Soprattutto dietro le quinte...
Rosso sangue, il futuro della Libia
di Nicola Sessa - Peacereporter - 23 Febbraio 2011
Uno stato in frantumi e le infiltrazioni del fondamentalismo islamico sono il vero incubo dell'Occidente ancora incapace di fermare il massacro in corso
La guerra civile in atto con il caos che ne consegue lascia poco spazio a previsioni su futuri scenari politici. Il primo obiettivo, adesso, è fermare il massacro della spietata repressione libica ordinata da Muammar Gheddafi, il cui folle discorso non ha fatto che aggravare la situazione.
Il leone ferito è uscito allo scoperto e la rabbia cieca del dittatore rischia, con tutta probabilità, di cancellare, polverizzare la nazione libica fondata su delicati equilibri di natura tribale-clanistica.
Il grande incubo europeo, ancor prima che lo sbarco di centinaia di migliaia di disperati sulle sponde del Vecchio Continente, è la "balcanizzazione" della Libia con la conseguente costituzione di un emirato islamico in Cirenaica, ai confini con l'Egitto.
Lo stesso Muammar Gheddafi, ieri, ha fatto leva sulla questione del fondamentalismo islamico, non si sa se per terrorizzare di più l'Occidente o la popolazione libica cui è stata paventata un'occupazione degli Stati Uniti sul modello afgano e iracheno.
È solo retorica strategica o si tratta di un pericolo reale? Khaled Fouad Allam, docente di Islamistica e Sociologia del mondo musulmano - interpellato da PeaceReporter - ritiene che la minaccia sia concreta, sebbene vi sia anche una strumentalizzazione di fondo da parte di Ue, Italia e dello stesso Gheddafi.
Secondo il professore Allam, gruppi di integralisti - anche della cintura sub sahariana - non aspetterebbero altro: approfitterebbero subito per infilarsi tra le macerie di una Libia in frantumi e costituire uno stato regolato dalla Sharia, la legge coranica.
Il panorama libico è completamente diverso da quello tunisino o egiziano dove esiste una discreta articolazione politica, una rete di associazioni per i diritti umani e soprattutto un esercito (addestrato dagli Stati Uniti) capace di guidare una fase di transizione.
In Libia, non è individuabile un personaggio di caratura internazionale che possa prendere in mano un processo di rifondazione e l'esercito - come spiega Allam - è costruito su base etnica, su linee tribali. È molto probabile che assisteremo dunque a profonde spaccature anche all'interno della compagine militare con due o più eserciti che si faranno la guerra.
L'Unione Europea ha molte responsabilità per non essere stata in grado di prevedere gli eventi di queste settimane. La totale assenza di una politica europea è, per Fouad Allam, il sancito fallimento della Dichiarazione di Barcellona (27-28 novembre 1995) e di diciassette anni di una falsa cooperazione.
Bruxelles dovrebbe fare i conti con questo fallimento e avviare una "Conferenza Euroaraba" se davvero tiene alla pacificazione di quella parte di mondo.
Il futuro prossimo del popolo libico è rosso. Rosso sangue: "Questa rivolta è cominciata con il sangue - ci dice il professore Allam - e molto sangue scorrerà ancora. Dopo la rivoluzione arriva sempre il terrore".
Qaddafi, l'ultima mossa: dividere la Libia per contrattaccare
di Lorenzo Adorni - www.lorenzoadorni.com - 23 Febbraio 2011
Entrato nella storia nel 1969, con un colpo di stato pressoché incruento, oggi è ad un passo dall’uscirne come uno dei tanti brutali e sanguinari dittatori africani. Nel mezzo, in più di quarant’ anni di dittatura, tutto e il contrario di tutto.
Certamente Qaddafi ( italianizzato in “Gheddafi” ) era a conoscenza che queste rivolte, sulla scia di quelle negli altri paesi del Mediterraneo, sarebbero sorte anche in Libia. Si trattava solo di una questione di tempo, ne era consapevole.
Le sue minacce di violente repressioni sono iniziate ancor prima che i manifestanti scendessero in piazza. Quello a cui assistiamo in queste ore non è nient’altro che il suo piano sanguinario, ben calcolato, per contrastarle.
Sapendo di non poter mantenere il controllo sull’intero paese, e in particolare sulla zona a lui più ostile la Cirenaica, ha lasciato che queste potreste sorgessero e si diffondessero proprio in quell’ area , per utilizzare successivamente la Tripolitania, tradizionalmente più stabile, come retroterra per contenerle e contrastarle.Infatti, le proteste sono giunte nella capitale Tripoli ma, non si sono diffuse nel resto della Tripolitania dove lo stesso Qaddafi può trovar rifugio. Anche se con ogni probabilità ora si trova ancora nel suo bunker .
Nei suoi piani vi è proprio l’intento di ripartire da Tripoli, per riconquistare una seconda volta la Libia, riportando cioè la Cirenaica sotto il suo controllo.
In principio ha lasciato che le proteste si diffondessero anche nella capitale,per alcuni giorni, in modo da intervenire successivamente, proprio in una fase avanzata delle stesse, dando l’ordine di massacrare i manifestanti.
Una volta condotta a compimento questa folle azione, Qaddafi pensa di poter liberare Tripoli dai manifestanti, farvi ritorno e successivamente estendere un’azione violenta, di duro contrasto, anche ai manifestanti nella Cirenaica.
Nel mentre qualche comparsa in televisione, con messaggi video registrati chissà quando, sullo stile di Saddam Hussein durante le guerre del Golfo, per dimostrare la sua presenza e la sua capacità di mantenere il controllo.
