mercoledì 23 febbraio 2011

Libia: è guerra civile

Una serie di articoli sulla sanguinosa guerra civile in corso in Libia in queste ore.


Gheddafi accende la guerra civile
di Nicola Sessa - Peacereporter - 22 Febbraio 2011

Gheddafi rimane 'fino alla morte'

Muammar Gheddafi non lascia. "Io sono il leader di una rivoluzione, non sono un presidente. Non ho un mandato da cui dimettermi", e perciò morirà da martire, come un combattente che resiste fino all'ultima goccia di sangue.

Per settantacinque minuti il leader libico ha urlato rabbioso contro i "ratti che hanno invaso le strade", contro le "bande di giovani drogati e ubriachi" che assaltano le caserme e le stazioni di polizia.

Il Colonnello si è rivolto ai suoi sostenitori che lo ascoltavano nella Piazza Verde di Tripoli: "Uscite dalle vostre case, scendete in strada. Cacciate i nemici, andate a prenderli fin dentro le loro tane".

Gheddafi prospetta il fantasma della guerra civile, ma di fatto la dichiara con il suo discorso. Mettendo libici contro libici, civili contro civili: "Indossate una fascia verde come riconoscimento, a partire da domani andate e combattete, ripulite la Libia casa per casa!". "Liberate Bengasi!"

È il vero punto di non ritorno, è il momento dello scontro finale e, presumibilmente, il sangue scorrerà a fiumi. "Finora non ho ordinato che si sparasse neanche una sola pallottola, ma quando lo farò, tutto andrà in fiamme".

E poi si rivolge ai famigliari dei giovani manifestanti: "Sono giovani, non hanno colpe, sono stati strumentalizzati, drogati e ubriacati dai servitori del diavolo. Riportateli a casa". Perché da domani non ci saranno più scusanti.

Dalla sua residenza di Tripoli - poi diventata monumento nazionale - bombardata "da 170 caccia americani" nel 1986, il rais di Tripoli ha rivendicato l'orgoglio nazionale della Libia, un paese "leader mondiale che oggi temono tutti".

I suoi attacchi sono trasversali, i suoi nemici vanno dal diavolo occidentale - Usa e Gran Bretagna - agli estremisti islamici che vorrebbero trasformare la Libia in "una base di Al-Qaeda". "Volete questo?". "Che gli Stati Uniti occupino la Libia come hanno fatto con Afghanistan, Iraq e Somalia per sradicare l'estremismo islamico?"

La telecamera della Tv di stato indugia più volte sul monumento posto all'esterno della residenza: il pugno dorato libico che stritola un caccia americano.

Gheddafi ha poi fatto riferimento al discorso sulle riforme fatto il giorno prima dal figlio Saief al-Islam: maggiore autonomia alle regioni e ai comuni tramite la costituzione dai 50 fino ai 150 comitati del popolo che amministreranno il territorio. Ma questo è l'unico passaggio politico, durato pochi minuti.

Il discorso è sempre stato, per il resto, sul binario dell'attacco: contro l'Occidente che vuole riaprire l'epoca del colonialismo, contro le emittenti Tv arabe che hanno dato al mondo "una visione distorta del popolo dei coraggiosi, della gioventù patriottica", che è il vero volto della Libia, non quello mostrato dai codardi pagati da "un gruppo di malati che agisce dal di fuori".

"Da domani" assicura Gheddafi, "l'ordine e la sicurezza verranno ristabiliti in tutto il paese". Il leader ha dato il comando: esercito e polizia dovranno schiacciare la rivolta.
Ma, soprattutto, da domani partirà la vera sfida, quella più pericolosa: libici contro libici, civili contro civili.


Il Colonnello e lo spettro del golpe
di Guido Olimpio - Il Corriere della Sera - 23 Febbraio 2011

Gheddafi e la Libia: come è avvenuto a Tunisi e al Cairo, anche a Tripoli si potrebbero verificare cambi di alleanza


Un gruppo di ufficiali potrebbe rovesciare Muammar Gheddafi? Gli esperti di questioni libiche dubitano che le forze armate ne abbiano la capacità ma il centro studi americano Stratfor, con buoni agganci nel mondo dell’intelligence, ha prospettato questo scenario.

Il primo passo sarebbe l’imposizione da parte dell’Onu della no-fly zone sui cieli della Libia. Misura che impedirebbe a Gheddafi di usare i caccia e, soprattutto, gli elicotteri.

A questo punto i golpisti uscirebbero allo scoperto, costituendo un comitato simile a quello che portò alla deposizione del re e alla salita al potere di Gheddafi nel lontano 1969. Quella di Stratfor è una teoria in un quadro piuttosto confuso, dove le informazioni sicure sono poche. Come è avvenuto a Tunisi e al Cairo, anche a Tripoli si potrebbero verificare cambi di alleanza.

L’EST – Nelle regioni orientali, al confine con l’Egitto, ci sono i ribelli: giovani, attivisti, professionisti e veterani della politica (monarchici compresi). Controllano importanti sezioni degli impianti petroliferi e del gas. Al loro fianco reparti dell’esercito ammutinatisi dopo i primi giorni di violenza. A Derna e Al Bayda è marcata la presenza degli islamisti, sia moderati che radicali.

L’OVEST – Nelle regioni occidentali Gheddafi ha un controllo parziale. Gli scontri in alcuni quartieri di Tripoli dimostrano che anche la capitale è a rischio. La residenza di Bab El Azizia, da dove il Colonnello lancia i suoi proclami, rappresenta l’ultima trincea. Un secondo avamposto è invece nel Fezzan, dove si troverebbe Khamis, il figlio del raìs, comandante dell’omonima Brigata.

LE TRIBÙ – La maggioranza delle tribù sembra aver preso le distanze dal dittatore. Tra le “famiglie” dissidenti vi sono anche quelle che hanno offerto in questi anni gli uomini per le forze di sicurezza (come la Magariha). Gheddafi conta sul suo clan e spera di potersi comprare la fedeltà degli altri o comunque di dividerli.

L’ESERCITO – Sempre relegato in secondo piano, mai efficiente, diviso, ha dovuto cedere il passo alle molte polizie segrete. Negli ultimi giorni si è sostenuto che almeno dieci membri del consiglio militare avrebbero preso posizione contro il raìs. Un’insubordinazione accompagnata dal rifiuto di diverse unità (aeree, navali, terrestri) di partecipare al massacro.

