Il 99% della popolazione del Sud Sudan ha votato per la separazione e oggi il presidente sudanese Omar Hassan al-Bashir ha dichiarato ufficialmente di accettare il risultato finale.
Qui di seguito alcuni articoli che analizzano soprattutto le conseguenze in termini economici e geopolitici di questo referendum che ha comunque creato un precedente replicabile altrove in Africa e non solo.
Sudan, la secessione difficile
di Carlo Musilli - Altrenotizie - 7 Febbraio 2011
Il Sudan ha accettato la secessione del Sud: il 99% dei votanti delle regioni meridionali ha scelto l'indipendenza. E' stato questo il termine di un processo iniziato con l'accordo di pace siglato a Nairobi nel 2005, che pose fine, almeno formalmente, a una guerra civile durata 22 anni.
Il conflitto, costato la vita a oltre due milioni di persone, ha messo a confronto i musulmani arabi del nord e la regione autonoma del sud, abitata da circa 6 milioni di africani cristiani.
I risultati definitivi del referendum arriveranno solo il 14 febbraio. Se, come pare ovvio, saranno confermati, il nuovo Paese sarà libero di dichiarare ufficialmente la propria indipendenza il prossimo 9 luglio.
Può sembrare una storia a lieto fine, ma non lo è. Semplicemente perché ancora siamo ben lontani dalla fine. Il governo del Sudan ha scelto la strada del pragmatismo, l'unica possibile. Il sanguinario presidente al Bashir, infatti, è messo da più parti sotto pressione.
Giudicato due anni fa colpevole dalla Corte penale internazionale per crimini di guerra e crimini contro l'umanità nel Darfur, oggi il dittatore si ritrova anche parecchi problemi in casa. E non solo al sud: le rivolte popolari in Tunisia e in Egitto sembrano aver incoraggiato alcuni gruppi a protestare contro il governo anche nel nord del Paese.
A sua volta, lo strappo che si è consumato con successo in Sudan potrebbe rinvigorire altri movimenti indipendentisti africani: il Mthwakazi Liberation, che vuole dividere il Matabeleland dallo Zimbabwe, e il gruppo etnico dei Lozi, che punta all'autonomia nella parte occidentale dello Zambia.
Nonostante tutto, al Bashir sa benissimo che la strada per la secessione è ancora lunga e piena di ostacoli. Partiamo dal piano politico. Non è ancora chiaro quale percorso seguirà il confine fra i due stati ed è verosimile che in diversi casi si possa arrivare allo scontro.
La regione centrale di Abyei, ad esempio (10 mila chilometri quadrati fertili e ricchi di petrolio) è contesa fra le due parti. C'è poi la questione del diritto di cittadinanza nel nuovo stato: a quali sudanesi sarà riconosciuto? In che modo?
Sul piano economico, come prevedibile, il discorso assume toni drammatici. Il Sudan ha un debito pubblico da 36 miliardi di dollari che i nuovi cittadini del sud non hanno nessuna intenzione di tenersi sulle spalle.
Ma oltre ai soldi da pagare, c'è anche la ricchezza da produrre. I negoziati più difficili saranno proprio quelli relativi alle risorse economiche. I due stati dovranno trovare un accordo per spartirsi i terreni più produttivi, alcuni dei quali bagnati dal Nilo, le miniere d'oro, il gas naturale e, soprattutto, il petrolio.
Sarà proprio questo il punto più delicato della trattativa. Sia il nord che il sud del Paese fondano la stragrande maggioranza della propria economia sull'oro nero. Ma, purtroppo per loro, anche a secessione avvenuta, nessuno dei due territori potrà fare a meno dell'altro.
Se nel sud, prevalentemente rurale, si trovano i tre quarti dei giacimenti, l'unico oleodotto del paese arriva a Port Sudan, nel nord. Qui sorgono anche tutte le infrastrutture per la lavorazione.
Non è certo facile immaginare che gli abitanti delle regioni meridionali scelgano di privarsi, seppure in parte, della loro unica ricchezza. Si fa strada così il progetto per un nuovo oleodotto tra Juba (Sudan meridionale) e Lamu (Kenya), che costringerebbe il nord a sperare in una produzione autonoma da sviluppare attraverso giacimenti nel mar Rosso.E' inoltre probabile che nel nuovo stato meridionale si formino diversi gruppi in contrasto fra loro per il controllo delle risorse. Conflitti che potenzialmente si aggiungeranno a quelli lungo il nuovo confine, in corrispondenza dei territori più contesi. Tutto questo in una delle regioni più sottosviluppate del mondo.