Qaddafi ha saputo porre i manifestanti di Tripoli in una condizione assai difficile da mantenere.
Da una parte l’esercito pronto a sparare sulla folla, come ha già ampiamente fatto nelle scorse ore, dall’altra un’eventuale resa dei manifestanti stessi porterebbe Qaddafi al rientro nella capitale, alla sua ripresa dei poteri e con ogni probabilità ad una ulteriore azione di rappresaglia nella Cirenaica.
Nel mezzo di questo piano esistono però molte incognite.
Il potere di Qaddafi oggi si basa unicamente sulla sua forza militare.Essendo a conoscenza del fatto che il suo esercito avrebbe registrato alcune defezioni, ha fatto giungere preventivamente, e già da alcune settimane, mercenari dall’Africa sub-sahariana, assoldati con il compito di massacrare i manifestanti nel caso in cui l’esercito libico o parte di esso si sarebbe rifiutato.
Defezioni che negli effetti si sono registrate,con anche casi di fucilazioni di soldati ma, che nel complesso non hanno ancora visto emergere un leader in grado di contrastare quella parte dell’ esercito rimasta fedele a Qaddafi.
Vi è poi l’ulteriore eventualità che il supporto di quelle aree tribali, fedeli al leader libico, possa venir meno, lasciando Qaddafi sprovvisto di quel retroterra su cui si basa oggi la sua strategia.
Mentre la crisi libica sembra sempre più acutizzarsi, le potenze straniere stanno intervenendo con un ampio lavoro messo in atto dai servizi segreti occidentali presenti in Libia.
Da una parte il tentativo di allontanare i mercenari stranieri presenti in Libia, eliminando parte del supporto militare a disposizione del dittatore libico, dall’altra il tentativo di favorire un colpo di stato militare.
Nel complesso, questa crisi libica andrà presto delineandosi come la peggiore fra quelle che ad oggi hanno investito i paesi del Mediterraneo.La condanna da parte delle Nazioni Unite, votata in queste ultime ore, è poco più che un atto formale.
Nelle prossime ore se i massacri continueranno, verrà aumentata la pressione militare sul paese, inviando sempre più navi da guerra al largo delle coste libiche, cercando di esercitare la massima pressione possibile sui vertici militari libici per porre in essere un colpo di stato.
Se la divisione all’interno della Libia fra Cirenaica i Tripolitania dovesse persistere, la comunità internazionale dovrebbe valutare attentamente quali azioni porre in essere,anche militari, per evitare che si verifichi una guerra interna, e il relativo rischio concreto che l’esercito libico giunga ad effettuare un vero e proprio massacro in Cirenaica.
La prossima mossa di Gheddafi: sabotare il petrolio o scatenare il caos?
di Robert Baer* - www.time.com - 22 Febbraio 2011
Traduzione per www.comedonchisciotte.org a cura di AF
Non ci sono praticamente informazioni attendibili da Tripoli, ma una fonte vicina al regime di Gheddafi che sono riuscito a contattare mi ha detto che la terribile situazione in Libia andrà peggiorando.
Tra le altre cose, sembra che Gheddafi abbia ordinato ai servizi di sicurezza di iniziare a sabotare i pozzi di petrolio. Cominceranno facendo saltare in aria diversi oleodotti, per interrompere il flusso nei porti del Mediterraneo. Il sabotaggio, secondo la mia fonte, dovrebbe servire come un messaggio per le tribù ribelli della Libia: “o con me o il caos.”
Due settimane fa, la mia fonte libica mi aveva detto che le rivolte in Tunisia ed Egitto non avrebbero mai toccato la Libia. Gheddafi, mi riferiva, ha un forte controllo su tutte le maggiori tribù, gli stessi che lo hanno mantenuto al potere negli ultimi 41 anni. Le informazioni di quest’uomo si sono rivelate sbagliate, e quindi tutto ciò che ora ha da dire circa le intenzioni di Gheddafi deve essere preso con molta cautela.
Il mio uomo mi ha rivelato della disperazione di Gheddafi il fatto che egli ora può contare solo sulla fedeltà della sua tribù, i Qadhadhfa. E per quanto riguarda l'esercito, come Lunedi scorso ha solo la lealtà dei circa 5.000 soldati.
Sono le sue forze d'elite, gli ufficiali tutti selezionati con cura. Tra di loro c’è la 32a Brigata. (La forza totale dell'esercito regolare libico è di 45.000) L'unità comandata dal suo secondo figlio più giovane Khamis.
La mia fonte mi ha riferito che Gheddafi ha detto alla sua gente che lui sa che non può riprendere la Libia con le forze che possiede. Ma quello che può fare è rendere le tribù ribelli e fomentare gli ufficiali dell'esercito a tradire, per trasformare la Libia in un altro Somalia. "Ho i soldi e armi per lottare per un lungo tempo", avrebbe detto Gheddafi.
Come parte dello stesso piano per rovesciare la situazione, Gheddafi ha ordinato la scarcerazione dei prigionieri militanti islamici del paese, sperando che agiranno per conto loro seminando il caos in tutto il paese. Il rais prevede che attaccheranno gli stranieri e le tribù ribelli. Questi ultimi avendo anche con una carenza di scorte alimentari non potranno far cadere Gheddafi.
La mia fonte libica ha affermato che al fine di comprendere lo stato d'animo di Gheddafi dobbiamo capire che il leader libico si sente profondamente tradito dai media, che lui biasima per aver dato via alla la rivolta.