Clamoroso il caso del ministro dell’Interno Younes Al Obeidi: il dittatore lo ha dato per ammazzato a Bengasi, invece è vivo e si è dimesso invitando i militari a far fronte comune con i manifestanti. E’ in questa fronda crescente che – secondo alcuni – potrebbe nascere la spinta per un golpe.

I PRETORIANI Gheddafi, nel suo discorso, ha usato termini da ultima battaglia. Per sostenerla può contare sugli apparati di sicurezza – ma non è chiaro quanti uomini gli siano rimasti fedeli – e sui mercenari fatti arrivare dai paesi arabi e africani (impossibile stimarne il numero). Come i figli di Saddam, anche quelli di Muammar hanno un compito nella difesa del regime.

Khamis comanda la sua Brigata, così come il fratello rivale Muatassim che ha voluto costituire la sua milizia. C’è poi l’unità Al Saika e gli agenti del Mukhabarat. Un ruolo importante potrebbe avere Abdullah Al Senussi, l’uomo che da tempo gestisce i servizi. Le ultime notizie sostengono che sia stato lui a salvare Khamis circondato dai ribelli nell’aeroporto di Al Bayda.


Tripoli, sangue e affari
di Michele Paris - Altrenotizie - 23 Febbraio 2011

Mentre il vento della rivolta continua a soffiare su tutto il Nord-Africa e il Medio Oriente, la risposta più dura alle richieste di libertà e giustizia sociale provenienti da popolazioni impoverite sta giungendo da quello che resta del regime di Muammar Gheddafi in Libia.

Il “leader” ha definito, in una fugace apparizione televisiva, “drogati e ratti” i manifestanti, chiarendo che la repressione sarà ancora maggiore e che, comunque, di fuga non se ne parla: lui morirà in Libia.

I bombardamenti aerei sui manifestanti e lo spiegamento di squadre di mercenari per le strade hanno già provocato centinaia di vittime, rivelando al tempo stesso la disperazione e la volontà del dittatore libico di impiegare qualsiasi mezzo per rimanere al potere.

Con un altro autocrate arabo potenzialmente vicino alla fine, i governi occidentali, nonostante le dichiarazioni ufficiali, si trovano di nuovo a fronteggiare con estremo timore la perdita di un regime con il quale condividono profondi legami economici e interessi strategici.

Le parole di Gheddafi confermano quanto si attendeva: la minaccia del pugno di ferro contro i rivoltosi era infatti già stata prospettata la scorsa domenica dal figlio del rais, Seif al-Islam, in una confusa apparizione televisiva che indicava la guerra civile come conseguenza inevitabile delle proteste di piazza. Un breve discorso dello stesso Gheddafi nella notte tra lunedì e martedì aveva smentito poi ogni voce sulla sua possibile fuga in Venezuela.

L’irrigidimento del regime si è manifestato così con le identiche tattiche che già avevano caratterizzato le fasi iniziali dell’insurrezione in Egitto e che il presidente Saleh continua ad impiegare in Yemen, mandando nelle piazze gruppi armati di sostenitori del governo che attaccano in maniera violenta gli oppositori.

A detta di testimoni libici citati dalla stampa internazionale, da giorni infatti, in una base aerea di Tripoli, starebbero sbarcando centinaia di mercenari provenienti da vari paesi africani per contribuire alla durissima repressione in corso. Di fronte alla strage messa in atto da Gheddafi, sembrano però emergere divisioni all’interno del regime.

Oltre ai più volte citati aerei libici atterrati a Malta, dopo che i piloti si erano rifiutati di sparare sulla folla, membri del governo, ufficiali dell’esercito e una schiera di diplomatici nelle ultime ore hanno abbandonato i propri incarichi in segno di protesta.

Secondo un giornale vicino alla famiglia Gheddafi, ad esempio, il ministro della Giustizia, Mustafa Abud al-Jeleil, avrebbe rassegnato le dimissioni. Lo stesso avrebbe fatto uno dei più anziani ufficiali libici, il colonnello Abdel Fattah Younes, di stanza a Bengasi, mentre Gheddafi ha messo agli arresti domiciliari il generale Abu Bakr Younes, accusato di aver disobbedito all’ordine di usare la forza per disperdere le proteste in svariate città.

I delegati della Libia all’ONU hanno poi rinunciato alle loro funzioni, chiedendo a Gheddafi di andarsene, così come il rappresentante di Tripoli presso la Lega Araba, Abdel Monem al-Howni.

La risposta dei governi occidentali alle violenze in Libia è apparsa come al solito fin troppo moderata. La responsabile degli affari esteri dell’Unione Europea, Catherine Ashton, ha ripetuto il consueto appello alla calma a entrambe le parti in causa, come se le ragioni delle due parti, o ancor più i mezzi della popolazione e di un regime con le sue forze di sicurezza, fossero in qualche modo equiparabili. L’Italia, il paese occidentale più vicino alla Libia e al suo leader, ha emesso da parte sua un comunicato di circostanza per condannare l’uso della forza sui civili.

Queste reazioni, d’altra parte, come per le altre rivolte che stanno sconvolgendo il mondo arabo, sono dettate dalle preoccupazioni di governi che in questi anni si sono dati da fare per stabilire contatti e fare affari con il regime di Gheddafi.

A partire almeno dagli anni Novanta, il governo libico ha intrapreso una serie di iniziative volte ad ammorbidire le posizioni occidentali nei propri confronti. Un’evoluzione culminata nel 2004 con la decisione presa dall’amministrazione Bush di rimuovere le sanzioni economiche precedentemente implementate.

In Europa, l’Italia - con i governi Berlusconi - e la Gran Bretagna sono state in prima fila nella corsa ad assicurarsi le risorse energetiche libiche e gli investimenti del clan Gheddafi. La Libia oggi esporta infatti verso i paesi UE circa l’80 per cento del proprio petrolio, di cui oltre il 30 per cento a beneficio dell’Italia, tanto che sul fronte del greggio Tripoli è attualmente il terzo fornitore europeo, dopo Norvegia e Russia.

Il governo di Londra ha fatto di tutto per ristabilire rapporti cordiali con Gheddafi, così da aprire la strada a lucrosi contratti per le proprie compagnie petrolifere, come la BP. La stessa liberazione nel 2009 di Abdelbaset al-Megrahi, l’unico condannato per l’esplosione sopra Lockerbie del volo Pan Am 103 nel dicembre 1988, detenuto in un carcere scozzese, venne da molti descritta come un favore concesso a Tripoli in cambio di un importante contratto petrolifero proprio per la BP.

Notevoli sono anche gli interessi dell’ENI, detentore di svariate commesse in Libia, e le cui attività sono ora in serio pericolo, come dimostra il rimpatrio d’urgenza di tutto il personale operante nel paese.

