Solo pochi minuti prima di iniziare a parlare, Mazen aveva presentato al segretario generale ONU Ban Ki Moon la richiesta ufficiale per il riconoscimento della Palestina entro i confini del 1967 e con capitale al Quds Al Sharif - nome arabo di Gerusalemme, ma ovviamente si tratterebbe solo della parte est.
Un nuovo passo in avanti, anche se unilaterale, è stato compiuto. Il cammino naturalmente sarà lungo, pieno di ostacoli e non è certo una novità.
Resta solo da vedere se questo passo in avanti avrà come conseguenza l'ennesimo doppio passo all'indietro, come è sempre accaduto negli ultimi 15 anni.
Palestina, il momento non è ancora venuto
di Marta Dassù - La Stampa - 24 Settembre 2011
È venuto il momento»: nel suo discorso di ieri alle Nazioni Unite, fra applausi scroscianti, il Presidente dell’Autorità palestinese, Mahmoud Abbas, ha motivato la richiesta per l’ammissione all’Onu di uno Stato indipendente e sovrano, all’interno dei confini del 1967.
È venuto il momento, ha ripetuto varie volte un vecchio leader, deciso a scrollarsi di dosso l’eredità di Yasser Arafat.
È venuto il momento, anche se Barack Obama ha già annunciato che Washington metterebbe il suo veto in Consiglio di sicurezza.
È venuto il momento, anche se il premier israeliano, Benyamin Netanyahu, ha ribadito a una gelida platea di New York - ma dove Israele può ancora contare su una «minoranza morale» - che l’unica soluzione possibile resta la pace, prima dello Stato. Ecco, il problema è che il momento non è ancora venuto.
La richiesta di Mahmoud Abbas, è giusto saperlo, è soprattutto simbolica. Perché ci vorrà del tempo per andare ai voti. E l’esito è scontato in anticipo: senza un accordo negoziato con Israele, uno Stato palestinese sovrano non nascerà.
Solo il Consiglio di sicurezza, infatti, può ammettere un nuovo Stato a pieno titolo; e non accadrà, in assenza di un accordo con Israele. Il massimo a cui Abbas può aspirare è il riconoscimento della Palestina, da parte dell’Assemblea generale, come Stato osservatore permanente senza diritto di voto.
È la soluzione «vaticana» per lo Stato palestinese: secondo parte degli europei, a cominciare da Nicolas Sarkozy - il Presidente francese più filo-israeliano dal 1967 in poi ma anche il Presidente deciso a tentare il grande rilancio della Francia nelle terre d’Arabia - è la soluzione su cui puntare, insieme alla ripresa di un negoziato bilaterale in tempi certi e stretti.
Il Quartetto (Stati Uniti, Ue, Un, Russia) ha proposto negoziati entro un mese, da New York. E si continua a discutere in che modo una Risoluzione «vaticana» potrebbe tranquillizzare Israele su uno dei punti principali: che la Palestina rinunci a usare la Corte criminale internazionale per perseguire le politiche dello Stato ebraico.
Gli scenari reali - fra discorsi, diplomazia e simboli - sono questi. Per Abbas è decisivo presentarli come una vittoria, almeno parziale; se perdesse, il vincitore sarebbe Hamas e l’Autorità palestinese si troverebbe con un’intifada in casa, prima che contro Israele. È un punto di cui Netanyahu deve essere consapevole.
Per il premier israeliano, d’altra parte, il discorso di Barack Obama all’Assemblea di New York - con l’opposizione esplicita del Presidente americano, ormai in campagna elettorale, a uno Stato palestinese dichiarato per mezzo di Risoluzioni dell’Onu, invece che di negoziati con Gerusalemme - è già un mezzo successo.
Israele, dopo avere perso l’alleanza privilegiata con Ankara e il pilastro dell’Egitto di Mubarak, ritrova almeno l’America. O quello che ne rimane sulla scena medio-orientale. Il principio sollevato da Abbas a New York non è controverso.