In particolare, egli accusa l'emittente televisiva del Qatar al-Jazeera, ed è convinto che è stato colpito per motivi puramente politici. Gheddafi si sente tradito dall'Occidente perché ha solo incoraggiato la rivolta. Durante il fine settimana, ha avvertito parecchie ambasciate europee che, se cadrà, le conseguenze saranno una moltitudine d’immigrati africani che si riverseranno in Europa.
Incalzato, la mia fonte libica ha riferito che Gheddafi è un uomo disperato e irrazionale, e la sua minaccia di trasformare la Libia in un altro Somalia, a questo punto può essere anche un bluff. D'altra parte, se Gheddafi infatti pensa di avere la fedeltà delle truppe potrebbe portar il paese sul baratro della guerra civile, se non oltre.
*Robert Baer, scrittore ed ex ufficiale della CIA dal 1976 al 1997 statunitense. Nel 1976 entra alla University of California a Berkeley e decide di entrare nel Directorate of Operations ("Direttorio delle operazioni") della CIA come ufficiale. urante la sua carriera di 20 anni alla CIA è stato assegnato a Madras e Nuova Delhi in India, a Beirut in Libano, a Dushanbe in Tajikistan e a Salah al-Din in Iraq.
Libia, il leone ferito: ma non è detta l'ultima parola...
di Claudio Moffa - ComeDonChisciotte - 23 Febbraio 2011
Per mancanza di tempo l'articolo che segue è stato compilato in due fasi: il primo paragrafo e l'inizio del secondo risalgono – integrazioni e aggiornamenti a parte – a sabato e domenica scorsi.
Il resto l'ho concluso oggi. Lascio invariato il testo iniziale, perché ritengo che non confligga con l‘apparizione delle prime foto e video citati da me come inesistenti: la mia tesi è che è stata l'enfatizzazione e invenzione mediatica ad aver prodotto i fatti reali di cui ad alcuni servizi televisivi di stamane.
La partita sembra però ancora aperta: il discorso di Gheddafi alla TV, in cui si invita il popolo a schiacciare i rivoltosi sta ribaltando l'incertezza dei primi giorni, anche se la repressione frontale costituisce un segnale più di debolezza che di forza del rais.
Tutto può ancora accadere in Libia, la cui crisi presenta come scrivo nell'articolo un segno di tipo diverso rispetto agli eventi egiziani. Una sorta di risposta-pendant alla deriva in fieri pro-palestinese (e non ostile all'Iran: vedi il passaggio delle navi di Teheran a Suez) de Il Cairo.
1) C'è qualcosa che non torna nel racconto delle vicende libiche: le stragi, gli aerei, i cecchini, i mercenari, le notizie che si susseguono ci dicono che la crisi del regime è profonda quanto mai era stata in quarantuno anni di potere di Gheddafi.
Ma quel che non si capisce è quale sia la percentuale di informazione “drogata” che punti a favorire una soluzione vincente della crisi secondo le aspettative dei ribelli e dei loro potenti sostenitori esterni.
C'è infatti uno scarto non indifferente fra le unità di notizia e i video da una parte, e le cifre sparate con titoli cubitali dalla stampa e dai telegiornali di mezzo mondo. Tutti i video mostrano in genere non più di alcune decine di persone nelle strade: perché non c'è nemmeno una foto di cellulare con almeno una ventina-trentina cadaveri a terra, delle centinaia di ammazzati dal regime?
Testimoni riferiscono, scrive la BBC, di aerei Testimoni riferiscono, scrive la BBC, di aerei che bombardano i civili, e di mercenari che fanno strage di manifestanti: sono uomini di Gheddafi o sono terzi soggetti che alimentano la guerra civile secondo il modello delle proteste elettorali in Iran di due estati fa?
E poi ancora: alcune finestre in fiamme, senza che si veda l'edificio nella sua interezza non si sa dove e quando sono state riprese. Il filmato con alcuni orribili cadaveri carbonizzati è curioso, di nuovo un capannello di persone e poi i resti delle vittime come trasportati ed esposti su teloni militari.
Su Al Jazira, un altro post che sembra un filmato, ma in realtà è una foto con nel sottofondo un anonimo libico di Tripoli che dice che Gheddafi e i suoi sono “mostri”. Ancora, foto di feriti in ospedale ma non si sa quale ospedale e feriti quando. E video di mercenari africani che non dicono nulla, pochi fotogrammi forse girati addirittura su un aereo.
Leggete poi i giornali: i titoli sparano bombardoni, gli articoli parlano in genere di “testimoni” (che) “riferiscono”, e sono infiorati da condizionali e da forse: vedi la fuga di Gheddafi in Venezuela. Vedi i prima due poi quattro piloti disertori e atterrati a Malta,che nessuno ha ancora intervistato; vedi i tre ministri che si sarebbero dimessi.
La cautela dunque sembrerebbe d'obbligo, come del resto si deduce dall'intervista dell'ambasciatore libico all'ONU di Ginevra che, abbandonato il regime di Gheddafi, ha dichiarato a Rai News ieri mattina che “la situazione è estremamente critica”, che si è di fronte all' “estrema crisi del regime”, che “Gheddafi non ha più nulla in mano”, senza fornire però una sola cifra delle vittime vere o presunte.
Un lavoro “sporco” da affidare all'anonimato mediatico in rete, nelle tv e sulla stampa, non da compiersi da parte di un alto diplomatico con aspirazioni probabili a diventare ministro nell'era post-gheddafiana.