Un’iniziativa questa già adottata anche dalla norvegese Statoil, dalla francese Total, dalla spagnola Repsol e dalla stessa BP, la quale ha sospeso le trivellazioni esplorative in programma nel Golfo della Sirte.

I legami economici tra Europa e Libia non riguardano però solo il settore energetico, come sa bene il governo italiano. I fondi libici, sostanzialmente controllati dalla famiglia Gheddafi, hanno effettuato massicci investimenti in parecchie compagnie del nostro paese, delle quali detengono quote significative, a cominciare da FIAT, Unicredit e Mediobanca, ma anche Finmeccanica e lo stesso ENI.

Relazioni economiche e militari legano poi Londra e Tripoli. La Gran Bretagna da tempo addestra e rifornisce infatti l’esercito e le forze di sicurezza della Libia. Gli equipaggiamenti militari destinati a Tripoli sono stati congelati solo di recente, dopo lo scoppio della rivolta nel paese.

Come se non bastasse, ingenti riserve di valuta estera che Gheddafi e il suo entourage hanno accumulato, costringendo in uno stato di povertà gran parte del paese, si trovano su conti esteri e possono influenzare addirittura il comportamento di questo o quel governo.

Uno degli esempi più lampanti si ebbe nell’estate del 2008, in seguito all’arresto in un hotel di Ginevra di un altro figlio del rais, Hannibal Gheddafi, e della moglie, accusati di aver maltrattato due domestici marocchini.

In quell’occasione, la Libia adottò una serie di ritorsioni, tra cui la minaccia di chiudere i propri conti in Svizzera, mettendo a repentaglio la tenuta stessa del sistema bancario di quel paese. Poco dopo l’arresto, la famiglia Gheddafi ottenne le scuse ufficiali da parte delle autorità elvetiche e la liberazione della coppia di maneschi rampolli.

I timori occidentali sono dunque quelli di ritrovarsi senza un regime stabile che fino ad ora ha garantito regolari forniture di gas e petrolio, investimenti e, nel caso dell’Italia, un più o meno rigido controllo dei flussi migratori.

Le paure che animano soprattutto il nostro governo sono state espresse a Bruxelles dal Ministro degli Esteri Frattini, il quale ha messo in guardia dalla possibile instaurazione in Libia di un regime islamico radicale.

Se in Libia, come altrove, le proteste di piazza non sembrano in ogni caso avere un carattere religioso, ciò che preoccupa non è tanto l’Islam, dal momento che Frattini e gli altri governi occidentali non si fanno scrupoli nell’intrattenere ad esempio stretti legami con un regime oscurantista come quello dell’Arabia Saudita.

La loro inquietudine è bensì per un eventuale governo che risponda finalmente alle richieste del popolo e che sia in grado di costruire un percorso autonomo e non più disposto ad assecondare passivamente gli interessi occidentali.

La repressione del regime, intanto, non fa altro che inasprire la protesta, con i disordini che sempre più stanno interessando la capitale Tripoli, dopo che i rivoltosi da qualche giorno sembrano aver conquistato il controllo di Bengasi e delle regioni orientali del paese. Allo stesso tempo, cominciano ad arrivare notizie di numerosi scioperi che fanno pensare all’inizio di una mobilitazione dei lavoratori, come già accadde in Egitto poco prima della spallata decisiva a Mubarak.

Anche in Libia i manifestanti chiedono la fine della dittatura e l’instaurazione di un governo temporaneo secolare guidato dall’esercito e dai rappresentanti dei gruppi tribali nei quali è divisa la popolazione. Secondo alcuni osservatori, tuttavia, le prospettive della rivoluzione appaiono più complicate rispetto a Tunisia o Egitto.

In più di quarant’anni di regime assoluto, Gheddafi ha fatto leva su un senso di appartenenza tribale più profondo rispetto all’identità nazionale, stabilendo rapporti di favore con i clan più fedeli ed emarginando quelli rivali. In un tale scenario, il rischio concreto è appunto l’esplosione di violenze settarie e lo scivolamento verso una sanguinosa guerra civile.



Tocca alla Libia: ecco perchè e a chi conviene
di Marcello Foa - www.ilgiornale.it - 22 Febbraio 2011

Per capire che cosa sta accadendo a Tripoli bisogna considerare innanzitutto il quadro strategico. Non siamo di fronte a rivolte spontanee, ma indotte che mirano a replicare nel nord Africa quanto avvenuto alla fine degli anni Ottanta nell’ex Unione Sovietica.

Anche allora la rivolta partì da un piccolo Paese, la Lituania, e all’inizio nessuno immaginava che l’incendio potesse propagarsi ai Paesi vicini e non era nemmeno ipotizzabile che l’Urss potesse implodere. Il Maghreb non è l’Unione sovietica e non esistono sovrastrutture da far saltare, ma per il resto le analogie sono evidenti.

La Tunisia è il più piccolo dei Paesi della regione ed è servito da detonatore per la altre volte. A ruota è caduto il regime di Mubarak, la Libia è in subbuglio, domani forse Teheran e, magari sull’onda, Algeria, Marocco, Siria.

Che cos’avevano in comune i regimi tunisini, egiziano e libico? Il fatto di essere retti da leader autoritari, ormai vecchi, screditati, che pensavano di passare il potere a figli o fedelissimi inetti.

Non è un mistero: le rivolte sono state ampiamente incoraggiate – e per molti versi preparate – dal governo americano. Da qualche tempo Washington riteneva inevitabile l’esplosione del malcontento popolare e temendo che a guidare la rivolta potessero essere estremisti islamici o gruppi oltranzisti, ha proceduto a quella che appare come un’esplosione controllata, perlomeno in Egitto e in Tunisia.

Perché controllata? Perché prima di mettere in difficoltà Ben Ali e Mubarak, l’Amministrazione Obama ha cementato il già solidissimo rapporto con gli eserciti, i quali infatti non hanno mai perso il controllo della situazione e sono stati gli artefici della rivoluzione. Non scordiamocelo: oggi al Cairo e a Tunisi comandano i generali, che anche in futuro eserciteranno un’influenza decisiva.

Washington ha vinto due volte: si è assicurata per molti anni a venire la fedeltà di questi due Paesi e ha messo a segno una straordinaria operazione di immagine, dimostrando al mondo intero che l’America è dalla parte del popolo e della democrazia anche in regimi fino a ieri amici.

