Non possiamo che "complimentarci" con questo governo di peracottari allo sbaraglio che sta servendo su un piatto d'argento una torta succulenta che l'Italia ormai non mangerà più.
Francia, Gran Bretagna e Usa ringraziano mentre c'infilano una trave nel culo.
P.S. Ma se al governo ci fosse stata l'opposizione, al posto della trave avremmo ricevuto un bel bastone di legno lavorato e ricoperto di pietre preziose. Same same but different...
La fine della sovranità italiana
di Pino Cabras - Megachip - 20 Marzo 2011
Trovarsi in guerra senza nemmeno sapere perché. Questo ormai tocca in sorte a milioni di persone, milioni di telespettatori che prima assistevano ai salamelecchi pro Gheddafi e ora vedono le immagini dell’attacco militare occidentale, poi vedranno una guerra ancora più grande e catastrofica.
Era un’altra musica nell’ottobre 2008, quando Giulio Andreotti, Nicola Latorre, Vittorio Sgarbi, Beppe Pisanu, erano al cospetto del Colonnello con la loro brava fascia verde e il cappello bipartisan in mano, grati per il fresco impegno libico che salvava la banca Unicredit dal disastro innescato dagli scricchiolii finanziari dell’Impero in crisi.
La spola di politici italiani per Tripoli era continuata per anni, sotto l’occhio benevolo di Re Bunga Bunga. Ma ora hanno tutti votato per la guerra. Perché?
Escludiamo i motivi umanitari. Nicolas Sarkozy solo pochi mesi fa offriva aiuti militari a Ben Alì per soffocare nel sangue l’inizio della rivolta tunisina. David Cameron e Barack Obama non hanno mica bombardato i carri armati del re del Barhein, che invece continua a sparare sulla gente che protesta, mentre l’Onu dorme.Zapatero e Berlusconi non hanno offerto le loro basi per imporre un’urgente No Fly Zone sopra il cielo di Gaza mentre Israele bruciava la popolazione civile con il fosforo bianco e le bombe DIME. Piero Fassino, responsabile esteri del PD, durante la strage di Gaza, esprimeva solidarietà a Israele.
Nessuno convoca il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite per ordinare lo stop ai droni di Obama che un giorno sì e l’altro pure fanno strage fra i civili in Pakistan. Gli esempi diventerebbero decine, a cercarli, ma la facciamo breve: le guerre non sono mai mosse da motivi umanitari.
Le guerre “umanitarie” sono così umanitarie che bombardano gli ospedali, sempre. Stavolta persino dal primo giorno. I moventi, se non siamo gazzettieri a rimorchio delle bugie del potere, li dobbiamo cercare altrove.
Suggerisco in proposito l’interessante lettura geopolitica offerta da Piero Pagliani, che racconta bene il ruolo cruciale della strategia africana degli USA.
Perché l’Italia ha dunque scelto la guerra?
La Storia a volte si presenta con il volto dell’ironia e del paradosso delle date. Proprio appena passata la festa del 150° anniversario dell’Unità d’Italia, ossia un giorno che dovrebbe esaltare la sovranità nazionale, abbiamo fatto vedere al mondo che viceversa siamo definitivamente un paese senza sovranità, senza più i distinguo del passato, né le navigazioni ambigue democristiane, le fiammate di autonomia di certe nostre aziende, le impuntature di certi nostri apparati.
Senza più la guardinga sottomissione atlantica di un tempo, quando si battevano lo stesso anche le strade sgradite a Washington, Londra e Parigi, in nome di interessi da non liquidare: in nome cioè di una sovranità limitata ma non azzerata.
L’attacco alla sovranità della Libia coincide con la fine della sovranità italiana. Due piccioni con una fava, con la desolante complicità del sistema politico, dal Quirinale ai peones di Montecitorio, fino alle redazioni, con qualche spaesata eccezione.
Quali pressioni sono intervenute per spingere questa classe dirigente a non far più valere un trattato di fresca firma come quello fra Italia e Libia? Si tratta di pressioni enormi, in tutta evidenza.
L’Italia ha rinunciato di colpo a ogni sua politica autonoma nel Mediterraneo, l’unico suo spazio agibile, e in campi cruciali: l’energia, l’immigrazione, l’influenza geopolitica.
Prosegue (anzi,precipita) la linea di ritirata della nostra sovranità economica, lungo quello stesso tracciato che negli anni novanta ha portato alle privatizzazioni selvagge e al vistoso declino della posizione italiana nella divisione internazionale del lavoro. Per entrare in Libia dovremo chiedere permesso ad altri soggetti.
Nel 1998, quando cadde il primo governo Prodi, il governo D'Alema si formò grazie a massicci via vai di deputati e senatori (da Cossiga a Cossutta), che spaccavano e ricomponevano i gruppi parlamentari: insieme garantirono agli USA la stabilità di governo indispensabile per usare in tutta tranquillità le basi militari da cui partivano gli aerei anche italiani che pochi mesi dopo bombardarono la Jugoslavia.
È un precedente che ci permette di leggere quanto è avvenuto recentissimamente. Non credo che il rientro sfacciato e perfino precipitoso nel PDL da parte di decine di parlamentari che lo avevano abbandonato per il nuovo partito di Gianfranco Fini sia stato tutto frutto di una compravendita.
È più probabile che molti siano stati soggetti a un contrordine, qualcosa che – superata la stoffa dei loro cappucci - dev’essere suonata più o meno così: «non è più il momento di far cadere il governo, stiamo per fare una guerra in Libia; Silvio, che pure manderemo via, ora ci serve, e sarà ben contento di tirare a campare ancora, non è mica uomo di principio; fate la vostra parte».
E quelli hanno ottemperato alle loro Obbedienze. È gente con molto pelo sullo stomaco: al Caimandrillo concedono le acrobazie giudiziarie più indecenti; lui, in cambio, concede loro la guerra che piace colà dove si puote ciò che si vuole.
E mentre nel 1999 Cossutta faceva sì che in piazza non si facessero troppe manifestazioni contro la guerra, oggi non c’è più nemmeno bisogno di pompieri. La capacità di comprensione della situazione internazionale dell’elettorato di opposizione è stata nel frattempo desertificata.
I partiti che ancora prendono i voti di questa opposizione sono invece seduti alla tavola di chi si è mangiato persino le vestigia della sovranità nazionale. Un Paese così decapitato sarà più esposto alle tragedie di una transizione geopolitica che si presentava già difficilissima.
L’Italia è in guerra: in poco più di 48 ore dalle pompose celebrazioni del centocinquantesimo dell’Unità ci ritroviamo in un conflitto dal quale abbiamo tutto da perdere.
In ossequio ai voleri anglo-francesi che reclamano la divisione della Libia e la secessione della Cirenaica per poterne sfruttare le risorse petrolifere e del gas, l’Italia, ostaggio dei Paesi succitati e dei loro protettori, rinuncia ai suoi interessi nell’area del Mediterraneo, ma ne subirà tutte le conseguenze in termini di immigrazione, di perdita dei contratti commerciali e petroliferi e di instabilità dell’area.
Non basta l’ipocrita e immancabile scusa di proteggere i “civili”, cioè gli insorti tribali inquadrati dai monarchici e sostenuti dagli egiziani, che in futuro assicureranno ai Paesi imperialisti i contratti petroliferi in Libia, al posto di quelli stipulati dall’ENI.
In questa fase anche Berlusconi è ostaggio dell’imperialismo anglofrancese promosso dagli americani e ha dovuto incassare la sconfitta di quasi tutti i suoi alleati geo-energetici per mano statunitense, nonché l'iniziale placet russo, in seguito ritirato, alla spedizione contro Gheddafi.
Il governo, chiaramente impotente, ha inizialmente provato a fischiettare, il che già di per sé non è bello, ma poi ha fatto di peggio, ha oscillato vergognosamente. Emblematiche in tal senso le esternazioni alternate di segno opposto del ministro Frattini.
Di posizioni ferme e chiare neppure l'ombra.
Sicché il premier, accerchiato in casa e fuori, viene oggi incalzato dai lacché professionisti di City e Wall Street che, nelle figure di Casini, Di Pietro e Fini, si stanno scalmanando nelle lodi al terrorismo aereo, ovviamente democratico e buonista, che si è scatenato sui cieli libici.
Berlusconi, onde non farsi scalzare, ha quindi pensato opportuno concedere la propria disponibilità ai registi angloamericani sperando con ciò di restare almeno personalmente a galla. Il che poi è tutto da dimostrare.
Il risultato di tutto ciò è avvilente. La totale insignificanza politica e militare italiana – che non diverge molto da quella dell'Europa – viene furbescamente mascherata con una complicità supina nei confronti di chi, con sfrontata prepotenza, pur combatte contro i nostri interessi.
Abbiamo così compiuto un voltafaccia mortificante, imbarazzante e che non promette niente per la nostra credibilità futura.
Non si può cambiare cavallo con tanta disinvoltura e accodarsi così rapidamente a chi sta bombardando un Paese che gode dello statuto di nostro partner, sperando, in futuro, di poter stipulare nuove alleanze con chicchessia.
Né si può affidare l'ufficialità del nostro disappunto per azioni militari assolutamente ingiustificate e per giunta per noi deleterie, al solo governatore della regione Lombardia.
Nemmeno possiamo aggrapparci esclusivamente alle posizioni neutraliste della Lega, le sole sensate e decorose oggi, posizioni che ricalcano quelle della Germania, unica potenza economica e politica europea ad aver fatto una scelta non servile.
Né infine ci possiamo consolare per il fatto che peggio ancora dei rappresentanti del governo e dell'opposizione, da noi si stanno comportando gli immancabili pacifisti, che stavolta, invece, mancano eccome.
Perché, probabilmente, non ricevono fondi per blaterare contro quest'intervento militare.
E, si sa, quella è gente che s'indigna a comando, e in solido.
Morale della favola: eccoci ad applaudire e a sostenere lo sforzo militare e bombardiero compiuto proprio da due delle tre potenze che più di tutte in passato - con la strategia della tensione e lo stragismo - insanguinarono la Penisola nell'intento di cacciarci dal Mediterraneo e che oggi stanno coronando la loro azione bellica contro di noi.
Cornuti e mazziati; cornuti, mazziati e contenti. Il nostro centocinquantunesimo anno unitario non poteva iniziare peggio.
Dopo aver celebrato in sordina il Centocinquantenario dell’Unità, il Governo italiano ha scelto d’aggiungere ai festeggiamenti uno strascico molto particolare: una guerra in Libia. Un conflitto che sa tanto di amarcord: la Libia la conquistò Giolitti nel 1911, la “pacificò” Mussolini nel primo dopoguerra, e fu il principale fronte italiano durante la Seconda Guerra Mondiale. Questa volta, però, le motivazioni sono molto diverse.
Sgombriamo subito il campo da ogni dubbio: solo uno sprovveduto potrebbe pensare che l’imminente attacco di alcuni paesi della NATO alla Libia sia davvero motivato da preoccupazioni “umanitarie”.
Gheddafi, certo, è un dittatore inclemente coi suoi avversari. Ma non è più feroce di molti suoi omologhi dei paesi arabi, alcuni già scalzati dal potere (Ben Alì e Mubarak), altri ancora in sella ed anzi intenti a soffiare sul fuoco della guerra (gli autocrati della Penisola Arabica).
L’asserzione dell’ex vice-ambasciatore libico all’ONU, passato coi ribelli, secondo cui sarebbe in atto un «genocidio», rappresenta un’evidente boutade. È possibile ed anzi probabile che Gheddafi abbia represso le prime manifestazioni contro di lui (come fatto da tutti gli altri governanti arabi), ma l’idea che abbia impiegato bombardamenti aerei (!) per disperdere cortei pacifici è tanto incredibile che quasi sarebbe superflua la smentita dei militari russi (che hanno monitorato gli eventi dai loro satelliti-spia).
Non è stato necessario molto tempo perché dalle proteste pacifiche si passasse all’insurrezione armata, ed a quel punto è divenuto impossibile parlare di “repressione delle manifestazioni”.
Anche se i giornalisti occidentali, ancora per alcuni giorni, hanno continuato a chiamare “manifestanti pacifici” gli uomini che stavano prendendo il controllo di città ed intere regioni, e che loro stessi mostravano armati di fucili, artiglieria e carri armati (consegnati da reparti dell’Esercito che hanno defezionato e forse anche da patroni esterni).
Da allora Gheddafi ha sicuramente fatto ricorso ad aerei contro i ribelli, ma i pur numerosi giornalisti embedded nelle fila della rivolta non sono riusciti a documentare attacchi sui civili.
La stessa storia delle “fosse comuni”, che si pretendeva suffragata da un’unica foto che mostrava quattro o cinque tombe aperte su un riconoscibile cimitero di Tripoli, è stata presto accantonata per la sua scarsa credibilità.
La guerra civile tra i ribelli ed il governo di Tripoli, che prosegue – a quanto ne sappiamo – ben poco feroce, giacché i morti giornalieri si contano sulle dita di una o al massimo due mani, stava volgendo rapidamente a conclusione.
Il problema è che a vincere era, agli occhi d’alcuni paesi atlantici, la “parte sbagliata”. La storia – in Krajina, in Kosovo, persino in Iràq – ci ha insegnato che, generalmente, gl’interventi militari esterni fanno più vittime di quelle provocate dai veri o presunti “massacri” che si vorrebbero fermare.
In Krajina, ad esempio, i bombardamenti “umanitari” della NATO permisero ai Croati d’espellere un quarto di milione di serbi: una delle più riuscite operazioni di “pulizia etnica” mai praticate in Europa, almeno negli ultimi decenni.
Le motivazioni reali dell’intervento, dunque, sono strategiche e geopolitiche: l’umanitarismo è puro pretesto. In questo sito si può leggere molto sulle reali motivazioni della Francia, degli USA e della Gran Bretagna (vedasi, ad esempio: Intervista a Jacques Borde; Libia: Golpe e Geopolitica di A. Lattanzio; La crisi libica e i suoi sciacalli di S.A. Puttini). Motivazioni, del resto, facilmente immaginabili. Qui ci sofferemo invece sulle scelte prese dal Governo italiano.
Cominciamo dall’inizio. Prima dell’esplodere dell’insurrezione, l’Italia ha un rapporto privilegiato con la Libia. Il nostro paese è innanzi tutto il maggiore socio d’affari della Jamahiriya: primo acquirente delle sue esportazioni e primo fornitore delle sue importazioni.
La Libia vende all’Italia quasi il 40% delle sue esportazioni (il secondo maggior acquirente, la Germania, raccoglie il 10%) e riceve dalla nostra nazione il 18,9% delle sue importazioni totali (il secondo maggiore venditore, la Cina, fornisce poco più del 10%).
La dipendenza commerciale della Libia dall’Italia è forte, dunque, ma è probabile che il rapporto abbia maggiore valenza strategica per noi che per Tripoli.
La Libia possiede infatti le maggiori riserve petrolifere di tutto il continente africano (per giunta petrolio d’ottima qualità), è geograficamente prossimo al nostro paese e dunque si profila naturalmente come fornitore principale, o tra i principali, di risorse energetiche all’Italia.
La nostra compagnia statale ENI estrae in Libia il 15% della sua produzione petrolifera totale; tramite il gasdotto Greenstream nel 2010 sono giunti in Italia 9,4 miliardi di metri cubi di gas libico.
I contratti dell’ENI in Libia sono validi ancora per 30-40 anni e, malgrado l’atteggiamento italiano che analizzeremo a breve, Tripoli li ha confermati il 17 marzo per bocca del ministro Shukri Ghanem.
Attualmente la Libia concede ad imprese italiane tutti gli appalti relativi alla costruzione d’infrastrutture, garantendo così miliardi di commesse che si ripercuotono positivamente sull’occupazione nel nostro paese.
Infine la Libia, che grazie alle esportazioni energetiche è un paese relativamente ricco (ha il più elevato reddito pro capite dell’Africa), investe in Italia gran parte dei suoi “petrodollari”: attualmente ha partecipazioni in ENI, FIAT, Unicredit, Finmeccanica ed altre imprese ancora.
Un apporto fondamentale di capitali in una congiuntura caratterizzata da carenza di liquidità, dopo la crisi finanziaria del 2008.
Tutto ciò fa della Libia un caso più unico che raro, dal nostro punto di vista, tra i produttori di petrolio nel Mediterraneo e Vicino Oriente. Quasi tutti, infatti, hanno rapporti economici privilegiati con gli USA e con le compagnie energetiche anglosassoni, francesi o asiatiche.
La relazione italo-libica è stata suggellata nel 2009 dal Trattato di Amicizia, Partenariato e Cooperazione, siglato a nome nostro dal presidente Silvio Berlusconi ma derivante da trattative condotte già sotto i governi precedenti, anche di Centro-Sinistra. Tale trattato, oltre a rafforzare la cooperazione in una lunga serie di ambiti, impegnava le parti ad alcuni obblighi reciproci.
Tra essi possiamo citare: il rispetto reciproco della «uguaglianza sovrana, nonché tutti i diritti ad essa inerenti compreso, in particolare, il diritto alla libertà ed all’indipendenza politica» ed il diritto di ciascuna parte a «scegliere e sviluppare liberamente il proprio sistema politico, sociale, economico e culturale» (art. 2); l’impegno a «non ricorrere alla minaccia o all’impiego della forza contro l’integrità territoriale o l’indipendenza politica dell’altra Parte» (art. 3); l’astensione da «qualsiasi forma di ingerenza diretta o indiretta negli affari interni o esterni che rientrino nella giurisdizione dell’altra Parte» (art. 4.1); la rassicurazione dell’Italia che «non userà, né permetterà l’uso dei propri territori in qualsiasi atto ostile contro la Libia» e viceversa (art. 4.2); l’impegno a dirimere pacificamente le controversie che dovessero sorgere tra i due paesi (art. 5).
L’Italia è dunque arrivata all’esplodere della crisi libica come alleata di Tripoli, legata alla Libia dalle clausole – poste nero su bianco – di un trattato, stipulato non cent’anni fa ma nel 2009, e non da un governo passato ma da quello ancora in carica.
L’atteggiamento italiano, nel corso delle ultime settimane, è stato incerto ed imbarazzante. Inizialmente Berlusconi dichiarava di non voler “disturbare” il colonnello Gheddafi (19 febbraio), mentre il suo ministro Frattini agitava lo spettro di un “emirato islamico a Bengasi” (21 febbraio).
Ben presto, però, l’insurrezione sembrava travolgere le autorità della Jamahiriya e l’atteggiamento italiano mutava: Frattini inaugurava la corsa al rialzo delle presunte vittime dello scontro, annunciando 1000 morti (23 febbraio) mentre Human Rights Watch ancora ne conteggiava poche centinaia; il ministro della Difesa La Russa (non si sa in base a quali competenze specifiche) annunciava la sospensione del Trattato di Amicizia italo-libica, sospensione per giunta illegale (27 febbraio).
Gheddafi riesce però a ribaltare la situazione e parte alla riconquista del territorio caduto in mano agl’insorti. Man mano che le truppe libiche avanzano, il bellicismo in Italia sembra spegnersi: il ministro Maroni arriva ad invitare gli USA a «darsi una calmata» (6 marzo).
Ma la risoluzione del Consiglio di Sicurezza dell’ONU del 17 marzo, che dà il via libera agli attacchi atlantisti sulla Libia, provoca una brusca virata della diplomazia italiana: il nostro governo mette subito a disposizione basi militari ed aerei per bombardare l’ormai ex “amico” e “partner”.
È fin troppo evidente come il Governo italiano abbia, in questa vicenda, manifestato un atteggiamento poco chiaro e molto indeciso; semmai, s’è palesata una spiccata propensione ad ondeggiare a seconda degli eventi, cercando di volta in volta di schierarsi col probabile vincitore.
Come già in altre occasioni recenti di politica estera, il Capo del Governo è parso assente, lasciando che suoi ministri dettassero o quanto meno comunicassero alla nazione la linea dell’Italia.
L’ambivalenza ha scontentato sia il governo libico, che s’aspettava una posizione amichevole da parte di Roma, sia i ribelli cirenaici, che hanno ricevuto sostegno concreto dalla Francia e dalla Gran Bretagna ma non certo dall’Italia.
Infine, il Trattato di Amicizia, siglato appena due anni fa, è stato stracciato e Berlusconi si prepara, seppur sotto l’égida dell’ONU, a scendere in guerra contro la Libia.
Qualsiasi sarà l’esito dello scontro, l’Italia ha già perduto la sua campagna di Libia. I nostri governanti, memori della peggiore specialità nazionale, hanno celebrato il Centocinquantenario dell’Unità con un plateale voltafaccia ai danni della Libia: una riedizione tragicomica del dramma dell’8 settembre 1943.
Questa volta non sarà l’Italia stessa, ma l’ex “amica” Libia, ad essere consegnata ad una guerra civile lunga e dolorosa, che senza ingerenze esterne si sarebbe conclusa entro pochi giorni.
Ma non si sta perdendo solo la faccia e l’onore. Le forniture petrolifere e le commesse, comunque finirà lo scontro, molto probabilmente passeranno dalle mani italiane a quelle d’altri paesi: se non tutte, in buona parte.
Se vincerà Gheddafi finiranno ai Cinesi o agl’Indiani; se vinceranno gl’insorti ai Francesi ed ai Britannici; in caso di stallo e guerra civile permanente in Libia resterà poco da raccogliere. Se non ondate d’immigrati ed influssi destabilizzanti per tutta la regione.
* Daniele Scalea, redattore di “Eurasia” e segretario scientifico dell’IsAG, è autore de La sfida totale (Roma 2010). È co-autore, assieme a Pietro Longo, d’un libro sulle rivolte arabe di prossima uscita.
La Libia alla BP, Total e Chevron, l'ENI è fuori. A Roma tutti contenti. Pappata la Fiat, ora vanno per Finmeccanica e Fincantieri. Westerwelle: "Nessun soldato tedesco combatterà in Libia" (vedi qui). La veggenza della Lloyd's.
Nel giorno del suo compleanno 150 l’Italia viene amputata del potere di avere una politica esterna autonoma nel Mediterraneo, non nella sua ampiezza totale, persino sul pianerottolo con l’inquilino dirimpetto.
La ciliegina sulla torta è amara. L’ENI perde le concessioni a favore della British Petroleum (BP), Total , Chevron e Shell. Scacciati da una delle tre aree in cui si continuano a scoprire risorse energetiche o nuovi giacimenti. Congiuntamente all’Iran ed il Venezuela.
All’Italia viene negata la funzione storica di ponte europeo verso l’Africa ed il Medioriente, e pure lo spazio di manovra per un’autonoma politica energetica, volta a garantire l’autosufficienza attraverso una propria impresa multinazionale, parzialmente statale.
Quel che un mese fa era un putch militare interno per assicurarsi il controllo dei giacimenti della Libia, divenuto poi un golpe fallito, ha preso finalmente le sembianze di una manovra separatista infruttuosa.
Per andare a buon fine, gli sponsor “occulti” di Francia, Inghilterra e Stati Uniti devono sporcarsi le mani- con un intervento diretto. Opportuno riflettere sul perchè la Germania si defila e dice nein. Siamo tornati ai tempi dell’invasione anglo-francese dell’Egitto, dopo la nazionalizzazione del canale di Suez.
Con una differenza, allora si edificava l’autonomia energetica, con un Enrico Mattei di già in intesa con il Fronte di liberazione algerino. Oggi deve consegnare gli aeroporti per l’aggressione ad un Paese con cui vige un freschissimo trattato d’amicizia, e con cui è in affari contanti e sonanti.
Con buona pace di tutti gli umano-interventisti, è solo l’antipasto, poichè gli anglosax esigeranno sempre di più, e puntano alla rottura dell’accordo con la Russia per il gasodotto South stream.
L’Italia si coinvolge in un’avventura neo-coloniale, accetta la spartizione e/o l’annientamento della Libia, ricevendo il premio di potersi riscaldare con merce comprata alla concorrenza. Dovrà stracciare anche l’accordo con i russi? La Germania procede indisturbata con il progetto di forniture dirette di idrocarburi dalla Russia.
Oggi, la classe dirigente politica, l’apparato mediatico da cui dipende, con la balbuzie del settore privato, è “stretta a coorte” per la riduzione del Paese ad un minimalismo a tutto tondo, o ad un massimalismo atlantista che non appartenne neppure a De Gasperi.
Ammiccano impudicamente come signurine alla baldanza dei suoi scippatori. Consoliamoci, anche la scalcagnata carrozza dell'Unione Europea confessa urbi et orbi che è senza cocchieri e senza mappa. Peggio, è nelle mani improvvide di una "commissione" e in quelle rapaci della Banca Europea.
Si sa che gli inglesi sono nemici dell’unificazione europea, eterni cavalli di Troia di Washington, ma oggi le elites dirigenti italiane subiscono impotenti le iniziative sanzionatorie di un Paese in serio affanno, con i conti in forte disordine, disperato al punto che scalpita scompostamente per risarcirsi con la ricchezza concreta dell’oro nero (mica le bubbole cartacee della City e di Wall street). Con il disastro della Luisiana, la British Petroleum è parecchio malconcia, e dopo il “disastro perfetto” del Giappone anche i Lloyds annaspano e cercano liquidità.
La veggenza della Lloyd's
La tragedia a catena del Giappone, il successivo Tzunami ha provocato fin’ora migliaia di morti. Si ignorano gli sviluppi futuri, anche se non si fatica ad immaginare le disastrose conseguenze legate alla fuga di radioattività.
Eppure c’è chi è felice e contento e si sta fregando le mani per gli enormi affari che ne deriveranno: il settore delle assicurazioni, apparentemente il più danneggiato da questa tragedia, dato che le assicurazioni sono chiamate a rimborsare varie decine di miliardi.
In Giappone è obbligatorio assicurare tutti gli immobili non solo contro incendi, furti ed altre devianze dell’uomo, ma anche contro imprevedibili disastri naturali, come terremoti e tsunami: quindi migliaia di case e centri urbani distrutti, e miliardi da rimborsare.
Di fronte a disastri naturali di tali proporzioni, per le assicurazioni sembrerebbe aprirsi il baratro del fallimento. Invece, come ha dimostrato la storia, è subito dopo il verificarsi di disastri naturali di proporzioni cosi gigantescehe che aumentano i profitti delle imprese assicuratrici.
Dopo la catastrofe dell’uragano katrina negli Stati Uniti, Munich Re, la più grande multinazionale del settore riassicurazioni, sei mesi dopo quella tragedia, era cresciuta del 25%.
La seconda impresa mondiale del settore, la svizzera Swiss Reinsurance Co., nello stesso periodo crebbe del 14%; la AML, la maggiore assicuratrice londinese, del gruppo Lloyd’s, sei mesi successivi a Katrina era cresciuta del 49%.
I big delle assicurzioni e riassicurazioni si rafforzano e traggono energia dalle tragedia, non il contrario. Katrina è stata una tragedia immane, costata alle compagnie assicuratrici rimborsi per 62,2 miliardi di dollari.
Malgrado queste cifre da capogiro, che potrebbero far pensare a grandi fallimenti, in realtà le compagnie –nonostante i megarimborsi– si rifanno con premi assicurativi fortemente accresciuti.
La tragedia è propizia come null’altra cosa al business. E’ l’aumento dei premi per assicurare immobili di fronte a tragedie del genere, che a livello mondiale permette alle compagnie assicuratrici di fare grandi guadagni.
In Giappone, a fronte di risarcimenti plurimiliardari per le decine di migliaia di immobili distrutti ci saranno decine di milioni di immobili costretti a pagare premi assicurativi molto più cari. Il guadagno per le compagnie di assicurazioni è assicurato e molti analisti prevedono una boccata di ossigeno per imprese coinvolte nella crisi economica mondiale.
A questo punto dobbiamo evidenziare qualcosa di inquietante, molto inquietante, avvenuto prima del terremoto del Giappone, a detta di alcuni arrivato come una provvidenziale manna dal cielo, a salvare le compagnie di assicurazioni e riassicurazioni.
La Lloyd’s è tra le più importanti compagnie del mondo ed ha come principale base operativa un paese in profonda crisi economica, qual’è il Regno Unito. Le sue azioni, quotate alla borsa di Londra, dopo aver raggiunto un valore massimo a 824,82 sterline nel corso della seduta borsistica del 3 di maggio del 2002, sono progressivamente scese, fino a toccare il minimo a 33,0 sterline il 21 gennaio del 2009.
Successivamente si rivitalizzarono parzialmente, risalendo fino a 125 sterline nel corso di quello stesso anno 2009. Nell’autunno del 2009 conservavano ancora un valore di circa 100 sterline, dopo di che una nuova caduta, che ha coinvolto tutto il settore. I Lloyd’s hanno raggiunto una quotazione di 100 sterline l’ultima volta il 23 di ottobre del 2009.
Da allora non solo non sono mai più riuscite a oltrepassare quota cento, ma nel corso di tutto il 2010 non sono mai andate oltre un valore medio di 50/60 sterline; solamente nel mese di settembre del 2010 hanno avuto valori superari a 70, arrivando a 79,15 il 21 settembre.
Nel semestre precedente al terremoto del Giappone le Lloyd venivano scambiate mediamente a 60 sterline. Il volume, ossia la quantità di azioni vendute e comprate giornalmente nell’ultimo anno è stato di circa 150/200 milioni.
Ogni giorno, dunque venivano scambiate non più di 200 milioni di azioni Lloyd’s; molto raramente si sono raggiunte punte superiori e solo in isolati casi hanno superato i 600 e perfino 700 milioni di azioni scambiate nel corso di una giornata.
Improvvisamente, pochi giorni prima del terremoto ed esattamente il 25 febbraio, il volume di azioni della Lloyd’s scambiate supera i 4,2 miliardi di pezzi, ed il prezzo aumenta nel corso di quella giornata dalle 62,50 sterline iniziali fino a 91,95 sterline.
Un repentino apprezzamento di quasi il 50%; nel corso di quella stessa seduta il prezzo ritorna alla media degli ultimi mesi, praticamente attorno alle 60 sterline.
In sostanza, quel giorno si sono scambiate le azioni che generalmente si cambiano in un mese ed oltre.
La domanda ovviamente è molto inquietante: perchè una attenzione così grande verso questa impresa di assicurazioni? Perchè pochi giorni prima di uno dei più devastanti terremoti della storia, c’è stato uno megascambio di azioni della Lloyd’s così inusuale? Imponderabili variabili di un mercato volubile e capriccioso? Veggenza o sesto e settimo senso degli affari?
C'è limite al peggio?
di Giacomo Gabellini - http://conflittiestrategie.splinder.com - 18 Marzo 2011
Ci risiamo. Il banco di prova libico ha emesso la propria, ennesima sentenza di condanna nei confronti dell'Europa. E di condanna senza appello si tratta. E' francamente disarmante prendere atto di come i paesi europei siano riusciti nella titanica impresa di non trarre alcun insegnamento dalla preziosissima lezione jugoslava e abbiano commesso lo stesso, sconsiderato e grottesco errore compiuto in occasione della crisi balcanica.
Quando, un ventennio fa, Germania e Vaticano riconobbero con un colpo di spugna l'indipendenza di Slovenia e Croazia persuasi di estendere la propria egemonia politica ed economica da un lato - quello tedesco - e privilegiare la componente cattolica di Jugoslavia dall'altro - quello vaticano - non fecero altro che gettare benzina sull'incandescente polveriera balcanica.
Anziché presentarsi compatta per esercitare pressioni su tutte la parti coinvolte nella faida affinché abbassassero i toni dello scontro, l'Europa, lacerata da divisioni intestine tra paesi interessati solo ed esclusivamente a contendersi le carogne dell'agonizzante federazione jugoslava, si mostrò frammentata e quindi impossibilitata ad insinuarsi efficacemente nelle maglie della spinosa questione.
Privilegiando la coltivazione dei propri orticelli i paesi europei fornirono - direttamente, nel caso di Germania e Vaticano - il proprio sostegno alle fazioni croate capeggiate del nuovo Ustascia Franjo Tudjman e musulmane guidate dal sibillino e ambiguo Alija Izetbegovic, che alzarono il tiro e suscitarono la durissima reazione delle frange paramilitari di Arkan, dell'esercito federale comandato dal primo ministro Slobodan Milosevic e dei serbi di Bosnia sottoposti a Radovan Karadzic.
Di fronte all'efferatezza degli scontri l'Europa, non sapendo che pesci prendere, stette a guardare mentre gli Stati Uniti le soffiavano il "bottino" da sotto il naso. In tal contesto maturarono i versaillesiani "accordi di pace", eloquentemente stipulati nella base militare di Dayton nell'Ohio, in cui i paesi europei subordinati al Verbo statunitense svolsero il compitino loro assegnato, e mossero attivamente affinché l'intera mole di responsabilità venisse caricata solo esclusivamente sui serbi.
Piegando e umiliando oltre ogni limite di accettabilità la Serbia si contava di eliminare politicamente un pericoloso fattore ortodosso e storicamente russofilo che avrebbe potuto giocare un ruolo importante in un'eventuale tentativo futuro di penetrazione della Russia nel cuore dell'Europa.
Appoggiando le ragioni delle frange separatiste, gli Stati Uniti colsero al volo l'opportunità per dare il via alla frammentazione (significativo il fatto che ciò che accadde alla Jugoslavia in quel frangente determinò la creazione del termine "balcanizzazione") di un'area strategicamente importante, rendendola di fatto ingovernabile.
In questo modo la Russia sarebbe rimasta isolata e i paesi europei, messi di fronte alle proprie gigantesche inadeguatezze, non avrebbero potuto che accettare che "qualcuno" puntellasse la propria presenza nel Vecchio Continente e impedisse loro di farsi del male da soli.
Con l'affaire Kosovo, rientrante alla perfezione nel disegno architettato a Dayton, ha trovato poi legittimazione internazionale una rete di tagliagole e spacciatori di droga meglio nota come UCK (guidati dal criminale Hashim Thaci), messa a capo di quello che è un vero e proprio narcostato nel cuore dell'Europa, crocevia di traffici internazionali che partono dall'Afghanistan e che proprio in Kosovo trovano lo snodo centrale per ramificarsi in tutto il Vecchio Continente. Qui gli USA hanno installato la gigantesca base militare di Camp Bondsteel, ciliegina sulla torta.
Ora, di fronte alla prorompente dimostrazione di forza di un Gheddafi di cui è stata venduta la pelle molto prima che diventasse cadavere (anche dall'Italia), si sta verificando qualcosa di molto simile.
Sarkozy ha avuto l'ardire di proporre pubblicamente il riconoscimento di un sedicente "governo degli oppositori" per poi mettersi a capo di un'armata Brancaleone di cui fanno parte, tra gli altri, Gran Bretagna e Italia, che in sede ONU ha approvato, con l'incredibile astensione di Russia, Cina e Germania (tutti paesi con diritto di veto), l'uso della forza nei confronti delle armate regolari capeggiate da Gheddafi.
Nel momento in cui gli eventi stavano precipitando, le Nazioni Unite hanno armato di una preziosissima freccia l'arco dei "rivoltosi", i quali, sentendosi presumibilmente rinfrancati dall'appoggio esterno inaspettatamente ottenuto, tenteranno il tutto per tutto per riprendere l'iniziativa perduta.
Gli scontri si faranno ben più aspri di quanto non siano stati finora e alla "coalizione umanitaria" non resterà che aspettare l'inevitabile "tragedia" da assurgere a casus belli per motivare l'attacco.
I raid raderanno al suolo le infrastrutture libiche ma senza invasione Gheddafi rimarrà in sella, se, come è probabile, l'esercito continuerà ad essergli fedele. A quel punto la guerra civile divamperà in tutta la sua crudezza, e il paese - il più florido dell'Africa, con ogni probabilità - perderà tutto ciò che era riuscito a costruire in questi anni.
L'Italia ha definitivamente compromesso gli importantissimi interessi nazionali con la Libia e perderà quello che era stato un fido alleato da quarant'anni a questa parte. Finmeccanica farà fagotto e toglierà le proprie basi mentre l'ENI vedrà chiudersi i rubinetti del gas che attraverso il Green Stream ha finora garantito preziosi approvvigionamenti energetici.
Con ogni probabilità saranno italiane le basi da cui partiranno i raid contro la Libia, così come era da Aviano che decollavano i caccia incaricati di spianare Belgrado nei giorni tra il marzo e l'aprile 1999 e che un giorno fecero piovere un missile sull'ambasciata cinese.
Proprio una "strana" coincidenza. Israele si trincera dietro un silenzio piuttosto imbarazzante, che rispecchia la colossale inadeguatezza della propria classe dirigente, che nell'arco di pochi mesi ha reagito del tutto passivamente alla svolta in favore dell'Iran operata dallo storico alleato turco, la detronizzazione forzata di un fido compare come Hosni Mubarak e l'attuale crisi libica che potrebbe portare alla sconfitta di un Gheddafi che in passato è risultato assai bendisposto (molti si chiedono ancora che fine abbia fatto l'uranio saccheggiato in Ciad durante l'invasione del 1977 e dove Israele abbia trovato il materiale necessario per costruirsi le testate atomiche che ancora non ha ufficialmente ammesso di possedere), malgrado qualche sparata di facciata, nei confronti di Tel Aviv. Gli Stati Uniti hanno ritrovato quel compattamento atlantista della lega araba che era andato disgregandosi negli anni.
La CIA si occuperà di trovare un leader sufficientemente servile da appoggiare contro Gheddafi e ai paesi europei toccherà, come al solito, raccogliere le briciole. Vagonate di immigrati approderanno sulle coste italiane, francesi e spagnole rendendo la situazione del tutto ingestibile.
Gettare benzina sul fuoco di una guerra civile alle porte dell'Europa sarebbe stata l'unica possibilità da scongiurare per i paesi del Vecchio Continente, che si trovano direttamente coinvolti in una situazione in cui hanno tutto da perdere e nulla da guadagnare.
Il bigottismo umanitario sta fungendo, come al solito, da cavallo di battaglia degli "interventisti" alla Adriano Sofri, che immemore del proprio passato assai poco lusinghiero, sciorina a piene mani alte e ben remunerate lezioni moraleggianti secondo cui il mondo andrebbe diviso manicheamente tra "buoni" e "cattivi", dove i buoni sono ovviamente gli esportatori di democrazia a bombardamento, e i cattivi quelli non seguono a menadito gli insegnamenti di Washington.
Sulle colonne de "La Repubblica", questo nuovo Catone Il Censore scrive che "La giustizia internazionale – se non l´aspirazione morale, il minimo di legalità nelle relazioni sociali – sconta l´incapacità a misurarsi con corpi separati troppo potenti, come le banche troppo grandi per fallire, gli Stati troppo grossi per essere messi agli arresti, a cominciare dal più grosso, la Cina.
Ma se Cina e Russia sono troppo grosse per fischiar loro la contravvenzione, non lo siano almeno tanto da imporre il veto ad azioni di difesa del diritto e delle vite umane in ogni punto del pianeta". Di fronte a simili esternazioni la cosa più saggia è probabilmente stendere un velo (poco) pietoso.
Il problema di Russia e Cina va ricercato altrove, ovvero nella loro evidente pochezza strategica dimostrata in questo frangente. Astenendosi in sede ONU, costoro hanno di fatto lasciato in tutto e per tutto l'iniziativa agli Stati Uniti e ai loro sottoposti europei.
L'Africa rimane uno scacchiere importante in cui specialmente la Cina ha molti interessi da difendere. Sebbene la penetrazione di Pechino nel Continente Nero sia avvenuta in aree diverse da quella mediterranea, rimane un enorme rischio consentire che l'escalation di instabilità raggiunga livelli tanto imprevedibili.
Una possibile caduta di Gheddafi potrebbe preludere a numerosi altri putsch in giro per l'Africa, con il rischio che i disordini raggiungano anche i paesi in cui la Cina coltiva numerosi interessi.
Per la Russia non opporsi al piano di attacco predisposto e conseguentemente approvato in sede ONU, significa concedere un grosso spazio di manovra agli strateghi del Pentagono, che hanno riallineato tutti i paesi europei sulla direttrice atlantica e si preparano ora a far fuori una polpetta avvelenata e assai indigesta come Gheddafi.
Colpisce il fatto che un uomo politico astuto e sospettoso come Vladimir Putin si sia lasciato sfuggire di mano la situazione così arrendevolmente.
E' possibile che nelle alte sfere di Mosca serpeggino consistenti dissidi interni, tra lo "zar" e il suo ex pupillo Dmitrij Medvedev, e che l'ombra dei vecchi oligarchi inferociti stia lentamente tornando ad oscurare la Russia.
Alcuni segnali di instabilità si erano presentati negli ultimi tempi, come l'esecrabile gestione della situazione verificatasi in estate, durante la singolare ondata di calore che ha devastato la Russia, o come il risveglio di un terrorismo, sempre combattuto ma mai del tutto sconfitto, capace di mettere a punto un attentato grave come quello dello scorso gennaio all'aeroporto Domodedovo.
In ogni caso, si tratta di un clamoroso autoaffondamento politico per Cina e Russia quello di non opporsi alle losche manovre architettate dai soliti noti.
Resta il fatto che l'Europa rimane l'infaticabile portatrice d'acqua al mulino statunitense di sempre, anche quando si tratta di aizzare conflitti potenzialmente catastrofici sull'uscio di casa e di sputare sul piatto in cui si è sempre mangiato, mandando a rotoli tutti i propri interessi nell'area.
L'Italia ha fatto una figura oscena, con Berlusconi e Frattini che hanno voltato di colpo le spalle a Gheddafi dopo averlo accolto con grottesca riverenza solo l'anno scorso. Tuttavia, i più ottusamente allocchi, in spregio al loro ammirevole passato, sono parsi i francesi.
Il fatto stesso che l'incarico che un tempo fu affidato a Charles De Gaulle sia ora ricoperto da Nicolas Sarkozy è un indice tremendamente affidabile del grado di degenerazione galoppante che affligge le rive della Senna.
Il trucco libico
di Miguel Martinez - http://kelebeklerblog.com - 20 Marzo 2011
Se ho capito bene, le cose stanno così.
In Libia, c’è un governo.
A me, questo governo non ha mai fatto particolare simpatia, perché conosco storie non belle di migranti che sono passati per quel paese, e perché comunque un governo dopo quarant’anni al potere inizia sempre ad andare a male.
Inoltre, da traduttore, ho spesso a che fare con chi lavora in Libia, e ho raccolto molte lamentele sulla natura piuttosto capricciosa e imprevedibile dell’amministrazione.
Ma queste mie considerazioni emotive non c’entrano con quelle del diritto.
Il governo della Libia è indubbiamente legittimo nel senso più freddo, cioè può emettere passaporti riconosciuti in altri paesi, e l’uomo più in vista del paese – che curiosamente non riveste alcun incarico governativo – viene ricevuto con sorrisi e strette di mano da altri capi di stato. Tra cui non solo Silvio Berlusconi, ma anche Obama e Sarkozy.In particolare, il nostro paese è vincolato al governo della Libia da un “Trattato di amicizia, partenariato e cooperazione tra la Repubblica italiana e la Grande Giamahiria araba libica popolare socialista” firmato “dall’onorevole Presidente del Consiglio dei ministri Silvio Berlusconi e dal leader della Rivoluzione, Muammar El Gheddafi”.
Tale trattato garantisce
“il rispetto dell’uguaglianza sovrana degli Stati; l’impegno a non ricorrere alla minaccia o all’impiego della forza contro l’integrità territoriale o l’indipendenza politica della controparte o a qualunque altra forma incompatibile con la Carta delle Nazioni Unite; l’impegno alla non ingerenza negli affari interni e, nel rispetto dei princìpi della legalità internazionale, a non usare né concedere l’uso dei propri territori in qualsiasi atto ostile nei confronti della controparte; l’impegno alla soluzione pacifica delle controversie.”
Un trattato che nel giro di qualche ora, ha fatto la stessa fine che fece nel 1915 il trattato che vincolava l’Italia a non pugnalare alla spalle l’Austria. Per motivi espressi con disarmante sincerità da Italo Bocchino.
Il legittimo governo libico è stato oggetto di una vasta ribellione armata. Su questa ribellione, si è detto di tutto – “è al-Qaida”, “no, sono i giovani cinguettatori di Twitter”, “no, sono i fedeli della vecchia monarchia”.
Non solo io ignoro chi siano i ribelli; lo ignorano anche tutti gli editorialisti che pure li esaltano. Due ipotesi sembrano comunque abbastanza ragionevoli. Ciò che i ribelli appartengano ad alcuni clan tradizionali esclusi dalle rendite petrolifere; e che esprimano il fortissimo risentimento di gran parte della popolazione contro l’immigrazione dall’Africa Nera, tanto che la rivolta è stata accompagnata da alcuni sanguinosi massacri di migranti.
La ribellione ha però incontrato, a quanto pare, l’ostilità della maggioranza del paese e certamente delle sue forze armate, e nel giro di alcuni giorni ha subito alcune decisive sconfitte.
Tutto questo è avvenuto in concomitanza con due sommosse nel mondo arabo – quella dello Yemen e quella del Bahrein.
In un giorno, i cecchini dell’esercito yemenita hanno ucciso 72 manifestanti (non sappiamo quanto rappresentativi della società yemenita nel suo complesso), mentre nel Bahrein è intervenuto direttamente l’esercito saudita per sopprimere una rivolta promossa dalla schiacciante maggioranza della popolazione.
Anche gli Emirati Arabi, che partecipano alla coalizione anti-Gheddafi, hanno contribuito alla repressione della rivolta in Bahrein con “almeno 500 poliziotti“.
Mentre cadevano le ultime fortezze dei ribelli libici, il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite ha approvato la risoluzione 1973, che esige dalla Libia il cessate il fuoco e la fine di “attacchi contro i civili”.
E qui, se ho capito, sta tutto il trucco.
In Libia, lo scontro non è infatti – come invece in Tunisia, Yemen, Bahrein o Egitto – tra le forze armate da una parte, e masse di manifestanti pacifici dall’altra. In Libia, i ribelli hanno armi, carri armati e persino un caccia (che hanno esibito tra l’altro subito dopo l’imposizione della No Fly Zone).
Ma non appartenendo a un esercito regolare, potrebbero essere definiti in effetti dei “civili“. Anche quando vengono addestrati da truppe straniere. Nei lanci di agenzia ripresi da Repubblica, ad esempio, leggiamo stamattina:
“11:49
Stampa Gb: Forze speciali inglesi a fianco dei ribelli da settimane
Centinaia di soldati delle forze speciali britanniche Sas sarebbero in azione da almeno tre settimane in Libia al fianco dei gruppi ribelli, afferma oggi il quotidiano Sunday Mirror. Due unità di forze speciali soprannominate “Smash” per la loro capacità distruttiva, avrebbero dato la caccia ai sistemi di lancio di missili terra aria di Muammar Gheddafi (i Sam 5 di fabbricazione russa) in grado di colpire bersagli attraverso il Mediterraneo con una gittata di quasi 400 chilometri. Affiancate da personale sanitario, ingegneri e segnalatori, le Sas hanno creato posizioni sul terreno in modo da venire in aiuto in caso in cui jet della coalizione fossero stati abbattuti durante i raid.”
La risoluzione dell’ONU evita di citare o definire l’avversario armato dell’esercito libico, e non dice nulla su come l’esercito libico debba comportarsi nei riguardi di combattenti nemici.
L’omissione è talmente evidente, che possiamo immaginare che i suoi autori abbiano voluto una fatale ambiguità.
Se “civile” vuol dire chi non porta armi, allora si potrebbe chiedere all’esercito – e anche alla parte avversa – di lasciare in pace i civili.
Ma se “civile” vuol dire combattente, nemico dell’esercito governativo…
se l’esercito libico cessa di combattere con le armi questo particolare tipo di “civili”, sarà costretto a subirne passivamente gli attacchi armati; cioè è destinato alla sconfitta militare.
Cosa che nessun esercito potrebbe accettare.
Ma se l’esercito continua a combattere, verrà accusato di violazione della risoluzione. E quindi verrà annientato ugualmente, ma dall’estero.
Non c’è via di uscita.
E così leggiamo tra i lanci di agenzia di Repubblica di stamattina qualcosa che non appare affatto nel testo della risoluzione, ma che sospettiamo fosse nella mente dei suoi autori:
09:03
Il generale Clark: “Tutto lecito per difendere i civili”
“La risoluzione dell’Onu è nettissima riguardo all‘obiettivo finale: sbarazzare la Libia del dittatore Muhammar Gheddafi. Per questo il Consiglio di sicurezza ha autorizzato il ricorso a ogni mezzo, salvo l’occupazione militare del Paese. In breve tutto è lecito, o quasi”.
Lo dice a Repubblica il generale Wesley Clark, ex comandante supremo delle forze Nato durante la guerra del Kosovo.”
Comunque, la risoluzione semplicemente impone il divieto di voli sul territorio libico, impone un embargo sulle armi e congela i beni di alcuni esponenti del governo libico.
Il governo libico dichiara subito di accettare in pieno la risoluzione, e infatti non ci risultano voli libici, militari o non, dopo la sua approvazione.
Alcune ore dopo l’approvazione, Sarkozy convoca a Parigi un vertice cui partecipa anche Silvio Berlusconi. Il quale, prima di partire, ha promesso a quanto pare al proprio consiglio dei ministri di non lanciare l’Italia in avventure pericolose, tali da attirare su questo paese centinaia di migliaia di profughi o qualche missile.
Parola d’imprenditore…
Il vertice finisce verso le 15. A questo punto, uno si immagina una delegazione che vada in Libia, spieghi in modo chiaro le richieste, risolva in maniera diplomatica i conflitti, apra le vie agli aiuti umanitari. Dando ovviamente qualche giorno di tempo per permettere a un esercito non certamente prussiano di coordinarsi e di capire cosa deve fare.
No.
Due ore dopo la fine del vertice e poche ore dopo l’approvazione della risoluzione 1973, gli attaccanti dichiarano che la Libia “non ha rispettato” le loro istruzioni: in cosa consista tale violazione, non ci è dato sapere; comunque a partire dalle 17.40, scaricano sulla Libia un intero arsenale.
Tra cui anche 110 missili Tomahawk, prodotti dalla Raytheon Company: ricordiamo che Obama ha nominato ben tre dirigenti della Raytheon a funzioni chiavi dell’amministrazione degli Stati Uniti, tra cui il signor William Lynn, che passa direttamente dallla gestione della lobby ufficiale a Washington della Raytheon, al posto di vicesegretario alla Difesa con il potere di decidere le spese che farà il Pentagono.
Un solo missile Tomahawk costa 1,5 milioni di dollari, comprensive di ammortamento delle spese di ricerca.
Moltipicato per 110 farebbe 116 milioni di Euro. All’incirca quello che costano allo Stato italiano 15.000 alunni del sistema scolastico pubblico per un anno (dati Ocse 2008, citati in Mila Spicola, La scuola s’è rotta. Lettere di una professoressa, Einaudi, p. 172).
Io non so per quale motivo Francia, Inghilterra e Stati Uniti (l’Italia non conta) abbiano deciso di attaccare la Libia.Non so per quale motivo, fino a qualche mese fa accoglievano Gheddafi con tutto il suo pittoresco seguito e oggi lo vogliono morto.
Il petrolio ovviamente c’entra; ma era necessaria proprio una guerra? Si sarebbe speso infinitamente di meno per corrompere quattro politici, o per pagare il medico di Gheddafi a mettergli il veleno in una bevanda.
Le continue guerre americane, quasi sempre contro nazioni indifese, vengono in genere spiegate con considerazioni geopolitiche: vogliono, ad esempio, il petrolio iracheno o quello libico, prima che cada in mano ai cinesi.
Credo che l’ipotesi sia perfettamente ragionevole, ma non escluda un’altra – cioè che il sistema socio-economico statunitense abbia bisogno delle guerre in sé, perché finanziano il sistema militare-industriale, perché danno un senso alla vita di milioni di persone, dal clandestino messicano che vende panini ai muratori della base militare nel deserto dello Utah, all’insegnante di arabo sovvenzionato dal Pentagono per formare persone che si occupino della “sicurezza nazionale”.
Può darsi che gli Stati Uniti riusciranno a scippare il petrolio libico ai concorrenti; ma sappiamo con certezza che la Raytheon è riuscita a guadagnare 116 milioni di Euro in un pomeriggio con questa storia.
Odyssey dawn, guerra del greggio
di Fabrizio Casari - Altrenotizie - 20 Marzo 2011
Com’era facile prevedere, la Risoluzione dell’Onu sulla “No fly zone” era fumo negli occhi destinato solo a strappare l’astensione di Cina e Russia. Quella che si preparava era una vera e propria guerra alla Libia, e così è stato.
Nessun pattugliamento dei cieli, nessuna sicurezza per le popolazioni a terra: missili Tomawack e Cruise sganciati da navi e sottomarini al largo della Sirte, raid aerei operati dai Mirage francesi e F16 britannici, hanno celebrato il battesimo dell’operazione “Odissea all’alba”.
I morti sono già a centinaia, il paese conta già la sua razione non richiesta di distruzione e orrore: i famosi diritti umani che si dovevano tutelare possono essere identificati nella chirurgia delle bombe, che colpiranno aereoporti, case, scuole ed ospedali, ma che lasceranno intatti i pozzi e gli acquedotti. Le vittime di ieri, da domani cambieranno nome: diventeranno "effetti collaterali".
Rispetto alle guerre di questi ultimi anni va registrato un ruolo diverso da parte degli Stati Uniti, che dirigono sì militarmente le operazioni compiute dalle forze Nato, ma politicamente il ruolo più importante è quello di Parigi, con Londra al seguito e Washington a dare copertura politica all’operazione. L’iper attivismo di Parigi nella crisi libica non ha niente a che vedere con i diritti umani, com’è ovvio.
Con la caduta di Ben Alì, la Francia ha perso un alleato fedele, un servitore attento alle esigenze di controllo politico francese sul Maghreb francofono e la stessa situazione complicata in Algeria potrebbe presto portare a dover conteggiare due perdite significative nell’area, due pedine fondamentali dello scacchiere coloniale francese. E la Libia è sembrata un’ottima alternativa.
Parigi ha scelto quindi d’intervenire pesantemente sin dall’inizio della rivolta senussita in Cirenaica: la sua strategia era chiara, voleva la guerra e l’ha ottenuta. E proprio in funzione di ciò, e per candidarsi alla leadership politica dell’operazione, Parigi è stata la prima e unica capitale a riconoscere come interlocutore politico gli insorti, bruciando i tempi e senza minimamente guardare per il sottile alla composizione effettiva degli stessi.
Perché chi siano e cosa vogliono i rivoltosi, per la Francia non è importante: quello che conta è la cacciata di Gheddafi, ingombrante finanziatore della campagna elettorale di Sarkozy ma leader inaffidabile, comunque non disposto a permettere alla Francia di divenire il partner strategico della Libia, dati anche i rapporti con Roma che avevano trasformato il rais, un tempo definito in Occidente il “pazzo di Tripoli” e dall’Africa considerato un pagliaccio, in un personaggio rispettato e osannato.
Gheddafi, da Parigi, altro non voleva che quello che aveva: il consolidamento dei buoni rapporti economici bilaterali e buone relazioni con la confinante Tunisia, ma nessuna penetrazione eccessiva in Libia; vuoi perché Parigi sa essere molto meno servile verso i suoi interlocutori, vuoi perché il patto con l’Italia aveva anche il suggello di un trattato politico che comprendeva business ed interessi reciproci quasi esclusivi con Roma.
Ma la congiuntura maghrebina, ha scatenato la Francia nella rincorsa a posizioni alternative che compensassero le perdite tunisine. Mai stata in grado di mettere le mani sugli Emirati, fuori dal controllo del petrolio iracheno e lontana da quello iraniano, Parigi ha bisogno di entrare nella nuova dimensione coloniale proprio attraverso i rubinetti del greggio.
Sarkozy ha individuato nella Libia il luogo ideale: petrolio e dimensione territoriale ampia a fronte di demografia relativamente bassa, sbocco diretto sul Mediterraneo e infrastrutture estrattive di buona qualità.
Dunque, gli insorti sono stati soprattutto un regalo che la congiuntura politica interna alla Libia ha offerto alla campagna elettorale di Sarkozy e alle aziende francesi del comparto energetico, dalle quali il piccoletto dell’Eliseo dipende in tutto e per tutto.
Saranno infatti la Total e la Elf, nei piani dell’Eliseo, a sostituire l’Eni nel partenariato con la Libia futura. La tragedia giapponese, peraltro, ha ulteriormente accentuato la necessità di Parigi di dotarsi di un ulteriore fonte di approvvigionamento energetico, visto che lo stesso nucleare francese - nonostante sia proprio l’Italia ad affidarvisi in prospettiva - segna il passo.
Abbastanza simile il discorso riguardo a Londra. Il disastro del Golfo del Messico ad opera della British Petroleum ha visto ridurre pesantemente l’appeal della multinazionale inglese.
Altri territori per nuovi pozzi sono fondamentali per recuperare il terreno perso e la possibilità di operare in un’area del mondo dove, dalla cacciata ad opera proprio del colpo di Stato del 1969, quando gli inglesi furono cacciati dagli ufficiali guidati da Gheddafi, non c’erano più state condizioni possibili per accrescere l’influenza e il business di Londra.
D’altro canto, la storia britannica in Medio Oriente, dal 1948 in Palestina al 1956 a Suez e poi, appunto, al 1969 in Libia, è stata una storia pesante d’ingerenze, senza che però queste abbiano mai sancito una leadership britannica sull’area.
Occasione migliore di questa, dunque, per Londra era difficile da immaginare. La BP e la Shell aspettano. E la nuova leadership di Cameron ha un disperato bisogno di accreditarsi, Oltremanica come a livello globale.
Per quanto riguarda gli Stati Uniti, va registrato un impegno forte sia dal punto di vista politico nella richiesta prima di dimissioni di Gheddafi, poi di uso della forza contro lo stesso; ma sembra potersi delineare un profilo diverso, meno marcato di quello assunto per l’Iraq e l’Afghanistan.
Perché per gli interessi geostrategici statunitensi non tutto pesa allo stesso modo. Ovviamente non è nemmeno possibile ipotizzare un’operazione militare Nato che nasca senza il consenso di Washington e della quale il Pentagono non ne abbia il comando di fatto, dunque la sua centralità nella preparazione politico-diplomatica della guerra e nella sua conduzione non è certo in discussione.
Obama, del resto, in comune con Sarkozy e Cameron, vive una situazione politica interna difficile e si trova a poca distanza, ormai, da una scadenza elettorale che minaccia di essere un verdetto inappellabile.
Essere ostaggio della maggioranza repubblicana al Congresso e al Senato sui temi economici e sociali non basta per tentare l’operazione di recupero; la politica estera è fondamentale per dare un segno di continuità storica con i suoi predecessori e inviare un segnale forte al complesso militar-industriale.
E anche per quanto riguarda il consenso popolare mainstream, una guerra per un presidente USA è sempre un’ottima occasione per trasformarsi da politicante a capo della nazione: il riflesso elettorale positivo è garantito.
Ma la sensazione è che gli Usa, diversamente da altri scenari, siano disposti a contrattare con Parigi (con cui non sempre la vison è comune), la leadership e il bottino di guerra. Per le spese, ci penseranno invece i sauditi, come già per la prima guerra del Golfo.
Perché Obama presidente può anche rivelarsi tutt’altro rispetto all’Obama candidato; può anche promettere di uscire da una delle due guerre in campagna elettorale e poi invece mantenerle e, anzi, aprirne una terza arrivato alla Casa Bianca. Ma il suo sistema di valori tutto può prevedere tranne il non tenere nella debita considerazione quelli veri, che risiedono a Wall Street.
L'Italia in guerra contro la Libia
di Piero Pagliani - Megachip - 21 Marzo 2011
1. È forse il caso di discutere qualche punto sulla situazione che ruota attorno alla crisi libica.
Partiamo dal dato acquisito che l’operazione “Odissea all’Alba” non è un intervento umanitario, come ancora ripete il capo delle nostre forze armate, cioè il presidente Napolitano, refrain in cui gli ex comunisti sembrano addirittura più specializzati della destra (come questo intervento sia stato discusso in Consiglio di Sicurezza - e quindi il suo grado di legittimità - lo spiega bene Giulietto Chiesa all’inizio dell’intervista di Lilli Gruber a “Otto e Mezzo”).
Se non è chiaro che invece proprio di guerra si tratta e per giunta di guerra con caratteristiche mondiali perché è parte non di una crisi locale ma di una crisi sistemica, se questo non è ancora chiaro si prega di ripassare dal VIA senza ritirare le ventimila. Altrimenti proseguiamo.
2. Uno dei ruoli da chiarire è quello delle compagnie petrolifere.
Come già ai tempi dell’Iraq, il petrolio c’entra, ovviamente, ma non in modo immediato. In gioco c’è innanzitutto il controllo politico e militare delle fonti energetiche e solo dopo il loro sfruttamento diretto, che a sua volta può essere funzionale tanto al rialzo del prezzo del greggio tanto alla sua diminuzione in dipendenza della convenienza prima geostrategica, poi di mercato.
Il prezzo del petrolio è sempre stato intrecciato all’apertura e alla gestione delle crisi mediorientali, come hanno dimostrato in modo impressionante Shimshon Bichler e Jonathan Nitzan nel loro libro “The Global Political Economy of Israel” (Pluto Press, Londra, 2002).
Come proseguimento di quanto detto da questi autori, incredibilmente del tutto ignorati in Italia, mi sento di affermare che con il conclamarsi della crisi sistemica questo “gioco” è stato avocato a sé dagli strateghi USA, sottraendolo in parte alle grandi compagnie petrolifere e in subordine alle industrie degli armamenti (la “Weapondollar-Petrodollar Coalition” descritta da Bichler e Nitzan).
Per quanto riguarda in specifico la Libia, è un fatto che le compagnie petrolifere francesi e inglesi (Total e BP) non vedano l'ora di prendere il posto di ENI nel cuore di un governo libico amico e compradore. Ma il loro desiderio è comunque subordinato ai piani USA, mi sembra ovvio.
E i piani USA sono globali: non potrebbe essere altrimenti perché i governanti statunitensi, democratici o repubblicani che siano, hanno il compito di frenare e se possibile ribaltare la decadenza del loro “stato nazione continente” come centro imperiale mondiale, come Giulietto Chiesa ha cercato di spiegare nell’ultima parte dell’intervista citata, ai suoi interlocutori.
E le politiche globali statunitensi hanno certamente a che vedere con le fonti energetiche, ma solo indirettamente con lo sfruttamento dei pozzi.
3. In secondo luogo, la necessità “economica” delle continue guerre esiste veramente.
È ovvio che ogni guerra fa felici i costruttori di armi. Ma, ancora una volta, la loro felicità è subordinata a strategie di potenza più generali. Inoltre c’è una più alta necessità “economica”, quella di equilibrare il deficit pubblico americano col surplus mondiale che viene convertito in bond del Tesoro USA.
Per dirla in estrema sintesi, il deficit pubblico statunitense dal 1971 ha sostituito il dollaro convertibile in oro come standard monetario internazionale e quindi tale deficit (in cui storicamente le spese militari hanno un enorme peso) deve esistere ed essere coerente con la sua “acquistabilità” da parte dei Paesi in surplus. Ma tale acquistabilità a sua volta dipende dalla credibilità della potenza USA.
Le guerre servono anche ad alimentare questo pernicioso sistema ed è ovvio che allora il sistema stesso può sembrare funzionale alle industrie degli armamenti. E lo è, ma in seconda battuta. In una situazione di crisi sistemica conclamata le guerre devono essere fatte con chiari obiettivi geostrategici, non possono più essere le guerre a Grenada, a Panama o ai narcos colombiani.
4. Infine, vorrei far notare che se si guarda la vicenda dal di fuori - momento indispensabile di ogni analisi - la posizione del governo italiano appare incredibile. Così incredibile da rendere credibili le ciniche obiezioni della Lega: avremo immigrati e non avremo più petrolio. Obiezioni alle quali ieri al TG un irresponsabile Gasparri è riuscito a rispondere: «La Lega si deve rassicurare: è chiaro che in questa vicenda non ci sarà chi si prende tutto il petrolio e chi si prende tutti gli immigrati».
Ma come? Non era una guerra umanitaria? E qui si dice: ti lascio un pozzo se ti prendi sul gobbo quattro barconi di immigrati?
Dato che il 30% del nostro petrolio e il 10% del nostro gas viene dalla Libia e dato che l’ENI, come ci informa Il Sole 24 Ore, «è il primo operatore internazionale di idrocarburi con una produzione giornaliera tra liquidi e gassosi ... di 522 mila barili/olio/equivalenti (Boe)...», l’atteggiamento italiano sembra un rebus. Ma in realtà scioglie molti rebus.
Come ha sottolineato Pino Cabras, si inizia ad esempio a capire il movimento di andirivieni dal PDL al FLI e ritorno. Ma si capisce anche come mai Giuliano Ferrara, fiduciario degli USA, sia ritornato improvvisamente alla corte di re Travicello Berlusconi, così improvvisamente che lo stesso Ferrara diceva sornione di non saperne il motivo.
Ed ecco, forse, perché Paolo Guzzanti un mese prima degli inizi dei bombardamenti sulla Libia avesse deciso «di aderire come indipendente liberale ad Iniziativa responsabile, un gruppo eterogeneo che fornisce sostegno sufficiente al governo per evitare elezioni anticipate».
Insomma, bisognava sostenere il governo Berlusconi, ma controllandolo a vista.
Qui si vede tutta la debolezza del Cavaliere, la scelleratezza di uno pseudo-politico che non ha mai capito la differenza tra i suoi interessi personali e quelli della nazione, ingarbugliandoli e privandoli così di un piano complessivo, finendo per esporli agli attacchi fino al punto di convincerci (ovviamente col ricatto) che dovevamo tagliarci gli attributi da soli.
E se è vero che sono interessi capitalistici, è pur vero che il loro controllo da parte di poteri al di fuori della nazione non li fa sparire dalla scena bensì rende molto più difficile ogni percorso di cambiamento, innanzitutto proprio da parte delle classi subalterne (la vicenda Marchionne dovrebbe averlo insegnato).
Allora ci si chiederà: ma era proprio indispensabile convincerci?
La risposta è “Sì”. Innanzitutto ricordiamoci che la nostra penisola è la più grande portaerei nel Mediterraneo. In secondo luogo che fosse indispensabile convincerci lo si è visto con l'astensione della Germania.
Immaginatevi cosa succedeva se Germania e Italia (che rimane pur sempre la settima potenza mondiale) facevano fronte comune: la Francia doveva starsene buona e così gli altri Paesi dell’euro.
Gli USA sarebbero rimasti soli con il Regno Unito come al solito e con buona probabilità a quel punto l'astensione di Russia e Cina si sarebbe tramutata in veto.
Non è andata così, e quindi è solo uno scenario ipotetico. Ma credo plausibile.
Non convincerci significava dunque rischiare di aprire un quadro totalmente inedito di disubbidienza agli ordini imperiali.
Non è andata così. E ora siamo in guerra: “E' scattato stasera il primo raid degli aerei da guerra italiani” (Reuters, 20 marzo 2011, 23:29).