2) Si è di fronte dunque ad uno scarto notevole fra i dati di fatto certi e quella che potrebbe essere chiamata una sovraesposizione mediatica, onde per cui ponderare la profondità della crisi del regime libico è molto difficile.
Attenzione però, è la stessa enfatizzazione mediatica a far crescere le difficoltà di Gheddafi: è un lavorio intelligente, che va a combinarsi con il pressing antiGheddafi dell'Europa e soprattutto – a fronte di un Obama silenzioso negli ultimi giorni - di Hillary Clinton, ministro degli esteri di quella stessa potenza che per iniziativa di Obama ha avallato o contribuito alla defenestrazione del presidente-dittatore del vicino Egitto.
Ecco dunque i segnali concreti di sgretolamento del regime ai suoi vertici, i tre ministri e il diplomatico di cui sopra e probabilmente alcuni ufficiali e soldati dell'esercito. La partita è ancora aperta fra voci di diserzioni o di ammutinamenti diffuse in Occidente senza veri riscontri fattuali, e la possibilità che tutto precipiti con un colpo di mano o un attentato mirato.
L'incognita non è solo l'esercito, ma gli equilibri fra i diversi apparati politico-militari, ad esempio i Comitati rivoluzionari costruiti nella fase più radicale della “rivoluzione” gheddafista.
3) Un dato però sembra certo: nella crisi del regime hanno operato fino ad oggi più fattori esterni che interni, e all'interno meno le contraddizioni sociali (la Libia ha un reddito procapite alto) che quelle regionali, a cominciare dall'antica contrapposizione fra Cirenaica e Tripolitania, con Tripoli epicentro della parte più moderna, laica e “occidentalizzata” del paese e la Cirenaica tradizionalista e pervasa da tendenze islamiste.
Una contrapposizione che può esser fatta risalire addirittura all'epoca precristiana, con l'ovest gravitante verso Cartagine e l'est colonizzato dai Greci collegato all'Egitto, e che ha attraversato nei secoli la storia libica.
Bengasi è quasi sempre stata la roccaforte del conservatorismo e della reazione: persino l'eroe della resistenza libica all'occupazione italiana, il senussita e signore del deserto Omar al Mukhtar, ebbe a dire nel corso del processo del 1931 che lo avrebbe condannato all'impiccagione: “Io disprezzo e odio le genti di Bengasi, che del resto mi disprezzano e mi odiano”.
In questi giorni, lo sventolio della bandiera di re Idriss su un edificio del capoluogo cirenaico la dice lunga sul segno dell'opposizione della parte orientale del paese al governo di Tripoli; e sulla sua radicalità, perché lo spettro che si profila è una secessione, una spaccatura del paese in due.
Problema anche questo drammaticamente attuale dopo la sciagurata secessione del sud del Sudan da Karthum, ma allo stesso tempo di vecchia data: già all'indomani della seconda guerra mondiale, i confini sedimentatisi con la conquista italiana del 1911 e poi con l'espansione nell'interno desertico degli anni Trenta, erano stati messi in discussione: mentre l'Italia sosteneva il mantenimento dello status quo confinario della sua ex colonia, la Francia aspirava alla separazione del Fezzan dalla costa, recuperabile al controllo della sua colonia ciadiana; e l'Inghilterra all' “indipendenza” della Cirenaica, da raccordare all'Egitto.
Vinse l'opzione sostenuta da Roma, ma i rapporti tra Tripoli e Bengasi sarebbero rimasti sempre problematici e negli ultimi due decenni resi più difficili dalla diffusione, come già detto, di un islamismo avversario della laicizzazione del paese promossa da Gheddafi fin dal colpo di stato antimonarchico del 1969.
4) Chi dentro e fuori la Libia sta cercando di rovesciare Gheddafi? Internamente oltre al fattore Cirenaica e ai nostalgici del vecchio regime monarchico, e oltre alle antiche contrapposizioni etniche e di clan, ci sono le nuove espressioni sociali e politiche della svolta di mercato avviata da Gheddafi stesso con la cosiddetta “primavera” della fine degli anni Ottanta, secondo una tendenza e uno schema di cui è noto il modello-tipo cinese: vale a dire, le forze più o meno “borghesi” liberate dall'apertura al mercato chiedono cambiamenti anche di tipo istituzionale, cercando di introdurre modelli di stampo occidentale nel paese.
Ecco dunque il pesante e decisivo fattore esterno, esplicitamente richiamato nel discorso di Gheddafi di ieri dai riferimenti all'Afghanistan e a Tien An men: è l'oltranzismo occidentale, quello che pretende di esportare con la violenza delle armi la democrazia in tutti i paesi non graditi, come già tentato senza successo in Iran e in parte in Egitto, ad essere estremamente attivo nell'opera di destabilizzazione della Libia di Gheddafi.
In pratica, e nonostante la dichiarata difesa di Mubarak da parte del rais di Tripoli nei giorni della rivolta in Egitto, gli eventi libici costituiscono una sorta di pendant, di controtendenza rispetto a quelli de Il Cairo: qui non solo la partita è aperta, ma è caduto un leader nettamente pro israeliano, da cui la prospettiva di una potenziale deriva “pro-palestinese” del corso degli eventi della quale il passaggio per Suez di due navi militari iraniane, su concessione del Cairo, costituisce un segnale chiaro.