Le dinamiche libiche sono diverse perché Gheddafi non era un alleato degli Stati Uniti e perché le Ong legate al governo americano non hanno potuto stabilire contatti e legami con la società civile libica; insomma, non hanno potuto fertilizzare il terreno sul quale far germogliare la rivolta.

Che però è esplosa lo stesso. Per contagio e alimentando non la fedeltà dell’esercito, ma il suo malcontento. Come in tutte le rivoluzioni sono le forze armate a determinare l’esito delle rivolte popolari.

Gheddafi in queste ore paga gli errori commessi in passato. Come ha rilevato Domenico Quirico sulla Stampa, il Colonnello, da vecchio golpista qual’era, non si è mai fidato dei generali e ha proceduto a numerose purghe.

Gli uomini in divisa per 42 anni lo hanno temuto, ma non lo hanno mai davvero amato. Così ora molti di loro o si danno alla fuga o passano con i rivoltosi soprattutto nelle città lontane da Tripoli.

Gheddafi può contare solo sulle milizie private e su una piccola parte dell’esercito; è questa la ragione di una mossa altrimenti inspiegabile come quella di reclutare centinaia o forse migliaia di miliziani africani.

La conseguenza è inevitabile: sangue, sangue e ancora sangue. L’impressione è che Gheddafi alla fine sarà costretto a fuggire. L’immagine, ridicola, del Raìs in auto con l’ombrello ricorda quella di Saddam Hussein braccato dagli americani nei giorni della caduta di Bagdad. In ogni caso la situazione rischia di essere molto imbarazzante per l’Italia.

Se il regime dovesse cadere, la Libia tornerebbe ad essere il porto di partenza verso le nostre coste per decine di migliaia di immigrati. Se dovesse resistere, per noi sarebbe imbarazzante mantenere buoni rapporti con un leader sanguinario.

E in entrambi i casi ballerebbero contratti milionari per le nostre aziende. Eni in testa. Non dimentichiamocelo: buona parte dei nostri approvvigionamento energetici dipende proprio dal Nord Africa. L’esplosione “controllata” rischia di essere, comunque, devastante per gli interessi del nostro Paese.

Non abbiamo scelta e l’Italia non può certo influire sugli eventi, ma è inevitabile chiedersi: il prezzo è giusto?


Da reietto a paladino. Il raìs e l’Occidente
di Luigi Spinola - Il Riformista - 21 Febbraio 2011

Quando il Colonnello era il «cane rabbioso del Medio Oriente» (Ronald Reagan, aprile 1986), in molti sognavano un regime change a Tripoli. La Libia era uno stato canaglia ante litteram. Americani e britannici ci hanno anche provato.

Ma adesso che Gheddafi ha (quasi) compiuto il percorso di riabilitazione, l’occidente assiste a malincuore alla sua caduta. E la richiesta della delegazione libica all’Onu di «intervenire per fermare il genocidio» per ora cade nel vuoto.

L'Italia è un caso limite. Solo Silvio Berlusconi in questi giorni ha avuto la delicatezza di non «disturbare» il Colonnello. Barack Obama ha espresso «grave preoccupazione» e il Dipartimento di Stato ha garantito che gli Stati Uniti avevano già reso noto al regime le «forti obiezioni per l’uso di forza letale».

Condanne simili sono giunte da Parigi, Londra, Berlino e Bruxelles, mentre il nostro ministro degli Esteri in un primo momento chiede all’Europa di «non interferire». In serata i distinguo cessano. E anche Berlusconi parla di «violenza inaccettabile»

E’ chiaro a tutti che noi italiani abbiamo più da perdere dalla caduta del raìs. Nessuno ha investito sul Colonnello come Roma. Nessuno lo ha vezzeggiato e abbracciato pubblicamente come noi.

La nostra diplomazia ha seguito il decalogo commerciale di Silvio Berlusconi che prescrive «di farsi concavo o convesso» per conquistare il cliente. E si è fatta troppo concava. A forza di offrire pulpiti al Colonnello in tournée, il governo italiano ha finito col credere alle sue lezioni di democrazia, indicando come modello il «riformista» Gheddafi, che ai suoi sudditi offre alcune «sfogatoi» (Frattini dixit).

Gli altri governi hanno tenuto un profilo molto più basso. Non dovevano peraltro farsi carico del passato coloniale. E non avevano “l’emergenza” immigrazione da gestire. La nostra intesa con Tripoli però si è celebrata all’interno di un più ampio processo di riconciliazione tra Libia e occidente. Il Colonnello con gli anni è diventato, non solo per noi, un alleato della guerra al terrore, oltre che un prezioso business partner.

La conversione di Gheddafi segue un percorso accidentato. All’inizio degli anni 70, il giovane golpista si presenta come l’erede del Che, pronto a creare «dieci, cento, mille Vietnam» per indebolire l’Impero.

Il libico è generoso e promiscuo. Finanzia i palestinesi, incluso il gruppo Settembre Nero. Aiuta i più svariati movimenti di liberazione africani, dalla Sierra Leone alla Liberia. Fa partire bastimenti carichi di armi per le Farc colombiane e l’Ira nord-irlandese.

Mette i piedi anche in Europa continentale, lavorando con la Rote Armee Fraktion in Germania ovest e con la Stasi a est. L’intelligence libica però il 5 aprile 1986 lascia tracce nell’attentato al night “La Bella” di Berlino, gonfio di soldati americani.

Ronald Reagan dieci giorni dopo risponde con l’operazione El Dorado Canyon che fa 45 morti a Bengasi e Tripoli. La rappresaglia libica si ferma al largo di Lampedusa. Due anni dopo l’abbattimento del volo Pan Am 103 sopra Lockerbie uccide 243 persone. E l’incriminazione del libico Abdelbaset al-Megrahi esclude la Libia dalla comunità internazionale per tutti gli anni novanta.

La nuova era geopolitica che si apre l’11 settembre apre però la strada allo sdoganamento di Gheddafi. Il Colonnello si è detto pronto ad impegnarsi contro al Qaeda già nel 99. Dopo l’attentato alle Twin Towers si muove bene per rientrare in gioco. È il primo leader arabo a condannare senza se e senza ma il terrorismo internazionale.

E quando cade il raìs a Baghdad, lancia l’operazione trasparenza sulle armi di distruzione di massa, rinunziando al programma chimico e nucleare. L’ultimo passo è la piena assunzione di responsabilità per l’attentato di Lockerbie (agosto 2003).