È semplice e noto: come prevedono le Risoluzioni dell’Onu, dal 1947 in poi, i palestinesi hanno diritto al loro Stato, esattamente come gli israeliani. Gli Stati Uniti (da Clinton a Bush figlio a Barack Obama), l’Unione europea (al di là delle sue divisioni fra governi filo-israeliani e governi filo-arabi), l’élite politica israeliana (Netanyahu incluso, nonostante gli errori compiuti e gli insediamenti accumulati) sono d’accordo su questo, sono d’accordo che la soluzione al conflitto israelo-palestinese è fondata su due Stati. In discussione non è il principio, quindi.
In discussione è se l’iniziativa diplomatica del Presidente palestinese, specchio delle frustrazioni della sua gente e del timore dell’Anp di perdere legittimità all’interno, aumenti o riduca le possibilità di un accordo con Israele che, con l’ultimo governo, ha fatto di tutto meno che negoziare sul serio.
Può insomma funzionare una «terza via alla Palestina» - per usare la definizione del Foreign Affairs?
Dopo la fase della lotta armata e quella del negoziato senza fine promosso da Washington, il tentativo palestinese è di fare leva sui risultati ottenuti da Salam Fayyad (il premier tecnocratico, che per quattro anni ha puntato a costruire le condizioni economiche e le istituzioni del futuro Stato) e sulla legittimità del passaggio alle Nazioni Unite. Riuscirà?
Il rischio vero è che, dopo New York, i negoziati per la riconciliazione con Hamas e le future elezioni premino paradossalmente il partito - Hamas, appunto - che ancora respinge la soluzione dei due Stati. E che è pronto a descrivere il passaggio all’Onu di Abbas come una sconfitta, più che una vittoria.
Il che ci riporta al problema principale, scontato ma quasi dimenticato nei commenti di questi giorni. L’Anp sta chiedendo a New York il riconoscimento della propria sovranità su un territorio che non è in grado di controllare del tutto.
Finché Hamas resterà al comando a Gaza, uno Stato palestinese unitario non sarà credibile. Anche per questo, non è così ovvio che l’iniziativa diplomatica palestinese, combinata alla pressione internazionale, riesca a far funzionare un negoziato con Israele.
Al di là delle responsabilità negative del governo Netanyahu, la realtà è che lo Stato ebraico è in una situazione strategica difficilissima.
Per la prima volta da decenni, il pericolo di un progressivo isolamento non è immaginato ma è reale. Una situazione che, si dice con troppa facilità dall’esterno, dovrebbe spingere gli israeliani a capire che la nascita di uno Stato palestinese è nei loro migliori interessi. Sì, ma se sarà uno Stato unitario e deciso a vivere in pace con lo Stato ebraico.
Il timore di Israele è che la richiesta palestinese alle Nazioni Unite generi invece nuove violenze anche nella West Bank; in un contesto, quello dei rivolgimenti arabi, molto più delicato di prima. Difficile fare previsioni, quindi.
Ma la sensazione è netta: l’alternativa a una soluzione negoziata non sarà la nascita per via unilaterale di uno Stato palestinese, poi sanzionata sul piano internazionale; sarà un nuovo conflitto, con ramificazioni regionali più rischiose che in passato.
Aspettando una primavera palestinese
di Christian Elia - Peacereporter - 23 Settembre 2011
Il presidente Abbas consegna al Segretario dell'Onu la richiesta di adesione della Palestina, emozionando l'Assemblea Generale di New York
Escluse le ben dodici interruzioni, dovute agli applausi, nell'aula dell'Assemblea Generale delle Nazioni Unite, nel Palazzo di Vetro di New York, non volava una mosca.
Poco dopo l'ora di pranzo, parlava il presidente dell'Autorità Nazionale Palestinese Mahmoud Abbas. Arrivato dopo aver consegnato nelle mani del Segretario Generale delle Nazioni Unite, Ban Ki-Moon, la richiesta ufficiale di adesione all'Onu del futuro stato di Palestina.
Comunque vada, questo 23 settembre 2011 si è ritagliato un posto nella storia. Abbas, completo grigio scuro, cravatta grigio perla e camicia bianca, con quegli occhiali che gli danno un'aria da professore di statistica, non tradisce emozioni.