In Libia, la Clinton sta cercando di riequilibrare in senso opposto, dando in pasto a Israele e all'oltranzismo occidentale un loro nemico storico, appunto la testa di Gheddafi. Un obbiettivo non da poco, perché la Libia svolge un ruolo importante in almeno tre decisivi scacchieri: nel Mediterraneo con la sua funzione di filtro dell'immigrazione senza regole in Italia e in Europa, e di tampone nei confronti di quello che viene definito rischio “fondamentalista”, un fenomeno sociale e religioso che dovrebbe essere articolato e compreso meglio ma che in Libia ha i contorni certi dell'oscurantismo reazionario.
C'è poi l'Africa, continente nel quale Gheddafi si è impegnato dopo le delusioni subite nel mondo arabo e dove la Libia, cofondatrice assieme al Sudafrica dell'Unione africana, ha una voce autorevole in capitolo, fino a denunciare con forza – un paio di anni fa – il ruolo di Israele nella nelle tante guerre del continente (vedi Qui)
Infine il Medio Oriente: la campagna feroce di una parte della stampa araba contro Tripoli proprio in questi giorni indica che Gheddafi – un leader nato, al seguito di Nasser, convinto panarabista - ha molti nemici nella sua naturale regione di appartenza.
Ma la Libia fu anche fra i paesi che parteciparono a fianco del rappresentante di Hamas, al vertice panarabo successivo alla guerra di Gaza del 2008-2009. Nonostante dunque il suo “moderatismo” Gheddafi ha dato segnali di sensibilità rinnovata nei confronti della causa palestinese.
Come si concili poi questo quadro complesso con l'alleanza di ferro con il governo Berlusconi è apparentemente difficile a capirsi: ma le vie della politica ufficiale e “visibile” non sono sempre quelle dei fattori strategici più o meno “nascosti”: ci sono enormi interessi economici in ballo – la Libia, paese marginale per i rifornimenti petroliferi all'Italia ai tempi di Mattei risulta oggi il primo fornitore di greggio dell'ENI, senza contare il gas e altri prodotti strategici –, c'è il nodo chiave dell'immigrazione, ci sono le partecipazioni dirette di Tripoli a settori chiave dell'economia italiana (UniCredit ad es.) e c'è anche da ricordare probabilmente qualche aneddoto italiano: come lo sgarbo di Gheddafi a Fini che lo aspettava al Campidoglio durante la sua visita di stato del 2009, una sorta di anticipazione “parallela” del futuro scontro fra il Presidente del Senato e il Presidente del Consiglio. Da leggere attentamente anch'esso, al di là dei contenziosi a sfondo personalistico.
Fessi comuni
di Gianluca Freda - http://blogghete.altervista.org/joomla/ - 24 Febbraio 2011
Come già evidenziato nel blog di Debora Billi (che, una tantum, ringrazio) e come riportato da alcuni lettori anche in questo sito, le famose “fosse comuni” di Tripoli, in cui il crudele regime di Gheddafi avrebbe nascosto in fretta e furia i cadaveri dei manifestanti uccisi durante le fantomatiche repressioni, probabilmente non sono altro che l’ennesima bufala dei media.
Una bufala, peraltro, stravecchia, già utilizzata diverse volte in passato – ad esempio in occasione della “rivoluzione” fasulla in Romania e delle finte stragi di kosovari ad opera dei serbi - per criminalizzare altri governi che gli Stati Uniti intendevano rovesciare con la complicità dei media da essi controllati.
I servizi segreti USA avranno anche un’ottima organizzazione, ma sono del tutto privi di fantasia, quando si tratta di raccontare fregnacce con cui suscitare l’indignazione dell’opinione pubblica occidentale.
Ciò che si vede con chiarezza dalle immagini di queste “fosse comuni” farlocche, è che esse tutto sono tranne che “comuni”. Si tratta infatti di buche singole, scavate con calma e perfino con una certa cura.
I siti dei principali quotidiani parlano di “cimitero improvvisato” sulla spiaggia. Cimitero senz’altro, improvvisato no di certo. Si tratta infatti del noto cimitero di Sidi Hamed, che si trova in prossimità della spiaggia vicino al quartiere residenziale di Gargaresh, a Tripoli.
Le immagini provengono dal sito OneDayOnEarth.org, aperto nell’ottobre 2010 da due studenti di Los Angeles di nome Kyle Ruddick e Brandon Litman. E' una sorta di “social network” delle immagini video, finanziato da una sessantina di ONG, nonché dal Programma per lo Sviluppo delle Nazioni Unite.
Una provenienza a dir poco sospetta, come sospetto è il tempismo con cui il sito è stato messo online poco prima dell’inizio delle rivolte nordafricane. Inoltre, i giornali e la TV hanno accettato a scatola chiusa che si trattasse di immagini girate nei giorni scorsi, senza citare la minima prova a sostegno.
In mancanza di fonti e di notizie attendibili, è perfino lecito sospettare che non si tratti affatto di immagini riprese di recente, bensì della documentazione di una delle numerose “sepolture collettive” dei migranti africani le cui imbarcazioni si capovolgono di frequente in prossimità delle coste libiche e i cui corpi vengono poi sospinti sulla spiaggia dalla marea.
In particolare, proprio il cimitero di Sidi Hamed ha dovuto spesso occuparsi di questi incresciosi compiti, vista la frequenza di tali incidenti. Il fatto che nel filmato l’atmosfera appaia rilassata, che non si vedano manifestanti furenti o esagitati, né donne, né parenti piangenti o urlanti, fa pensare che si tratti appunto dei lavori di sepoltura di queste vittime sconosciute.