Tony Blair già nel 2004 vola a Tripoli, per incontrare «un forte alleato nella guerra internazionale contro il terrorismo». Nicolas Sarkozy è il primo a offrire la piazzola per la tenda (nei giardini dell’Hotel Marigny), ospitando Gheddafi a Parigi a fine dicembre 2007, in cambio di una ventina di Airbus e una sfilza di accordi commerciali.

Pochi mesi dopo passa da Tripoli anche Condy Rice per «migliorare il clima per gli investimenti americani». La stretta di mano tra Barack Obama e Muammar Gheddafi al G8 dell’Aquila pare la fine di un’epoca.

Quell’estate però, il trionfale ritorno in patria dello stragista malato (?) al-Megrahi ammonisce sui rischi che si corrono ad avvicinarsi troppo al raìs. Il sospetto che Londra abbia barattato la “compassionevole” liberazione del terrorista con nuove opportunità economiche viene accreditato dalla stessa famiglia Gheddafi. E svergogna il governo britannico anche di fronte all’alleato americano. Business is business ma non va esposto con brutalità.

Ed è pensando al business e alla stabilità perduta, oltre che ai diritti umani violati, che la comunità internazionale segue il tragico evolversi della crisi libica. Solo i più sprovveduti nascondono la testa sotto la sabbia. Gli altri condannano e premono. Ma nessuno se la sente di raccogliere gli appelli che chiedono di fermare il genocidio.



Nel precipizio
di Angelo Del Boca - www.ilmanifesto.it - 22 Febbraio 2011

Le notizie che arrivano sono di vera e propria guerra contro civili in rivolta, quindi di massacro. Quel che Gheddafi aveva sempre promesso, che mai avrebbe rivoltato le armi contro il suo popolo, anche questa è una promessa non mantenuta. È tempo che se ne vada, è tempo che si intravveda oltre il bagno di sangue una soluzione di mediazione che, come in Egitto e Tunisia, non può non cominciare che con l'uscita di scena di Muammar Gheddafi al potere assoluto da quarantuno anni.

È tempo che l'Occidente scopra nel nuovo processo di democratizzazione avviato con le rivolte di massa in Medio Oriente non il pericolo dell'integralismo islamico, ma una risorsa per pensare diversamente quel mondo e insieme le nostre società blindate. Ora che finalmente anche le Nazioni unite alzano la voce, chi ha amato quel popolo e quel paese non può tacere.

Come fa il governo italiano che si nasconde dietro le dichiarazioni, dell'ultimo momento, di un'Unione europea più preoccupata dei suoi affari che delle società e di quei popoli. Dunque, dobbiamo dire la verità per fermare il sangue che scorre a Tripoli, a Bengasi e in tutto la Libia. Innanzitutto dobbiamo fare quello che non abbiamo fatto con il Trattato Italia-Libia del 2008.

Lo sapevamo benissimo che Gheddafi era un dittatore, che in Libia non c'è rispetto per i diritti umani. E quindi quando abbiamo firmato come Italia quel trattato, abbiamo voluto ratificare solo un accordo di carattere economico, commerciale, capace di fermare la disperazione dell'immigrazione africana in nuovi campi di concentramento. Ma non politico. Abbiamo fatto un errore gravissimo.

Un errore che ci stiamo trascinando ancora oggi perché i nostri responsabili al governo non hanno il coraggio di affrontare la situazione e dire adesso basta a chiedere a chiare lettere: «Hai guidato per 41 anni questo paese, hai fatto del tuo meglio, adesso lascia il posto ad altri».

Questa dovrebbe essere la richiesta precisa. Ma i fatti che si affollano mentre scriviamo, ci dicono che il precipizio purtroppo c'è già. Perché in un certo senso Gheddafi sta pagando due errori fondamentali della sua politica. Ha dimenticato che una parte decisiva della Libia, la Cirenaica, è ancora pervasa del mito della Senussia e di Omar el Mukhtar - quello impiccato dagli italiani.

E i dimostranti inneggiano a el Mukhtar. Fatto ancora più grave, Gheddafi ha invece sempre minimizzato l'importanza delle tribù del Gebel, della «montagna», che sono a 50 km da Tripoli. Gli Orfella, gli Zintan, i Roseban, queste grandi tribù della montagna che sono le stesse che hanno messo nei pasticci gli italiani nel 1911.

Gheddafi ha sempre minimizzato l'importanza di queste componenti numerose - gli Orfella sono 90mila persone - nella lotta di liberazione e nella ricostruzione della nuova Libia. Così è covato per decenni un sordo risentimento che ora li vede associati, se non alla guida dei rivoltosi con i quali, in queste ore, stanno marciando verso Tripoli.

Insomma è l'intera storia della Libia che si «riavvolge» e contraddice il regime del Colonnello. Se solo pensiamo a pochi mesi fa, quando Berlusconi e Gheddafi presenziavano in una caserna romana dei carabinieri ad un caravanserraglio, con giostre di cavalieri.

Viene la domanda oggettiva: ma come ha fatto a non accorgersi che tutto il mondo che aveva costruito era in crisi drammatica? Lui che aspirava a presentarsi come il leader dell'intero continente africano, non aveva nemmeno la sensazione dei limiti del suo governo e della tragedia che si consumava nella sua patria. Eppure Gheddafi non è stato solo un fantoccio, come Ben Ali e Hosni Mubarak.

Quando fu protagonista del colpo di stato nel '69 aveva davanti a sé un paese pieno di piccole organizzazioni, clanico, e lui ha contribuito a farne una nazione. In un anno ha cacciato le basi militari americane e inglesi, ha espulso i 20mila italiani che costituivano ancora un retaggio del colonialismo.

Insomma ha cercato di fare della Libia una nazione. E per molti anni la Libia è stata considerata una nazione. Era solo una presunzione, ora lo sappiamo. Era una presunzione ridurre ad un solo uomo quel progetto che doveva appartenere davvero a tutto il popolo - non solo ai «comitati del popolo» voluti dal regime. Qui ha fallito.

Quando si è autorappresentato come l'unico responsabile dell'abbattimento del colonialismo e del fronteggiamento dell'imperialismo. Riducendo ad una persona le istituzioni libiche, la storia di quel paese, le aspirazioni diffuse. Quando è venuto in Italia aveva sulla divisa la foto dell'eroe anti-italiano Omar el Mukhtar. Ma era solo una provocazione soggettiva, come a dire «Io non dimentico».

Ma il fatto di avere sottovalutato l'importanza di tutte le tribù della montagna, cioè della società politica che ha prodotto la nascita della Libia, è stato l'errore più grave. Perché sono le componenti fondamentali che avevano fatto la resistenza, la liberazione e poi avevano fatto crescere il paese.