Sud Sudan, rischio effetto domino
di Alberto Tundo - Peacereporter - 17 Gennaio 2011
Canti e balli a Juba per l'esito di un referendum che al di là del risultato suggella un principio che potrebbe essere reclamato altrove
Lo storico strappo si è consumato pacificamente, con un referendum durato una settimana. Il Sud Sudan ha scelto la secessione in modo netto e inequivocabile. I risultati definitivi verranno annunciati solo il 14 febbraio ma le prime cifre non lasciano spazio a dubbi. Altissima l'affluenza, l'80 per cento in media (al nord ha votato più o meno un elettore su due, ndr), il 95 per cento a Juba, la capitale del nuovo stato.
Qui, nel seggio allestito presso l'università, si sono registrati 2663 voti a favore dell'indipendenza e 69 contro e non si tratta di un'eccezione.
Da sabato sera, gli abitanti del sud festeggiano, si segnano con la croce, si genuflettono davanti ai tabernacoli e ai memoriali dedicati a John Garang, l'ex ufficiale dell'esercito diventato l'eroe dell'indipendenza, colui che con Omar al Bashir, il presidente sudanese, firmò quel Comprehensive Peace Agreement che mise fine ad una guerra civile di 22 anni e oltre due milioni di morti e che prevedeva appunto un referendum con cui il sud, nero e cristiano, avrebbe potuto dire addio al nord arabo e musulmano.
Era il 9 gennaio 2005. Garang morì poche settimane dopo, in un incidente aereo, senza aver tempo di vedere il compimento di ciò per cui si era battuto.
La sua eredità l'ha raccolta Salva Kiir Mayardit, uno dei vice di al Bashir a Khartoum, presidente del Sud Sudan e leader del Sudan People's Liberation Movement, che dalla cattedrale cattolica di Juba ha invitato la sua gente a perdonare gli ex nemici per la repressione, le morti e le torture.
Sembrerebbe essersi chiuso un fronte ma altri ne restano aperti ed altri ancora potrebbero aprirsi a catena, nel Paese e anche fuori dai suoi confini. Juba e Khatoum non hanno ancora risolto le dispute sugli stati del Nilo Blu e del Kordofan meridionale ma soprattutto quella su Abiyei, la regione petrolifera a cavallo della frontiera in cui era previsto un referendum a parte per decidere se far parte del nord o del sud.
Tutto rimandato in tutte e tre le aree. Il sud se ne va con tutto il suo petrolio, coltivando già progetti riguardanti una pipeline tra Juba e Lamu, in Kenya, lasciando al nord speranze circa una produzione autonoma da sviluppare da giacimenti individuati nel mar Rosso e con una serie di grane.
Il primo fronte caldo è il Darfur, grande regione dell'ovest del Paese, per anni martoriata da una guerra civile che dal 2003 ha fatto 300 mila morti e quasi tre milioni di sfollati.
A Doha in Qatar la mediazione tra il governo e il principale gruppo di rebelli, il Jem (Justice and Equality Movement) prosegue stancamente, con la guerriglia che dopo aver abbandonato il tavolo di pace ha fatto capire di essere disposta a negoziare una sospensione delle ostilità; stando attenta a non cedere troppo, per non essere superata dal Justice and Liberation Movement, un'alleanza di una decina di gruppi armati gravitanti intorno all'orbita libica e a quella etiope, più recalcitranti.
Problemi anche nel nordest del Paese, dov'è attivo un blocco di milizie tribali, l'Eastern Front, che chiede una ridistribuzione delle rendite petrolifere a vantaggio delle tribù insediate nell'area, che coincide con gli stati del Mar Rosso, Kassala e Al Qadarif. Il gruppo ha minacciato più volte di interrompere il flusso petrolifero in transito verso Port Sudan, il principale porto del Paese.
Ma non è solo a Khartoum che il possibile effetto domino della secessione del Sud Sudan fa paura. Proprio all'esperienza della lotta indipendentista intrapresa da Juba si richiama il Mthwakazi Liberation Front di Fidelis Ncube, cioè il movimento che vuole dividere il Matabeleland dallo Zimbabwe.
L'area copre due province, rispettivamente il Matabeleland settentrionale e quello meridionale, che si estendono su un'area che è poco più di un terzo dell'intera superficie del Paese.
Le recriminazione suonano identiche: la regione - dice l'Mlf - a dispetto del suolo, ricco di idrocarburi e minerali, non ha beneficiato di questo suo tesoro. I fondi se li sono spartiti ad Harare.