Se Repubblica e gli altri fogliacci della stampa nazionale hanno elementi e fonti citabili che possano smentire quest’ipotesi, allora li presentino e sciolgano ogni dubbio. Altrimenti la smettano di aizzare contro il governo libico gli animi dei poveri fessi che ancora danno retta alle loro panzane.
Se non non possono sostenere con prove fotografiche o documentali le accuse gravissime che vanno rivolgendo ad un legittimo governo straniero, tengano la ciabatta chiusa e ammettano che i massacri di cui vanno ciarlando esistono solo nella loro fantasia e che hanno l’unico scopo di preparare la strada, per via propagandistica, alle nuove carneficine – vere, in questo caso – che i loro padroni statunitensi hanno in serbo per il mondo.
Non esiste solo la guerra. Nell’ultimo decennio abbiamo assistito ad un fenomeno di espansione della sfera di influenza imperiale americana con metodologie più o meno morbide di estrema efficacia.
Spesso si è trattato di semplici strategie diplomatiche ed economiche che hanno trasformato vecchi nemici in volenterosi alleati. Ci riferiamo in particolare a nazioni che aderivano al tramontato Patto di Varsavia, come Polonia, Romania, Bulgaria, o le Repubbliche baltiche, che senza colpo ferire da parte americana, rappresentano ora dei veri bastioni filo-occidentali nel cuore dell’Europa.
Da un lato vigili guardiani nei confronti di un’integrazione europea che non sia troppo indipendente, dall’altro dei cuscinetti (o spine nel fianco) verso il colosso russo ancora in fibrillazione e con rinnovate propensioni bipolari sotto la presidenza Putin.
È interessante notare che, in quasi tutti i casi sopra citati, sono stati governi o presidenti di derivazione neo-comunista a presiedere a tali svolte. In chiave storiografica sarebbe interessante e utile comprendere se si sia trattato di un fenomeno del tutto nuovo o frutto di un disegno strategico complessivo risalente nel tempo.
In queste pagine vogliamo approfondire un fenomeno complementare a quello sopra indicato, ovvero le cosiddette “rivoluzioni di velluto”, che negli ultimissimi anni stanno ridisegnando la mappa politica dell’Europa orientale e Asia centrale, con una puntualità e precisione che sembra smentire sia la casualità, sia la auspicata (da taluni) contagiosità della democrazia.
Il parto primigenio di questa nuova strategia è avvenuto in Serbia, alla fine degli anni ’90. La Repubblica Federale di Jugoslavia si era sfaldata drammaticamente dietro le spinte secessioniste di Slovenia, Croazia, Bosnia Erzegovina, con una cruda guerra civile nel cuore dell’Europa.
Solo la Serbia (allora formalmente ancora Jugoslavia) sembrava ricordare (sebbene come una sorta di spettro) quell’esperimento economico, sociale, ed interetnico che fu la Repubblica socialista di Tito.
La crisi economica e politica assediava il regime di Belgrado, e il suo presidente, il tristemente noto Slobodan Milosevic. Nasceva in quegli anni il movimento popolare Otpor (Resistenza) una organizzazione giovanile di opposizione civile e politica che faceva del movimentismo e della protesta di piazza nei grandi centri urbani i suoi cavalli di battaglia.
Il regime di Milosevic resistette, anche grazie al consenso elettorale. Lo scossone definitivo venne determinato solo dalla crisi e dalla guerra del Kosovo. Nel 2000 Milosevic ricorse alle urne come ultimo tentativo per sfuggire all’assedio della società civile e della comunità internazionale. Ma, quella volta, la pressione della piazza che gridava ai brogli travolse il regime.
L’opera di Otpor fu determinante in quei giorni di ottobre, i ragazzi della resistenza serba diventarono simbolo e motore della rivoluzione morbida di Belgrado, al grido di “E’ finito” (Gotov je) e “E’ ora” (Vreme je). Anni di lotte avevano portato l’originario spontaneismo di Otpor ad affinare sempre più le armi e le tecniche per il raggiungimento dei propri scopi politici.
La mobilitazione di piazza, per essere efficace, richiede raffinate strategie di pianificazione, organizzazione, tecniche di comunicazione, nonché, ovviamente, disponibilità finanziaria. Otpor aveva senza dubbio dimostrato di possedere per intero il know how.
Oggi l’organizzazione Otpor non esiste più, si è ufficialmente sciolta nel settembre 2004 dopo il fallito tentativo di entrare attivamente nel palazzo trasformandosi in partito politico. Ma la sua eredità è vitale più che mai. Dalle ceneri di Otpor sono nate diverse organizzazioni, piccole e grandi, che continuano con la stessa combattività il lavoro svolto nel passato.
La più nota di queste si chiama “Centro per la resistenza non violenta”, ed è stato fondato da alcuni dei leader storici di Otpor, in particolare Stanko Lazendic e Aleksandar Maric, e l’attività di questi esponenti è stata fondamentale per il successo dei movimenti di massa che hanno portato ai mutamenti di regime in Georgia e in Ucraina.
Non è un mistero che dal 2000 i vertici di Otpor abbiano partecipato ad una serie di seminari intensivi tenutisi in Ungheria sui “metodi di combattimento non violento” e presieduti dall’ex colonnello dell’esercito americano Robert Helvy.
Lo stesso Helvy ha dichiarato alla stampa serba di essere stato assoldato dall’Istituto internazionale repubblicano di Washington per addestrare i giovani di Otpor alla battaglia che li attendeva.
In quei mesi del 2000 le autorità serbe rilevarono un “sorprendente numero di giovani che andavano a visitare il monastero ortodosso di Sent Andrej in Ungheria” mentre la loro meta era l’Hotel Hilton di Budapest, dove si tenevano i seminari di addestramento.
