Enduring Freedom per sempre
di Pepe Escobar - Asia Times - 9 Settembre 2011
Invano l’Occidente cerca per sé una forma di agonia degna del suo passato
E. M. Cioran
Enduring Freedom è il modo in cui il governo degli Stati Uniti ha definito la sua risposta ufficiale all’11 settembre. Sarebbe dovuta essere Operazione Giustizia Infinita; ma poi qualche uomo di apparato ha scoperto per caso che era anche un modo per definire Dio.
Dieci anni dopo l’11 settembre, la realtà dei fatti descrive un mondo colpito e stupito per poter tollerare la guerra invece della giustizia, mentre la libertà, che si restringe ogni minuto, è solo un’altra parola per indicare quello che andrà perduto.
Osama bin Laden di solito chiamava l’11 settembre Yaum Niu York ("il giorno di New York"). Sicuramente l’ora decomposto cadavere nel fondo del Mar Arabico non sapeva che avrebbe dato libero sfogo a un inizio di XXI secolo conforme a una terra di devastata, disseminata di un nuovo gergo militarizzato [1].
Ground Zero ha generato una guerra al terrore (GWOT) progettata da George Bush, un guerra priva di senso che affronta una tattica. Un più realistico Pentagono l’ha chiamata la Lunga Guerra. La sicurezza nazionale degli Stati Uniti si è trasformata in Sicurezza Interna.
La “superpotenza minacciata” si è affrettata a produrre una terribile trinciatrice delle libertà civili, il Patriot Act, approvata da Bush nell’ottobre del 2001, e incorniciata in modo permanente nel marzo 2006.
Per Washington, l’11 settembre non ha avuto niente a che fare con il blowback. È avvenuto perché un sistema disfunzionale ha dimostrato mancanza di immaginazione.
Dopo l’evento, la pubblica opinione mondiale non ha mai cessato di essere manipolata da un esercito di message force multipliers (ndt: una pratica per riprodurre sui media in modo sistematico il messaggio desiderato), dagli specialisti della difesa e dagli esperti di intelligence.
E una ridda di Codici Arancio, di elevate preoccupazioni sulla sicurezza e di avvertimenti indefiniti hanno tenute all’erta le masse statunitensi.
Più veloce della velocità del rumore, Humint, Sigint, Imint (intelligence umana, dei segnali e delle immagini), appoggiate da Techint e CI (intelligence tecnica e contro-insurrezionale) si sono fuse in uno sciame di psyop generalmente basate su una pessima humint).
Ma con tutte le ingegnosità tecniche a disposizione, il governo statunitense ha pasticciato con il risultato elusivo della Total Information Awareness (TIA) (ndt: la sorveglianza delle telecomunicazioni contro il terrorismo), un progetto megalomane sulle tracce del Dottor Stranamore, gestito dal DARPA (Defense Advanced Research Projects Agency) del Pentagono.
Dopo la fine dell’Unione Sovietica, un’inconsistente al-Qaeda è stata elevata allo status di spauracchio globale. Faceva riferimento ad al-Qa'eda al-Askariyya ("la base militare"), una struttura oscura la cui esistenza era stata ufficialmente riconosciuta il 23 febbraio del 1998, facente parte di un Fronte Islamico Mondiale per combattere gli ebrei e i cristiani, fondata in una riunione tenuta a Peshawar in Pakistan.
Bin Laden ha sempre caratterizzato al-Qaeda come una rete lasca per l’addestramento di combattenti, per quanto esortasse la cavalleria dell’Islam a dare battaglia.
Bin Laden era essenzialmente un wahhabita fondamentalista che si sentì in dovere di combattere la jahiliyya ("ignoranza"), intesa principalmente nel senso dei fondamentalisti egiziani del Sayyid Qutb (diretta ai regimi arabi infedeli) come quell’ignoranza predominante prima dell’arrivo dell’Islam nel VII secolo.
Invece di essere bombardato all’età della pietra, il Pakistan sotto l’allora presidente Pervez Musharraf (o "Busharraf") si unì al GWOT. Nella sceneggiatura planetaria, gli jihadisti – o islamo-fascisti – venivano universalmente descritti come i cattivi ragazzi, mentre i mujahideen erano quelli bravi, quando ancora venivano esaltati come combattenti per la libertà negli anni ’80 nella jihad anti-sovietica.
In Afghanistan, i Talebani sono stati bombardati in modo imperioso. Bin Laden e Ayman al-Zawahiri sono fuggiti da Tora Bora in un buco nero. E poi il lato oscuro diventò la nuova norma.
Bruciano, i trilioni brucianoL’avventura di Bush in Iraq – descritta al mondo come Curveball, nota anche grazie al fasullo disertore iracheno Rafid Ahmed Alwan – fu la prima guerra nella storia interamente pagata dalle carte di credito.
Dal 2008 Joseph Stiglitz e Linda Bilmes hanno calcolato che dal 2008 le guerre in Afghanistan/Iraq sono costate più di 5 trilioni di dollari e la somma aumenta. Solo la spesa diretta del governo USA era circa 2 trilioni, sempre in ascesa, 17.000 dollari per ogni famiglia statunitense.
Andando al 2002, i veri poteri di stanza a Washington dissezionavano nell’Ufficio dei Progetti Speciali quell’unità che tanto sapeva di URSS per provare che ci fosse un collegamento diretto tra l’Iraq e al-Qaeda. Chiunque altro sarebbe stato fuori dalla linea, anche quelli che avrebbero criticato la guerra dopo la caduta di Baghdad nell’aprile del 2003.
Per i neo-con – che non sapevano assolutamente niente di Iraq – quello che contava era la teoria dell’effetto domino; invadere l’Iraq avrebbe inaugurato un’ondata di democrazia in tutto il mondo arabo. Gli arabi sarebbero finalmente diventati Americani modello.
La junta Bush-Dick Cheney avrebbe potuto mettere da parte la guerra preventiva (giustificata dalla legge internazionale solo quando c’è un pericolo imminente). E questa era la dottrina Bush quando fu annunciata nel gennaio del 2002. Ma dopo Shock and Awe, la muqawama ("resistenza") irachena ha manifestato altre intenzioni.
Gli iracheni sunniti si sono avvicinati alla "resistenza" e non alla "liberazione nazionale", mentre gli americani preferivano l’innocua insurrezione, le cui caratteristiche evitano la realtà della rivolta, della rivoluzione e della guerra civile.
Rapidamente i martiri – quello che gli Occidentali chiamano attentati suicidi, e quelle che vengono definite in arabo come amaliyya intihariyya ("missioni suicide") – diventarono la legge in vigore.
Ogni notiziario era costipato di ordigni esplosivi improvvisati (IED) – poi diventati VBIED, ordigni nei veicoli; ordigni dispersori di radioattività (note anche come bombe sporche) e penetratori esplosivi. Non c’era un porto sicuro per nessuno (quando per tautologia, un porto deve essere sicuro).
La superpotenza ora era guidata dalle regole della bomba a orologeria, per le quali gli Stati Uniti non potevano più permettersi di rispettare le regole. Ancora erano poche le informazioni utilizzabili per subire un processo.
Da qui vengono i piccoli costanti aggiustamenti alle regole di ingaggio; la Marina USA, ad esempio, seguiva shout, show, shove, shoot – dove "shoot" spesso aveva la meglio sugli altre tre.
Correggere le regole ha inevitabilmente portato a un insieme alternativo di procedure; tecniche di interrogatorio controverse, tecniche di interrogatorio rafforzate, tecniche di interrogatorio violente e persino pratiche macabre contro i presunti combattenti nemici (le distinzioni pre-11 settembre tra nemico e combattente fuorilegge era totalmente svanita).