Sottotitolo, è ora di andarsene. Anche perché il governo di Mugabe qui ha compiuto massacri che hanno contribuito, agli occhi di molti, a rendere l'opzione una prospettiva per niente negoziabile.
La parola secessione ha fatto saltare sulle sedie anche il governo dello Zambia, alle prese con una crescente fibrillazione nella parte occidentale del Paese, dove cova il malumore dei Lozi, un gruppo etnico che vive prevalentemente di pastorizia, estremamente legato ai propri riti e alle sue cerimonie, i cui leader sembrano avere imboccato la strada della separazione.
Qui, proprio negli ultimi giorni, la polizia ha risposto usando la forza, reprimendo le contestazioni e uccidendo un dimostrante e proibendo gli assembramenti il luoghi pubblici, anche per le messe.
La lezione del Sud Sudan dimostra che i confini decisi dalle potenze coloniali si possono ridiscutere. E' un principio al quale diversi gruppi, etnie o tribù potrebbero richiamarsi, con esiti imprevidibili. E in Africa, con confini tracciati arbitrariamente a tavolino decenni fa, i fronti caldi non mancano.
Sudan, sangue sulla frontiera
di Alberto Tundo - Peacereporter - 12 Gennaio 2011
Oltre sessanta morti in attacchi e imboscate nelle regioni contese tra nord e sud che restano un'incognita preoccupante nei rapporti tra i due Paesi
Un passo avanti e uno indietro. Mentre il Sudan entra nel quarto giorno di un referendum decisivo che pure si sta svolgendo pacificamente, il sangue torna a scorrere laddove era più prevedibile: lungo la martoriata e contesa frontiera tra il nord e il sud del Paese.
Negli ultimi sei giorni si sono registrate imboscate e scontri tra gruppi armati che hanno fatto oltre 60 morti: gli episodi si sono verificati nello stato di Unity, regione petrolifera considerata parte del nuovo Sud Sudan indipendente, nel Kordofan meridionale e ad Abiyei, aree invece sulle quali Khartoum e Juba non hanno ancora trovato un accordo e difficilmente riusciranno a intendersi in un futuro prossimo.
Tra venerdì e sabato, quando fervevano gli ultimi preparativi per l'inizio delle operazioni di voto, è partito l'attacco dei miliziani agli ordini di Gatluak Gai, un ex comandante ribelle del Sudan People's Liberation Army (Spla), l'esercito indipendentista che adesso costituirà la colonna portante delle forze armate del Sud Sudan. A Juba sospettano che Gai e i suoi siano incoraggiati e finanziati da Khartoum con l'obiettivo di far deragliare il referendum.
Secondo quanto riferito dal generale dell'Spla Gier Chuang Aluong, il ministro degli Interni del Sud Sudan, le milizie hanno attaccato una base dell'esercito regolare, uccidendo sei soldati. Nel contrattacco, i militari avrebbero ucciso oltre 30 miliziani, arrestandone 32, ai quali adesso verrà chiesto chi e perché ha deciso l'assalto e le imboscate.
L'area più calda resta quella di Abiyei, la regione a cavallo della frontiera che fino a pochi anni fa produceva da sola il 25 per cento della ricchezza petrolifera del Sudan. Qui si sarebbe dovuto tenere un referendum speciale per decidere se il territorio è parte del nord o del sud del Sudan.
La delicatezza della situazione e l'importanza degli interessi in gioco ha spinto le due parti a rimandarlo a data da destinarsi ma le ferite restano aperte. Domenica hanno cominciato a circolare notizie di un attacco a poliziotti sudsudanesi con un bilancio di 20 morti: le voci sono state confermate dal colonnello Philip Aguer, un portavoce dell'esercito del Sud Sudan.
Secondo la ricostruzione dell'ufficiale, ad attaccate sarebbero state truppe delle Forze di Difesa Popolare affiancate da milizie Messereya, una popolazione nomade araba che nella seconda guerra civile sudanese si era schierata con Khartoum.
Le stesse milizie sono responsabili dell'attacco ad uno dei pulmini organizzati per riportare gli elettori emigrati nel nord a votare nei loro villaggi: il bilancio è di 10 morti e 18 feriti.