Lo stesso Stanko Lazendic ammette esplicitamente: “Allorché l'Otpor ha rovesciato Milosevic ed è divenuto celebre nel mondo intero, ci hanno contattato organizzazioni di tutti i paesi dell'Europa dell'est. Come formatori dell'Otpor, noi abbiamo partecipato a numerosissimi seminari. A titolo individuale. Io sono andato in Bosnia e in Ucraina, Maric è stato in Georgia e in Bielorussia […] Quello che lui ci ha insegnato [riferendosi al colonnello Robert Helvy, n.d.r.] noi ora lo insegniamo ad altri. Come creare un movimento d'opinione contro il regime attraverso il materiale di propaganda o le manifestazioni di piazza”.
Lo stesso Lazendic nega di aver mai pensato o saputo che Helvy lavorasse per la CIA. Ma certo, dopo queste rivelazioni, non appaiono peregrine le voci delle autorità ucraine e bielorusse che hanno tacciato i membri dell’organizzazioni di essere provocatori professionisti al servizio di interessi stranieri.
“Istigatori di colpi di stato” e “pericoli pubblici” secondo l’ex presidente ucraino Leonid Kouchma e l’attuale bielorusso Alexander Lukashenko. Non dissimile il giudizio che dava su di loro ai tempi del suo potere il regime di Milosevic: “agenti stranieri e traditori della patria”.
È evidente che chi lavora per cambiare il volto di un paese e allontanarne la classe dirigente non sia visto di buon occhio dall’establishment. Non di meno, le azioni e le metodologie dei leader di Otpor lasciano molti dubbi sull’argomento, i training da loro organizzati sono poi sfociati in autentiche rivolte di piazza in due paesi fondamentali della scacchiera internazionale: Georgia e Ucraina.
In interviste alla stampa (una di queste trasmessa da Rai3 ad opera dell’inviato Ennio Remondino) i dirigenti che vengono da Otpor fanno di tutto per minimizzare il loro ruolo ed il loro intervento in quelle zone calde.
Salvo ammettere tranquillamente, poi, che in Georgia la piazza ha perfino utilizzato i simboli e le canzoni di Otpor, senza nemmeno tentare soluzioni autoctone, e che dopo l’insediamento del nuovo presidente Mikhail Saakashvili ai danni del defenestrato Eduard Shevarnadze, nessuno di loro ha più sentito il bisogno di recarsi in Georgia.
Ciò che detta sospetto è che le due citate non sono nazioni qualsiasi, al contrario, sono paesi strategici e con caratteristiche piuttosto simili. La Georgia è uno snodo fondamentale in quel crogiuolo etnico che è il Caucaso, nonché passaggio obbligato per gli oleodotti e gasdotti che dal Mar Caspio sfociano in Turchia.
La repubblica caucasica ha altresì una posizione geografica che permette il controllo di tutte quelle regioni nel sud della Russia (in primo luogo la Cecenia) in continua ebollizione.
Non dissimile la situazione dell’Ucraina, a metà strada tra occidente e oriente (culturalmente oltre che geograficamente), fondamentale nelle rotte commerciali est-ovest, che abbraccia il Mar Nero, a cui già Zbigniew Brzezinski nel suo studio “La grande scacchiera” aveva dato un ruolo di massimo rilievo come ago della bilancia per il controllo sulla Russia.
Ultimo, ma fondamentale aspetto, che accomuna i due paesi, è la presenza militare, simultanea, sia degli Stati Uniti che della Russia, i primi come ospiti recenti, i secondi come retaggio dell’Impero sovietico. Ma i nuovi regimi di Saakashvili e Yushenko sembrano aprire la porta ad un controllo non più condiviso, ma semplicemente unilaterale, delle forze armate a stelle e strisce su Georgia e Ucraina.
Mentre Bush è acclamato come una sorta di liberatore dalla folla oceanica di Tblisi durante il suo recente viaggio in Georgia, altrettanto esemplare è il caso dell’Ucraina: già si sussurra di un ingresso di questo Paese nella Nato, già sembrano destinate allo smantellamento le navi da guerra (ormai arrugginite, a dir la verità) della storica flotta dell’Armata rossa nei porti della Crimea, a Sebastopoli. L’Unione Sovietica è finita da tempo, perché mai dovrebbe controllare militarmente il Mar Nero? Putin dovrà mettersi il cuore in pace.
Ma se questi Paesi vogliono democrazia e libertà alla occidentale, e riescono a conquistarle in modo, addirittura, non violento… dov’ è il problema?
Scrive il giornalista ed eurodeputato Giulietto Chiesa: “L'ingerenza sovietica di un tempo era grossolana, palese. Quella di oggi, invece, ha l'aria di una spontanea e massiva protesta popolare. Sembra che avvenga per caso, come effetto di una lunga sedimentazione democratica autonoma e autoctona. Naturalmente non è vero niente.
In Bielorussia, come in Ucraina, come in Georgia, come nella ex Jugoslavia, scorrono fiumi di denaro, a sostegno degli oppositori; si organizzano a centinaia, a migliaia, borse di studio; si pagano viaggi e soggiorni, si finanziano giornali e radio; si inaugurano fondazioni , si stampano bollettini, si promuovono campagne”.
Che la propagazione della democrazia in questi paesi non sia casuale, sembrano dimostrarlo in maniera lampante altri due casi recenti e opposti.
