giovedì 17 febbraio 2011

Ma quali Rivoluzioni??

Una serie di articoli sulle cosiddette "rivoluzioni" di questi giorni nel Maghreb e Vicino Oriente.


Da Algeri a Teheran: dovuti distinguo
di Christian Elia - Peacereporter - 15 Febbraio 2011

I media internazionali tendono a trattare tutti allo stesso modo teatri molto differenti, dove non mancano gli elementi in comune, ma tante sono anche le peculiarità

Un'onda, potente e rabbiosa. L'immagine che il mondo arabo e islamico sta lanciando nel mondo è dinamica.

Esperti e studiosi, inviati e commentatori, riversano fiumi di inchiostro su quello che accade, ma sono senza parole rispetto a quello che potrebbe accadere, perché in fondo nessuno lo sa.

Egitto e Tunisia sono archiviate, almeno per coloro che ritengono esaurita la fase rivoluzionaria, in attesa dell'evoluzione democratica in entrambi i paesi. Il fuoco è in cammino e non sarà facile spegnerlo. Con il rischio, però, di omologare situazioni molto differenti tra loro.

L'Algeria, in primis. Grande manifestazione sabato scorso, grande manifestazione sabato prossimo. L'ex colonia francese - a grandi linee - si muove nello stesso solco dei vicini nordafricani. Con una differenza molto importante: la memoria.

La guerra civile che ha insanguinato il Paese, dal 1990 al 1998, che ha causato la morte di almeno 150mila persone, è una ferita ancora aperta nella memoria collettiva del Paese. Ecco che, pur in presenza di evidenti metastasi nella situazione socio-economica del Paese, pare molto più improbabile che la società civile algerina si lanci in un salto nel vuoto istituzionale, sul modello tunisino.

Più probabile un passaggio di poteri all'interno dell'elité economico-militare che governa il Paese, se la situazione dovesse aggravarsi. Di fronte a un'opposizione, però, che al momento ha un'identità molto islamista. Con tutto quello che questo ha comportato negli anni Novanta.

Situazione ancora differente quella dello Yemen. Da tre giorni, nonostante le garanzie fornite dal presidente Saleh di non ricandidarsi e di non lasciare il potere nelle mani del figlio, la piazza ribolle.

Uno schema, sulla carta, simile a quello egiziano. Solo che, a differenza dell'Egitto, dove classi sociali differenti si sono saldate attorno alla voglia di cambiamento, facendo leva sull'esercito come elemento di garanzia, lo Yemen è uno stato a pezzi.

I ribelli sciiti del nord, i secessionisti del sud, gli integralisti islamici dei clan dello Yemen centrale. A tutto questo si uniscono i milioni di profughi del Corno d'Africa, la cui gestione rappresenta una grande incognita per il Paese.

Ecco che, in presenza di elementi comuni, il fronte delle opposizioni al regime di Saleh è frantumato, con l'esercito che si arrocca attorno al presidente, avvinti in un ballo del potere che non regala un'alternativa ai due sodali.

Sono giorni di fuoco anche in Bahrein. I media tradizionali, almeno la maggioranza degli stessi, sta calibrando i racconti da Manama sulla stessa sceneggiatura di quelli visti e sentiti al Cairo o a Tunisi.

Difficile metterli sullo stesso piano. La dinastia al-Khalifa, sul modello della famiglia di Ben Alì o della cricca di Mubarak, detiene il potere in modo assoluto da sempre. Una ristretta minoranza della popolazione, circa il 30 percento, di sunniti legati alla famiglia reale gode di un elevato tenore di vita e di tutto il potere, economico e politico.

Il restante 70 percento, invece, vive una discriminazione permanente. Si tratta degli sciiti. Ecco che in Bahrein il conflitto prende più i connotati di una eventuale guerra civile, con la componente sciita della popolazione decisa a rovesciare lo status quo.

In Libia, per il 17 febbraio prossimo, è convocata - su internet - una grande manifestazione per chiedere le dimissioni di Gheddafi. Il giorno scelto non è casuale: è quello del massacro di Bengasi, nel 2006.

La polizia libica, in difesa del consolato italiano assaltato da dimostranti inferociti (il giorno prima il ministro Calderoli aveva mostrato una maglietta al Tg1 che riproduceva le vignette su Maometto ritenute offensive dai musulmani), massacrò undici persone.

La criminale provocazione del ministro italiano, però, è solo la scintilla per un confronto storico, in Libia: il potere centrale, arabo, e la minoranza berbera, che ha proprio a Bengasi il suo fortino. Ecco che la protesta in Libia prende connotati etnici, più che politici.

Le rivendicazioni contro il regime del Colonnello, passano ancora una volta nella tensione tra Tripoli e i berberi, anche perché Gheddafi è stato forse il più lungimirante dei dittatori regionali, distribuendo una parte dei proventi dei suoi ricchi traffici alla popolazione, aiutato anche dal piccolo numero di abitanti del Paese. Una spaccatura trasversale alla società libica, più che verticale, come in Tunisia o Egitto.

Ultimo, ma non meno importante, l'Iran. Paese che arabo non è, ma islamico sì. Il 14 febbraio scorso, per un attimo, pareva di essere tornati ai momenti di tensione del 2009, con le violenze che seguirono la rielezione di Ahmadinejad, prima a giugno e poi a ottobre.

Una lacerazione che la Rivoluzione Islamica non aveva mai conosciuto. L'onda verde, la chiamarono. Difficile dire se gli scontri del 14 siano sullo stesso registro: mancano alcuni elementi.

In primo luogo il bersaglio era molto più l'ayatollah supremo Khamenei che Ahmadinejad. Bisogna indagare il perché. Il presidente Ahmadinejad non è, all'improvviso, diventato gradito alle opposizioni.

Ma i movimenti di emancipazione hanno subito, tra il 2009 e il 2010, un colpo durissimo. Al punto che sembra quasi un sommovimento interno alla gerarchia. Alla passione dei ragazzi iraniani, pagata a caro prezzo e in prima persona, non si può mancare di rispetto.

Ma di sicuro incuriosisce una dinamica che, nel grande incendio, rischia di far confondere l'osservatore, accecato da tanto fumo, dove tutto sembra uguale, ma non lo è.


Svegliati, Libia!
di Nicola Sessa - Peacereporter - 17 Febbraio 2011

Ore di attesa e di tensione in tutta la Libia per il 'giorno della collera'

Muammar Gheddafi non è Hosni Mubarak e neanche Ben Ali - i deposti "signori" di Egitto e Tunisia. Il Colonnello libico, al momento, rimane saldo al potere. Quella del 17 febbraio è, tuttavia, una prova difficile da superare.

Le manifestazioni indette su internet con un video realizzato da un anonimo "figlio di Libia" possono avere dei risvolti imprevedibili, non ultimo, la dura repressione da parte del regime.

Un anticipo si è avuto già a cavallo tra il 15 e il 16 febbraio: Bengasi, la città più rivoluzionaria della Libia, la capitale dell'opposizione, è stata teatro di scontri tra manifestanti e forze di sicurezza.