Negli ultimi giorni si sono registrati una trentina di episodi analoghi: l'ultimo al confine tra Bahr el Gazel e il Kordofan meridionale, una regione contesa come Abiyei e divisa tra una popolazione cristiana, i Ngok Dinka, che vive prevalentemente di agricoltura, e i Messereya, pastori nomadi che si spingono a sud con il proprio gregge nei periodi di siccità: gli scontri, sempre frequenti, tra i due gruppi per il possesso della terra sono diventati politici, con Juba che si rifiuta di riconoscere loro la cittadinanza (e quindi il diritto di voto) e Khartoum che invece vuole farli votare, sapendo che si opporrebbero alla secessione del sud.
Che però ormai è un dato acquisito, anche perché l'affluenza ha superato il 60 per cento, la soglia al di sotto della quale sarebbe stato dichiarato nullo. Nel sud, non ci si chiede più "come va?" ma "hai votato ?", segno che la popolazione sente tutta l'importanza di un momento percepito come storico. Tanto che oltre 120 mila sudanesi originari del sud ma residenti nella cosiddetta "black belt" attorno a Khartoum, nelle ultime settimane sono tornati nelle terre d'origine per votare.
Migliaia di persone sono in arrivo anche da Uganda e Kenya, dove pure l'International Organization for Migration delle Nazioni Unite aveva predisposto seggi elettorali per la diaspora, che in parte non si è fidata dell'Onu, temendo che gli osservatori avrebbero potuto essere infiltrati da agenti sudanesi. L'indipendenza del sud è alle porte: i risultati definitivi verranno annunciati il 14 febbraio.
Resta la questione della frontiera: una frontiera etnica ma anche religiosa, tra un nord musulmano e un sud cristiano animista, sulla quale passano anche interessi economici: basta dare un'occhiata ad una mappa satellitare per mettere a confronto le terre verdi della parte meridionale, già ricca di petrolio, e il brullo nord per capire perché Khartoum si opponga alla secessione.
A sud si festeggia già ma con un po' di amaro in bocca: mancano ancora alcune terre "irredente": Abiyei, il Kordofan meridionale e il Nilo Blu. Non lo faceva notare un pinco pallino qualsiasi ma Mabior de Garang, il figlio dell'eroe della lotta indipendentista del Sud Sudan, John Garang de Mabior, dando voce al sentimento di molti.
La questione andrà affrontata e trovare una soluzione non sarà facile. Intanto, nelle terre contese il sangue è già tornato a scorrere.
Traduzione di Alessandro Lattanzio per www.eurasia-rivista.org
Il Sudan è una nazione diversa e un paese che rappresenta la pluralità dell’Africa delle varie tribù, clan, etnie, gruppi religiosi. Tuttavia l’unità del Sudan è in questione, mentre si parla di nazioni unificanti e del giorno della creazione degli Stati Uniti d’Africa attraverso l’Unione africana.
La ribalta è per il referendum del gennaio 2011 in Sud Sudan. L’amministrazione Obama ha annunciato ufficialmente che sostiene la separazione del Sudan meridionale dal resto del Sudan.
La balcanizzazione del Sudan è quello che è veramente in gioco. Per anni i dirigenti ed i funzionari del Sud Sudan sono stati sostenuti dagli USA e dall’Unione europea.
La politicamente motivata demonizzazione del Sudan
Una campagna di demonizzazione importante è in corso contro il Sudan e il suo governo. È vero, il governo sudanese di Khartoum ha avuto un record negativo per quanto riguarda i diritti umani e la corruzione dello stato, e nulla poteva giustificare questo.
Per quanto riguarda il Sudan, condanne selettive o mirate sono state attuate. Ci si dovrebbe, tuttavia, chiedere perché la leadership sudanese è presa di mira dagli Stati Uniti e dall’Unione europea, mentre la situazione dei diritti umani in diversi clienti sponsorizzati dagli Stati Uniti tra cui l’Arabia Saudita, Egitto, Emirati Arabi Uniti, e l’Etiopia sono casualmente ignorate.
Khartoum è stato diffamata come una oligarchia autocratica colpevole di genocidio mirato sia in Darfur e Sud Sudan. Questa attenzione deliberata sullo spargimento di sangue e l’instabilità nel Darfur e nel Sud Sudan è politica e motivata dai legami di Khartoum con gli interessi petroliferi cinesi.
Il Sudan fornisce alla Cina una notevole quantità di petrolio. La rivalità geo-politica tra Cina e Stati Uniti per il controllo delle forniture energetiche mondiali e africane, è il vero motivo per il castigo del Sudan e il forte sostegno dimostrato dagli Stati Uniti, dall’Unione europea e dagli ufficiali israeliani alla secessione nel Sud Sudan.