Non sarà certo l'Assemblea dell'Onu a far paura a un dirigente che è passato attraverso l'esilio e la lotta armata, passando attraverso la Prima e la Seconda Intifada, fino alla rottura con Hamas e alle accuse di essere una sorta di collaborazionista d'Israele.
Il ministro degli Esteri Lieberman, avvezzo alle dichiarazioni xenofobe, abbandona l'aula mentre la plenaria tributa la prima standing ovation ad Abbas.
''E' giunto il nostro tempo'', dice Abbas. ''Dopo i popoli arabi, anche i palestinesi hanno diritto alla loro primavera. Sono qui a nome del mio popolo, che chiede solo di esercitare il diritto a una vita normale''.
Le parole scuotono un'Assemblea in larga parte favorevole alla Palestina, dove Abbas non manca di ringraziare i 129 stati che hanno già riconosciuto il futuro stato. Un filo magico unisce il podio di New York con le piazze palestinesi, Ramallah su tutte, dove è stato allestito un maxi schermo che trasmette a diretta. Migliaia di persone, abbracciate a un sogno.
Abbas ricorda. La Nakba, la 'catastrofe', come i palestinesi chiamano la nascita d'Israele. Ma anche i prigionieri politici, più di diecimila, le vittime del conflitto, i profughi, milioni di persone perse nella diaspora, e le centinaia di risoluzioni Onu inascoltate.
Ricorda anche Arafat. Abbas accusa. L'assedio di Gaza e il muro che deve cadere, i coloni che devono essere fermati, Israele deve porre fine a quella che il presidente dell'Anp chiama ''pulizia etnica''.
La chiama così anche un grande storico israeliano com Ilan Pappè, ma le facce dei delegati d'Israele si contrae in una smorfia rabbiosa. ''One goal...one goal...one goal'', ripete Abbas, con forza. La libertà.
Un'altra standing ovation saluta la fine del discorso, mentre il leader palestinese agita al vento la cartelletta bianca, con un'aquila sopra, che contiene la richiesta ufficiale di un seggio presentata all'Onu.
Una cartelletta troppo piccola per contenere tutto il resto. Le contraddizioni dello stesso Abbas, che garantisce uno stato palestinese democratico ma impedisce il voto da anni, fino alla rottura del precario equilibrio con Hamas.
Il movimento islamista ha commentato con gelido distacco il discorso di Abbas. ''Ha parlato delle sofferenze del popolo palestinese, dell'assedio a Gaza, ma la soluzione proposta non è all'altezza delle aspettative del popolo palestinese, soprattutto perché prevede il ritorno ai negoziati'', ha commentato il portavoce di Hamas, Fawzi Barhoun.
''E la cosa più grave del suo intervento è il riconoscimento dello Stato di Israele, mentre vuole uno Stato che comprenderebbe solo il 22 percento della Palestina storica''.
Adesso tocca aspettare che si pronunci il Consiglio di Sicurezza; pare che servano almeno due settimane. Subito dopo Abbas, parla Netanyahu. Il premier israeliano aveva messo le mani avanti, immaginando una platea ostile.
''I palestinesi dovrebbero prima fare la pace con noi e poi chiedere il riconoscimento del loro Stato e Israele sarebbe il primo a riconoscerlo alle Nazioni Unite'', ha detto Netanyahu. ''La vera pulizia etnica sarà quella dei palestinesi che, nel loro nuovo Stato, non permetteranno l'ingresso degli ebrei. Permetteranno forse agli ebrei di entrare in quello Stato? No, sarà uno Stato libero dagli ebrei questa è vera pulizia etnica''.
Poi si dedica alle accuse all'Iran e al suo presidente Ahmadinejad, che il giorno primo ha di nuovo negato l'Olocausto. Per una volta, però, comunque vada a finire, la platea l'hanno presa i palestinesi. Per tentare di capire se, per una volta, sarà una colomba a fare primavera.