La situazione adesso, purtroppo, è oltre. Io penso con dolore che ormai tutti gli appelli sono troppo in ritardo. Il fatto stesso che le tribù della montagna scendano a Tripoli per liberarla, mi dà la misura della svolta nel precipizio.

Il gruppo degli anziani, dei saggi, ha detto che bisogna abbattere Gheddafi. Esattamente con queste parole: «Invitiamo alla lotta contro chi non sa governare», hanno dichiarato gli anziani degli Orfella; mentre i vicini capi degli Zentan chiedevano «ai giovani di combattere e ai militari di disertare e di portare l'inferno a Gheddafi».

È questa la novità della crisi libica. La rivolta storica della generazione degli anziani, della generazione dei veterani. Una conferma che viene anche dal Cairo, dove il rappresentate libico nella Lega araba Abdel Moneim al-Honi si è dimesso per unirsi ai rivoltosi.

È una notizia importantissima, perché è uno dei famosi «11 ufficiali» che hanno fatto la rivolta nel '69 con Gheddafi. E insieme, della generazione dei giovani e giovanissimi.

Quei giovanissimi che hanno fatto la rivolta per motivi di disperazione sociale, con una altissima disoccupazione al 30%. Un dato che svela la favola della buona redistribuzione delle ricchezze energetiche libiche. E le chiacchiere di un «socialismo popolarista» rimasto sulla carta del «Libro Verde» del Colonnello.

La summa del suo pensiero che gli è servito per minimizzare l'apporto politico degli altri protagonisti della rivoluzione. Incontrandolo in una intervista del 1986, lui ammise che il «Libro Verde» era fallito e che la Libia era ancora «nera» non verde. Ora è anche rossa del sangue del suo popolo che lui ha versato. Per l'ultima volta.


Che brutto affare, non avere una politica estera mentre il Mediterraneo sta per saltare in aria
di Francesco Lamendola - Arianna Editrice - 23 Febbraio 2011

«È stato peggio di un crimine: è stato un errore», disse il ministro Talleyrand, uno che di politica se ne intendeva parecchio, quando Napoleone fece rapire, processare e condannare a morte il duca di Enghien, nell’ormai lontano 1804.

Parafrasando un po’ l’abate Talleyrand, si potrebbe dire che c’è solo una cosa peggiore dell’avere condotto una politica estera sbagliata, e cioè il non avere avuto affatto una politica estera, né giusta né sbagliata, ed il continuare a non averla.

Certo, non sarebbe giusto scaricare la clamorosa assenza di politica estera dell’Italia sul solo governo Berlusconi, né rimproverargli i suoi rapporti privilegiati con personaggi come il colonnello libico Gheddafi, visto che Prodi e D’Alema, prima di lui, non si erano regolati in maniera molto diversa, né avevamo mostrato una maggiore capacità di discernimento e lungimiranza.

È pur vero che, nella sciagurata partnership italo-libica degli ultimi anni, Berlusconi ci ha messo molto di suo: della sua rozzezza, del suo dilettantismo, della sua megalomania un po’ stracciona e parecchio fanfarona.

Sì, l’Italia ha bisogno del petrolio della Libia: per la precisione, dalla sua ex colonia (che allora non aveva alcun valore economico, era uno “scatolone di sabbia” che costituiva una pura perdita per il nostro erario) proviene di che soddisfare il 24% del nostro fabbisogno di greggio, attraverso l’oleodotto che passa sotto il Canale di Sicilia, e il 10% di quello di gas naturale.

E tuttavia, una domanda: era proprio necessario adulare un tipo come Gheddafi, permettergli di fare il buffone nelle visite ufficiali a Roma, stile Disneyland, con tanto di cavalcate beduine; pagarlo fior di quattrini per i «danni di guerra», proprio lui, che nel 1969 ha derubato e cacciato i nostri coloni dal suo Paese, come l’ultimo dei predoni del deserto?

E vendergli, anzi regalargli, le motovedette con le quali ha mitragliato i nostri pescherecci in acque internazionali, e per giunta con i nostri militari a bordo?

Oltre al danno, anche la beffa: nessun Paese consapevole della propria dignità sarebbe arrivato a concedergli tanto, a sopportare tanto.

Una cosa è tenersi buoni quei compagni di strada di cui non si può assolutamente fare a meno; un’altra cosa è adularli, ricoprirli d’oro, ostentare amicizia personale, stima e apprezzamento per dei cinici dittatori paranoici, che qualunque governo serio tiene a debita distanza e con i quali intrattiene soltanto i rapporti strettamente necessari.

Certo, non solo questo governo e non solo i governi italiani degli ultimi quarant’anni, ma un po’ tutto l’establishment culturale italiano ha sempre fatto la parte del coniglio, davanti a dittatori spietati, ma sostanzialmente sbruffoni, come Gheddafi: leggere l’opera in due volumi «Gli Italiani in Libia» del nostro massimo africanista, Angelo Del Boca, per vedere sino a che punto la vulgata di sinistra riesce a manipolare i fatti, per giungere alla scontata e marxiana conclusione che tutto il colonialismo italiano non è stato che una galleria di crimini, errori e inutili violenze e che, dopo il 1945, tutto quel che hanno fatto i governi delle nostre ex colonie è stato sempre giusto e sacrosanto, mentre tutto quel che ha fatto l’Italia, Paese di biechi ed infami ex colonialisti, è stato sempre turpe e vergognoso.

Si dice: ma l’accordo con la Libia era necessario per porre un freno alla immigrazione clandestina, perché solo quel governo poteva intervenire a monte del fenomeno, bloccando gli imbarchi.

Benissimo: e adesso che il dittatore fa mitragliare e bombardare i suoi concittadini, per restare al potere qualche altro decennio e poi lasciarlo nelle mani avide del figlio, come faremo a fronteggiare una ondata di immigrati clandestini che sarà dieci volte, venti volte più massiccia e incontenibile di quelle degli scorsi anni, allorché proveniva dall’Africa sub-sahariana e si serviva della Libia come di un mero Paese di transito?

Le dittature brutali, di tanto in tanto, cadono: davvero nessuno poteva immaginarselo, a Palazzo Chigi e alla Farnesina?

E i nostri ambasciatori, i nostri consoli all’estero, che cosa li paghiamo a fare, se cadono dalle nuvole come il più ignaro e sprovveduto dei nostri concittadini, che non legge mai la stampa e che al telegiornale preferisce i reality e giochi a quiz?