E’ in questo contesto che gli interessi cinesi sono stati attaccati. Ciò include l’attacco dell’ottobre 2006 alla Greater Nile Petroleum Company di Defra, Kordofan, da parte della milizia del Justice and Equality Movement (JEM).
Distorcere le violenze in Sudan
Mentre c’è una crisi umanitaria in Darfur e un forte aumento del nazionalismo regionale nel Sudan meridionale, le cause profonde del conflitto sono stati manipolate e distorte. Le cause di fondo della crisi umanitaria in Darfur e il regionalismo nel Sud Sudan sono intimamente collegate a interessi strategici ed economici. Se non altro, l’illegalità e i problemi economici sono i veri problemi, che sono stati alimentati da forze esterne.
Direttamente o tramite proxy (pedine) in Africa, gli Stati Uniti, l’Unione europea e Israele sono i principali architetti degli scontri e dell’instabilità sia in Darfur che in Sud Sudan. Queste potenze straniere hanno finanziato, addestrato e armato le milizie e le forze di opposizione al governo sudanese in Sudan. Esse scaricano la colpa sulle spalle di Khartoum per qualsiasi violenza, mentre esse stesse alimentano i conflitti al fine di controllare le risorse energetiche del Sudan.
La divisione del Sudan in diversi stati è parte di questo obiettivo. Il Supporto al JEM, al Sud Sudan Liberation Army (SSLA) e alle altre milizie che si oppongono al governo sudanese da parte degli Stati Uniti, dell’Unione europea e d’Israele è orientato al raggiungimento dell’obiettivo di dividere il Sudan.
E’ anche un caso che per anni, Stati Uniti, Gran Bretagna, Francia, e l’intera UE, con la scusa dell’umanitarismo stiano spingendo al dispiegamento di truppe straniere in Sudan. Hanno attivamente sostenuto il dispiegamento di truppe NATO in Sudan sotto la copertura di un mandato di peacekeeping delle Nazioni Unite.
Si tratta della rievocazione delle stesse modalità utilizzate dagli Stati Uniti e dall’Unione europea in altre regioni, in cui i paesi sono stati suddivisi a livello informale o formale e le loro economie ristrutturate dai proxy installati da governi stranieri, sotto la presenza di truppe straniere.
Questo è quello che è successo nella ex Jugoslavia (attraverso la creazione di numerose nuove repubbliche) e nell’Iraq occupato dagli anglo-statunitensi (attraverso la balcanizzazione soft tramite una forma di federalismo calcolato, volto a definire uno stato debole e de-centralizzato).
Le truppe straniere e una presenza straniera hanno fornito la cortina per lo smantellamento dello stato e l’acquisizione estera delle infrastrutture, risorse ed economie pubbliche.
La questione dell’identità in Sudan
Mentre lo stato sudanese è stato dipinto come oppressivo nei confronti del popolo del Sud Sudan, va osservato che sia il referendum che la struttura di condivisione del potere del governo sudanese, rappresentano qualcos’altro.
L’accordo per la condivisione del potere a Khartoum tra Omar Al-Basher, il presidente del Sudan, include il SPLM. Il leader del SPLM, Salva Kiir Mayardit, è il primo vicepresidente del Sudan e presidente del Sud Sudan.
La questione etnica è stata anche portata alla ribalta dal nazionalismo regionale o etno-regionale che è stato coltivato in Sud Sudan. La scissione in Sudan tra i cosiddetti arabi sudanesi e i cosiddetti africani sudanesi è stata presentata al mondo come la forza principale del nazionalismo regionale che motivatamente chiede di fondare uno Stato in Sud Sudan. Nel corso degli anni, questa auto-differenziazione è stata diffusa e socializzata nella psiche collettiva delle popolazioni del Sud Sudan.
Eppure, le differenze tra i cosiddetti sudanesi arabi e i cosiddetti africani sudanesi non sono un granché. L’identità araba dei cosiddetti arabi sudanesi si basa principalmente sull’uso della loro lingua araba. Supponiamo anche che le identità etniche sudanesi sono totalmente separate. E’ ancora noto, in Sudan, che entrambi i gruppi sono molto eterogenei.
L’altra differenza tra il Sud Sudan e il resto del Sudan è che l’Islam predomina nel resto del Sudan e non in Sud Sudan. Entrambi i gruppi sono ancora profondamente legati l’uno all’altro, tranne che per un senso di auto-identificazione, che è ben nel loro diritto avere. Eppure, sono proprio queste diverse identità su cui si è giocato da parte dei leader locali e delle potenze straniere.