Così la Palestina costruisce la pace
di Michele Giorgio - Il Manifesto - 24 Settembre 2011
Ramallah - Ad avere valore ieri sera non erano tanto le parole pronunciate da Abu Mazen, presidente con una credibilità incerta anche dopo il suo discorso all'Onu. E neppure gli applausi che ha ricevuto al Palazzo di Vetro l'annuncio della presentazione ufficiale al segretario generale Ban Ki moon della domanda di adesione dello stato di Palestina alle Nazioni unite.
Irrilevanti apparivano ieri anche le lotte di potere tra Fatah e Hamas che da troppo tempo dilaniano il popolo palestinese.
Ciò che contava più di ogni altra cosa ieri sera erano le decine di migliaia di cittadini arabi, dal Cairo a Beirut, che assieme a tutti i palestinesi reclamavano la realizzazione delle aspirazione di un popolo al quale è stato tolto tutto e che in gran parte vive in campi profughi.
Ieri erano di fronte l'America che nega o regala diritti sulla base dei suoi interessi e disegni strategici e milioni di persone che al contrario affermano l'uguaglianza di tutti i popoli.
Forse Barack Obama, grazie anche alla sua alleanza con le potenti lobby che si spartiscono il controllo della politica americana, vincerà ancora le presidenziali e otterrà un nuovo mandato.
Ma sbarrando la strada ai palestinesi - sotto occupazione da 44 anni e da venti anni impegnati in un negoziato inutile ed estenuante - il presidente Usa ha perduto per sempre il rispetto dei tanti che, non solo in Medio Oriente, avevano creduto alle sue promesse.
«Quando i discorsi di oggi finiranno, dobbiamo tutti riconoscere che l'unica via per creare uno stato è attraverso negoziati diretti, non scorciatoie», ha scritto via Twitter l'ambasciatrice Usa all'Onu, Susan Rice, commentando a caldo il discorso di Abu Mazen.
Il leader palestinese non ha mai negato, rivolgendosi ieri all'Assemblea dell'Onu, la sua volontà di tornare a negoziare un accordo con Israele. Ma è stato categorico nel dire che il suo popolo non può più vivere sotto occupazione e continuare a negoziare all'infinito.
Ha attaccato frontalmente la colonizzazione israeliana dei territori palestinesi. «La nostra azione non è un'azione unilaterale» ha precisato «noi non miriamo a isolare o a delegittimare Israele», ma a «delegittimare la colonizzazione». «È venuta l'ora dell'indipendenza» ha detto il presidente dell'Olp mentre milioni di palestinesi lo seguivano sugli schermi televisivi nelle piazze di tante città, tra canti e danze.
«Questo è il momento della verità», ha proseguito, «il mondo continuerà a permettere a Israele di mantenere l'occupazione per sempre e di restare uno Stato al di sopra della legge...o capirà che c'è uno Stato mancante che deve essere creato immediatamente?».
«È venuta l'ora per il mio coraggioso e orgoglioso popolo, dopo decenni di occupazione, di vivere come altri popoli della terra, liberi in un paese sovrano e indipendente».
In quel momento a Nablus, Betlemme, Ramallah e altre città decine di migliaia di palestinesi lo incitavano ad andare avanti, a non avere paura. Altrettanti nei campi profughi sparsi nel mondo arabo lo esortavano a non dimenticare il diritto al ritorno, sancito dalla risoluzione dell'Onu. E l'applauso si è trasformato in ovazione quando Abu Mazen ha citato il poeta Mahmoud Darwish: «Noi abbiamo uno scopo solo: esistere ed esisteremo».
Il leader dell'Olp ha fatto più di un riferimento al vento della «primavera araba» che da mesi attraversa la regione e che ha visto diversi popoli liberarsi di dittatori al potere da decenni. Per i palestinesi la primavera araba è la liberazione dalla dittatura dell'occupazione. Abu Mazen ha terminato l'intervento con un appello ai rappresentanti dei vari paesi: «Vi chiedo di accelerare l'iter della richiesta al Consiglio di sicurezza».
Ha perciò smentito la richiesta di adesione solo di uno «Stato non membro» della quale si era parlato nelle ultime ore. I palestinesi lanciano la palla nel campo americano e sfidano Obama ad usare il veto a sostegno di Israele.