Che dire, ancora, dei nostri addetti ed istruttori militari all’estero: servono solo come commessi viaggiatori delle armi che vendiamo, oppure, ogni tanto, si ricordano di inviare alle autorità militari e civili italiane anche qualche relazione su quel che bolle in pentola in quei Paesi, particolarmente ove abbiamo dei rilevanti interessi economici?

E che dire della dichiarazione di Berlusconi che, mentre già la Libia stava precipitando nel baratro della guerra civile a causa del feroce attaccamento del Rais al potere, non ha voluto telefonargli ed invitarlo a fermare la repressione, «per non disturbarlo»?

Che dire dell’intervista in cui Berlusconi ha definito Mubarak, quando già il popolo egiziano era in piazza a chiederne con forza la cacciata, «un uomo saggio», stimato e apprezzato da tutti i governi occidentali?

Che dire di Frattini, un ministro degli Esteri che si è accodato, goffamente e malvolentieri, alla nota congiunta dell’Unione Europea contro i massacri libici di Gheddafi, solamente dopo giorni e giorni di assordante silenzio?

Che dire del fatto che Frattini, in Parlamento, negli ultimi due anni, ci è andato una volta sola e non per riferire sui problemi internazionali ed, in particolare, sulle drammatiche tensioni sorte nella sponda sud del Mediterraneo e nel Medio Oriente, ma sulle carte provenienti dallo Stato di Saint-Lucia, paradiso fiscale dei Caraibi, concernenti la contestata proprietà della ben nota casa di Montecarlo: oltretutto, non a seguito di una formale richiesta da parte del governo italiano, ma del partito del presidente del Consiglio, deciso a silurare in ogni modo il presidente della Camera, Gianfranco Fini?

Quanta piccineria, quanto provincialismo, quanta penosa inadeguatezza traspaiono da siffatti comportamenti, da simili discorsi; quanta furbizia d’accatto, quanto machiavellismo di bassa lega, quanta assenza di prospettive a largo respiro.

I Paesi islamici, dal Marocco all’Iran, sono, oltretutto, i nostri principali partner commerciali; la Borsa di Milano è sensibile a quello che vi accade, come un sismografo di altissima precisione; una grande banca, come la Unicredit, è interessata da una forte presenza di capitale libico; imprese italiane aprono cantieri ogni giorno, si può dire, in quei Paesi, per la realizzazione di grandi opere pubbliche, strade, dighe, ponti.

Sono dati di fatto più che sufficienti a giustificare una attiva politica estera italiana in direzione di quell’area; Paesi occidentali che vi hanno interessi finanziari, commerciali e strategici assai più modesti, possiedono una linea diplomatica molto più definita, molto più articolata, molto più attenta e lungimirante della nostra.

E, se tutto ciò non bastasse, c’è la vicinanza geografica: le isole di Lampedusa e di Pantelleria giacciono a un tiro di schioppo dalla costa africana, il «popolo delle zattere» può giungervi persino con delle barchette a remi, quando il mare è calmo.

E il governo francese, il governo tedesco, il governo inglese, che cosa avrebbero fatto, se le motovedette tunisine o libiche avessero aperto il fuoco contro le loro flottiglie da pesca, come è avvenuto, per anni ed anni, a danno delle nostre?

Che avrebbero fatto, se un missile fosse stato sparato contro il loro territorio metropolitano, anche se, fortunatamente, senza colpire il bersaglio, come fece la Libia nel 1986 contro Lampedusa?

Sarebbero stati zitti e avrebbero incassato in silenzio, senza mostrare un minimo di fierezza e di energia, anzi, quasi con l’aria di domandare scusa all’aggressore?

Brutto affare, di questi tempi, non avere una politica nei confronti della sponda sud del Mediterraneo; non avere una politica estera verso il mondo islamico, che non sia servilmente appiattita su quelle degli Stati Uniti e d’Israele, come si è visto anche in occasione delle sedicenti «missioni di pace», tanto in Irak che in Afghanistan.

Peggio ancora: bruttissima cosa non avere affatto una politica estera; non averne alcuna, né bella né brutta: perché dagli errori si può sempre imparare e poi, se si è coerenti, si guadagna la stima degli stessi avversari; ma, se si vuol fare troppo i furbi e trovarsi sempre dalla parte del più forte, si guadagna solamente il disprezzo generale.

E qui si arriva al nocciolo del problema. Per avere non diciamo una politica estera saggia e coerente, ma una politica estera qualsiasi, bisogna essere uno Stato sovrano: le colonie e i protettorati non hanno una politica estera, né ce l’hanno gli Stati vassalli e gli Stati fantoccio.
L’Italia, dopo il 1945, è un Paese a sovranità limitata; e lo è ancor più da quando, nel 1949, ha deciso di aderire all’Alleanza Atlantica.

Ammettiamo che tale scelta abbia offerto protezione all’Italia, durante gli anni della Guerra Fredda, contro possibili minacce dall’Est: invero abbastanza improbabili, visto che già dal 1948 Tito aveva rotto con Stalin e, dunque, la Cortina di Ferro non passava per la nostra frontiera orientale; e, per il ritorno di Trieste alla madrepatria, nel 1954, dovemmo sbrigarcela sostanzialmente da soli (e perfino il governo Scelba, in quella occasione, si era mostrato più risoluto di quanto lo saranno i governi successivi, dato che non aveva esitato a mettere l’esercito in stato di allarme, in vista di un possibile confronto con la Jugoslavia).

Ammettiamo, dunque, ma senza crederci troppo, che l’adesione alla N.A.T.O. sia stata una vitale necessità per la nazione in tempi di Guerra Fredda (e sorvoliamo, per carità di patria, sul coinvolgimento U.S.A. in molti gravi episodi di terrorismo degli «anni di piombo»).

Resta il fatto che dal 1989, con la caduta del Muro di Berlino e la successiva disintegrazione dell’Unione Sovietica, quella necessità ha avuto fine, non essendoci più il Patto di Varsavia a minacciare il nostro Paese, così come gli altri dell’Europa occidentale.

A partire da quel momento, gli interessi strategici degli Stati Uniti si sono sempre più differenziati da quelli dei Paesi europei, spostandosi in direzione dei Balcani, del Nord Africa, del Vicino e Medio Oriente, dell’Asia centrale.

Lo schieramento missilistico e aeronavale statunitense si è riposizionato, trasferendo il proprio baricentro dall’Europa continentale (Germania) al Mediterraneo (Italia) e facendo di Aviano, in provincia di Pordenone, la maggiore base missilistica ed aerea dell’intero continente europeo: una pistola puntata verso l’Est, come si è visto in occasione della guerra contro la Serbia del 1999.