Tutto è scoppiato in seguito all'arresto - apparentemente senza motivi - di Fathi Terbil (poi scarcerato), un avvocato e attivista per i diritti umani, portavoce dell'associazione dei famigliari dei 1200 detenuti che il 29 giugno del 1996 furono massacrati nel carcere di Abu Salim di Tripoli.

Il bilancio degli scontri parla di venti arresti, 38 feriti e due morti - secondo quanto riferito dall'agenzia al-Manara che fa base a Londra.

I poliziotti, in borghese, hanno tentato di disperdere la folla con manganelli, cannoni ad acqua e pallottole di gomma; ma, stando alle diverse testimonianze che si rincorrono sui social network, le forze di sicurezza avrebbero sparato anche diversi proiettili.

È scoccata, anche in Libia, l'ora del "giorno della collera". Gli oppositori del regime sperano di cavalcare l'onda delle rivolte tunisine ed egiziane e a dare un segnale per la riscossa.

"Enough, Libya!": Basta, Libia! Sono in molti a chiedere il cambiamento, la fine dei quarantuno anni di dittatura del Colonnello: oltre al popolo di internet, anche una parte della società civile composta da professori, avvocati, intellettuali e studenti è uscita allo scoperto.

Con un documento firmato, finora, da 213 persone si chiedono le dimissioni di Gheddafi, la fine di un sistema in cui tutto è nelle mani nel Colonnello e dei suoi sei figli. Il messaggio è chiaro: i libici, gli oppositori del regime non sono disposti a vivere in una ‘repubblica ereditaria'.

Le proteste prenderanno il via nelle principali città libiche, ma gli epicentri saranno senza dubbio la capitale, Tripoli, e appunto Bengasi dove la data del 17 febbraio richiama alla mente anche il massacro compiuto dalla polizia ai danni di un gruppo di giovani che protestava, nel 2006, davanti alla sede del consolato italiano per una non insolita sortita anti Islam del ministro italiano Roberto Calderoli.

Il regime, intanto, prende le misure. Gheddafi ha lavorato nell'ombra per tenere la Libia al riparo dall'onda rivoluzionaria che imperversa nel mondo arabo e islamico: secondo il rapporto presentato in Parlamento dal direttore dell'agenzia di controspionaggio italiana (Aisi), Giorgio Piccirillo, il Colonnello avrebbe fatto ricorso a un singolare "regolatore sociale a uso interno".

Secondo le fonti di intelligence italiana, infatti, la Libia avrebbe favorito la fuoriuscita di migranti verso la Tunisia (che in questi giorni stanno sbarcando sulle coste italiane) nei cui flussi sarebbero rientrati anche "evasi dalle carceri locali". Un mezzo per abbassare la pressione nel paese ed evitare che questi finissero per alimentare le voci della protesta.

Intanto ad Al-Bayda, cittadina ad est di Bengasi, sono scattati dei blitz con conseguenti arresti a casa di molti giovani accusati di veicolare, attraverso la rete, "il virus" della protesta.

Tra gli arrestati ci sarebbero anche Basim Liyas e Khaled al-Tshani che avrebbero dovuto coordinare le manifestazioni in tutto il paese. Al momento, non si consce il loro destino né il luogo dove sono stati trasferiti.

Il pericolo di un bagno di sangue rimane altissimo. L'ultimo cartello del video-invito realizzato dall'anonimo figlio di Libia mostra il volto del Colonnello con la scritta in sovrimpressione "Gheddafi è terrorizzato".

Un messaggio che infonde speranza e allo stesso tempo preoccupazione. Perché la storia e la natura lo insegnano: è attraverso la paura che si compiono le azioni più atroci.


L'uomo di Soros al Cairo
di Maidhc Ó Cathail - http://maidhcocathail.wordpress.com - 11 Febbraio 2011

In un articolo del Washington Post del 3 febbraio intitolato “Perché Obama deve agire bene in Egitto”, George Soros ha scritto che il presidente degli USA aveva “molto da guadagnare mettendosi in prima fila e prendendo le parti della richiesta pubblica di dignità e democrazia.”

Malgrado la ragionevolezza del suo parere, le esperienze del passato suggeriscono che l’hedge fund manager di origine ungherese abbia lui stesso qualcosa da guadagnare dal cambiamento di regime del Cairo.

Nella sua nota pubblica al presidente che ha contribuito ad eleggere , Soros ha notato che il fatto che i Fratelli Musulmani stessero cooperando con Mohamed ElBaradei è stato un “segno di speranza”, descrivendolo come “il premio Nobel che cerca di diventare presidente.”

Tuttavia, si è dimenticato di menzionare che fino al ritorno di ElBaradei in un Egitto lacerato dalla crisi il 27 gennaio, l’ex capo dell’AIEA – Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica, era stato un membro del comitato di fondazione dell’ICG – International Crisis Group [organizzazione per la prevenzione dei conflitti nel mondo, ndt], che Soros, il 35° uomo più ricco del mondo, ha contribuito a creare e finanziare.

L’ICG si definisce come “un’organizzazione indipendente, non-governativa e no-profit impegnata nel prevenire e risolvere conflitti letali,” ma le auto-descrizioni sono spesso fuorvianti. “L’ICG è un caso di studio affascinante sul modo in cui oggi le organizzazioni per i diritti umani, i governi e le società internazionali lavorino a stretto contatto,” ha scritto George Szamuely riguardo il ruolo influente dell’organizzazione nei Balcani .

“’Indipendente’ fa pensare che Soros riconosca una ‘crisi’ che richiede l’attenzione urgente del governo. I governi agiscono di conseguenza e distribuiscono contratti lucrativi a Soros ed i suoi compari.”

Uno dei “compari” più famosi di Soros è Mikhail Khodorkovsky, il carcerato ex capo della Yukos Oil, che nell’arco dei suoi 32 anni ha accumulato patrimoni del valore di più di 30 miliardi di dollari dalla “privatizzazione” post-sovietica manipolata della proprietà statale.

Quando l’oligarca ebreo è stato arrestato per evasione fiscale, appropriazione indebita e frode nel 2003, Soros denunciò le accuse come “persecuzione politica”, richiese l’espulsione della Russia dal G-8 ed incitò l’Occidente affinché intervenisse.

Il complice di Khodorkovsky, Leonid Nevzlin, scappò in Israele prima di essere giudicato colpevole in contumacia per aver commissionato l’omicidio di diversi politici e uomini di affari che avevano messo i bastoni fra le ruote nei piani d’espansione della Yukos. Come Soros e Khodorkovsky , da allora Nevzlin ha cercato di etichettarsi etichettarsi come "filantropo."

Le preoccupazioni di Tel Aviv riguardo la perdita di un vicino dittatore amichevole , tuttavia, dovrebbero essere alleviate dal fatto che ElBaradei potrebbe collaborare con il considerevole numero di sostenitori di Israele all’interno dell’ICG.

L’ex membro del Congresso americano Stephen Solarz, il quale ha contribuito alla nascita del gruppo, veniva una volta soprannominato “il maggior esperto legislativo della lobby israeliana di Capitol Hill” e nel 1998 fu a capo di un gruppo di neoconservatori che incitavano il presidente Clinton a rovesciare Saddam Hussein.

In un articolo sul Washington Post nel 2002, il collega neocon Kenneth Adelman assicurò agli americani che l’invasione dell’Iraq indotta da Israele sarebbe stato “un gioco da ragazzi”.

Dovrebbe essere persino più rassicurante per gli israeliani nervosi la presenza di Nahum Barnea, l’opinionista israeliano di spicco che ha aspramente criticato i colleghi giornalisti Gideon Levy, Amira Hass e Akiva Eldar per la loro “missione” di sostegno a favore dei palestinesi.

E nella lista internazionale dell’élite dei consiglieri anziani — definiti come “ex membri del consiglio (in misura compatibile con qualsiasi altro incarico a loro affidato al momento) che mantengono un’associazione col Gruppo di Crisi, ed i cui parere e sostegno vengono di tanto in tanto richiesti” – troviamo Shlomo Ben-Ami, ex Ministro degli Esteri israeliano, Stanley Fischer, governatore della Banca di Israele e Shimon Peres, attaule presidente israeliano.

A giudicare dalle apparenze, sembra difficile riconciliare la sostanziale presenza pro-israeliana nell’ICG con il fatto che Soros si dichiari un “non-sionista”. Ma le cose sono raramente quelle che sembrano con Soros. Due anni dopo la fondazione di J Street [gruppo di pressione liberale no-profit, ndt] venne fuori che Soros aveva elargito ingenti donazioni alla lobby ”pro-Israele, pro-pace”.

E non tutti sono convinti dalla pretesa di J Street di costituire una genuina alternativa all’AIPAC – American Israel Public Affairs Committee [gruppo di pressione americano pro-Israele, ndt]. Usando le parole di un astuto commentatore, J Street è "un po’ più che un sottoprodotto dell’esistente lobby israeliana per renderla più appetibile ai liberal-democratici all’interno dell’amministrazione Obama."

In più, alcuni dei più ferventi fautori di Israele di Capitol Hill hanno ricevuto donazioni da Soros, il quale è diventato "uno dei maggiori contributori alle campagne politiche della storia americana."

In un’intervista ad un talk show ebraico conservatore radiofonico, il Senatore Charles Schumer ha affermato che crede che HaShem (termine ebreo-ortodosso per “Dio”) gli ha dato quel nome — che significa “guardiano” — in modo che lui potesse svolgere il suo ruolo "molto importante" nel Senato statunitense come “guardiano di Israele.”

Lo stesso ruolo è stato essenzialmente svolto alla Camera dei Deputati, fino al 2008 , dal defunto membro del congeresso Tom Lantos , che un ex diplomatico statunitense ha descritto come “il guardiano ungaro-americano degli interessi di Israele al Congresso."

Come co-presidente del Caucus Congressuale dei Diritti Umani, Lantos ha ingannato di proposito il suo pari ed il pubblico sull’identità di “Nayirah”, la cui storia sulle atrocità dell’incubatrice dell’incubatrice ha contribuito a giustificare l’intervento americano nella Guerra del Golfo nel 1991.

Lantos, che si dice abbia “condiviso un’iniziativa comune per promuovere la democrazia ed i diritti umani” con il suo caro amico Soros, si è anche fatto paladino per il fuggitivo Nevzlin definendolo come innocente vittima dell’anti-semitismo.

“Spero che il presidente Obama sosterrà prontamente il popolo egiziano,” ha scritto Soros nel suo articolo sul Washington Post . “Le mie fondazioni sono disposte a contribuire come possono.”

Se il popolo egiziano ha tanto buonsenso quanto coraggio e determinazione, tuttavia, diranno a questo soggetto che si descrive come “devoto sostenitore della democrazia e della società aperta” cosa farsene della sua “filantropia” e del suo premio Nobel.



La rivoluzione beffata
di Pietro Ancona - http://medioevosociale-pietro.blogspot.com - 13 Febbraio 2011

Spero che si analizzi a fondo la rivoluzione egiziana, i suoi diciotto giorni, la gente che si è mobilitata e vi ha partecipato. E' stata una rivoluzione pacifica, inerme, ma non incruenta. La polizia ha sparato.

Trecento persone sono rimaste uccise, migliaia sono i feriti, non si sa quanti sono stati incarcerati e se sono tuttora dentro. Obama ha lodato il carattere pacifico della rivoluzione ma non ha detto una sola parola sui morti, sui feriti, sui prigionieri del Regime.

La rivoluzione ha mostrato l'esistenza di una società civile ed è stata in gran parte sostenuta dalla borghesia delle professioni che si è legata ai milioni di egiziani poveri e poverissimi del grande paese, culla della civiltà per migliaia di anni..

Questa società civile ha avuto due motori che l'hanno spinta in avanti: l'acculturazione dei giovani ed internet che hanno dato una coscienza più acuta e generale della sofferenza sociale e della mancanza di futuro in un regime corrotto in cui la maggioranza delle risorse è stata accaparrata e divorata da Mubarak e dai suoi cortigiani.

Questo accaparramento dura da sempre, è stato protetto dalla sospensione dei diritti per il permanente di stato d'assedio con la complicità degli USA e dell'Europa che hanno difeso fino a ieri Mubarak. La rivoluzione egiziana é stata il più importante avvenimento del Mediterraneo dopo la decolonizzazione e l'avvento di Stati sovrani al posto dei protettorati e degli ascari.

Il tallone di ferro degli USA pesa ed è riuscito finora a condizionare le scelte. Le classi dominanti sono state legate agli USA e continuano ad esserlo. Si tratta di una influenza economica e militare derivante da una ideologia di suprematismo del capitalismo. Tutto il Nord Africa è lardellato da basi militari USA.

Gli USA tengono il pianeta in stato d'assedio e con le loro mille basi militari, con le flotte e le portaerei presenti in tutti i mari del mondo sono in grado di intervenire immediatamente dappertutto. Questo dominio è finalizzato alla soddisfazione di interessi nazionali statunitensi e non solo non garantisce la pace ma tende a provocare squilibri e guerre.

Obama ha lodato ieri i militari i quali si sono affrettati a tranquillizzare Israele e lo stesso Pentagono con la conferma dei trattati internazionali. Certo la prosecuzione della politica di Mubarak verso la Palestina e di strangolamento degli abitanti della striscia di Gaza non porteranno nulla di buono ed arrecheranno nuove tensioni.

La rivoluzione è stata troppo concentrata sulle questioni interne e questo ne è stato il limite: non esistono questioni interne che possono essere separate dalla politica estera dell'Egitto. Non basterà certo tagliare le zone più corrotte del potere e della pubblica amministrazione per assicurare un futuro diverso.

La rivoluzione ha fallito. Ha fallito quando ha accettato di conferire all'esercito tutta la gestione della transizione. Avrebbe dovuto pretendere la costituzione di un Comitato composto dai rappresentanti di Piazza Tahrir ma è stato subìto il monopolio dello Stato Maggiore nella guida dei prossimi mesi.

Il prestigio ed il potere dell'Esercito è aumentato a dismisura. La rivoluzione è impotente e dovrà rassegnarsi a subire un nuovo padrone ed una situazione ben diversa dalla libertà e dalla democrazia agognate. l'Esercito non sembra ansioso di cambiare lo stato delle cose che ha condiviso per trenta anni con Mubarak e la sua corte.


Iran. La mistificazione continua
di Alessia Lai - www.rinascita.info - 17 Febbraio 2011

Secondo la stampa internazionale il “contagio” delle rivolte arabe sarebbe arrivato fino all’Iran. Lanciandosi in paralleli quanto mai azzardati i media a grande diffusione hanno trovato assonanze tra la condizione egiziana e quella iraniana e parlato di un’onda lunga che avrebbe ridato vita al movimento dell’Onda Verde, sceso in piazza lunedì ufficialmente a sostegno delle proteste egiziane, tunisine e di tutto il Vicino Oriente. Grande rilievo è stato dato agli scontri tra manifestanti e polizia e ai morti, due, che secondo le notizie diffuse da agenzie stampa e giornali sarebbero stati attivisti antigovernativi uccisi dalla “repressione”.

Derubricate a “voci vicine al governo” le affermazioni che parlavano di persone ferite e uccise dai manifestanti antigovernativi, la stampa ha preferito puntare sui titoli ad effetto come “In Iran è caos totale” o “Migliaia in marcia a Teheran”.

Questo è il quadro della situazione iraniana che in Occidente viene fornito al consumatore medio di notizie. La realtà, ignorata dai “distributori di notizie” occidentali, è che le manifestazioni indette dall’opposizione iraniana per il 14 febbraio sono state all’insegna di slogan antigovernativi e non di appoggio alle rivolte vicinorientali.

E, soprattutto, che le vittime sono state registrate non fra i manifestanti ma tra innocenti passanti: uno di questi si chiamava Sanè Jalè, aveva 24 anni, studiava Arti Rappresentative all’Accademia delle Belle Arti dell’università di Teheran.

Non un coraggioso militante “verde”, ma un ragazzo impegnato nelle milizie Basiji, ucciso da persone armate scese in strada con l’intenzione di provocare il caos per poi addossarne la colpa al governo.
Ce lo ha confermato ieri, da Teheran, Davood Abbasi, giornalista della sezione italiana della radio Irib. “Molte persone si sono riunite nel centro di Teheran e sono iniziati disordini mentre la folla usava slogan che non c’entravano nulla con l’Egitto ma che erano contro la Repubblica islamica. Hanno dato fuoco ai cassonetti e la polizia è intervenuta”, racconta Abbasi.

Quando “hanno iniziato a ritirasi sono spuntate delle persone armate, con le pistole, e hanno iniziato a sparare uccidendo una persona e ferendone gravemente altre (i morti poi saranno due, ndr)”.

Non era gente “semplice”, intenzionata a manifestare pacificamente, se così fosse stato non sarebbero spuntate le armi, certo non alla portata di un semplice cittadino iraniano; una riprova, per Abbasi, del fatto che si è trattato di una cosa orchestrata, con persone venute da fuori, come nel caso dell’uccisione degli scienziati nucleari avvenute di recente.

Lo ha confermato, sempre ieri, il portavoce del Parlamento iraniano, il Majlis, Ali Larijani, che ha puntato il dito contro gli Stati Uniti: “L’obiettivo era quello di clonare (le proteste in Egitto e Tunisia, ndr), in modo da poter dire che la crisi delle dittature legate agli Usa si è allargata e anche l’Iran, che invece è il precursore della democrazia nella regione, ha problemi interni”, ha detto Larijani citato dall’agenzia Fars.

La dimostrazione che la manifestazione del 14 è stata manipolata, ci ha detto ancora Davood Abbasi, è che solo 3 giorni prima era stato lo stesso governo, in occasione delle celebrazioni della Rivoluzione del 1979, a invitare al popolazione a esprimere in quello stesso giorno il proprio sostegno per l’Egitto.

Invece Musavì e Karrubì hanno convocato ugualmente la mobilitazione del 14 adducendo le stesse ragioni ma con intenzioni ben diverse.

Ipotesi confermata da un particolare rivelatoci dal collega dell’Irib, che ci ha riferito di una intercettazione fatta il 13 febbraio dall’intelligence iraniana nella quale Musavì parla delle manifestazioni antigovernative con un funzionario della Cia.

Il suo invito a partecipare rivolto alla gente aveva quindi il secondo fine di scatenare scontri e vittime per poterne accusare la dirigenza iraniana. Per questa ragione il Parlamento di Teheran starebbe pensando a una incriminazione di Musavì e Karrubì per istigazione alla violenza.

Un’altra prova che dietro a queste nuove proteste ci sarebbero gli Usa, ci ha detto Abbasi, è il grande lavoro mediatico messo in campo da anni da Stati Uniti e Gran Bretagna, che hanno finanziato una galassia di radio e tv in farsi. BBc in farsi, Voice of America in farsi, Radio Farda, solo per citarne alcuni, sono media che vanno su satellite e sulle onde corte.
Il 13 sera sulla BBC in farsi, sono stati intervistati alcuni organizzatori della protesta anti-governativa che invitavano la gente a scendere in piazza il giorno successivo. Se avessero realmente voluto sostenere l’Egitto, ha commentato Abbasi, avrebbero potuto partecipare alle celebrazioni dell’11 indette dal governo.

Sulla rinascita dell’Onda Verde, Davood ci ha detto che quello visto il 14 febbraio è stato il “fantasma” delle mobilitazioni risalenti al 2009. Allora i manifestanti, ha ricordato, “non erano certo armati, ora sì, quindi non è stata una cosa spontanea, è stata organizzata a tavolino e hanno sparato alla gente per poi addossare le colpe al governo per cercare di dare inizio a una nuova crisi, tra l’altro paragonando l’Iran all’Egitto di Mubarak”.

Quello che si sta avverando ora in Egitto “è una grande sconfitta ideologica per gli Usa. Che hanno voluto creare una crisi in Iran dopo che i tumulti del 2009 si erano esauriti dopo appena 8 mesi e dopo che le opposizioni avevano affermato di essere ora concentrate sulle prossime elezioni presidenziali”.

La rivoluzione a Il Cairo è stata da più parti “paragonata a quella islamica del ’79 che ha segnato la fine del potere Usa. L’Iran – ci ha detto il giornalista dell’Irib - sta vincendo la scommessa a lungo termine fatta nel 1979, cioè che i popoli islamici si libereranno del giogo statunitense in tutta la regione”.
La realtà, ha voluto sottolineare Davood, è che l’Egitto di Mubarak non aveva nulla a che vedere con l’Iran, un Paese in cui in 32 anni ci sono state 32 tornate elettorali, praticamente una all’anno. La scommessa vinta dall’Iran, ci ha detto ancora Davood, ha sconfitto il tentativo statunitense di imporre governi filo-occidentali nell’area vicinorientale.

Se gli Usa sono così preoccupati e cercano di destabilizzare Teheran, ha concluso, è perché se venisse distrutta l’idea, attraverso le mobilitazioni popolari, che in quell’area i governi sono amici degli Stati Uniti, per loro sarebbe la fine e non ci sarebbe soluzione politica né militare a una rivoluzione del genere.



Per un nuovo acromatismo rivoluzionario
di Gianluca Freda - http://blogghete.altervista.org - 15 Febbraio 2011

Attendiamo, con serena rassegnazione, qualche notizia in più sul sequel della “rivoluzione verde” in Iran. Al momento in cui scrivo, non si è ancora ben capito – tanto per cambiare – quanta parte delle notizie che arrivano sui nostri media “da Teheran” corrisponda al vero, quanta sia frutto di esagerazioni, quanta ancora sia pura invenzione e creazione dei cialtroneschi corrispondenti occidentali.

Una categoria, quest'ultima, che le autorità iraniane dovrebbero imparare al più presto a neutralizzare, possibilmente con la massima durezza, riservando anche a loro qualche metro delle corde di canapa già utilizzate come degna cravatta per molti dei traditori della nazione che fomentarono e sostennero le rivolte nel 2009.

Il pochissimo che si è visto finora in Tv e sul web lascia sperare che il governo dell'Iran riesca a resistere anche a questo secondo assalto del manipolo di guastatori finanziati da Soros e dalle ONG americane.

I TG italiani hanno mostrato, col titolo altisonante di “rivolta a Teheran”, un paio di scazzottate sulla pubblica piazza dai fotogrammi saltellanti; dal solito Twitter arrivano fotografie con didascalie grottesche, che definiscono “caos nella capitale” l'immagine di un gruppo di persone assiepate su un marciapiede, le quali sembrerebbero in attesa del tram, più che di un glorioso e rivoluzionario rivolgimento democratico del destino. Vedremo.

In ogni caso, l'esito di queste operazioni di rovesciamento dei governi per mezzo di masse di babbei accuratamente manipolate, non dipende, com'è ovvio, da ciò che i babbei possono fare o non fare.

Dipende invece dalla capacità dei finanziatori e organizzatori delle kermesse di progettare una gestione politica alternativa, stringendo accordi con i poteri che contano davvero all'interno di una nazione: l'esercito, i servizi segreti, gli apparati finanziari e industriali, esattamente com'è avvenuto in Egitto.

Per ora si ha comunque l'impressione assai netta che i media occidentali, come al solito, stiano cercando di aizzare e provocare la rivolta in Iran molto più di quanto cerchino di descriverla.

Mohammad Reza Naghdi, comandante delle milizie Basij iraniane, sembra consapevole di quanto sta per accadere. Ha dichiarato: “Le agenzie d'intelligence occidentale stanno cercando una persona mentalmente disturbata che si dia fuoco a Teheran per scatenare eventi simili a quelli verificatisi in Egitto e in Tunisia. Ma sono loro i ritardati se credono che imitando azioni del genere possano emergere vittoriosi”. Gli auguro di avere ragione.

Nel frattempo, potrà essere utile per il futuro – anche quello che riguarda direttamente il nostro paese – fare un bilancio provvisorio delle recenti “rivoluzioni” in Egitto e Tunisia, allo scopo di scoprire quanto possa essere davvero vantaggiosa per un popolo una sollevazione organizzata su input altrui, senza la minima comprensione dei progetti geostrategici che presiedono al rivolgimento politico delle nazioni e avente per obiettivo la defenestrazione non dei veri aguzzini, ma dei loro fantocci, prontamente sostituiti con altri fantocci più crudeli e più servili dei precedenti verso i reali padroni.

Dubito che i mascalzoni che ieri l'altro strepitavano “se non ora, quack!” insieme alle oche di Piazza del Popolo possano trarne qualche insegnamento, inebetiti come sono dall'ebbrezza dell'ideologia; ma non è certo a loro che mi rivolgo, bensì a tutti gli altri, quelli che sanno ragionare sul mondo come è, anziché sulla sua versione arcade per Nintendo.

L'esito attuale della rivolta in Tunisia è ben descritto in questo articolo della Montreal Gazette, che sintetizza molti altri simili resoconti della stampa occidentale; la quale ha adottato toni un po' più sinceri e spudorati e un po' meno retoricamente risorgimentali dopo che, con la rimozione di Ben Ali, gli obiettivi destabilizzanti della rivoluzione gelsominica sono stati stabilmente raggiunti.

“Viviamo nel terrore”, racconta una signora di Entilaka, sobborgo alla periferia di Tunisi. “I nostri bambini non possono più andare a scuola. Non riusciamo a dormire la notte, ci sono una quantità di furti e di saccheggi”. Intere cittadine come Kasserine e Kef, spiega l'articolo, sono alla mercé delle ruberie e delle violenze del glorioso popolo rivoluzionario, che distrugge e depreda negozi ed edifici pubblici.

E questo in cambio di cosa? Ce lo spiega l'improvvisamente illuminato Mustapha Ben Jaafar, leader del Forum Democratico per il Lavoro e le Libertà (FDTL), una delle tante organizzazioni fondate sull'ideologia dei “diritti umani” e sulle belle parole che gli USA hanno finanziato per creare il caos in Tunisia.

“Non c'è una reale volontà politica di rompere con il passato. Le decisioni del nuovo governo sono arrivate con un ritardo che ha messo in dubbio la sua legittimità e ha provocato una crisi di fiducia”.

Gli fa eco Moncef Marzouki, membro fondatore del Comitato Nazionale per la Difesa dei Prigionieri di Coscienza, appena tornato dall'esilio e attualmente aspirante alla presidenza: “I vecchi boss sono ancora dietro le quinte”, dichiara, folgorato da un attacco tardivo di comprendonio.

I tunisini stanno per imparare che esiste qualcosa di peggio di un dittatore finanziato dallo straniero per mantenere l'ordine pubblico con il pugno di ferro: e cioè un dittatore finanziato dallo straniero per mantenere il paese nel caos con il pugno di ferro, affinché la debolezza politica ed economica ponga le strutture politiche ed economiche alla totale mercé dei dominanti.

Per un Ben Jafaar e un Marzouki che vedono la luce, ci sono comunque migliaia di utili idioti che smanettano felici sulla loro playstation cerebrale. “La paura è sparita, ora mi sento un uomo libero. Per 30 anni non abbiamo avuto il diritto di esprimerci”, esulta un bazariota 43enne di nome Mohamed Neji.

Se l'assenza di ordine pubblico e la caduta libera dell'economia gli consentiranno di arrivare ai 44 anni, Mohamed Neji avrà modo di comprendere a fondo il senso della celebrata “libertà d'espressione” occidentale, in cui ciascuno è libero di esprimersi come vuole, tanto nessuno lo sta a sentire.

Molti suoi saggi compatrioti hanno preferito fuggire a gambe levate dalla Tunisia “liberata” dalla rivoluzione CIA-NED e affollano in questo momento le coste di Lampedusa. A guardare l'andamento del mercato azionario tunisino post-gelsominico (vedi figura) è difficile dar loro torto.


Qualcosa di molto simile si può dire per l'esito della rivoluzione egiziana. Di Mubarak sono state doverosamente ricordate tutte le nefandezze compiute in un trentennio: la sua politica filo-israeliana, la segregazione dei palestinesi, la corruzione, la dipendenza dai finanziamenti USA, gli accordi con i servizi segreti occidentali per la tortura e la sparizione dei prigionieri sospettati di “attività terroristiche”.

Tutto vero. Siccome però la completezza non fa mai male, ricordiamo anche quel poco di utile che egli ha fatto per l'Egitto: ha garantito per 30 anni l'ordine pubblico, il quale ha a sua volta garantito la pacifica convivenza di molteplici gruppi religiosi all'interno dello stesso paese; ha garantito la stabilità politica, la quale ha assicurato – per quante balle possano raccontare i media nostrani – un tenore di vita mediamente decoroso alla popolazione.

Lo spiega, cifre alla mano, questo articolo di Keith Marsden. La storia che il 40% degli egiziani viva “con meno di un dollaro al giorno”, ampiamente propagandata dai media occidentali, è una stronzata, seppure passibile di trasformarsi in dura realtà nel prossimo sfolgorante futuro postrivoluzionario.

In realtà, le cifre della Banca Mondiale dicono che meno del 2% degli egiziani viveva nel 2005 (ultimi dati disponibili) con meno di 1.25 dollari al giorno. In altri paesi, tale percentuale è molto più alta (in India è del 41,6%, in Sudafrica del 26,2%, in Pakistan del 22,6%, in Cina del 16,9%).

Negli anni di Mubarak si è ridotta la forbice economica tra i ceti più ricchi e quelli più poveri; sono cresciuti i salari, è migliorata la qualità dell'alimentazione, è stata implementata l'assistenza sanitaria e l'aspettativa di vita è salita nel 2008 fino a 70 anni.

Non dico tutto questo per difendere Mubarak. Lo dico per sottolineare che sbarazzarsi di un fantoccio per sostituirlo con un altro che ne possiede tutti i molti difetti, senza replicarne le poche qualità, può non essere un'idea felice. Suleiman, il nuovo presidente che ha agguantato il potere con l'appoggio israelo-americano, è pagato per devastare e dividere ciò che di integro e di unitario era rimasto nel paese.

Ha già iniziato a strillare i suoi allarmi sulla presenza di al-Qaeda nel Sinai; il che – considerato che Suleiman, in quanto ex capo dei servizi di sicurezza egiziani, sa benissimo cosa è al-Qaeda, a cosa serve e da chi è realmente finanziata e controllata - prelude probabilmente ad un lungo periodo di attentati “terroristici” contro le minoranze religiose, che divideranno il paese in una molteplicità di fazioni, aprendo la porta ad un intervento “difensivo” israeliano nella penisola del Sinai, snodo fondamentale dei progetti strategici israelo-americani.

Con l'avvento di Suleiman, temo che anche gli egiziani avranno tempo e modo di sperimentare l'”effetto Saddam”, simile, per molti versi all'”effetto Ceaucescu” rumeno e al nostrano “effetto Craxi”: e cioè di rimpiangere amaramente, come una perduta età dell'oro, i decenni trascorsi sotto il tallone di governanti illiberali e corrotti, ma ancora dotati di un barlume di spirito nazionalistico capace di assicurare un minimo di stabilità economica e di coesione culturale e politica al proprio paese.

Per ricordare al colto e all'inclita chi sia realmente Omar Suleiman, innalzato gioiosamente ai vertici del potere egiziano dai muggiti del popolo bue in democratica rivolta, traduco di seguito qualche brano del libro La mia storia, scritto nel 2008 dal cittadino australiano di origine egiziana Mamdouh Habib (foto).

Habib è uno dei tanti innocenti catturati in giro per il mondo dai servizi segreti Usa dopo l'11 settembre 2001 e poi spediti, con le “extraordinary renditions”, in Egitto per essere torturati e costretti a confessare reati di terrorismo a cui non avevano mai neppure lontanamente pensato.

Nel libro racconta le sue esperienze di prigioniero innocente, finito nel buco nero delle carceri segrete e impossibilitato a difendersi. Parla anche del suo incontro con Omar Suleiman, attuale e futuro quisling dell'Egitto. Penso si tratti di una lettura istruttiva, più utile a comprendere la stupidità delle rivolte impulsive ed eterodirette di mille discorsi teorici sull'argomento.

pp. 112-115:

La guardia mi disse con concitazione che il grande boss in persona era venuto a parlare con me e che avrei dovuto comportarmi bene e cooperare. Tutti erano nervosi. Io a quel punto avevo già capito che il boss era Omar Suleiman, capo di tutta la sicurezza egiziana. Era noto per supervisionare personalmente gli interrogatori dei sospetti membri di al-Qaeda, inviando poi rapporti alla CIA. All’inizio, egli presenziò spesso ai miei interrogatori. Forse pensava di aver catturato un pesce grosso dopo che australiani e americani mi avevano mandato da lui.

Ero seduto su una sedia, bendato, con le mani bloccate dietro la schiena dalle manette. Lui venne da me. La sua voce era roca e profonda. Mi parlò in egiziano e in inglese. Mi disse: “Ascolta, tu non sai chi sono, ma io sono quello che tiene la tua vita nelle sue mani. La vita di ogni persona in questo edificio è nelle mie mani. Sono io quello che decide”. Io dissi: “Spero che la sua decisione sia di farmi morire immediatamente”. “No, io non voglio che tu muoia adesso. Voglio che tu muoia lentamente”, proseguì. “Non posso più restare con te. Il mio tempo è troppo prezioso perché io resti qui. Devi solo desiderare che io ti salvi. Io sono il tuo salvatore. Devi raccontarmi tutto, se vuoi essere salvato. Che cosa rispondi?”. “Non ho nulla da raccontarle”. Non credi che io possa distruggerti in un attimo?”. Battè le mani. “Non lo so”. Ero confuso. Tutto sembrava irreale. “Se Dio in persona scendesse dal cielo e cercasse di prenderti per mano, io non glielo permetterei. Sei sotto il mio controllo. Permettimi di mostrarti qualcosa che ti convincerà”. “Ora mi confesserai che stavi progettando un attacco terroristico”, insistè Suleiman. “Non ho progettato nessun attacco”.

“Hai la mia parola che diventerai un uomo ricco se mi confesserai di aver progettato gli attacchi. Non ti fidi di me?”, domandò.

“Non mi fido di nessuno”, risposi.

Immediatamente mi colpì con violenza sul viso, facendo saltare via la benda; ora vedevo chiaramente la sua faccia. “Basta! Basta! Non voglio più vedere quest’uomo fino a quando non si deciderà a cooperare e a confessare di aver progettato un attacco terroristico!”, urlò agli altri presenti nella stanza, poi uscì furibondo.

La guardia venne da me, indispettita per il mio rifiuto di cooperare.

Io gli dissi: “Presto dovrete lasciarmi andare; sono quasi passate 48 ore”.

Lui mi guardò con sorpresa e mi chiese: “Quanto tempo credi di essere rimasto qui?”.

“Un giorno”, risposi. “Amico, sei qua dentro da più di una settimana”.

Poi mi condussero in un’altra stanza dove mi torturarono senza interruzione, denudandomi e infliggendomi scosse elettriche in ogni punto del corpo. La cosa successiva che ricordo è che mi trovavo di nuovo davanti al generale. Entrò nella mia stanza insieme ad un uomo che veniva dal Turkestan; era un uomo robusto, ma camminava piegato in avanti perché aveva le mani incatenate alle caviglie, il che gli impediva di stare eretto.

“Questo tizio non ci serve più. Ed è quello che succederà anche a te. Lo abbiamo interrogato per un’ora ed ecco che cosa lo aspetta”. Improvvisamente, un tipo soprannominato Hamish, che significa “serpente”, colpì il poveretto alle spalle con un calcio spaventoso che lo mandò a sbattere dall’altra parte della stanza. Una guardia andò a scuoterlo, ma lui non rispose. Rivolgendosi al generale, la guardia disse: “Basha, credo che sia morto”. “Buttatelo via. Lasciatelo ai cani”. Trascinarono il cadavere fuori dalla stanza. “Che ne pensi?”, mi domandò il generale, fissandomi in volto.

“Almeno adesso può riposare”, risposi.

Poi portarono dentro un altro uomo. Questo credo venisse dall’Europa: le sue urla di dolore non sembravano quelle di un mediorientale. Era in condizioni terribili. La guardia portò dentro un macchinario e iniziò a collegare i cavi a quel poveretto.

Gli dissero che gli avrebbero inflitto una scossa elettrica della massima potenza, di livello dieci. Prima ancora che potessero accendere il macchinario, l’uomo iniziò ad ansimare e poi si abbattè sulla sedia. Credo che fosse morto per un attacco cardiaco.

Il generale disse che c’era un’altra persona che voleva farmi vedere. “Questa persona ti farà capire che possiamo tenerti qui per tutto il tempo che vogliamo, anche per tutta la vita, se lo riteniamo opportuno”.

Nella stanza c’era una finestra, coperta da una tenda. Il generale scostò la tenda e io vidi la metà superiore di un uomo molto magro e malato. Era seduto su una sedia dall’altra parte del vetro, di fronte a me.

“Lo conosci?”, mi domandò il generale. “No”, risposi. “Che strano. Eppure è un tuo amico dell’Australia”. Guardai di nuovo e mi accorsi con orrore che era Mohammed Abbas, un uomo che avevo conosciuto in Australia e che lavorava per la Telstra [la compagnia di telecomunicazioni australiana]. Era partito per l’Egitto nel 1999 e nessuno lo aveva più visto da allora. “Sarà il tuo vicino per il resto della tua vita”. Fu in quel momento che compresi di essere in Egitto, senza alcun dubbio. Poi portarono via Abbas e richiusero la tenda.

p. 118:

Dopo il primo interrogatorio con Suleiman, mi convinsi che agli egiziani non interessava sapere dove ero stato realmente; volevano solo che confessassi di essere un terrorista e di aver progettato attentati, in modo da poter vendere queste informazioni agli Stati Uniti e all’Australia. Allora decisi che non avrei risposto a nessuna domanda, né spiegato nulla; ma a causa di ciò, in Egitto venni torturato con ferocia.

Agli egiziani, Maha [la moglie di Habib] non piaceva per niente. Un giorno sentii che Omar Suleiman diceva a qualcuno: “Mi piacerebbe molto far venire Maha qui”. Non ho idea di quando successe, ma il ricordo di queste poche parole è assai vivido nella mia mente.

Fortunatamente, Suleiman non avrebbe mai potuto mettere le mani su Maha, perché lei è di origine libanese e cittadina australiana. Prima che venissi estradato dall’Egitto, Suleiman venne spesso a minacciarmi, dicendo che mi avrebbe riportato indietro se avessi detto qualcosa di negativo sugli egiziani.

Da quanto esposto fin qui si può ben capire per quale motivo io non voglia più sentir parlare di rivoluzioni del popolo, manifestazioni studentesche, adunate della “società civile”, proteste di piazza dei lavoratori, marce e raduni per i diritti della donna o degli omosessuali o dei gatti randagi ed altra simile paccottiglia.

Il popolo (del quale io stesso faccio parte a pieno diritto) non possiede per il momento né le competenze, né la strategia, né la forza per porre in atto un sovvertimento politico consapevolmente gestito e organizzato. Può solo attuarlo per conto terzi, con sciagurata irragionevolezza, con grave danno dei propri interessi e pregiudizio del proprio futuro.

Non comprende da solo gli obiettivi, ha bisogno di qualcuno che glieli indichi; e questo qualcuno è sempre un gruppo dirigente ristretto che sceglie i bersagli in funzione dei propri interessi e della propria strategia.

Certo, nulla esclude la possibilità che tale elite possa nascere un giorno nel corpo stesso delle masse popolari; ma i risultati perniciosi e miserabili osservati in Egitto e Tunisia – e quelli altrettanto gravi cui assisteremo in Italia dopo la defenestrazione ormai prossima di Berlusconi – ci dicono che quel giorno è ancora molto lontano e che sono ben altre élite quelle che guidano in questo momento le masse vocianti.

Per poter gestire, una volta tanto per proprio vantaggio, una rivoluzione, i ceti popolari dovrebbero abbandonare le asce e imparare l’arte della semina; chiedersi cosa si vuole costruire, non chi bisogna abbattere; dare più retta al cervello che alla bile, domandandosi meno chi è il cattivo di turno e più chi sarà a sostituirlo una volta che sarà caduto.

Soprattutto, dovrebbe imparare a riconoscere i burattinai e a rivolgere la propria furia contro di loro, non contro i loro fantocci, che vengono fabbricati in serie e prontamente sostituiti da altri fantocci quando le necessità lo richiedono.

Lasciate perdere le piazze delle carampane strepitanti, dei sindacati al soldo del nemico, degli operai affamati, degli studenti cialtroni che prima di prendere a calci un bancomat si assicurano di non aver messo le Timberland buone. Dimenticatevi degli assalti ai parlamenti e ai palazzi del potere fasullo.

Rivolgete invece le vostre armi contro le strutture che realmente vi opprimono, quelle invisibili, edificate a questo preciso scopo dagli occupanti del vostro paese. Assediate le ambasciate americane e israeliane.

Distruggete le sedi delle organizzazioni di propaganda mediatiche e partitiche, che deviano dolosamente la lotta verso la tutela di fumosi “diritti umani”, stendendo il silenzio sulla rivendicazione di ben più concreti diritti economici, sociali, politici.

Costringete alla fuga questi venditori di fumo. Assaltate le sedi dell’Unione Europea, pretendete che tutti i rappresentanti del FMI e della Banca Mondiale vengano cacciati dal territorio nazionale. Rifiutate e mettete a morte qualunque nuovo governante che intrattenga rapporti con loro o che prenda anche solo in vaga considerazione il proposito di ottemperare alle loro richieste.

Scegliete leader spregiudicati – non necessariamente “onesti”: non è con la moralità che si fanno le rivoluzioni – che sappiano intrattenere relazioni solide con le potenze emergenti e con le sole istituzioni che realmente contano all’interno di qualsiasi paese, democratico o non democratico: e cioè l’esercito, i servizi segreti, i settori di punta dell’industria e dell’economia nazionale.

Se farete questo, avrete una rivoluzione vera, ma vi avverto che sarà dura. Non ve la caverete con qualche decina di morti, non potrete tornare alla quiete delle vostre case quando i pupazzi statunitensi fuggiranno in esilio e nuovi fantocci vi prometteranno “riforme e democratiche elezioni”.

