costano nulla e rendono molto in termini politici.

Perché poi, quando si parla di fatti, Erdogan sa bene con chi vuole stare. Non a caso ha espulso l'ambasciatore israeliano da Ankara, ha sospeso i trattati di cooperazione militare con Israele, ma non ha nemmeno accennato a sanzioni economiche, che toccherebbero quel volume di scambi commerciali tra Turchia e Israele, quantificato in quattro miliardi di dollari all'anno. Il consenso il politica estera è un conto, quello interno è un altro.

E non a caso Erdogan, nel suo giro nel Nord Africa del grande cambiamento, è accompagnato da ben 170 imprenditori. Perché il 'neo-ottomanesimo', come viene chiamato l'atteggiamento turco dell'era Erdogan, si basa in primis su quella classe media capace di fornire prestazioni di alto livello, che hanno contribuito a una crescita dell'8,8 percento del Pil turco.

Le parole pesano come pietre, ma si ripongono in tasca in un baleno. Palestina, certo, con tanto di scorta armata a convogli umanitari diretti a Gaza. Solo che, nel suo tour, Erdogan alla fine a Gaza non ci va. Ufficialmente per motivi organizzativi, più probabilmente perché la corda la può e la vuole tirare fino a un certo punto.

Per ulteriori chiarimenti chiedere a tutti i volontari della Freedom Flotilla dell'ultima iniziativa, per i quali la Turchia non ha mosso un dito. Anzi, ha rifiutato di fornire i porti necessari, bloccando i volontari in Grecia.

Nessuno può immaginare cosa succederà nei prossimi mesi, ma sembra davvero lampante che la strategia di Erdogan è volta a un uso strumentale della tensione con Israele, finalizzata solo a rafforzare il ruolo politico ed economico della Turchia nei paesi arabi e islamici, finalizzando tutto a un maggior valore sul 'mercato' politico internazionale. Un gioco pericoloso, sicuro. Ma Erdogan è abituato a scherzare con il fuoco.



"Un dovere riconoscere la Palestina"
di Ibrahim Refat - La Stampa - 14 Settembre 2011

IL PRIMO MINISTRO TURCO AL VERTICE DELLA LEGA ARABA AL CAIRO PUNTA A COSTRUIRE UN FRONTE ANTI TEL AVIV: «GLI ISRAELIANI SONO DEI BAMBINI VIZIATI». Erdogan scarica Assad: ha ucciso troppa gente, non possiamo più fidarci di lui

«Lo Stato palestinese deve essere riconosciuto. Non ci sono altre scelte. È un dovere». Così si è espresso il premier turco, Recep Tayyip Erdogan, davanti ai ministri degli Esteri della Lega Araba riuniti al Cairo senza indietreggiare di un millimetro dalla linea dura anti-israeliana ampiamente sfoderata alla vigilia del suo viaggio in Egitto, Tunisia, Libia.

«Dobbiamo lavorare insieme con i nostri fratelli palestinesi. La loro causa è una questione di dignità umana», ha esordito Erdogan aggiungendo: «È tempo che la bandiera palestinese sventoli alle Nazioni Unite. Uniamo gli sforzi e facciamo che questa bandiera diventi un simbolo di pace e di giustizia in Medio Oriente».

Durissimo l’affondo contro Israele, definito «un bambino viziato» che usa il terrorismo di Stato e sta determinando la rovina del suo popolo attraverso le sue politiche. L’unica via per lo Stato ebraico per uscire dalla solitudine, secondo Erdogan, «è agire in modo responsabile come uno Stato responsabile e serio».

E fino a quando questo non avverrà, è l’Erdogan-pensiero, non ci sarà nessuna normalizzazione tra Turchia e Israele. Quest’ultimo deve scusarsi ufficialmente per il blitz contro la Mavi Marmara, risarcire le vittime (nel blitz del maggio 2010 morirono 7 turchi), e porre fine all’assedio della Striscia di Gaza. Condizioni che Israele rifiuta.

A evidenziare ulteriormente la rottura fra Tel Aviv e Ankara, il quotidiano turco «al-Zaman» ieri rivelava che la Turchia ha cambiato un vecchio software militare destinato ai suoi caccia, navi da guerra e sottomarini. Quello nuovo non riconosce più come «amici» aerei e imbarcazioni israeliane impedendo in questo modo di colpirli.

Di fronte alla platea dei responsabili della diplomazia araba, Erdogan ha indicato la ricetta per dare il via alle riforme e al riscatto verso la modernità e lo sviluppo, quella peraltro adottata a suo tempo da Ankara: «Rispetto della libertà, della democrazia e dei diritti umani. Valori che devono costituire uno slogan unico per i nostri popoli, le cui richieste non devono essere represse con la forza e nel sangue».