Lo scenario è quello delle Repubbliche dell’Asia centrale, nate anche loro dalla dissoluzione dell’Unione Sovietica, centrali per il controllo dell’Heartland, quello spazio che fin dai tempi dell’imperialismo britannico consentiva di dominare simultaneamente le potenze regionali di allora (che di fatto sono le stesse di oggi): Russia, Cina, Iran.
Il primo teatro di scontro è stato il Kirghizistan, uno stato piccolo e povero ma strategicamente centrale. Questo paese ospita due basi, a pochi chilometri l’una dall’altra, la prima americana e la seconda russa.
Il presidente Askar Akayev ha però giocato una partita troppo pericolosa: tenere i piedi su due staffe e cercare di ottenere profitti su entrambi i tavoli da gioco. Le mosse di riavvicinamento a Mosca dopo un periodo più marcatamente filo-atlantico non sono evidentemente piaciute a qualcuno.
Scrive il giornalista Maurizio Blondet: “Con l’annuncio, il 5 giugno 2003, dell’estensione di tre anni per l’affitto della base Usa in Kirghizistan, con la decisione russa di stazionare le proprie forze a Kant (la base aerea a soli 20 chilometri da quella americana) e con il nuovo interesse della Cina ad accrescere i legami militari con Bishkek, il Kirghizistan è divenuto il centro delle rivalità delle grandi potenze in Asia […]
Nel febbraio scorso, il ministro degli Esteri kirghizo Aitmatov annuncia che Washington non avrà il permesso di far partire dalla base kirghiza i grandi aerei radar AWACS, con cui da quella zona si può spiare comodamente la vastissima area della Cina meridionale, e tenere sotto controllo ogni mossa russa e iraniana.
Peggio: lo fa dopo un viaggio a Mosca, in cui viene deciso che Putin potrà rafforzare pesantemente di equipaggiamenti militari la sua base kirghiza a Kant.
In cambio, apparentemente, dell’appoggio di Putin per le imminenti “libere elezioni” parlamentari kirghize del 27 febbraio, e per le ancor più cruciali votazioni presidenziali di ottobre prossimo. Insomma Akayev il presidente dittatore è tornato a porsi sotto l’ala della Russia”.
Questo ondivagare deve essere sembrato inaccettabile. Sfruttando le rivalità tribali tra le componenti del sud e quelle nordiche del clan di Akayev, la democrazia è arrivata anche in Kirghizistan sulle ali di una rivolta popolare che contestava i risultati delle elezioni.
Di nuovo Blondet è netto nel giudizio e rivela senza mezzi termini il carattere dei rivoltosi: “Si tratta di gruppi criminali, enormemente arricchitisi (grazie agli Usa) con l’inoltro e lo spaccio mondiale dell’oppio prodotto nel confinante Afghanistan”.
Akayev si è trovato di fronte ad una scelta: scatenare la repressione e trascinare il Kirghizistan nella guerra civile, oppure ritirasi a Mosca in attesa di tempi migliori per una eventuale rivincita. La scelta, evidentemente su consiglio di Putin, è andata sulla seconda ipotesi.
In un paese confinante, l’Uzbekistan, le cose sono andate in modo profondamente diverso. Nel mese di maggio i ribelli islamici hanno assediato la prigione e i palazzi istituzionali della cittadina di Andijan, nella valle di Fergana. La reazione di uno dei tanti presidenti padroni di quelle zone non si è fatta attendere. Il presidente Islam Karimov ha dato ordine di reprimere la rivolta.
Le truppe speciali hanno sparato sulla folla con centinaia di morti. Nessuna fonte ufficiale ha potuto verificare i fatti, la stampa internazionale è stata allontanata, le voci dissenzienti messe a tacere. A livello internazionale si è udita qualche debole critica, ben presto dimenticata.
Alla base di tutto sta il rapporto privilegiato tra il presidente Karimov e gli Stati Uniti, ai quali sono state concesse basi e piena disponibilità del territorio uzbeko. Forte di ciò, qualunque rivolta interna può essere bollata come tentativo insurrezionale di “terroristi islamici” e repressa nel sangue.
Continuerà questa strategia? I due prossimi banchi di prova appaiono vicini. Tra pochi giorni si svolgeranno le elezioni in Iran, momento che gli Stati Uniti attendono con trepidazione per dare il via alla spallata finale al regime degli ayatollah.
In questi giorni pre-elettorali si è assistito ad attentati terroristici con numerosi morti e l’accendersi di rivalità tra le componenti etniche iraniane che storicamente hanno convissuto tranquillamente. Strategia della tensione? Prime avvisaglie dello smembramento dell’Iran?
Un’altra area, la Bielorussia di Lukashenko, il fascista rosso che non si rassegna al declino della Nazione russa panslava, è sotto l’occhio attento della comunità internazionale. Contro il presidente padrone ha tuonato Condoleeza Rice.
La Bielorussia è, secondo il Segretario di Stato americano, “l’ultima dittatura rimasta in Europa”. Presto la democrazia potrebbe andare a bussare anche alle porte di Minsk.
Fonti dell’articolo:
Osservatorio sui Balcani, in particolare gli articoli:
http://www.osservatoriobalcani.org/article/view/3579 http://www.osservatoriobalcani.org/article/articleview/3684/1/49/
http://www.osservatoriobalcani.org/article/view/3621
ComeDonChisciotte per gli articolo di Giulietto Chiesa e Maurizio Blondet:
http://www.comedonchisciotte.org/site/modules.php?name=News&file=article&sid=916
http://www.comedonchisciotte.org/site/modules.php?name=News&file=article&sid=814