La negligenza della popolazione locale di diverse regioni, da parte delle élites del Sudan, è la causa principale dell’ansia o dell’animosità realmente motivate tra le persone nel Sud Sudan e il governo di Khartoum, e non le differenze tra i cosiddetti arabi e i cosiddetti africani sudanesi.
Il favoritismo regionale ha operato in Sud Sudan.
La questione è anche aggravata dalla classe sociale. Il popolo del Sud Sudan crede che la sua condizione economica e tenore di vita migliorerà se formerà una nuova repubblica. Il governo di Khartoum e i sudanesi non-meridionali sono stati usati come capri espiatori per le miserie economiche del popolo del Sud Sudan e della loro percezione della povertà relativa da parte della leadership locale del Sud Sudan.
In realtà, i funzionari locali del Sudan meridionale non miglioreranno le condizioni di vita delle popolazioni del Sud Sudan, ma manterranno uno status quo cleptocratico. [1]
Il progetto a lungo termine per balcanizzare il Sudan e i suoi collegamenti con il mondo arabo
In realtà, il progetto di balcanizzazione del Sudan è in corso dalla fine del dominio coloniale britannico nel Sudan anglo-egiziano. Sudan ed Egitto sono stati un paese solo per molti differenti periodi. Sia l’Egitto che il Sudan sono stati anche un paese, in pratica fino al 1956.
Fino alla indipendenza del Sudan, c’era un forte movimento per mantenere l’Egitto e il Sudan uniti come un unico stato arabo, che stava lottando contro gli interessi britannici. Londra, tuttavia, alimentò il regionalismo sudanese contro l’Egitto, e nello stesso modo il regionalismo è al lavoro nel Sud Sudan contro il resto del Sudan.
Il governo egiziano è stato raffigurato nello stesso modo di come lo è oggi Khartoum. Gli egiziani sono stati dipinti come sfruttatori dei sudanesi, come i sudanesi non-meridionali sono stati dipinti come sfruttatori dei sudanesi del sud.
Dopo l’invasione britannica di Egitto e Sudan, gli inglesi riuscirono anche a mantenere le loro truppe di stanza in Sudan. Anche mentre lavoravano per dividere il Sudan dall’Egitto, i britannici hanno lavorato per creare differenziazioni interne tra il Sud Sudan e il resto del Sudan. Ciò è stato fatto attraverso il condominio anglo-egiziano del 1899-1956, che costrinse l’Egitto a condividere il Sudan con la Gran Bretagna dopo le rivolte mahdiste.
Alla fine, il governo egiziano avrebbe rifiutato di riconoscere il condominio anglo-egiziano come legale. Il Cairo avrebbe continuamente chiesto agli inglesi di porre fine alla loro occupazione militare illegale del Sudan e di smettere di impedire la re-integrazione di Egitto e Sudan, ma gli inglesi si rifiuteranno.
Sarà sotto la presenza delle truppe britanniche che il Sudan si sarebbe dichiarato indipendente. Questo è ciò che porterà alla nascita del Sudan come una stato arabo e africano separato dall’Egitto. Così, il processo di balcanizzazione è iniziato con la divisione del Sudan dall’Egitto.
Il Piano Yinon al lavoro in Sudan e nel Medio Oriente
La balcanizzazione del Sudan è legato anche al Piano Yinon, che è la continuazione dello stratagemma britannico. L’obiettivo strategico del Piano Yinon è quello di garantire la superiorità israeliana attraverso la balcanizzazione del Medio Oriente e degli stati arabi, in stati più piccoli e più deboli. E’ in questo contesto che Israele è stato profondamente coinvolto in Sudan. Gli strateghi israeliani videro l’Iraq come la loro più grande sfida strategica da uno stato arabo.
È per questo che l’Iraq è stato delineato come il pezzo centrale per la balcanizzazione del Medio Oriente e del mondo arabo.The Atlantic, in questo contesto, ha pubblicato un articolo nel 2008 di Jeffrey Goldberg “Dopo l’Iraq: sarà così il Medio Oriente?” [2] In questo articolo di Goldberg, una mappa del Medio Oriente è stato presentato, che seguiva da vicino lo schema del Piano Yinon e la mappa di un futuro in Medio Oriente, presentato dal Tenente-colonnello (in pensione) Ralph Peters, nell’Armed Forces Journal delle forze armate degli Stati Uniti, nel 2006.
Non è neanche un caso che da un Iraq diviso a un Sudan diviso, comparivano sulla mappa. Libano, Iran, Turchia, Siria, Egitto, Somalia, Pakistan e Afghanistan erano presentati anch’esse come nazioni divise.