Un riferimento alla Siria di Assad dove da mesi è in atto una rivolta repressa nel sangue. Crisi che Erdogan non ha escluso possa sfociare in una guerra civile fra sunniti e alawiti. Ma l’intervento del leader turco è soprattutto un richiamo, se non una sonora bocciatura, ad Assad. «Vediamo - ha detto - che mentre il numero delle vittime civili aumenta, le riforme non sono state fatte e quindi non possiamo più credere in lui».

Presentandosi come leader paladino di una nuova versione moderna dell’Islam, al Cairo il premier turco ha voluto costruire un fronte contro lo Stato ebraico. Egitto e Turchia mai come ora sono stati legati da una forte tensione con il potente vicino.

Non a caso ieri nei suoi colloqui con i dirigenti egiziani si è parlato della costruzione di un’alleanza strategica, politica e economica. I due Paesi si apprestano a siglare 11 accordi bilaterali.

Oggi Erdogan volerà in Tunisia accompagnato dai 170 imprenditori e sei ministri e domani sarà a Tripoli, primo leader a entrate nella Libia dalla caduta di Gheddafi.


Il disegno di Erdogan
di Christian Elia - Peacereporter - 9 Settembre 2011

Una continua escalation di dichiarazioni, ma non sono chiari gli obiettivi del governo turco

L'attacco è in atto. Diplomatico, s'intende. Ma davvero le relazioni tra la Turchia e Israele, dalla nascita dello Stato ebraico nel 1948, non sono mai state così tese. La cronaca è nota: la fine dei lavori della commissione d'inchiesta Onu presieduta dall'ex primo ministro neozelandese Geoffrey Palmer non inchioda Israele alle sue responsabilità per la morte degli attivisti turchi della Mavi Marmara nel 2010.

La stampa turca rilancia le dichiarazioni del premier Recep Tayyip Erdogan, che salgono di tono ogni giorno che passa, come una mareggiata che monta piano piano. Detto come nulla fosse: l'autorizzazione data a navi da guerra turche di scortare convogli di aiuti umanitari turchi a Gaza.

''Navi da guerra turche - ha detto ieri Erdogan alla tv satellitare al-Jazeera - sono autorizzate a proteggere le nostre navi che portano aiuti umanitari a Gaza. D'ora in poi non lasceremo che queste navi vengano attaccate da Israele come avvenne con la Freedom Flottilla''.

Non dice quando, non dice se questi aiuti partiranno. Conferma che visiterà Gaza, presto, ma non dice quando. Come una minaccia sospesa, come una promessa di fuoco. Erdogan, è bene capirlo subito, non scherza. Non è detto, però, che sia interessato a portare a termine le sue promesse.

Il prossimo round, ancora diplomatico, è all'Onu. La discussione sull'indipendenza della Palestina si arricchirà di una nuova polemica? Non è garantito. Ma, secondo la stampa turca, Erdogan ha una strategia pronta all'uso.

Ankara potrebbe porre a livello internazionale la questione dell'arsenale atomico israeliano. L'ipotesi è contenuta in un 'piano' per mettere in difficoltà Israele se continua a non scusarsi per i morti della Mavi Marmara.

Erdogan ha accennato all'esistenza di questo Piano C, che seguirebbe uno, detto B, incentrato sugli annunciati - ma non ancora ordinati - pattugliamenti navali nelle acque internazionali del Mediterraneo.

Il piano B prevede l'intenzione turca di far inserire nell'agenda dell'Agenzia atomica internazionale (Aiea) e dell'Onu, con richiesta di sanzioni, la questione dell'arsenale atomico israeliano mai dichiarato dallo Stato ebraico.

Scuse, indennizzi, alleggerimento blocco su Gaza. Altrimenti dossier nucleare, pattugliamenti, scorte militari, rottura relazioni diplomatiche e fascicolo Gaza all'Aja per crimini contro l'umanità.

Cosa vuole davvero Erdogan? Fin dove vuole arrivare? Non è un mistero che Israele - secondo l'intelligence turca - appoggia i separatisti curdi. Iran e Turchia, assieme, bombardano i campi militari curdi sui monti iracheni. Baghdad ha chiesto all'Onu la fine dei raid militari nel suo territorio. Può essere questo elemento di pressione reciproca la posta in palio?

Oppure potrebbe essere altro. Magari tutto questo polverone nasce dalle dure critiche mosse oggi dall'Iran nei confronti della Turchia per la sua scelta di dotarsi di uno scudo anti missilistico Nato.