Obama non avrà parole di apprezzamento per il vostro coraggio e la vostra impetuosa “sete di democrazia”. Le riforme e le elezioni dovrete farvele da voi, ed è questo il bello e contemporaneamente il difficile di tutta la faccenda. Si fa presto a buttare giù un burattino. I burattinai offrono assai maggiore resistenza.

Imparate a riconoscere una rivoluzione vera da una rivoluzione fasulla, dipinta dei colori dell’arcobaleno da imbonitori fraudolenti, che vogliono solo attirarvi nel padiglione dello spettacolo per dare un nuovo giro di chiave ai lucchetti delle vostre catene.

Non è una cosa così difficile, in fondo. La rivoluzione vera è quella in cui i tiranni non applaudono la furia del popolo in armi fino a spellarsi le mani.


Democrazie e pretoriani, in attesa della soluzione finale
di Alfatau - www.clarissa.it - 12 Febbraio 2011

Gli avvenimenti che stanno interessando i Paesi di religione islamica ricordano molto da vicino quello che accadde circa alla metà degli anni Settanta in Europa: nell'arco di pochi mesi, tra il 1975 ed il 1977, Grecia, Spagna e Portogallo furono provvidenzialmente "liberate" da regimi autoritari che non erano più chiaramente al passo coi tempi.

Molti sono ancora gli interrogativi sulla singolare sincronia con cui si verificò quel cambiamento, e non sono pochi gli storici che lo pongono in relazione con una nuova impostazione della politica americana che richiedeva l'abbandono di questi scomodi alleati, fino ad allora sostenuti senza riserve, in virtù del loro sicuro anti-comunismo, nonostante la loro davvero scarsa presentabilità democratica, soprattutto ora che iniziava con l'Urss il lungo confronto propagandistico sui diritti umani,

destinato a divenire uno dei non ultimi fattori che hanno contribuito al rapido indebolimento del regime sovietico.

Taluni osservatori inseriscono in questo quadro persino gli avvenimenti dell'Iran del 1978-79, che avrebbero condotto, come sappiamo, al trionfo del regime khomeinista: taluni osservatori, soprattutto legati all'intelligence francese, ritengono infatti che il successo shiita sarebbe stato nient'altro che una sorta di incidente di percorso in uno scenario che postulava comunque l'abbattimento del regime autoritario dello shah.

Quello che sta accadendo in Nord Africa è sicuramente legato e favorito da fattori interni, in Paesi che da troppo tempo sono oppressi da sistemi politici oligarchici che hanno derubato di tutto i loro popoli e ne hanno schiacciato ogni libera possibilità di sviluppo.

Ma è altrettanto indubbio che l'unica ragione per cui regimi così corrotti e privi di un consenso effettivo sono sopravvissuti tanto a lungo sta nel benevolo supporto fornito loro dall'Occidente: questo vale per la Tunisia, nella cui involuzione l'Italia ha avuto fra l'altro un ruolo di grande rilievo, benché mai apertamente rivendicato; per l'Egitto, in virtù delle posizioni accomodanti verso l'egemonia israeliana che Mubarak ha sempre mantenuto, divenendo per questa essenziale ragione l'uomo chiave degli Usa nell'area; vale ancor di più per la Giordania, vero baluardo filo-israeliano nella regione; vale sicuramente, anche se in modo differente, per l'Algeria, la prossima possibile "rivoluzione", in questo caso grazie al particolare rapporto che la lega alla Francia.

C'è da chiedersi ora se la scelta occidentale di sostenere dei regimi in cui sono i militari a diventare garanti insieme dell'evoluzione democratica e dell'allineamento filo-occidentale e non anti-israeliano, sia una scelta davvero lungimirante.

Questo ruolo di "fattore d'ordine", attribuito alle forze armate, è un classico della politica occidentale: è avvenuto nel corso della decolonizzazione ed è stato ricorrente in tutte quelle situazioni nel cosiddetto Terzo Mondo in cui, per l'assenza di una precisa identità nazionale e di tessuti sociali consolidati, gli eserciti erano le sole istituzioni in grado di reggere una parvenza di legalità e di evitare pericolose derive filo-comuniste, come ora potrebbero esservene di filo-islamiste.

Il problema è che, dopo avere parlato per quasi due decenni, di democracy building il dover fare ricorso alle forze armate, come pretoriani che difendono insieme la democrazia ed un allineamento internazionale, rappresenta un ennesimo fallimento nel bilancio della politica occidentale nell'area arabo-islamica.

Ma questa scelta potrebbe in realtà essere rivelatrice di ben altro scenario: quello, da tempo ipotizzato da molti osservatori, come Gaetano Colonna nel suo Medio Oriente senza pace, secondo il quale il Medio Oriente "allargato" (che spazia cioè dal Marocco al Pakistan e dalle repubbliche centro-asiatiche al Corno d'Africa) si starebbe rapidamente avvicinando ad una resa dei conti rivolta a disegnare una volta per tutte un assetto stabile per l'area, sotto la sola possibile e credibile egemonia regionale, quella israeliana.

Un redde rationem in conseguenza del quale dovrebbe cadere Ahmadinejad in Iran, dovrebbe essere sradicata l'influenza del Partito di Dio in Libano e dovrebbe essere assicurato il controllo delle riserve petrolifere mondiali grazie alla stabilizzazione dei precari regimi del Golfo; dopo di che si potrebbe pensare ad un ritiro dall'Afghanistan e ad un controllo del caos pakistano attraverso un crescente ruolo dell'India, come pilastro ad oriente di questo assetto complessivo.

Le parole con cui Hosni Mubarak, come molti dei suoi predecessori scaricati dagli americani, si sarebbe scagliato contro questi ultimi, secondo quanto ha riferito l'ex ministro israeliano Benjamin Ben-Eliezer, sono perciò abbastanza patetiche: egli avrebbe infatti preannunciato una valanga islamista che si andrebbe ad estendere dall'Egitto al Golfo Persico, senza capire che, proprio per stabilizzare la regione dal pericolo islamico e realizzare una soluzione definitiva per gli equilibri della regione, occorre sostituire in tutta fretta, prima che sia troppo tardi, regimi non più presentabili con nuove "democrazie", il cui orientamento filo-occidentale e non ostile allo Stato ebraico sia garantito dai militari - secondo il modello della Turchia, almeno fino a quanto questa non ha dovuto subire la sanguinosa offesa del massacro della Freedom Flottilla.

Il fatto che, negli ultimi mesi, il processo di pace in Palestina sia stato chiaramente abbandonato dagli israeliani, in spregio a qualsiasi, pur fievole, pressione nord-americana, fa chiaramente presagire che il tempo delle decisioni irrevocabili è oramai maturo e che si attende solo appunto il momento opportuno per intraprendere i passi decisivi che dovranno assicurare una pax israeliana nell'area: l'affannoso via vai di alti gradi militari statunitensi con i parigrado israeliani, fra gli Stati Uniti e la Palestina, nelle ultime ore, dimostra che un altro passo è stato compiuto per la soluzione finale dell'intreccio mediorientale.