I nostri uomini politici dovrebbero, però, domandarsi: la politica estera americana è ancora un elemento di sostegno e di difesa dei nostri interessi nazionali, o è divenuta un fattore di ostacolo e di impedimento?

Il nostro coinvolgimento militare in Irak e in Afghanistan, all’ombra della bandiera N.A.T.O., ma, in realtà, al servizio di interessi strategici puramente americani, è davvero compatibile con i nostri interessi strategici vitali?

La politica filo-israeliana e, di fatto, anti-palestinese, dei nostri governi più recenti, e particolarmente di quelli guidati da Berlusconi, è davvero in linea con l’interesse nazionale, tanto a livello politico quanto a livello economico, visto che ci mette in una posizione a dir poco ambigua nei confronti di tutto il mondo islamico?

Sono queste le domande che dovremmo farci; che i nostri governanti si dovrebbero fare; che i nostri sedicenti esperti, politologi, storici, economisti, opinionisti e tuttologi dovrebbero sottoporre all’attenzione dell’opinione pubblica.

Non sarebbe ora, a oltre sessant’anni da quando le Forze Amate statunitensi ci hanno generosamente liberato dal Fascismo, cioè da noi stessi, che se ne tornassero a casa loro; e che noi ritrovassimo la dignità e la fierezza di riappropriarci della nostra politica estera, non da gregari che si possono mortificare in qualunque momento (vedi l’affaire Calipari), ma da protagonisti dello scenario mediterraneo e anche di quello centro-europeo, cui pure apparteniamo di fatto e di diritto?


"Gheddafi reggerà, in Cirenaica rivolta endemica"
di Tommaso Di Francesco - www.ilmanifesto.it - 20 Febbraio 2011

Sulla sanguinosa crisi libica in corso, dagli esiti drammatici e incerti anche per la difficoltà delle fonti, abbiamo rivolto alcune domande ad Angelo Del Boca, esperto di Libia e storico del colonialismo italiano.

Le notizie che arrivano parlano di un paese spaccato in due, anche l'esercito e i «comitati rivoluzionari» sarebbero divisi, la Cirenaica con le città di al Bayda, Bengasi, Tobruk è nelle mani degli insorti. La situazione sembra precipitare e le vittime sono quasi un centinaio...
Sì, precipita. Però, come giustamente dicevi, il paese è spaccato in due. Per la Cirenaica era già possibile prevedere una rivolta. Non è la prima volta, è già accaduto nel 2006 per la provocazione anti-islam del «nostro» ministro Calderoli e c'è da dire che, perlomeno negli ultimi 15 anni siamo alla terza insurrezione.

Nel 1996 infatti non abbiamo mai saputo il numero delle vittime, solo gli arrestati furono migliaia, eppure allora intervenne contro quella rivolta islamista l'esercito, l'aviazione e la marina che sparò contro la Montagna verde, l'unica presenza montuosa simbolo dell'eroe Omar al Muhtar. Impossibile sottovalutare ancora l'influenza fortissima in Cirenaica della storica confraternita politico-religiosa della Senoussia.

Quindi secondo te il colonnello Muammar Gheddafi non ha le ore contate...
No, anche perché la stessa famiglia Gheddafi è come spezzata in due. Una divisione che è quasi una risorsa.

C'è la possibilità che questo conflitto apra le porte del potere a Seif al Islam, il figlio di Gheddafi che lavora da tempo ad una riforma della costituzione libica e che ha trattato per la liberazione dalle carceri di centinaia di integralisti?
Su questo ci andrei un po' con calma. A proposito dei figli, voglio ricordare che da un parte ci sono Khamis che è a capo di questi battaglioni di sicurezza, che poi sarebbero i pretoriani del regime, e Motassem, anche lui coinvolto nell'esercito; entrambi a favore di Gheddafi e adesso suoi strenui difensori, a ogni costo, come si capisce dagli avvenimenti di Bengasi e al Beida, dove era presente proprio Khamis.

Dall'altra parte abbiamo Seif al Islam, che in questa situazione non ha fatto particolari dichiarazioni, ma da quanto sappiamo è l'unico che dà informazioni su quello che sta succedendo.

E certo è l'unico che ha fatto liberare negli ultimi mesi centinaia di integralisti islamici di Bengasi. Che aveva liberato a condizione che loro, in un certo senso, si pentissero, ammettessero il loro errore e non tornassero più a fare operazioni di carattere violento. Ripeto che in questi ultimi mesi e giorni, è l'unico che dà informazioni su quello che accade.

In questo momento il mondo occidentale, quello che ha interessi strategici fondamentali in Libia, sembra molto preoccupato. Non parliamo solo dell'Italia, con l'Eni e Finmeccanica, ma anche degli Stati uniti...
Sì, gli Stati uniti da quando hanno deciso con Bush nel 2004 che la Libia non è più uno stato canaglia, sono tornati ormai da sette anni con quattro multinazionali petrolifere ad attingere al petrolio di Tripoli.

E gli interessi non sono solo per il petrolio perché i francesi hanno attivato contratti per vendere i loro aerei da combattimento, la Gran Bretagna aveva mandato Tony Blair - che con Seif al Islam risolse anche la vicenda drammatica di Lockerbie - come commesso viaggiatore d'affari.

Tutti in fila per vendere forniture. Perché in Libia-Piazza Affari c'è da cambiare tutto: ci sono da costruire aeroporti nuovi, la famosa ferrovia, l'autostrada litoranea dovrà costruirla l'Italia. Come da accordo storico con il quale il governo italiano riconosce le infamie italiane colonialiste e fasciste, per avere in cambio il contenimento - vale a dire nuovi campi di concentramento - dell'immigrazione disperata del Maghreb e dell'interno africano.

A proposito d'Italia. Come giudichi le dichiarazioni di Berlusconi di fronte al precipitare della situazione e alla repressione sanguinosa: «Non ho chiamato Gheddafi perché non lo voglio disturbare»?
È una forma di viltà. Da parte di uno che proclama di essere un personaggio «amico e fraterno», ecc. ecc., e che «ha imparato il bunga-bunga da lui», ecc. ecc. Io non solo gli avrei telefonato, ma intanto gli avrei chiesto com'è la situazione, anche perché dalla sua voce sarebbe una dichiarazione autorevole. E poi gli avrei chiesto di essere clemente e di cercare di non provocare altro sangue. Invece «lui» non lo vuole disturbare. Non lo vuole disturbare perché oltretutto è anche un vigliacco.