Pochi minuti dopo il discorso di Abu Mazen, la parola all'Onu è passata al premier israeliano Benyamin Netanyahu che, nel frattempo, aveva già respinto «con irritazione» la proposta avanzata giovedì dal presidente francese Sarkozy di garantire lo status di «Stato non membro» alla Palestina.
Peraltro non era in aula quando ha parlato Abu Mazen. All'inizio Netanyahu ha usato toni in apparenza morbidi. Israele, ha detto, «tende la mano al popolo palestinese con il quale cerchiamo pace giusta e duratura».
Dopo poche frasi ha attaccato duro. «Non sono venuto a prendere applausi - ha affermato il primo ministro - sono venuto a dire la verità e la verità è che Israele vuole la pace con i palestinesi ma i palestinesi vogliono uno Stato senza la pace...Non dovete permettere che accada», ha detto guardando la platea.
Poi si è rivolto al presidente palestinese Abu Mazen per invitarlo a un incontro «oggi stesso» per cominciare un negoziato diretto. «Siamo nella stessa città, nello stesso palazzo. Se vogliamo davvero la pace chi ci ferma? Parliamo apertamente e onestamente. Ascoltiamoci», ha sottolineato il premier israeliano tralasciando il «dettaglio» della sua ferma intenzione di proseguire la colonizzazione dei Territori occupati di cui i palestinesi chiedono lo stop completo per riprendere le trattative dirette.
E mentre Netanyahu parlava, le zone dove vivono i coloni israeliani si dimostravano ad altissima tensione.
Nel villaggio palestinese di Kusra (Nablus) i soldati israeliani hanno ucciso un giovane, Issa Kamal, dopo l'ennesimo blitz, camuffato da gita, di un gruppo di coloni in quella zona. Qualche ora prima scontri erano avvenuti al posto di blocco di Qalandiya, a Gerusalemme Est, a Bilin, Naalin e Nabi Saleh.
Un bambino palestinese di otto anni, Taleb Jaber, è stato travolto e ferito gravemente da un'automobile israeliana nei pressi della colonia ebraica di Kiryat Arba (Hebron). Non è stato provocato dai palestinesi invece l'incidente automobilistico in cui, nelle stesse ore, hanno trovato la morte un colono e suo figlio, sempre nella zona di Hebron.
Israele non vuole uno stato palestinese. Punto.
di Gideon Levy - Haaretz - 15 Settembre 2011
Traduzione per www.comedonchisciotte.org a cura di SUPERVICE
Mercoledì una coalizione israeliana di organizzazioni per la pace ha pubblicato una lista di cinquanta ragioni per cui Israele dovrebbe sostenere uno stato palestinese. Ammettendo che ne accetti solo cinque, non sono abbastanza? Qual è esattamente l’alternativa, ora che i cieli si stanno chiudendo attorno a noi?
Cosa diremmo la prossima settimana alle Nazioni Unite? Cosa potremmo dire? Se fossimo all’Assemblea Generale o nel Consiglio di Sicurezza, dovremmo esporre la nostra più completa nudità: Israele non vuole uno stato palestinese. Punto. E non esiste un solo argomento persuasivo contro lo stato di fatto e il riconoscimento internazionale di questo stato.
Ci potremmo anche chiedere, a cosa si oppongono? Quattro primi ministri, Benjamin Netanyahu è tra loro, hanno detto che sono a favore, che tutto questo dovrà essere raggiunto con le trattative, e allora perché non l’hanno fatto ancora?
Il nostro argomento è sempre che si tratta di misure unilaterali? Cosa c’è di più unilaterale degli insediamenti che continuiamo a costruire? O forse dovremmo dire che la strada per uno stato palestinese deve correre tra Ramallah e Jerusalem, e non da New York, à la Stati Uniti di America. Lo stato di Israele è stato creato, in parte, dalle Nazioni Unite.
La prossima settimana sarà il momento della verità per Israele, o più precisamente il momento in cui i suoi raggiri verranno rivelati al pubblico. Sia il presidente, il primo ministro o l’ambasciatore all’ONU, o anche il più seguito dei commentatori, sarebbe incapace di stare davanti ai rappresentanti delle nazioni del mondo e spiegare la logica di Israele; nessuno di loro sarebbe capace di convincerli che c’è un qualche merito nella posizione israeliana.