Era imperativo inviare decine di combattenti nemici o di sospetti terroristi di alto profilo alla struttura correzionale di Baghdad – nota anche come Centrale di Tortura di Abu Ghraib, dove i “biscuits” (Behavioral Science Consultation Teams, addestrati alla scuola SERE - Survival, Evasion, Resistance and Escape – di Fort Bragg) avrebbero condotto gli interrogatori.
I “biscuits” furono introdotti nel famoso complesso di detenzione di Guantanamo dal Maggior Generale "dobbiamo guantanamizzare" Miller e poi, con successo, esportata ad Abu Ghraib.
Guantanamizzare comporta il cruento spettacolo di una nudità forzata, l’incappucciamento, gli uomini incatenati in posizioni dolorose, gli attacchi dei cani, walling e waterboarding, un remix dello Spremi e Scarica dell’era vietnamita (spremili per le informazioni e poi scarica i cadaveri).
Gli eccessi, naturalmente, non erano causati dalla linea di George "devi trattare i detenuti come cani" Miller, ma da qualche mela marcia. E al diavolo quelle pittoresche convenzioni di Ginevra.
Il mondo venne anche a conoscenza delle “consegne straordinarie”, noto anche come sequestri e deportazioni di stato grazie allo stormo di aerei fantasma della Central Intelligence Agency (CIA). La pratica della tortura per commissione era contrattata dalle agenzie di intelligence di Egitto, Giordania, Siria, Libia, Marocco, Arabia Saudita, Pakistan e del rozzo alleato Uzbekistan, più adatto a bollire parti del corpo e dare electroshock ai genitali.
Blackwater – più tardi rinominata Xe – è diventata il Santo Graal del complesso mercenario-evangelico, facendo stragi in Iraq, così come lo sono diventate orde di contractors per la difesa e la sicurezza privata, noti anche come mercenari.
Gli apologhi delle torture dell’agosto 2002 hanno plaudito con impeto i soldati americani che si erano accodati alle folle degli aguzzini, mentre sorridevano del meglio delle loro violenze. Per Dick "il pescatore" Cheney, lo waterboarding era solo una "stupidaggine", un "bagno nell’acqua ".
Ma poi l’Iraq divenne un pantano. La junta Bush-Cheney scelse di schivare una Babele per le indagini sulla guerra e un inferno categorico in Iraq, ordinando uno slancio delle attività, mentre stava costruendo la Fortezza Baghdad, nota anche come Ambasciata USA, la più grande al mondo.
E poi la guerra in Afghanistan, come una scheggia, era uscita dal coma prolungato con un senso di vendetta e si è trasformata in una guerra americano-europea contro i Pashtun, guerrieri di prima categoria che avevano sconfitto ogni impero nei loro paraggi. La ricetta per una "vittoria" occidentale era ancora un’altra escalation.
Prendere o lasciare
La Lunga Guerra del Pentagono non poteva farlo; ci hanno pensato i popoli del Nord Africa. La Primavera Araba ha sconfitto l’11 settembre e ha sconfitto al-Qaeda. Ha persino sconfitto Osama bin Laden prima del raid di Abbottabad (essenzialmente un assassinio mirato realizzato da un commando dopo l’invasione dello spazio aereo di una nazione sovrana).
Ma proprio quando la Primavera Araba sembrava aver sconfitto la fallacia della Santa Triade – islamofobia, lo scontro di civiltà e la fine della storia.
Tutto diventò cinetico, con l’Operazione Odissea all’Alba. Washington, Londra e Parigi decisero di sbarazzarsi della legge internazionale in essere sin dal Trattato di Westfalia del 1648. L’R2P – la "responsabilità di proteggere" i civili – ha avuto il suo battesimo balistico, la perfetta copertura umanitaria per la difesa degli interessi economici e strategici dell’Atlantismo. Con il beneficio supplementare per il vincitore del Premio Nobel per la Pace e sviluppatore di guerre molteplici Barack Obama che ha presidiato la metamorfosi della NATO in Robocop globale, con o senza il semaforo verde dell’ONU. L’Occidente aveva trovato la novità; una milizia globale.
L’Iraq – bypassando le Nazioni Unite – era solo un cambio di regime. La Libia – con la benedizione dell’ONU – era anch’essa un cambio di regime, anche se Obama ha giurato di no.
Dieci anni dopo l’11 settembre, la Lunga Guerra si è trasformata in un conflitto di quarta generazione, teoricamente una "nuova" guerra asimmetrica oltre alla contro-insurrezione. Benvenuta la CIA come milizia paramilitare. Benvenuti nel Dronistan, con i Predator General Atomics MQ-1 che individuano i militanti e indulgono in bizzarri danni collaterali, come lo sterminare i matrimoni tra Pashtun.
E benvenuto al Joint Special Operations Command (JSOC), sviluppato dall’ex eroe della rimonta in Iraq e attuale direttore della CIA, generale David Petraeus, come "una macchina omicida anti-terroristica su scala industriale", definita così dal lacché di Petraeus, John Nagl.
Il JSOC è quello che nell’America Latina degli anni ’70 era noto come uno squadrone della morte, ma ora è sotto l’egida diretta del Pentagono; i maestri della kill/capture, che si basano su premesse a malapena legali o sfacciatamente extra-legali, che seguono una lista per gli assassini mirati che comprende anche cittadini statunitensi.
Ma il cerchio verrà rotto? Certo che no; la Via per la Guerra di Obama, che ora praticamente comporta zero vittime, come in Libia, ha gli stessi obbiettivi di Bush.
Il Pentagono lascerà l’Afghanistan e l’Iraq lasciando un’entità collettiva defunta. Il Pentagono installerà una base dell’Africom base in Libia. In un profluvio di fatti noti ma ignoti e fatti totalmente ignoti (ndt: è un allusione a un discorso di Rumsfeld), queste sono le vere doglie di un nuovo Medio Oriente. Quello che davvero conta è l’ossessione del Pentagono nel controllare l’intero arco dell’instabilità.
Ricordate l’ardente retorica neo-con di Washington dei primi discorsi del 2002 sull’asse del male e sull’invasione nel marzo 2003 dell’Iraq; i veri uomini ora vanno a Teheran. Il Re Playstation di Giordania e l’arci-contro-rivoluzionario Re di Arabia Saudita continueranno a suonare l’arpa per la minaccia esistenziale della mezzaluna sciita.
I “cuori e le menti” (ndt: allusione i soldati USA in Vietnam) furiosi e/o demoralizzati in tutto l’arco della instabilità rimarranno alienati. Tutte le varianti di blowback avranno la meglio. Ad esempio, bisogna già cronometrare quanto tempo ci vorrà alla Libia per venire stuprata dalle potenze della NATO. Blowback? Diamogli forza (ndt: allusione a un discorso di Bush), la CIA e il Pentagono se ne vanteranno. Sarà una passeggiata.
E quale rozza bestia, giunto infine il suo tempo, striscia verso... (ndt: allusione al Secondo Avvento di Yeats) Kabul? Baghdad? Tripoli? Riad? …per essere partorita? Non c’è una fine in vista; questo è il vero significato della Missione Compiuta. Dieci anni dopo l’11 settembre, la via per la guerra è una missione che prosegue all’infinito.
Note:
1. Giù il cappello al grande Fred Halliday del Barcelona Institute for International Studies, redattore di Shock and Awed: un dizionario della guerra al terrore (University of California Press, 2010).
La ritualità dell'11 Settembre
di Massimo Fini - Il Fatto Quotidiano - 10 Settembre 2011
Sulla retorica del 'siamo tutti americani' che avvolse (e ancora avvolge), l'intero Occidente dopo gli attentati dell'11 settembre 200I il filosofo francese Jean Baudrillard scrisse, con crudezza, con lucidità e con coraggio (e ce ne voleva moltissimo in quel momento) "che l'abbiamo sognato quell'evento, che tutti senza eccezioni l'abbiamo sognato - perchè nessuno può non sognare la distruzione di una potenza, una qualsiasi, che sia diventata tanto egemone - è cosa inaccettabile per la coscienza morale dell'Occidente, eppure è stato fatto, un fatto che si misura appunto attraverso la violenza patetica di tutti i discorsi che vorrebbero cancellarlo" ( J. Baudrillard, Lo spirito del terrorismo, 2002).
Per tutta la vita ho sognato che bombardassero New York e non posso essere così disonesto con me stesso e con i lettori da negarlo ora che il fatto è avvenuto.
Eppure ho provato anch'io un instintivo orrore per quella carneficina, per quello sventolar di fazzoletti bianchi, per quegli uomini e quelle donne che si buttavano dal centesimo piano. E allora?
L'America è una Potenza che da più di mezzo secolo colpisce, con tranquillità e spietata coscienza, nei territori altrui, che negli ultimi mesi della seconda guerra mondiale ha bombardato a tappeto Lipsia, Dresda, Berlino premeditando di uccidere milioni di civili perchè, come dissero esplicitamente i comandi politici e militari statunitensi dell'epoca, bisognava "fiaccare la resistenza del popolo tedesco", che ha sganciato un terrificante, e probabilmente inutile, Bomba su Hiroshima e Nagasaki e che nel dopo guerra ha fatto centinaia di migliaia di vittime innocenti in ogni angolo del pianeta ( lo scrittore, americano, Gore Vidal ha contato 250 attacchi militari che gli Stati Uniti hanno sferrato senza essere provocati).
L'11 settembre invece gli americani, per la prima volta nella loro storia, venivano colpiti sul proprio territorio. Pensavo che questa tragedia avrebbe insegnato loro qualcosa: l'orrore di vedere le proprie case cadere come castelli di carta, seppellendo uomini, donne, vecchi, bambini, famiglie, affetti. Che gli avrebbe insegnato l'orrore dell'orrore ora che lo avevano vissuto sulla propria pelle.
Che gli avrebbe insegnato che anche le vite degli altri hanno un valore, poichè tengono tanto alle proprie. Invece hanno continuato imperterriti. Come prima, peggio di prima. Loro hanno sempre la coscienza tranquilla, le tragedie degli altri non li riguardano, al massimo sono 'effetti collaterali'.
Hanno cominciato con l'Afghanistan. Poteva esserci una ragione perchè da quelle parti stava Bin Laden, anche se nessuna inchiesta seria Ë mai stata fatta per dimostrare che dietro gli attentati alle Twin Tower o quelli del 1998 in Kenya e Tanzania ci fosse effettivamente il Califfo saudita (sarà il motivo per cui il Mullah Omar ne rifiuterà l'estradizione non accettando l'arrogante risposta Usa "Le prove le abbiamo date ai nostri alleati").
Ma dopo dieci anni di occupazione rimangono sul terreno 60 mila vittime civili la maggior parte delle quali provocate dai bombardamenti a casaccio sui villaggi e persino sui matrimoni. A stretto giro di posta Ë venuta l'aggressione all'Iraq: 650 mila vittime civili.
Giuliano Ferrara sul Foglio (6/9) proprio mentre dichiarava di detestare l'iperbole ha definito l'11 settembre "l'attentato più grande e infame della storia".
E' solo una delle tante tragedie della storia recente, forse quella che ci ha colpito di più ma non certo la più infame. E io mi rifiuto di piangere ogni anno, ritualmente e a comando, lacrime di coccodrillo per tremila vittime. Rituali che tentano di far entrare nel buio sgabuzzino del dimenticatoio tutte le altre. Che sono milioni.
Propaganda e nebbie
di Pino Cabras - Megachip - 10 Settembre 2011
Non avevo dubbi che la guerra di Libia edizione 2011 ci avrebbe introdotto a un salto di qualità.
Assistevo alle cose vecchie della guerra presentate in un modo più intenso e nuovo. Tutti gli incubi dei romanzi di Orwell hanno occupato i media con assoluta e inedita sfacciataggine, senza i freni di un tempo.
Da subito era una guerra della percezione che avrebbe cambiato in profondità un mondo già fiaccato da un lavoro ai fianchi durato decenni, guerra dopo guerra, media dopo media.
Questo sistema implacabile lo percepivo da anni.
IL RESTO È PROPAGANDA
È con questa ispirazione che quando nel 2008 aprii un blog volli ricopiare e tradurre nella homepage - oltre a una citazione di Orwell - anche una frase di un giornalista argentino allora poco noto in Italia, Horacio Verbitsky, un pilastro nella memoria dei desaparecidos: «Periodismo es difundir aquello que alguien no quiere que se sepa, el resto es propaganda.» Ossia: «Giornalismo è diffondere quel che qualcuno non vuole che si sappia, il resto è propaganda.»
Ed è per questo che per tutto agosto 2011 - mentre in Libia infuriavano i bombardamenti e le battaglie - sulla homepage di Megachip abbiamo dato un posto d’onore a un’intervista all’inviato di guerra Amedeo Ricucci già pubblicata a marzo, un racconto di prima mano sulla micidiale manipolazione con cui veniva costruito il consenso alla guerra, con intere redazioni ormai embedded nel flusso dell’informazione pianificato dai militari, con i direttori dei giornali che falsificavano imperiosamente perfino le carte geografiche.
Immagino sia stato lo stesso spirito a spingere proprio Ricucci il 24 agosto 2011 ad aprire un blog e a mettere anche lui la stessa versione italiana della frase di Verbitsky. Quella frase che piaceva a me piace ormai a molti, e sono contento. Vedo che si sta diffondendo come un virus. La rete è così.
NEBBIA DI GUERRA A TRIPOLI
Perciò mi ha molto sorpreso scoprire che uno dei primi post del neonato blog di Amedeo Ricucci se l’è presa di brutto con noi, definiti «i boys di Megachip».
La colpa? Essere parte, «mano nella mano», di «una strana compagnia di giro» che avrebbe stupidamente pensato di combattere la propaganda dei ribelli libici – che ha generato una «errata (e interessata) percezione degli avvenimenti in corso» all’origine dell’intervento Nato – con una propaganda speculare e perdente, interamente guidata da Gheddafi.
A parte la considerazione semi-assolutoria (e piuttosto riduttiva, diciamolo) nei confronti della Nato, che avrebbe scatenato navi, elicotteri, truppe speciali e missili da crociera solo perché si è fatta fregare dagli scalcagnati uffici stampa degli scalzacani di Bengasi, Ricucci sintetizza così la questione: «Addirittura si è messo in dubbio la conquista di Tripoli da parte dei ribelli, si è parlato di set cinematografici allestiti da Al Jazeera in Qatar, si è scritto e veicolato un mare di sciocchezze, a dispetto di tutte le testimonianze di tutti i giornalisti che erano sul posto, al solo scopo di dare una mano al regime di Gheddafi e ai suoi ultimi, disperati tentativi di restare in sella.»
Altolà! La conquista di Tripoli da noi messa in dubbio non è stata quella effettiva e militare poi realizzata sotto l’ombrello Nato, bensì quella virtuale che “anticipava” e “accompagnava” gli avvenimenti nell’ambito di una strategia interamente militarizzata di disarticolazione del Nemico, pura psywar in cui di giornalismo non rimaneva più nulla.
Ricordiamolo, com’era in TV, in rete e nei giornali, quel 21 agosto tripolino. Ricucci era sul campo con giubbotto antiproiettile e casco - e la cosa la rispetto assai – ma non poteva avere la visione che invece arrivava nelle case occidentali.
Quel giorno si raccontava che gli insorti “liberavano” Tripoli senza incontrare alcuna resistenza, che l’aeroporto era già conquistato, che decine di migliaia di persone, a dispetto delle sparatorie feroci ancora in corso, gremivano le piazze della capitale per sbandierare i nuovi vessilli che avevano in caldo da tempo (perché il cliché di ogni menzogna di guerra di matrice atlantica ha bisogno del tripudio in cui la massa festeggia la liberazione).
E poi che si diceva? Che il Colonnello era già da Chavez, che il suo Delfino Seif Al Islam e due suoi fratelli erano già ammanettati dagli eroici ribelli, che Khamis, un altro figlio, quello militarmente più autorevole, era morto in un raid, dopo essere stato solennemente dichiarato morto altre quattro volte dalla coalizione di Bengasi o dalla Nato.
Chi smentiva queste notizie false come una banconota da 29 dollari? Certo, le smentiva la propaganda gheddafiana. La quale sovrastimava anche la portata della sua resistenza? Certo, avveniva anche questo.
Ma quando quella propaganda diceva che l’aeroporto non era ancora nelle mani dei ribelli, e lo dimostrava, quello era un fatto, e quella era una fonte interessante. In quel caso meno inquinata di certi telegiornali Rai o del sito di Repubblica che aveva in homepage titoloni su Gheddafi che “ordina di sparare ai bambini” (abbiamo assistito anche a queste orride manipolazioni, non dimentichiamolo mai!).
Perché non ci siamo limitati a pubblicare Ricucci e il blogger Mazzetta, come abbiamo fatto in più occasioni? Perché abbiamo invece tradotto anche Meyssan, che per loro è l’Antigiornalismo?
Il perché li scandalizzerà, ma è molto semplice. In questi ultimi anni, gli organi di informazione dei paesi non inseriti nel flusso informativo a egemonia anglosassone, pur partecipando in modo non neutrale al gioco della comunicazione, sono stati in più occasioni fonti di gran lunga migliori della triviale propaganda che colava dall’altra parte, per una serie di circostanze storiche in cui potremmo inserire anche la guerra di Libia.
Prima di ridursi a essere il MinCulPop delle petro-monarchie guerriere, Aljazeera aveva svolto un ruolo di questo tipo, aprendo grandi e nuovi spazi informativi.
Un esempio abbastanza recente? Si pensi a cosa fu la guerra in Ossetia del Sud nell’agosto 2008. Russia Today fornì un’informazione ovviamente filorussa, ancora giudicabile però con normali distinguo e un cauto discernimento.
La grande corrente dei media occidentali su quella vicenda invece produsse puro liquame. Interloquire con Russia Today, riprendere certi suoi servizi, consentiva una percezione più vicina alla realtà degli avvenimenti.
Perché rinunciarvi? Per paura di essere inglobati in una “compagnia di giro” e così rinunciare a sapere che le immagini della città di Gori bombardata dai russi trasmesse urbi et orbi dalle TV di tutto il mondo erano in realtà immagini di Tzkhinvali martoriata dai georgiani? Il 99 per cento del pubblico occidentale non ha potuto saperlo.
Il 21 agosto 2011 – il giorno della massima pressione su Tripoli - sarà una data da ricordare negli annali dell’informazione. Per chi voleva trovare una notizia attendibile sulla Libia quel giorno era una disperazione. Quella notte scrissi un articolo angosciato, non a caso intitolato “Nebbia di guerra”.
Lo avevo scritto al termine di una giornata in cui la stragrande maggioranza delle notizie mainstream si è rivelata poco dopo totalmente falsa. Una giornata in cui le foto e i video erano tutti molto glamour (stile “la guerra è bella anche se fa male”) ed erano veicolati senza filtri dalle redazioni.
Essendo immagini passate per la monocorde propaganda dell’odierna Aljazeera erano tranquillamente da catalogare ipso facto come Made in Qatar. Le immagini della Piazza Verde gremita di bandiere erano in parte vere e in parte una montatura.
Non quella montatura presunta che pure si è insistentemente affacciata sulla rete, che ci insospettiva e che abbiamo potuto subito sfatare, bensì una montatura più sofisticata, che mescolava immagini di Tripoli con immagini riprese altrove. Non siamo così rozzi da immolarci al tranello della propaganda. Distinguiamo in mezzo alla nebbia, come possiamo.
Nel mio articolo facevo appello alla rete per radunare le competenze di decodifica delle immagini. A qualcuno non sembrava giornalismo. Può darsi, ma era uno sforzo onesto di comprensione dei fatti, che ha portato frutti, e avveniva nel giorno in cui diffidavamo di ogni notizia. Rivendico la sensatezza di quell’atteggiamento, visti i fatti.
GLI SPETTRI ROSSOBRUNI DI MAZZETTA
Ricucci, per sostenere che ci siamo fatti fregare dalla propaganda beduina, cita con entusiasmo un articolo, per il quale manifesta analogo entusiasmo Gennaro Carotenuto, in un suo pezzo che – tra le altre amenità - afferma una «marginalità dell’impegno NATO» in Libia.
Si tratta di un articolo di Mazzetta, intitolato “Quei Rossobruni che difendono Gheddafi”, una tirata astiosissima contro chi si oppone alla guerra in Libia, riassumibile in un azzardato accostamento fra gruppi nazistoidi e la galassia dei siti che fanno informazione non conformista.
L’articolo di Mazzetta richiamato da Ricucci fa cioè un’operazione spettacolare con salto mortale: per stigmatizzare quelli che vogliono «inquadrare nel loro elementare schema ideologico tutti gli eventi» arriva a inquadrare posizioni politiche diversissime in uno schema ideologico ultra-elementare, i mitici Rossobruni: essendo una categoria politicamente falsa, storicamente infondata e giornalisticamente puerile potete scommettere che avrà un certo successo. La moneta cattiva scaccia quella buona. Dispiace che ci sia cascato Ricucci.
Fa ridere che ci sia cascato Carotenuto, che critica le «convergenze oggettive sull’interpretazione di una realtà per loro troppo complessa»: meglio per lui postulare l’esistenza dei Rossobruni, così la complessità è a posto. Tra l’altro non ho mai capito un mistero di Carotenuto: scrive dei meccanismi dell’imperialismo, critica gli attacchi alla sovranità, ma li applica solo all’America Latina. È come se un tifoso di Maradona avesse un archivio dei soli suoi goal segnati di destro, e trascurasse gli altri. Gennà, è una battuta. Ma non troppo.
Nel minestrone temerariamente rimescolato da Mazzetta, alla fine, quel che gli rode trovare è che ci sia gente che non crede alle versioni ufficiali sui fatti dell’11 settembre 2001. Per lui, farsi quel genere di domanda è già far parte del «circo rossobruno», e più non dimandare.
Amedeo Ricucci dovrà a questo punto telefonare a colui che chiama «il mio direttore, Giovanni Minoli», per dirgli che è un rossobruno (in ossequio all’amore per la complessità di Mazzetta).
È infatti lo stesso Minoli che recentemente ha condotto una puntata di La storia siamo noi dedicata alle questioni tabù dell’11/9, facendo quello che al dunque fa un vero giornalista: ispirarsi a Verbitsky, anziché a Mazzetta.
Il quale, quando parla di rossobruni dice minchiate, quando parla di sovranità dice perfino di peggio, ma che continuerò a consigliare di leggere, quando scrive cose sensate, ancorché non particolarmente originali, come il suo ultimo pezzo sulla Cina. Così come consiglierò di leggere ancora proprio il suo incubo Meyssan, che va preso, come tutti, con senso critico, ma che non è il cacciapalle che dice lui.
UN DIBATTITO SUL BLOG. I COMMENTI DI GIULIETTO CHIESA E ALTRI.
Ed è interessante il vivace dibattito che si è sviluppato all’interno del post di Ricucci, con molti commenti. Troppo lungo per essere riportato qui, ma meritevole di una lettura approfondita. Riporto qui solo alcuni interventi, che ci riguardano da vicino.
Ad esempio il commento di Giulietto Chiesa:
«Noto con curiosità che Ricucci mi nomina per ben due volte, la seconda mettendomi a fianco dei nazi-comunisti. E, poichè ha citato, elogiandolo, il ludibrioso pezzullo del Mazzetta, indirettamente tre volte.
Vedo dai commenti ai suo pezzo che la sua tirata non ha convinto tutti i suoi lettori. Molto bene. Non ha convinto neppure me. Sarei stato più contento che lui avesse citato qualche cosa di nazi-comunista da me scritta a proposito della Libia. Pazienza, mi accontenterò del suo sdegno di giornalista integerrimo. Eppure io farei i conti con il rapporto di forze.
Certo tutti quelli che hanno cercato di raccontare la guerra di Libia con un minimo di decenza avranno pure fatto degli errori, forse. E magari avevano qualche contratto da onorare. Ma erano pochini. Prendersela con i pochini è impresa non molto onorevole, se non si dice (forte, senza ambiguità e senza doppiopesismi) che il mainstream ha fatto strame di ogni verità.
Anche l’esimio Ricucci ci racconta la favoletta dei ribelli che hanno conquistato Tripoli. Ma noi abbiamo non una bensì decine di fonti che ci parlano di commandos sbarcati dalle navi della NATO.
E trascurare la copertura aerea della più potente coalizione militare del pianeta non sembra comunque fare grande onore all’acume e alla lucidità dell’integerrimo Ricucci.»
La risposta di Amedeo Ricucci:
«Caro Giulietto, non ho mai negato che l’aiuto della Nato sia stato determinante, anche attraverso le special forces francesi e inglesi, nella conquista di Tripoli (e non solo). Allo stesso modo ho denunciato , fin da subito, le bugie degli insorti di Bengasi e dei loro alleati. grazie alle quali si è arrivati a questa sporca guerra. Quello che non sopporto è che la propaganda veicolata dal regime di Gheddafi – e non la verità dei fatti – diventi lo strumento per opporsi all’informazione mainstream.
Così come non credo che l’ideologia – né tanto meno la dietrologia – possano rappresentare una chiave di lettura per decifrare questa guerra e i meccanismi complicati che la muovono. Solo questo ti imputo.
Né ti ho mai accomunato ai nazi-comunisti, delle cui farneticazioni non mi curo. Dico però che si è creata una strana compagnia di giro, che mescola i fatti alle opinioni, crede alle favole , e punta a fare politica (o business) e non informazione.. Io faccio il mio lavoro senza avere la verità in tasca, parlo solo di quello che vedo, e mi sforzo di coltivare costantemente il dubbio. Mi piacerebbe che ci fossero meno certezze in giro e maggiore onestà intellettuale.»
Commenti di Simone Santini:
«Egregio dott. Ricucci, sono fieramente uno dei “boys” di Giulietto Chiesa (boy cresciutello, aimé) in quanto collaboro spesso con la testata Megachip con articoli sulle tematiche internazionali, e, quindi, mi sono sentito chiamato in causa dal suo blog.
Sulla Libia Megachip ha pubblicato un solo mio intervento, tra l’altro recente, dal titolo “Si scrive Tripoli, si legge Beirut?”, sul caso del nuovo comandante militare di Tripoli, l’ex (ex?) jihadista Belhaj. Più che giornalista io mi definirei un analista di fonti comunicative.
Per il mio pezzo ho usato come fonti (ovviamente citandoli) due inviati: Candito (La Stampa) e Valli (La Repubblica). Nel mio pezzo non c’erano notizie che non derivassero dai loro articoli. Ovviamente c’erano anche alcune mie interpretazioni dei fatti.
Ora, quel che più mi ferisce, nel suo blog, è l’accusa che fa (anche) a Megachip di rispondere alla “propaganda” con altra “propaganda”, uguale e contraria. Personalmente risponderò per quel poco che mi compete, dato che Chiesa e Cabras (il direttore editoriale del sito) si sanno “difendere” molto meglio di quanto potrei fare io.
Ebbene, non credo che lei abbia letto il mio articolo, ma la sfido a trovare e a dimostrarmi un qualunque accenno di propaganda filo-gheddafiana nello stesso. Altrove si è fatta propaganda filo-gheddafiana su Megachip? Magari sì, ad esempio quando hanno postato un suo video, dottor Ricucci, in cui lei parlava della disinformazione di guerra.
Anche in quel caso lei è stato una quinta colonna del Raìs libico nel sistema informativo occidentale… o sbaglio? Perché credo che il punto sia questo: i milioni di ascoltatori del Tg1 in questi mesi si sono formati l’opinione che in Libia c’è stata una rivolta di popolo contro un tiranno; chi, come me, con altre migliaia di persone, ha letto Megachip, si è fatto l’idea che in Libia si sia avuto un nucleo di ribellione su cui si è costruito:
1) un colpo di stato progettato all’estero;
2) una politica delle cannoniere di Francia e GB antitaliana;
3) una manovra militare per interrompere un canale di penetrazione della Cina nel Mediterraneo;
4) la presenza di milizie fondamentaliste islamiche tra i ribelli;
5) i ribelli, senza la copertura Nato, sarebbero stati spazzati via;
6) truppe speciali hanno conquistato Tripoli con un putsch e con la copertura aerea della Nato, i ribelli hanno semmai fiancheggiato l’operazione ;
7) il dopo-guerra presenterà problemi gravissimi, con scenari plausibili di libanizzazione, irachizzazione, somalizzazione… ecc. ;
8) le modalità dell’intervento Nato contengono fortissimi aspetti di illegalità rispetto al mandato Onu. Siamo di fronte a crimini di guerra?
Tutto ciò per dire: chi si è formato un’opinione sul Tg1 è stato vittima di propaganda? Qualunque sia la risposta, ritengo che chi si è formato un’opinione (anche) su Megachip, si è immerso nella complessità cercando un bandolo per la comprensione di problemi enormi. La vogliamo chiamare contro-propaganda?».
«Voi accusate Megachip di far parte di una “compagnia di giro” e di aver dato spazio a chi raccontava, essendo sul posto tanto quanto voi inviati, cose diverse rispetto al flusso magmatico, ma sostanzialmente uniforme e spudoratamente menzognero, del mainstream. E non l’abbiamo fatto in maniera acritica perché ogni volta che c’era la possibilità di svolgere una verifica, l’abbiamo fatto. Ci siamo scelti una “compagnia di giro” sbagliata? Dovevamo forse affidarci alla “compagnia di giro” degli inviati del mainstream?
Quanto siete riusciti ad influire, Ricucci e Tinazzi (un inviato di guerra che è intervenuto nei dibattiti del blog, ndr), rispetto all’onda di manipolazione e disinformazione che sommergeva gli italiani sulla Libia? Perché lo spettatore-tipo la vostra voce non l’ha percepita per nulla? Potevate starvene anche a casa, non cambiava nulla e rischiavate certamente di meno. Anche la vostra “compagnia di giro” non era la migliore che si potesse trovare in circolazione…
Allora, io penso che ognuno di noi cerchi di fare onestamente qualcosa di utile per gli altri. Ognuno coi mezzi che ha, con la propria vita, con le proprie idee. Cercando di portare a casa un brandello di verità da offrire agli altri. Talvolta ci si riesce e talvolta no... »
Nel dibattito è intervenuto anche Mazzetta, che ancora una volta ha tenuto a ribadire che i nostri articoli gli fanno ribrezzo. E sia. In particolare non gli piace uno mio, “Nebbia di guerra”, che – lo ricordo – iniziava così: «Siamo in piena nebbia di guerra. Circolano immagini di Gheddafi morto, che sono evidenti falsi, ma molti siti dei giornali le presentano lo stesso con il dubbio, e intanto colpiscono l'immaginario collettivo e lo predispongono al parossismo della battaglia finale.»
Mazzetta scrive:
«Bene, Megachip è in grado di citare i “molti” giornali che hanno presentato quella foto con il dubbio? Secondo me no.»
Secondo me invece sì.
Eccolo accontentato:
Se sono stato capace io di “scoprire” queste testate usando un motore di ricerca, perché Mazzetta non ci è riuscito? Ci ha provato almeno? (citazione).
TOTUS JURNALISTICUS E MILITANZA INFORMATIVA
Riassumendo la questione. Non ha senso parlare di “compagnie di giro” e di “oggettive convergenze” sotto categorie fuorvianti, quando ci si trova a ragionare degli effetti della propaganda di guerra. Chi voglia leggere il post sul blog di Ricucci e i tanti commenti, specie quelli del reporter di guerra Cristiano Tinazzi, può cogliere un loro peccato d’orgoglio che deriva dal loro modo d’intendere la professione.
Si tratta di rispettabili inviati che nel loro curriculum vantano premi intitolati a giornalisti trucidati in guerra. Il che significa che anche in ciò che dà loro lustro si posa l’ombra dei gravi rischi che corrono, ai quali rimediano rafforzando il loro baricentro professionale.
Come esiste la tipologia umana del “totus politicus”, esisterà il “totus jurnalisticus”, chiamiamolo così. Se esiste me lo immagino come loro, che coltivano la loro oasi di integrità professionale ma che come tutti sono ugualmente sommersi dall’immenso sciame delle notizie veicolate dal mainstream: non è un complotto, ma un modo di funzionare del sistema.
Siccome l’autoregolazione del mainstream rende innocui e perfino ottusi i supergiornalisti, e siccome un Ricucci non fa primavera, crescono i luoghi di informazione indipendente, disordinata, meno accorta su certi punti, ma molto più acuta su altri.
La novità c’è e il giornalismo tradizionale stenta ad afferrarla, o finge, auspicando che la nottata passi e si possa tornare a quel che c’era. Non comprende la forza del media-attivismo.
Ora per ora si intacca la presunta «autorevolezza» delle gazzette e dei media «prestigiosi».
I vecchi giornali non sono più ormai riconosciuti come autorevoli ma come “ufficiosi”. Consentono quel poco di libertà che però dovrà starsene nel recinto di una critica tollerata. Con spazi sempre più stretti. Il 21 agosto 2011 non c’erano nemmeno quelli.
Occorre vedere più profondamente la tendenza in corso. Le guerre del 2008 e del 2009 (Ossetia e Gaza) a causa della totale divaricazione del mainstream informativo dalla verità hanno spinto via nugoli di lettori scoraggiati che si separavano dai giornali bugiardi – e che tuttavia facevano ancora massa critica – fino a dissiparli in una galassia dispersissima di fonti alternative, le quali erano in pieno boom ma incapaci di aggregare un robusto senso comune, un’opinione pubblica di peso che fosse in grado di incidere più di tanto.
Però cresce un esercito di centinaia di migliaia di lettori che si informa meglio dei direttori, e lo fa prima di loro, e ha già coperto di ridicolo le notizie false poi spacciate per vere.
In un contesto come questo, gli attivisti mediatici rendono un grande servizio. Nel citarli abbiamo imparato che le loro visioni, i loro pregiudizi o, all’opposto, la loro spregiudicatezza, li hanno disposti a dissotterrare notizie dove altri non vogliono, non possono o non sanno scavare.
Troviamo, grazie a loro, le notizie e i riscontri che solo una ricerca libera e critica può fornire. E anche Carotenuto, prima di abbracciare a casa sua – che pure si chiama Giornalismo Partecipativo – l’ inservibile spettro rossobruno, farebbe bene a ricordarselo.
Il lungo purgatorio che ci attende
di Franco Berardi "Bifo" - Facebook - 10 Settembre 2011
“L’operaio tedesco non vuol pagare il conto del pescatore greco.” dicono i pasdaran dell’integralismo economicista. Mettendo lavoratori contro lavoratori la classe dirigente finanziaria ha portato l’Europa sull’orlo della guerra civile.
Le dimissioni di Stark segnano un punto di svolta: un alto funzionario dello stato tedesco alimenta l’idea (falsa) che i laboriosi nordici stiano sostenendo i pigri mediterranei, mentre la verità è che le banche hanno favorito l’indebitamento per sostenere le esportazioni tedesche.
Per spostare risorse e reddito dalla società verso le casse del grande capitale, gli ideologi neoliberisti hanno ripetuto un milione di volte una serie di panzane, che grazie al bombardamento mediatico e alla subalternità culturale della sinistra sono diventati luoghi comuni, ovvietà indiscutibili, anche se sono pure e semplici contraffazioni.
Elenchiamo alcune di queste manipolazioni che sono l’alfa e l’omega dell’ideologia che ha portato il mondo e l’Europa alla catastrofe:
Prima manipolazione:
riducendo le tasse ai possessori di grandi capitali si favorisce l’occupazione. Perché? Non l’ha mai capito nessuno. I possessori di grandi capitali non investono quando lo stato si astiene dall’intaccare i loro patrimoni, ma solo quando pensano di poter far fruttare i loro soldi.
Perciò lo stato dovrebbe tassare progressivamente i ricchi per poter investire risorse e creare occupazione. La curva di Laffer che sta alla base della Reaganomics è una patacca trasformata in fondamento indiscutibile dell’azione legislativa della destra come della sinistra negli ultimi tre decenni.
Seconda manipolazione:
prolungando il tempo di lavoro degli anziani, posponendo l’età della pensione si favorisce l’occupazione giovanile. Si tratta di un’affermazione evidentemente assurda. Se un lavoratore va in pensione si libera un posto che può essere occupato da un giovane, no?
E se invece l’anziano lavoratore è costretto a lavorare cinque sei sette anni di più di quello che era scritto nel suo contratto di assunzione, i giovani non potranno avere i posti di lavoro che restano occupati. Non è evidente?
Eppure le politiche della destra come della sinistra da tre decenni a questa parte sono fondate sul misterioso principio che bisogna far lavorare di più gli anziani per favorire l’occupazione giovanile.
Risultato effettivo: i detentori di capitale, che dovrebbero pagare una pensione al vecchietto e un salario al giovane assunto, pagano invece solo un salario allo stanco non pensionato, e ricattano il giovane disoccupato costringendolo ad accettare ogni condizione di precariato.
Terza manipolazione:
Occorre privatizzare la scuola e i servizi sociali per migliorarne la qualità grazie alla concorrenza. L’esperienza trentennale mostra che la privatizzazione comporta un peggioramento della qualità perché lo scopo del servizio non è più soddisfare un bisogno pubblico ma aumentare il profitto privato.
E quando le cose cominciano a funzionare male, come spesso accade, allora le perdite si socializzano perché non si può rinunciare a quel servizio, mentre i profitti continuano a essere privati.
Quarta manipolazione:
I salari sono troppo alti, abbiamo vissuto al disopra dei nostri mezzi dobbiamo stringere la cinghia per essere competitivi. Negli ultimi decenni il valore reale dei salari si è ridotto drasticamente, mentre i profitti si sono dovunque ingigantiti.
Riducendo i salari degli operai occidentali grazie alla minaccia di trasferire il lavoro nei paesi di nuova industrializzazione dove il costo del lavoro era e rimane a livelli schiavistici, il capitale ha ridotto la capacità di spesa.
Perché la gente possa comprare le merci che altrimenti rimangono invendute, si è allora favorito l’indebitamento in tutte le sue forme. Questo ha indotto dipendenza culturale e politica negli attori sociali (il debito agisce nella sfera dell’inconscio collettivo come colpa da espiare), e al tempo stesso ha fragilizzato il sistema esponendolo come ora vediamo al collasso provocato dall’esplodere della bolla.
Quinta manipolazione:
l’inflazione è il pericolo principale, al punto che la Banca centrale europea ha un unico obiettivo dichiarato nel suo statuto, quello di contrastare l’inflazione costi quel che costi.
Cos’è l’inflazione? E’ una riduzione del valore del denaro o piuttosto un aumento dei prezzi delle merci.
E’ chiaro che l’inflazione può diventare pericolosa per la società, ma si possono creare dei dispositivi di compensazione (come era la scala mobile che in Italia venne cancellata nel 1984, all’inizio della gloriosa “riforma” neoliberista).
Il vero pericolo per la società è la deflazione, strettamente collegata alla recessione, riduzione della potenza produttiva della macchina collettiva. Ma chi detiene grandi capitali, piuttosto che vederne ridotto il valore dall’inflazione, preferisce mettere alla fame l’intera società, come sta accadendo adesso.
La Banca europea preferisce provocare recessione, miseria, disoccupazione, impoverimento, barbarie, violenza, piuttosto che rinunciare ai criteri restrittivi di Maastricht, stampare moneta, dando così fiato all’economia sociale, e cominciando a redistribuire ricchezza.
Per creare l’artificiale terrore dell’inflazione si agita lo spettro (comprensibilmente temuto dai tedeschi) degli anni ’20 in Germania, come se causa del nazismo fosse stata l’inflazione, e non la gestione che dell’inflazione fece il grande capitale tedesco e internazionale.
Ora tutto sta crollando, è chiaro come il sole. Le misure che la classe finanziaria sta imponendo agli stati europei sono il contrario di una soluzione: sono un fattore di moltiplicazione del disastro.
Il salvataggio finanziario viene infatti accompagnato da misure che colpiscono il salario (riducendo la domanda futura), e colpiscono gli investimenti nella istruzione e nella ricerca (riducendo la capacità produttiva futura), quindi immediatamente inducono recessione. La Grecia ormai lo dimostra.
Il salvataggio europeo ne ha distrutto le capacità produttive, privatizzato le strutture pubbliche demoralizzato la popolazione. Il prodotto interno lordo è diminuito del 7% e non smette di crollare.
I prestiti vengono erogati con interessi talmente alti che anno dopo anno la Grecia sprofonda sempre più nel debito, nella colpa, nella miseria e nell’odio antieuropeo.
La cura greca viene ora estesa al Portogallo, alla Spagna, all’Irlanda, all’Italia. Il suo unico effetto è quello di provocare uno spostamento di risorse dalla società di questi paesi verso la classe finanziaria.
L’austerità non serve affatto a ridurre il debito, al contrario, provoca deflazione, riduce la massa di ricchezza prodotta e di conseguenza provocherà un ulteriore indebitamento, fin quando l’intero castello crollerà.
A questo i movimenti debbono essere preparati. La rivolta serpeggia nelle città europee. In qualche momento, nel corso dell’ultimo anno, ha preso forma in modo visibile, dal 14 dicembre di Roma Atene e Londra, all’acampada del maggio-giugno di Spagna, fino alle quattro notti di rabbia dei sobborghi d’Inghilterra.
E’ chiaro che nei prossimi mesi l’insurrezione è destinata a espandersi, a proliferare. Non sarà un’avventura felice, non sarà un processo lineare di emancipazione sociale.
La società dei paesi è stata disgregata, fragilizzata, frammentata da trent’anni di precarizzazione, di competizione selvaggia nel campo del lavoro, e da trent’anni di avvelenamento psicosferico prodotto dalle mafie mediatiche, gestite da criminali come Berlusconi e Murdoch.
L’insurrezione che viene sarà un processo non sempre allegro, spesso venato da fenomeni di razzismo, di violenza autolesionista. Questo è l’effetto della desolidarizzazione che il neoliberismo e la politica criminale della sinistra hanno prodotto nell’esercito proliferante e frammentato del lavoro.
Nei prossimi cinque anni possiamo attenderci un diffondersi di fenomeni di guerra civile interetnica, come già si è intravisto nei fumi della rivolta inglese, ad esempio negli episodi violenti di Birmingham.
Nessuno potrà evitarlo, e nessuno potrà dirigere quell’insurrezione, che sarà un caotico riattivarsi delle energie del corpo della società europea troppo a lungo compresso, frammentato e decerebrato.
Il compito che i movimenti debbono svolgere non è provocare l’insurrezione, dato che questa seguirà una dinamica spontanea e ingovernabile, ma creare (dentro l’insurrezione o piuttosto accanto, in parallelo) le strutture conoscitive, didattiche, esistenziali, psicoterapeutiche, estetiche, tecnologiche e produttive che potranno dare senso e autonomia a un processo in larga parte insensato e reattivo.
Nell’insurrezione ma anche fuori di essa dovrà crescere il movimento di reinvenzione d’Europa, ponendosi come primo obiettivo l’abbattimento dell’Europa di Maastricht, il disconoscimento del debito e delle regole che l’hanno generato e lo alimentano, e lavorando alla creazione di luoghi di bellezza e di intelligenza, di sperimentazione tecnica e politica.
La caduta d’Europa (inevitabile) non sarà un fatto da salutare con gioia, perché aprirà la porta a processi di violenza nazionalista e razzista. Ma l’Europa di Maastricht non può essere difesa.
Compito del movimento sarà proprio riarticolare un discorso europeo basato sulla solidarietà sociale, sull’egualitarismo, sulla riduzione del tempo di lavoro, sulla redistribuzione della ricchezza, sull’esproprio dei grandi capitali, sulla cancellazione del debito, e sulla nozione di sconfinamento, di superamento della territorialità della politica.
Abolire Maastricht, abolire Schengen, per ripensare l’Europa come forma futura dell’internazionale, dell’uguaglianza e della libertà (dagli stati, dai padroni e dai dogmi)
E’ probabile che il prossimo passaggio dell’insurrezione europea abbia come scenario l’Italia. Mentre Berlusconi ci ipnotizza con i suoi funambolismi da vecchio mafioso, eccitando l’indignazione legalitaria, Napolitano ci frega il portafoglio. La divisione del lavoro è perfetta.
Gli indignati d’Italia credono che basti ristabilire la legalità perché le cose si rimettano a funzionare decentemente, e credono che i diktat europei siano la soluzione per le malefatte della casta mafiosa italiana.
Dopo trent’anni di Minzolini e Ferrara non ci dobbiamo meravigliare che si possa credere a favole di questo genere. Il Purgatorio che ci aspetta è invece più complicato e lungo.
Dovremo forse passare attraverso un’insurrezione legalitaria che porterà al disastro di un governo della Banca centrale europea impersonato da un banchiere o da un confindustriale osannato dai legalitari.
Sarà quel governo a distruggere definitivamente la società italiana, e i prossimi anni italiani saranno peggiori dei venti che abbiamo alle spalle. E’ meglio saperlo.
Ed è anche meglio sapere che una soluzione al problema italiano non si trova in Italia, ma forse (e sottolineo forse) si troverà nell’insurrezione europea.
Il disegno di Erdogan
di Christian Elia - Peacereporter - 9 Settembre 2011
Una continua escalation di dichiarazioni, ma non sono chiari gli obiettivi del governo turco
L'attacco è in atto. Diplomatico, s'intende. Ma davvero le relazioni tra la Turchia e Israele, dalla nascita dello Stato ebraico nel 1948, non sono mai state così tese. La cronaca è nota: la fine dei lavori della commissione d'inchiesta Onu presieduta dall'ex primo ministro neozelandese Geoffrey Palmer non inchioda Israele alle sue responsabilità per la morte degli attivisti turchi della Mavi Marmara nel 2010.
La stampa turca rilancia le dichiarazioni del premier Recep Tayyip Erdogan, che salgono di tono ogni giorno che passa, come una mareggiata che monta piano piano. Detto come nulla fosse: l'autorizzazione data a navi da guerra turche di scortare convogli di aiuti umanitari turchi a Gaza.
''Navi da guerra turche - ha detto ieri Erdogan alla tv satellitare al-Jazeera - sono autorizzate a proteggere le nostre navi che portano aiuti umanitari a Gaza. D'ora in poi non lasceremo che queste navi vengano attaccate da Israele come avvenne con la Freedom Flottilla''.
Non dice quando, non dice se questi aiuti partiranno. Conferma che visiterà Gaza, presto, ma non dice quando. Come una minaccia sospesa, come una promessa di fuoco. Erdogan, è bene capirlo subito, non scherza. Non è detto, però, che sia interessato a portare a termine le sue promesse.
Il prossimo round, ancora diplomatico, è all'Onu. La discussione sull'indipendenza della Palestina si arricchirà di una nuova polemica? Non è garantito. Ma, secondo la stampa turca, Erdogan ha una strategia pronta all'uso.
Ankara potrebbe porre a livello internazionale la questione dell'arsenale atomico israeliano. L'ipotesi è contenuta in un 'piano' per mettere in difficoltà Israele se continua a non scusarsi per i morti della Mavi Marmara.
Erdogan ha accennato all'esistenza di questo Piano C, che seguirebbe uno, detto B, incentrato sugli annunciati - ma non ancora ordinati - pattugliamenti navali nelle acque internazionali del Mediterraneo.
Il piano B prevede l'intenzione turca di far inserire nell'agenda dell'Agenzia atomica internazionale (Aiea) e dell'Onu, con richiesta di sanzioni, la questione dell'arsenale atomico israeliano mai dichiarato dallo Stato ebraico.
Scuse, indennizzi, alleggerimento blocco su Gaza. Altrimenti dossier nucleare, pattugliamenti, scorte militari, rottura relazioni diplomatiche e fascicolo Gaza all'Aja per crimini contro l'umanità.
Cosa vuole davvero Erdogan? Fin dove vuole arrivare? Non è un mistero che Israele - secondo l'intelligence turca - appoggia i separatisti curdi. Iran e Turchia, assieme, bombardano i campi militari curdi sui monti iracheni. Baghdad ha chiesto all'Onu la fine dei raid militari nel suo territorio. Può essere questo elemento di pressione reciproca la posta in palio?
Oppure potrebbe essere altro. Magari tutto questo polverone nasce dalle dure critiche mosse oggi dall'Iran nei confronti della Turchia per la sua scelta di dotarsi di uno scudo anti missilistico Nato.
''Ci aspettiamo che i Paesi amici e vicini non promuovano politiche che creino tensione e che avranno conseguenze complicate e definitive'', ha detto il portavoce del ministero degli Esteri iraniano, Ramin Mehmanparast, citato dall'agenzia di stampa Irna. ''Riteniamo che l'installazione di alcune parti del sistema missilistico Nato in Turchia non aiuterà per niente la sicurezza e la stabilità della regione, e nemmeno dello stesso Paese ospitante'', ha aggiunto Mehmanparast.
L'ambasciatore turco a Roma, Hakki Akil, ha chiarito in un colloquio con i giornalisti che lo scudo antimissile della Nato che sarà installato sul suo territorio ''non è contro un paese specifico'' e, in particolare, contro l'Iran.
La crisi tra Ankara e Tel Aviv procede. Non è chiaro, adesso, dove voglia arrivare Erdogan. Nella tensione generale c'è solo da sperare che non sia l'ennesimo caso di un leader politico - Erdogan appunto - che si legittima per una leadership del mondo islamico sulla pelle dei palestinesi. Che vivono sotto occupazione da sessanta anni e aspettano il 20 settembre per capire se, dopo tutto, il mondo ha deciso di accorgersi del loro diritto a vivere.
Ulteriore escalation nella crisi diplomatica tra Turchia ed Israele, iniziata a fine maggio 2010 con il caso Mavi Marmara, e recentemente esplosa con l’anticipazione al New York Times di un report delle Nazioni Unite sull’incidente.
Il Palmer report, infatti, concede ad Israele il punto, non da poco, della legittimità del blocco navale, che è poi la causa scatenante della reazione violenta dell’esercito israeliano e le conseguenti nove vittime (otto turchi ed un americano di origini turche).
Ma la Turchia appare determinata a sfidare apertamente lo Stato Ebraico proprio su questo punto: ieri il premier turco Recep Tayyip Erdogan ha dichiarato ad Al Jazeera che il governo del suo Paese è determinato a continuare il sostegno alla popolazione civile della striscia di Gaza.
“Navi da guerra turche sono autorizzate a scortare i natanti che portano aiuto alla popolazione di Gaza”, ha dichiarato il primo ministro, mettendo in chiaro che il suo governo non permetterà in futuro aggressioni come quelle avvenute lo scorso anno ai danni della Freedom Flotilla: d’ora in poi gli israeliani dovranno fare i conti con “una risposta adeguata”.
Parole inquietanti, che ventilano lo scenario di un possibile scontro in mare tra i due Paesi. Su cui, almeno per il momento, il Ministro dell’Intelligence israeliano, Dan Meridor preferisce glissare: “Queste dichiarazioni sono estremamente gravi - ha dichiarato ai microfoni della radio militare - ma non abbiamo intenzione di entrare in polemica. Non c’è nessun interesse ad aggravare la situazione replicando a questi attacchi”.
Meridor ha comunque aggiunto che chiunque forzi il blocco navale disposto da Israele su Gaza viola il diritto internazionale, dal momento che “una commissione dell’ONU ha stabilito la legittimità di questa iniziativa militare israeliana”.
Il ministro israeliano si riferisce al Palmer report, ovvero al documento che, passato alla stampa in modo semi-clandestino il 2 settembre dopo due mesi di ritardo, ha fatto infuriare i turchi, facendo saltare un complicato negoziato tra i due paesi teso ad evitare l’attuale showdown diplomatico.
Se da una parte Meridor, pur mantenendo il discutibile punto, appare interessato a non infiammare ulteriormente gli animi, dall’altra il ministro degli Esteri Avigdor Lieberman, sempre a suo agio in tutte le situazioni in cui si devono menare le mani, picchia duro.
Secondo Yediot Ahronot, Lieberman starebbe intessendo una manovra a tenaglia per interposta persona: aizzando da un lato la lobby filoebraica di Washington contro contro la Turchia e mettendosi contemporaneamente a disposizione a quella armena, che si batte da tempo per il pieno riconoscimento internazionale del genocidio del suo popolo, perpetrato dai turchi tra il 1915 e il 1918.
Lieberman non si fa mancare niente: secondo il quotidiano israeliano egli intenderebbe incontrare, e perfino finanziare, i ribelli curdi. Quando si dice la buona fede e l’innato senso di giustizia. In ogni caso, in una situazione incandescente, gli occhi continuano a essere puntati sulla visita di Erdogan in Egitto: andrà o no a Gaza?