Importante, nell’Africa orientale nella mappa, illustrata da Holly Lindem per l’articolo di Goldberg, l’Eritrea è occupata dall’Etiopia, un alleato degli Stati Uniti e d’Israele, e la Somalia è divisa in Somaliland, Puntland, e una più piccola Somalia.
In Iraq, sulla base dei concetti del Piano Yinon, gli strateghi israeliani hanno chiesto la divisione dell’Iraq in uno stato curdo e due stati arabi, una per i musulmani sciiti e l’altra per i musulmani sunniti.
Ciò è stato ottenuto attraverso la balcanizzazione morbida del federalismo nell’Iraq, che ha permesso al Governo regionale del Kurdistan di negoziare con le compagnie petrolifere straniere per conto suo. Il primo passo verso l’istituzione di ciò fu la guerra tra Iraq e Iran, che era discussa nel Piano Yinon.
In Libano, Israele ha lavorato per esasperare le tensioni settarie tra le varie fazioni cristiane e musulmane, nonché i drusi. La divisione del Libano in diversi stati è anche visto come un mezzo per balcanizzare la Siria in piccoli diversi stati arabi settari. Gli obiettivi del Piano Yinon sono di dividere il Libano e la Siria in diversi stati sulla base dall’identità religiosa e settaria per i musulmani sunniti, sciiti, cristiani e drusi.
A questo proposito, l’assassinio di Hariri e il Tribunale speciale per il Libano (STL) giocano a favore di Israele, creando divisioni interne nel Libano e alimentando il settarismo politico.
Questo è il motivo per cui Tel Aviv è stato assaiu favorevole al TSL e l’appoggia assai attivamente. In un chiaro segno della natura politicizzata del TSL e dei suoi legami con la geo-politica, gli Stati Uniti e la Gran Bretagna hanno anche dato al TSL milioni di dollari.
I legami tra gli attacchi contro i copti egiziani e il referendum in Sud Sudan
Dall’Iraq all’Egitto, i cristiani in Medio Oriente sono sotto attacco, mentre le tensioni tra musulmani sciiti e sunniti sono alimentate. L’attacco a una chiesa copta di Alessandria, il 1° gennaio 2011, o le successive proteste e rivolte copte non dovrebbero essere considerati isolatamente. [3]
Né la furia successiva dei cristiani copti espressasi nei confronti dei musulmani e del governo egiziano. Questi attacchi contro i cristiani sono legati ai più ampi obiettivi geo-politica di Stati Uniti, Gran Bretagna, Israele e NATO sul Medio Oriente e sul mondo arabo.
Il Piano Yinon precisa che se l’Egitto viene diviso, il Sudan e la Libia sarebbero anch’esse balcanizzate e indebolite. In questo contesto, vi è un legame tra il Sudan e l’Egitto. Secondo il Piano Yinon, i copti o cristiani d’Egitto, che sono una minoranza, sono la chiave per la balcanizzazione degli stati arabi del Nord Africa.
Così, secondo il piano Yinon, la creazione di uno stato copto in Egitto (sud Egitto) e le tensioni cristiani-musulmani in Egitto, sono dei passi essenziali per balcanizzare il Sudan e il Nord Africa.
Gli attacchi ai cristiani in Medio Oriente sono parte delle operazioni di intelligence destinata a dividere il Medio Oriente e il Nord Africa. La tempistica degli attacchi crescenti ai cristiani copti in Egitto e il processo per il referendum nel Sud Sudan, non è una coincidenza.
Gli eventi in Sudan ed Egitto sono collegati l’uno all’altro e sono parte del progetto per balcanizzare il mondo arabo e il Medio Oriente. Essi devono anche essere studiati in collaborazione con il Piano Yinon e con gli eventi in Libano e in Iraq, nonché in relazione agli sforzi per creare un divario sunniti-sciiti.
Le connessioni esterne di SSLA, SPLM e milizie nel Darfur
Come nel caso del Sudan, l’interferenza o l’intervento sono stati usati per giustificare l’oppressione dell’opposizione interna. Nonostante la corruzione, Khartoum è stata sotto assedio per aver rifiutato di essere semplicemente un proxy.
Il Sudan s’è giustificato sospettando le truppe straniere e accusando Stati Uniti, Gran Bretagna e Israele di erodere la solidarietà nazionale del Sudan.