Trentatre anni fa Israele ha firmato un accordo di pace con l’Egitto in cui sottoscrisse "di riconoscere i diritti legittimi del popolo palestinese" e di stabilire un’autorità autonoma nei Territori Occupati e nella Striscia di Gaza entro cinque anni. Niente di tutto ciò è mai avvenuto.
Diciotto anni fa il primo ministro di Israele ha firmato gli Accordi di Oslo, nei quali Israele ha sottoscritto di avviare colloqui per poter raggiungere un accordo definitivo con i palestinesi, tra cui gli aspetti fondamentali, entro cinque anni.
Anche questo non è avvenuto. La gran parte delle disposizioni dell’accordo da allora sono fallite, nella maggioranza dei casi per colpa di Israele. Cosa potrà dire di tutto questo il sostenitore di Israele alle Nazioni Unite?
Per anni Israele ha affermato che Yasser Arafat era il solo ostacolo alla pace con i palestinesi. Arafat è morto, e ancora una volta non è successo niente. Israele ha dichiarato che, se il terrorismo si fosse fermato, sarebbe stata trovata una soluzione.
Il terrorismo si è fermato, e ancora niente. Le scuse di Israele sono diventate sempre più vuote e la nuda verità è sempre più appariscente. Israele non vuole raggiungere un accordo di pace che comporti la costituzione di uno stato palestinese.
La cosa non può essere ancora a lungo mascherata dalle Nazioni Unite. E cosa l’Israele di Netanyahu potrà aspettarsi dai palestinesi in questo caso, un altro giro di mostre fotografiche, come quelle realizzate da Ehud Barak, Ehud Olmert e Tzipi Livni che non hanno portato a niente?
La verità è che i palestinesi hanno solo tre opzioni, non quattro: arrendersi senza condizioni e proseguire sotto l’occupazione israeliana per almeno altri quarantadue anni; lanciare una terza intifada; o cercare di mobilitare il mondo.
Hanno scelto la terza opzione, il minore dei mali dalla prospettiva israeliana. Cosa potrebbe dire Israele a riguardo, che è una mossa unilaterale, come hanno detto gli Stati Uniti?
Ma non hanno acconsentito a fermare le costruzioni negli insediamenti, la madre di tutte le mosse unilaterali. Cosa è rimasto ai palestinesi? L’arena internazionale. E se non riuscirà a salvarli, nei territori ci sarà allora un’altra rivolta di popolo.
I palestinesi nei Territori Occupati, oggi tre milioni e mezzo, non vivranno privati dei diritti civili per altri quarantadue anni. Potremmo anche abituarci al fatto che il mondo non potrà sopportarlo.
Riuscirebbero Netanyahu o Shimon Peres a spiegare perché i palestinesi non meritano un proprio stato? Hanno anche la più flebile delle ragioni? Niente. E perché non ora? Abbiamo già visto, ultimamente in modo particolare, che il tempo non fa altro che ridurre le alternative nella regione. E anche questa debole scusa è defunta.
Ieri una coalizione israeliana di organizzazioni per la pace ha pubblicato una lista di cinquanta ragioni per cui Israele dovrebbe sostenere uno stato palestinese.
Ammettendo che ne accetti solo cinque, non sono abbastanza? Qual è esattamente l’alternativa, ora che i cieli si stanno chiudendo attorno a noi?
Potrebbe qualcuno, che sia Peres o Netanyahu, seriamente controbattere che l’ostilità contro di noi non si sia affievolita nel caso in cui l’occupazione finisca e che venga istituito uno stato palestinese?
Le verità sono così semplici, così banali, che fa male solo ripeterle. Ma, sfortunatamente, sono le sole che abbiamo.
E qui di seguito una semplice domanda da porre a chiunque ci rappresenti la prossima settimana alle Nazioni Unite: “Perché no, per il ben di Dio? Perché "no" un’altra volta? E a cosa diremmo di "sì"?