''Ci aspettiamo che i Paesi amici e vicini non promuovano politiche che creino tensione e che avranno conseguenze complicate e definitive'', ha detto il portavoce del ministero degli Esteri iraniano, Ramin Mehmanparast, citato dall'agenzia di stampa Irna.

''Riteniamo che l'installazione di alcune parti del sistema missilistico Nato in Turchia non aiuterà per niente la sicurezza e la stabilità della regione, e nemmeno dello stesso Paese ospitante'', ha aggiunto Mehmanparast.

L'ambasciatore turco a Roma, Hakki Akil, ha chiarito in un colloquio con i giornalisti che lo scudo antimissile della Nato che sarà installato sul suo territorio ''non è contro un paese specifico'' e, in particolare, contro l'Iran.

La crisi tra Ankara e Tel Aviv procede. Non è chiaro, adesso, dove voglia arrivare Erdogan. Nella tensione generale c'è solo da sperare che non sia l'ennesimo caso di un leader politico - Erdogan appunto - che si legittima per una leadership del mondo islamico sulla pelle dei palestinesi. Che vivono sotto occupazione da sessanta anni e aspettano il 20 settembre per capire se, dopo tutto, il mondo ha deciso di accorgersi del loro diritto a vivere.



Non temete la Turchia
di Lucia Annunziata - La Stampa - 14 Settembre 2011

Tayyip è stato, nell’ultimo anno, il nome più popolare per i nuovi nati nella Striscia di Gaza.

Tayyp come Erdogan, primo ministro turco che si è meritato questo onore aiutando la flotta dei pacifisti a Gaza, e che ieri ha iniziato il suo tour nelle capitali della primavera araba scandendo al Cairo davanti alla Lega Araba: «Il riconoscimento di uno Stato palestinese non è una scelta, ma un obbligo».

La frase, pronunciata due giorni dopo l’assalto all’ambasciata israeliana, dalla voce del premier di una nazione che per decenni è stata il miglior alleato musulmano di Israele, ha infiammato l’opinione pubblica ed ha fatto immediatamente dire che il Medioriente da oggi non sarà più lo stesso.

Di sicuro l’affermazione è un’ulteriore minaccia a Israele, nonché una ulteriore complicazione per gli Stati Uniti.

Dobbiamo dunque aver paura della Turchia? Nasce un nuovo panislamismo radicale all’insegna stavolta della stella e della mezzaluna in campo rosso? Le rive del Bosforo hanno cullato la nascita di un nuovo Nasser?

A dispetto delle apparenze, la ragione e la realtà ci fanno propendere per il no.

Il viaggio di Tayyip Erdogan in «appoggio delle nuove democrazie» (si noti la scelta delle parole, così moderne comparate al vecchio vocabolario arabista) è ormai senza ombra di dubbio la mossa con cui il primo ministro lancia sulla scena internazionale l’ambizione della Turchia a guidare la regione. Sfidando ogni altro potere che già vi esercita la sua influenza - l’Arabia Saudita, l’Iran, e lo stesso Israele.

Alle ancora entusiaste ma già dissanguate rivolte, l’uomo di Ankara porta una barca di aiuti economici e di contratti commerciali. Porta la forza politica e militare di una nazione di 79 milioni di abitanti con una crescita economica dell’8,9 per cento nel decennio, paragonabile solo a quella asiatica – nel 2010 con un picco del 12 per cento ha superato la Cina.

Non fa nessuna meraviglia che un tale Paese sia arrivato negli ultimi anni a sentirsi stretto nella sua vecchia pelle: «spalla» degli Stati Uniti, eterno aspirante all’Europa, alleato di Israele grazie a una enorme cooperazione delle industrie della difesa, ma anche sempre più attratto dalla sua identità musulmana e civile, dopo anni di dittature militari.

Nell’ultimo anno, e dopo aver ricevuto un nuovo plebiscito elettorale nel 2010, Erdogan ha sciolto questa ambiguità, nella maniera con cui di solito si fa in Medioriente: rompendo ogni legame con Israele.

Dopo l’aiuto alla flotta dei pacifisti per Gaza l’anno scorso, e il ritiro la scorsa settimana dell’ambasciatore turco da Tel Aviv, ieri, al Cairo, con le sue parole, ha deciso di appoggiare, senza se e senza ma, una spericolata mossa diplomatica che i palestinesi stanno preparando.

Il 23 settembre, in occasione dell’assemblea generale, l’Olp chiederà il pieno riconoscimento come membro dell’Onu. Un passo che sarebbe di fatto un voto sulla creazione dello Stato palestinese. La mossa è destinata a creare un’enorme tensione.

L’Olp infatti intende portare la richiesta non in Assemblea (dove avrebbe i due terzi) ma direttamente al Consiglio di sicurezza, dove avrà bisogno di nove voti su quindici per passare. E dove però un solo veto dei cinque membri permanenti del consiglio basta a bocciare la richiesta.

I conti sono presto fatti. Dei cinque membri permanenti, Cina, Inghilterra, Russia, e Stati Uniti, è quasi certo che gli Stati Uniti porranno il veto. I palestinesi sanno di questo orientamento, e hanno intenzione di andare avanti proprio per forzare la mano in un senso o nell’altro al presidente Obama accusato oggi in Medioriente di coltivare un’ambigua politica.

Erdogan, dunque ieri, si è unito a questa politica di sfida, ponendosi lui come paladino dei palestinesi – fatto che ha sottolineato annunciando di star preparando un viaggio a Garza con il leader della Autorità palestinese Mahmoud Abbas, e la sua controparte di Hamas, Ismail Haniya.

La domanda iniziale - dobbiamo temere la Turchia? – sembra dunque molto giustificata.

Ma gli elementi di «irregolarità» che finora hanno fatto di questa nazione una eccezione nel mondo musulmano, formano un quadro molto più articolato di questa apparente radicalizzazione.

La doppia anima occidentale e orientale è difficilmente scindibile. Non sorprende dunque che lo stesso Erdogan che ha riportato la Turchia sulla strada dell’identità religiosa, ieri l’abbia così presentata al Cairo: «Lo Stato turco è uno Stato libero e secolare».

Il successo economico del decennio del resto non sarebbe stato possibile senza questi valori, e senza una autentica partecipazione alla modernità occidentale. Dice qualcosa di questo Paese il fatto che Erdogan appena arrivato al Cairo abbia presentato la sua missione andando in televisione, ospite di un popolare talk politico di una attraente giornalista (non velata), Mona el-Shazly.

Va infine ricordato che i turchi sono musulmani ma non arabi. Cosa che fa una enorme differenza storica e culturale nei rapporti con l’Occidente.

Non è dunque un caso che l’aggancio all’Europa e l’alleanza con gli Stati Uniti non vengano messi in discussione, nemmeno mentre si rompe con Israele. Anzi la Turchia rimane fra i Paesi più «curati» dal Segretario di Stato Clinton perché considerato ancora oggi la vera testa di ponte, il più fidato retroterra di ogni operazione Usa in regione.

E forse la chiave per leggere le ambizioni di Erdogan è proprio questa: continuare a fare da ponte fra Oriente e Occidente, regnare sul Bosforo e la sua storia, ma senza padrinati.

Questo atletico primo ministro, amante di Ray-Ban a specchio, ex sindaco di Istanbul, ha dimostrato fin qui di saper creare cocktail politici di inusuale composizione – mischiando modernità e islamismo, laicismo e autoritarismo, forza e consenso.

Non stupirebbe se riuscisse in futuro a combinare un ulteriore mix esercitando appieno la sua influenza sul mondo arabo, ma rispendendola poi anche nei suoi rapporti con l’Occidente.


I palestinesi senza leader tentati dall'amico turco
di Francesca Paci - La Stampa - 14 Settembre 2011

Per Ramallah le parole del premier peseranno sul votto all'Onu tra dieci giorni

In Italia è apprezzato? Prendo uno sgabello, preferisce tè o caffè?» s’infervora il ferramenta Yussuf abu Waleed mentre la tv alle sue spalle trasmette dal Cairo il discorso del premier turco. Il figlio tredicenne Ali ripete in arabo la frase ormai celebre, musica per le orecchie palestinesi: «Israel tal’ab dawr al sabi al mudallal», Israele fa la parte del bambino viziato. «Lo so dire anche in inglese» afferma il ragazzino torcendo timido i lembi della maglietta «The Godfather», il padrino.

Davanti alla piccola bottega ingombra di bulloni e tubi, quattro braccianti accaldati smantellano i banchi del mercato di Ramallah, lungo la discesa che parte dalla nevralgica piazza Manar dove sono appena spuntati un paio di poster dell’ormai coralmente acclamato eroe mediorientale.

«Erdogan è stato il primo leader regionale ad alzare la voce con Israele e dichiarare che riconoscere il nostro Stato è un dovere» ragiona l’aspirante ingegnere Mustafa controllando la posta elettronica a un tavolo dello Stars and Bucks cafè.

Non simpatizza per Fatah («i corrotti ci hanno rovinato»), ma giura che il 21 settembre risponderà alla sua chiamata e alle 12 sarà in strada per sostenere la richiesta del presidente Abu Mazen all’Onu.

«Le parole del premier turco peseranno sull’appuntamento della settimana prossima alle Nazioni Unite soprattutto perché sono state pronunciate nell’Egitto post-rivoluzione confermando che dalla causa palestinese dipende la stabilità del Medio Oriente: sarà dura ora per Washington ignorarle e continuare a sostenere le primavere arabe» osserva Ghassan Khatib, direttore del Palestinian Government Media Center.

L’aria fibrilla. Sembra atteso a giorni il ritorno degli inviati Usa David Hale e Dennis Ross, mediatori last minute per ricondurre al negoziato i due riottosi contendenti ed evitare lo strappo.

Se Israele balla sul Titanic infatti, l’Anp non gode di ottima salute e molti scorgono dietro l’appello alla comunità internazionale il duplice fallimento delle trattative di pace e della riconciliazione nazionale con Hamas. Anche per questo l’assist di Erdogan è una boccata d’aria.

«Il premier turco ci piace e non mi stupirei che le giovani coppie iniziassero a chiamare i figli Erdogan, ma sotto sotto nessun palestinese pensa che la soluzione sia vicina» ammette il tassista Tawfik.

Dalle colline cisgiordane che incorniciano la strada per Gerusalemme occhieggiano le case squadrate dei coloni ebraici, passati dal 1993 a oggi da 110 mila a 320 mila. Ankara è lontana, riflette dalla sua cattedra in democrazia dell’università Birzeit di Ramallah il professor George Giacman.

E non parla di geografia: «La Turchia colma il vuoto lasciato dagli Stati Uniti. Ma oltre a curare i propri interessi, come dimostra la decisione di non andare a Gaza, ha un margine d’azione limitato: non può sciogliere il nodo per cui serve invece la fine del cieco sostegno Usa a Israele».

Il vento turco che soffia dal Cairo scuote la bandiera palestinese sotto la quale però alla fine la routine scorre pigra. Come gli israeliani credono d’essere destinati a vivere tra i nemici, loro dubitano di qualsiasi alternativa alla precarietà esistenziale.

«Erdogan parla, sì, ma l’Europa tituba. Perché la Germania non ci appoggia all’Onu?» domanda la studentessa di legge Fatima Farsakh dividendo con l’amica velata una fetta di knafeh al Ja’far Sweet, nel quartiere arabo della vecchia Gerusalemme. Anche qui il premier turco è assai popolare.

«Mica tutto quelloche fa Israele può essere applaudito...» mormora il fornaio Nasser ammiccando ai militari israeliani che pattugliano i vicoli dove i commercianti di souvenir hanno aggiunto alle t-shirt con lo smile avvolto nella koefia quella con la schermata di Google e la scritta «Israel... Did you mean Palestine» («Cerchi Israele... Intendevi Palestina»). Da giorni alla storica libreria Educational Bookshop di Salah Eddin fioccano le richieste di volumi in arabo sul premier turco ma, concede il titolare, «è presto, non c’è nulla di tradotto».

E a Gaza? Come sono giunte a Gaza le parole del riscatto palestinese laddove era atteso fisicamente colui che le ha pronunciate? «Abbiamo bisogno di ben altro che di dichiarazioni e visite internazionali» commenta amaro il ventiduenne che si presenta come Abu Ghassam, uno dei protagonisti del manifesto dei giovani di Gaza, quello che a febbraio, chiedendo elezioni democratiche e la riconciliazione nazionale tra Hamas e Fatah, ha cercato di allineare i palestinesi al risveglio arabo. Decine di suoi coetanei hanno sventolato in riva al mare il vessillo turco, lui, dice, non crede più alle favole. Non è l’unico.

Nonostante le immagini tv della folla festante nelle strade di Gaza City, il neolaureato in informatica Nader Mumter guarda a domani: «Quando il tour di Erdogan sarà concluso noi resteremo chiusi dentro come al solito, sto cercando invano una borsa di studio per l’Europa».

Il portavoce di Fatah Osama Qawssmeh ha un bell’invitare i connazionali a supportare il presidente Abu Mazen all’Onu e riprendersi il proprio futuro: l’entusiasmo dei palestinesi è così arrugginito da accendersi per un leader straniero e brillare senza grandi scintille.

«Erdogan è una figura strategica perché è insieme partner della Nato e leader stimato in Medio Oriente ma proprio perché parla con Hamas dovrebbe adoperarsi per la sola cosa che ci aiuterebbe, l’unità nazionale» chiosa Khaled Abu Awwad, direttore del Palestinian Institution for Development and Democracy. La vera domanda è se la parola magica farà davvero magie.