Per esempio, Israele ha inviato armi ai gruppi di opposizione e ai movimenti separatisti in Sudan. Ciò è stato fatto attraverso l’Etiopia per anni, fino a quando l’Eritrea è diventata indipendente dall’Etiopia, che ha fatto perdere all’Etiopia l’accesso al Mar Rosso, e fatto sviluppare cattive relazioni tra gli etiopi e gli eritrei. In seguito le armi israeliane sono entrate nel Sud Sudan dal Kenya.
Dal Sud Sudan, il People’s Liberation Movement del Sud Sudan (SPLM), che è il braccio politico del SSLA, avrebbe ceduto le armi alle milizie nel Darfur. I governi di Etiopia e Kenya, così come l’Uganda People’s Defence Force(UPDF), hanno anche lavorato a stretto contatto con Stati Uniti, Gran Bretagna e Israele in Africa orientale.
Il grado d’influenza israeliana nell’opposizione sudanese e nei gruppi separatisti è significativo. Il SPLM ha forti legami con Israele e suoi membri e sostenitori regolarmente visitano Israele. È grazie a questo, che Khartoum ha capitolato e ha rimosso le restrizioni ai passaporti sudanesi per le visita in Israele, alla fine del 2009, per soddisfare il SPLM. [4] Salva Kiir Mayardit ha anche detto che il Sud Sudan riconoscerà Israele quando sarà separato dal Sudan.
The Sudan Tribune ha riferito, il 5 marzo 2008, che gruppi separatisti in Darfur e nel Sudan meridionale aveva uffici in Israele:
I sostenitori di Israele [del Movimento di liberazione del Popolo del Sudan ] hanno annunciato la costituzione della sede in Israele del Sudan People’s Liberation Movement, ha detto oggi un comunicato stampa.
“Dopo consultazioni con i leader della SPLM a Juba, i sostenitori del SPLM in Israele hanno deciso di istituire l’ufficio del SPLM in Israele”. Detto [sic.] un comunicato ricevuto via email da Tel Aviv, firmato dalla segreteria dell’SLMP in Israele. La dichiarazione ha detto che l’ufficio avrebbe promosso le politiche e la visione del SPLM nella regione.
Ha inoltre aggiunto che, in conformità con il Comprehensive Peace Agreement, lo SPLM ha il diritto di aprire uffici in qualsiasi paese, compreso Israele. Ha inoltre segnalato che ci sono circa 400 sostenitori dell’SPLM in Israele. Il leader dei ribelli del Darfur, Abdel Wahid al-Nur ha detto la scorsa settimana, che ha aperto un ufficio a Tel Aviv. [5]”
Il dirottamento del referendum del 2011 in Sud Sudan
Cosa è successo al sogno di un’Africa unita o di un mondo arabo unito? Il Panarabismo, un movimento di unità di tutti i popoli di lingua araba, ha avuto pesanti perdite, come nell’unità africana. Il mondo arabo e l’Africa sono stati costantemente balcanizzati.
La secessione e balcanizzazione in Africa orientale e nel mondo arabo sono nei piani degli Stati Uniti, d’Israele e della NATO.
L’insurrezione della SSLA è stata segretamente sostenuta da Stati Uniti, Gran Bretagna e Israele dagli anni ’80. La formazione di un nuovo stato in Sudan non è destinata a servire gli interessi del popolo del Sud Sudan. Fa parte di un più ampio programma geo-strategico mirato al controllo del Nord Africa e del Medio Oriente.
Il conseguente processo di “democratizzazione” che porta fino al referendum del Gennaio 2011, serve gli interessi delle compagnie petrolifere anglo-statunitensi e alla rivalità contro la Cina. Questo avviene a detrimento della vera sovranità nazionale in Sud Sudan.
*Mahdi Darius Nazemroaya è un ricercatore associato del Centre for Research on Globalization (CRG).
NOTE:
[1] una cleptocrazia è un governo e/o stato che lavora per proteggere, estendere, approfondire, continuare e consolidare la ricchezza della classe dirigente.
[2] Jeffrey Goldberg, “After Iraq: What Will The Middle East Look Like?” The Atlantic, gennaio/febbraio 2008.
[3] William Maclean, “Copts on global Christmas alert after Egypt bombing”, Reuters, 5 gennaio 2011.
[4] “Sudan removes Israel travel ban from new passport”, Sudan Tribune, 3 ottobre 2009: http://www.sudantribune.com/spip.php?iframe&page=imprimable&id_article=32776
[5] “Sudan’s SPLM reportedly opens an office in Israel – statement”, Sudan Tribune, 5 marzo 2008: