- La solita propaganda menzognera messa in atto dai media mainstream occidentali questa volta non sta funzionando "egregiamente".
- Gheddafi non è affatto asserragliato in un bunker sotto l'assedio dei rivoltosi, ma anzi è pienamente in sella e ha ancora il controllo di quasi tutto il Paese.
- I raid aerei decisi da Gheddafi contro i ribelli si sono rivelati l'ennesima bufala mediatica.
- E il famigerato "intervento umanitario" dell'Occidente, con il solito corollario di bombe e stragi di civili, sembra essersi arenato.
Gli stessi Usa sono a dir poco scettici, per non dire contrari, all'imposizione di una no-fly zone che, come ieri ha chiaramente detto il segretario Usa alla Difesa Gates, significa praticamente distruggere con massicci bombardamenti dall'alto tutte le difese anti-aeree della Libia e invadere il Paese con truppe di terra. Cioè un altro Iraq/Afghanistan, un incubo per Usa e Paesi Nato.
E oggi poi Frattini ha escluso categoricamente qualsiasi intervento militare italiano, annunciando invece che l'Italia porterà cibo e medicinali a Bengasi e Misurata e allestirà un campo di assistenza con la collaborazione dell'Acnur (Alto commissariato Onu per i rifugiati) e dell'Oim (Organizzazione internazionale migranti) in Tunisia al confine con la Libia, occupandosi anche del rimpatrio di circa 60.000 cittadini egiziani che lavoravano in Libia ed ora sono fuggiti in Tunisia.
Inoltre Frattini ha aggiunto che "Al massimo, potremmo dare la disponibilità logistica delle nostre basi, ma anche in questo caso occorre un chiaro mandato internazionale dell'Onu. E, comunque, qualsiasi tipo d'azione deve tener presente il delicato contesto politico e culturale del mondo arabo", dicendo finalmente qualcosa di sensato a difesa degli enormi interessi economici del nostro Paese in Libia.
La nebbia artificiale libica, creata dalla propaganda mass-mediatica occidentale, si sta lentamente diradando. E alcuni cervelli cominciano pure a lavorare di nuovo...
Le relazioni pericolose
di Gianluca Freda - http://blogghete.altervista.org - 1 Marzo 2011
Devo ammettere che avevo sottovalutato Gheddafi. Dopo l’avvio del colpo di stato organizzato contro il suo regime dai soliti uomini-ombra statunitensi, avrei giurato che avrebbe resistito non più di qualche giorno.
Mi sembrava frollo, rimbambolito da decenni di bagordi con le infermiere, impreparato ad affrontare una situazione di attacco concentrico militare e mediatico da parte non solo degli ambienti d’intelligence occidentali che hanno organizzato il golpe, ma anche della maggioranza degli stati arabi, nonché, com’è ovvio, di settori del suo stesso esercito e perfino del suo stesso entourage familiare.
Avrei scommesso che le forze militari fedeli al raìs avrebbero deposto le armi in fretta e sarebbero passate rapidamente dalla parte delle fazioni ribelli dell’esercito, quelle che stanno ancora tentando di rovesciare il regime con l’appoggio – ormai esplicito – di professionisti della strategia militare angloamericana, di truppe mercenarie fatte arrivare dall’Egitto e del battage propagandistico dei media internazionali; i quali non hanno mai smesso, per una settimana intera, di vomitare sull’opinione pubblica mondiale le loro ridicole e inconsistenti menzogne, spacciando il golpe per “rivoluzione popolare”, producendosi in contorsionismi logici e prestidigitazioni visive pur di nascondere la realtà di ciò che sta accadendo in Libia dietro la fiction di qualche balletto di piazza di bazarioti festanti, spesso pagati per ballare o ripresi in contesti che con la Libia nulla hanno a che vedere.
Invece il vecchio leone sta opponendo una discreta resistenza, il che dimostra che il sostegno di cui gode presso le gerarchie militari e l’opinione pubblica del suo paese è ancora forte, nonostante gli equilibrismi sfoggiati dall’apparato di disinformazione globale per dimostrare il contrario.
Naturalmente è difficile immaginare che questa resistenza disperata possa riuscire ad avere la meglio su forze così soverchianti, salvo che intervengano nell’agone dello scontro quelle forze politiche emergenti (Russia e Cina in primis) le quali, per il momento, non sembrano avere la minima intenzione di interferire.
Questo è almeno ciò che dimostrano con l’apparenza delle dichiarazioni diplomatiche e con il loro sostegno alle deplorazioni internazionali contro le (inesistenti) “stragi di manifestanti” attribuite al regime, nonché con il loro incondizionato appoggio alle risoluzioni di condanna dell’ONU. Cosa stiano progettando realmente, dietro l’esteriorità delle esternazioni pubbliche, lo dirà solo il tempo.
In ogni caso, è sempre istruttivo e confortante vedere come si comporta il leader di un paese sovrano e indipendente di fronte all’attacco in forze di potenze straniere. Non cerca di vendersi, ma combatte. Non fugge di notte, caricando frettolosamente la refurtiva su carovane improvvisate, ma organizza il contrattacco con tutte le forze che ha a disposizione.
Perfino di fronte alla quasi certezza di una disfatta catastrofica, cambierei il nostro intero ceto politico – da Berlusconi a D’Alema, passando per Prodi, Vendola, Fini e tutta l’allegra compagnia di logorroici mercenari degli USA che ci arringano ogni giorno dai teleschermi sulla celeste sacralità dei “diritti umani” – con un solo Gheddafi, anche stasera stessa e con enorme gioia.
Per il momento, noto con soddisfazione che i media internazionali controllati dagli Stati Uniti hanno smorzato i riflettori sulla Libia, il che è segno che sta succedendo qualcosa.
Non è chiaro cosa sia questo “qualcosa”. Potrebbe essere una trattativa tra le fazioni ribelli dell’esercito e quelle ancora fedeli al colonnello per una resa o per la cessione di parti del territorio.
Le numerose defezioni di funzionari libici, come Abdel Moneim Al-Honi e Ali al-Essawi, rispettivamente ambasciatori presso la Lega Araba al Cairo e in India, fanno pensare che sia già in avanzato stato di progettazione un dopo-Gheddafi in cui questi topi in fuga sperano di poter ricoprire ruoli di qualche rilievo.
Anche ex ministri di Gheddafi, come Aref Sharif, capo delle forze aeree libiche, e Abdul Fatah al-Yunis, ministro degli interni, hanno rapidamente abbandonato la nave, probabilmente avendo in mente la stessa illusoria prospettiva. Gheddafi sembra però poter ancora contare sulla fedeltà del suo braccio destro, Abdullah Sinusi, capo dei servizi d’intelligence nonché cognato del colonnello.
Potrebbe anche essere in preparazione un qualche tipo di incidente “false flag” da attribuire alla responsabilità del leader libico per giustificare un intervento diretto della “comunità internazionale” (altro nome degli Stati Uniti d’America).
Potrebbe darsi – ma qui entriamo nel campo delle pure speculazioni ipotetiche – che i russi, dietro le dichiarazioni di circostanza, abbiano in realtà deciso di proteggere gli interessi della Gazprom in Cirenaica fornendo sostegno tecnologico e militare al governo libico.
Non sarebbe una novità, era già successo all’epoca dell’attacco di Israele al Libano, quando le forze di Hezbollah riuscirono ad aver ragione delle truppe sioniste anche grazie alla tecnologia militare fornita dai russi, attraverso la triangolazione con l’Iran.
Potrebbe perfino trattarsi – e qui entriamo nel campo della fantascienza più visionaria – di un improvviso attacco di vergogna dei media, i quali, dopo le figuracce fatte nei giorni scorsi con la diffusione di fregnacce titaniche e ormai ampiamente sbugiardate come tali, abbiano deciso di tenere la ciabatta chiusa per non perdere dinanzi all’opinione pubblica quel poco di credibilità che gli resta (ammesso che gliene resti).
Ma, ripeto, non ci credo neanch’io. La vergogna è una funzione mai implementata nel software degli zombi che forniscono la disinformazione e di coloro che ne fruiscono.
Con la copertura della “rivoluzione libica” i cazzari dei media e le masse loro succubi hanno battuto ogni record olimpionico, rispettivamente, di cialtroneria e credulità. Sono stati sbandierati – e si continuano a sbandierare – attacchi aerei dell’aviazione libica contro le folle di Tripoli. Solo che, se si spegne il “commento degli inviati” e si ascoltano le testimonianze locali, nessuno ha mai visto questi attacchi e nemmeno le folle.
L’unica cosa vista a Tripoli paragonabile a una folla in rivolta è il gruppetto di persone radunato in piazza dallo stesso Gheddafi durante il suo discorso pubblico, tenuto quando da giorni i pagliacci dei media nostrani lo dicevano “asserragliato in un bunker sotterraneo” o in fuga verso Caracas, se non addirittura defunto.
La loro totale mancanza di senso del pudore si fa forte della terminale decerebrazione del pubblico teleutente, reso creta nelle loro mani (lo chiameremo “pubblico di cretini”) ed ormai vittima di deprivazione del senso della realtà.
E’ questa deprivazione che consente agli untori di fesserie di farla franca. Un pubblico non totalmente rimbecillito ricorderebbe ancora cosa sia, in concreto, un bombardamento dell’aviazione contro una città e capirebbe che è difficile non notarlo o non averne testimonianze filmate.
Anche noi italiani abbiamo sperimentato l’emozione dei bombardamenti a tappeto, all’epoca in cui la “democrazia” venne allegramente portata anche a noi dai suoi solerti rappresentanti di zona, per cui dovremmo ricordarne gli effetti, almeno a grandi linee. Sfortunatamente, a difenderci contro i paladini dei “diritti umani” non c’era allora nessun Gheddafi e ormai nemmeno più un Mussolini.
Il punto più alto dell’idiozia disinformativa si è raggiunto con le immagini delle “fosse comuni” di Tripoli, rivelatesi essere più “comuni” di quanto si credesse: erano infatti normalissime fosse di sepoltura scavate nel cimitero di Tripoli in un’occasione che con gli eventi degli ultimi giorni nulla aveva a che fare.
Naturalmente nessun direttore o caporedattore si è scusato con i propri utenti per averli presi ancora una volta per il culo.
E che dire delle immagini di masse tumultuanti, girate in Bahrein e nello Yemen e spacciate per “rivolte in Libia”?
Per non parlare delle immagini degli scalmanati che buttano giù da un palazzo il simulacro del “libro verde”, immagini il cui dozzinale simbolismo ricorderà agli studiosi dei meccanismi di propaganda le analoghe riprese dell’abbattimento della statua di Saddam in Iraq, anch’esse accuratamente orchestrate dalla giostra dei media ad uso e consumo dei teleovini occidentali.
Per giorni si è parlato di “manifestanti in marcia verso Tripoli”. L’utente non diversamente encefalico si chiedeva allibito come mai l’esercito libico, fosse pure ridotto a non più di un paio di carri armati, non si decidesse a schiacciare una volta per tutte sotto i cingoli questa massa di popolastro vociante.
Passavano i giorni e niente succedeva. I carri armati restavano fermi. Il popolastro marciava, e marciava, e marciava. Deve aver marciato fino allo sfinimento, tanto che Tripoli non è mai stata raggiunta.
Forse i “manifestanti” si sono persi nel deserto, che com’è noto separa tra loro i principali centri abitati, non essendo la geografia libica esattamente paragonabile a quella dell’hinterland milanese. O forse, sfiniti dalla marcia, si sono fermati a rifocillarsi nel McDonald’s dell’oasi più vicina.
Fatto sta che all’improvviso gli eroici maratoneti della rivolta si sono dissolti nell’aria sottile, gloriosamente assunti nel Walhalla delle puttanate senza ritegno, al fianco di Neda e del rifugio sotterraneo di Osama a Tora Bora.
Nel nugolo di cazzate sciorinate dalla stampa, non potevano mancare i classici, come le “armi di distruzione di massa” in possesso del demoniaco signore dei beduini. "Gheddafi è in possesso di almeno 10 tonnellate di gas di tipo 'iprite'”, scriveva atterrito lo spagnolo El Paìs, “anche conosciuto come 'gas mostarda': Usa e Gran Bretagna sono preoccupati, adesso, per le sorti delle armi di distruzioni di massa”.
Anch’io sono un po’ preoccupato, avendo già sentito questa litania ed avendo un’idea piuttosto precisa di come va a finire. Si è infatti già ottenuta la condanna dell’ONU contro i non meglio precisati “crimini” compiuti da Gheddafi nel difendere il suo paese da un’aggressione straniera. Si parla già di embarghi e di no-fly-zone, insomma, le solite cose.
Non è difficile immaginare che il destino che attende la Libia – in mancanza, questa volta, di un deciso intervento nel conflitto di potenze meno sguattere degli USA di quanto lo siano i paesi europei – sia del tutto simile a quello riservato all’Iraq: massacri indiscriminati contro la popolazione civile ad opera dei contractors mercenari (noti difensori dei diritti umani) che già impazzano nel paese, confisca delle riserve petrolifere e di gas naturale da parte delle corporation occidentali (magari con qualche contentino riservato alle aziende beffate, per non farle scalpitare troppo, come già fatto con le concessioni ENI di Nassiriya), frazionamento del paese in aree d’influenza tribale e religiosa, allo scopo di garantire una guerra civile perpetua che lo renda debole e facilmente controllabile dalle forze “umanitarie” presenti sul territorio.
Un quadro apocalittico, ma già visto, predisposto con l’esultante sostegno dei babbei che vedono in questa devastazione di una nazione sovrana nientepopodimeno che la “eroica ribellione del popolo contro un dittatore”.
Come si possa essere così dabbene dopo oltre due decenni di rivoluzioni colorate USA, attuate più o meno tutte con lo stesso schema e con gli stessi pretesti, è materia che attiene all’indagine filosofica, teologica e forse psichiatrica.
Bisogna ammettere che in questa sarabanda di idiozie stampate e teletrasmesse, si sono in parte positivamente distinti i giornali berlusconiani, sui quali si è visto comparire, tra la caligine di bubbole, qualche rado sprazzo di verità, qualche articolo di Marcello Foa, qualche testimonianza fuori dal coro. Purtroppo non altrettanto positiva è stata la performance del proprietario di detti organi di stampa.
Costui, dopo aver viaggiato per anni a braccetto con Gheddafi, fin quasi a proporre scambi alla pari di dentiste e infermiere, ha rapidamente rispolverato l’avito protocollo italico del voltafaccia, condannando le “violenze” contro i dimostranti smentite dai suoi stessi giornali, rinnegando gli accordi firmati con la Libia non più di qualche mese fa ed accingendosi a trasformare ancora una volta l’Italia in una pista di decollo americana per portare all’oppresso dirimpettaio nordafricano il sollievo dei bombardamenti umanitari. Nessuna sorpresa, visto che lo stesso cinismo da miserabile opportunista lo aveva dimostrato all’epoca dell’aggressione all’Iraq.
Forse è a questo che mirava la massiccia operazione di “ammorbidimento” scatenata contro di lui negli ultimi mesi, tra accuse di pedofilia, tradimenti di alleati teleguidati da Washington, defezioni nella compagine parlamentare, tumulti nella capitale scatenati da giovinastri frustrati, lasciati liberi, per l’occasione, di sfogare il loro vuoto cerebrale contro bancomat e vetrine di pubblici esercizi.
E’ probabile che questo tradimento scellerato appaia una mossa astuta all’ometto di Arcore, l’occasione per prendere una boccata d’ossigeno dopo mesi e mesi di attacchi concentrici coordinati da oltreatlantico che lo hanno sfibrato e reso malleabile. In effetti, dopo il voltafaccia, le prospettive per lui si sono fatte meno tetre.
I transfughi di Fli sono in buona parte rientrati nei ranghi, lasciando il povero Fini al cospetto della propria nullità politica e parlamentare. Il governo ha ora qualche numero in più per resistere nella cittadella assediata in cui si è arroccato. I pettegolezzi su Ruby sono già stati trasferiti sulle pagine di cronaca rosa, concedendo agli stravolti avvocati dell’assediato qualche minuto di respiro per riorganizzare una strategia.
Opinionisti filoamericani fuggiaschi come Giuliano Ferrara e Paolo Guzzanti hanno già manifestato il proposito di schierarsi nuovamente, come prodighi figliuoli di ritorno al tetto natìo, a difesa della reputazione paterna, già rinnegata e sconfessata durante il “periodo russo” del capo del governo.
De Michelis si è profuso nella descrizione dei grandi riconoscimenti ed onori che verranno al nostro dalla svendita a costo di realizzo di quel poco di politica internazionale indipendente che aveva messo in campo negli ultimi dieci anni. Onori smisurati, simili a quelli riservati dagli USA a Bettino Craxi, di cui il capelluto ex discotecaro socialista era già stato, a suo tempo, consigliere fraudolento.
Non vorrei gettare acqua gelata sulle sue speranze, ma se Berlusconi spera di sottrarsi con il tradimento degli alleati al destino che gli Stati Uniti hanno comunque in serbo per lui, forse farebbe bene a dare un’occhiata alla lunghissima lista di servitori fedeli e infedeli degli USA che sono stati liquidati senza troppi complimenti quando è venuta meno la loro utilità contingente. Le recenti vicissitudini dei fedelissimi Mubarak e Ben Ali dovrebbero essere sufficienti, anche da sole, ad insegnargli qualcosa.
Anche se, a dirla tutta, penso che siano parole al vento. Per imparare qualcosa dalla politica internazionale occorrerebbe avere un’idea di cosa sia la politica internazionale, il che è pretendere troppo da un piazzista di casseruole. Conto però sull’innata capacità degli sciacalli di riconoscere i propri simili dall’odore, anche se celati sotto i più concilianti e melliflui travestimenti.
Anche la famiglia Gheddafi dovrebbe saperne qualcosa. Il 21 aprile 2009, Mutassim Gheddafi, figlio dell’attuale “nemico della libertà dei popoli”, veniva ricevuto con tutti gli onori a Washington da Hillary Clinton.
“E’ con grande piacere”, si sdilinquiva la Clinton nel 2009, “che do il benvenuto al ministro Gheddafi al Dipartimento di Stato. Noi attribuiamo grande valore alle relazioni tra gli Stati Uniti e la Libia. Abbiamo grandi opportunità per approfondire e ampliare la nostra cooperazione e personalmente ho la ferma intenzione di consolidare i nostri rapporti. Pertanto, signor ministro, sia il benvenuto tra noi”.
Berlusconi farebbe bene a riflettere sul valore e sull’affidabilità dell’amicizia di queste vipere, prima di ritrovarsi tra capo e collo un “approfondimento della cooperazione” simile a quello riservato alla famiglia del leader libico.
Nonché sul fatto che, quando questa “cooperazione” entrerà nella sua fase risolutiva, non ci sarà più nessun Putin, nessun Ben Ali, nessun Gheddafi a cui chiedere appoggio o anche soltanto asilo politico.
Libia, rischio propaganda
di Enrico Piovesana - Peacereporter - 2 Marzo 2011
Dubbi sui bombardamenti aerei sui manifestanti a Bangasi e Tripoli. Mosca: nostri satelliti spia non hanno registrato nulla
Romania 1989: le fosse comuni di Ceausescu a Timisoara con i cadaveri di civili torturati.
Iraq 1991: il cromorano ricoperto dal petrolio dei pozzi fatti saltare da Saddam.
Kosovo 1999: il massacro di civili albanesi a Račak ad opera dei militari di Mislosevič.
Sono solo i più noti casi di false notizie fabbricate ad arte per manipolare l'opinione pubblica mondiale. Secondo molti giornalisti ed esperti di comunicazione, oggi in Libia viene messa in atto la stessa tecnica.
Nel blackout informativo che ha caratterizzato i primi giorni della rivolta anti-Gheddafi, le poche notizie diffuse dalle opposizioni libiche sono state rilanciate dai mass media senza alcun controllo.
Qualche dubbio lo hanno suscitato le immagini delle 'fosse comuni' sulla spiaggia di Tripoli - secondo alcuni ritraggono in realtà il cimitero di Sidi Hamed, alla periferia ovest della capitale - ma la principale controversia riguarda la scioccante notizia dei bombardamenti aerei governativi sui manifestanti a Tripoli e Bengasi.
Fin dai primi giorni ha stupito la mancanza di qualsiasi testimonianza video o fotografica di questi raid e di conferme da parte dei tanti cittadini stranieri residenti in loco. Quando poi sono arrivati sul terreno i primi reporter internazionali, non hanno trovato nessuna traccia di questi bombardamenti.
I vertici delle forze armate russe, notoriamente vicine al regime adel Colonnello, hanno dichiarato nei giorni scorsi (video) che le immagini dei loro satelliti spia puntati sulla Libia per monitorare la situazione non hanno mostrato evidenze di alcun raid aereo nel paese dall'inizio della ribellione.
Come per Timisoara, per il cormorano e per il massacro di Račak, anche in questo caso bisognerà aspettare del tempo prima di scoprire eventuali falsificazioni. Intanto, sulla scia di queste notizie, Stati Uniti e Gran Bretagna valutano l'imposizione militare di una 'no-fly zone' sui cieli libici.
I satelliti russi: la piazza libica non ha subito alcun raid aereo
di Pino Cabras - Megachip - 3 Marzo 2011
Le immagini del suolo libico, viste dallo spazio russo, smentiscono una delle leggende mediatiche di questi giorni, ossia i bombardamenti aerei sulla folla dei manifestanti. Ci sono ancora organi d'informazione importanti che ripetono questa storia regalando brividi di orrore a milioni di persone.
Il pretesto per l’«intervento umanitario» in questi giorni parte sempre dalla traccia di una strage mai vista. I militari russi sostengono che questi ipotetici raid aerei ordinati da Gheddafi contro gli oppositori in piazza non sono invece avvenuti.
Lo affermano addirittura al livello dei capi di stato maggiore riuniti: dalla grande mole di immagini satellitari registrate nel corso della crisi non hanno ricavato una sola traccia dei bombardamenti, gli atroci raid raccontati senza prove da tutto il mainstream occidentale e dalle principali catene televisive arabe.L’analisi condotta a Mosca, unitamente alle robuste controprove che sul web hanno subito smontato la bufala delle fosse comuni, getta una luce inquietante sulle manovre - anche mediatiche - intorno alla crisi del regime libico.
La corrispondente di Russia Today Irina Galushko riferisce in particolare che i supposti raid del 22 febbraio su Bengasi e Tripoli, ampiamente enfatizzati da BBC e Al-Jazira, non sono stati registrati dai capi militari che esaminavano le immagini raccolte dai satelliti russi
Va detto che nessuno dubita che le forze fedeli a Gheddafi stiano usando anche bombardamenti aerei nei combattimenti che avvengono su scala militare con i ribelli armati nella parte orientale del paese.
Altra cosa è invece ripetere pappagallescamente l’affermazione dei primi giorni della crisi, secondo cui Gheddafi usava uno sbrigativo metodo Guernica contro chi protestava in piazza. La sproporzione fra la diffusione delle voci sui “diecimila morti” e le verifiche sul campo è stata massima.
Forze potenti, all’ombra dei prelibati pozzi di petrolio libico, stanno lottando per piegare gli avvenimenti ai loro interessi. Una crisi dell’Impero – questo è anche l’arco di instabilità che si sta aprendo in Nord Africa – è comunque affrontata con spregiudicatezza imperiale.
Conteranno certamente i consiglieri militari già sguinzagliati lungo tutto il mosaico etnico della Libia (chissà quanti di loro sono reduci delle guerre jugoslave degli anni Novanta). E conterà, prima di loro e sopra di loro, l’uso massiccio dei media, scatenati a far lievitare il giusto climax per far accettare le stragi. Quelle vere, quelle delle “guerre umanitarie”.
Sicuri che Gheddafi stia perdendo? Occhio al dopo
di Marcello Foa - http://blog.ilgiornale.it - 2 Marzo 2011
Pochi giorni fa ho scritto un articolo in cui invitavo i lettori a diffidare sia dei proclami dei rivoltosi che di quelli del regime. Potete leggerlo qui ed è ancora attuale. Come in altre crisi internazionali, non sappiamo con precisione quale sia la situazione sul terreno. Quanti sono i morti? Quali le città cadute?
Un lettore, Andrea Paglialunga, che opera nel Nord Africa, mi ha inviato un’email, dalla quale risulterebbe che a Misurata, contrariamente a quanto hanno riferito le agenzie di stampa, tra giovedì e venerdì sarebbe successo ben poco.
Testimonianza significativa, che rafforza la mia cautela. Siamo proprio sicuri che Gheddafi stia perdendo? Io no. E inizio a temere il dopo.
Poco fa il Colonnello ha pronunciato un discorso lunghissimo e come sempre delirante. Con un’importante novità, però: minaccia di sostituire le compagnie petrolifere occidentali con quelle cinesi.
E non bisogna dimenticare i suoi ingenti investimenti in tutto l’Occidente: l’impero finanziario del Colonnello è molto esteso con ramificazioni in importanti compagnie europee, come ha ricordato il Sole 24 Ore in questo articolo. E non è un mistero che Gheddafi sia vendicativo…
Dunque si profilano scenari negativi per noi occidentali e in particolare per l’Italia, perlomeno a breve.
a) La rivolta continua, Gheddafi resiste, scoppia una guerra civile con decine di migliaia di morti e una forte instabilità nella regione; prima dell’avvento di un nuovo regime più stabile. Risultato: tragedia umana e ondata di profughi
b) La Libia viene di fatto divisa in due, l’Occidente impone una no-fly zone, Gheddafi resta al potere ma isolato dal mondo; si ricrea la situazione dell’IRak tra il 1991 e iul 2033; insomma Gheddafi come Saddam. Risultato: a rischio le forniture energetiche all’Italia
c) Gheddafi rimane al potere e regola i conti con i Paesi che lo hanno tradito usando l’arma finanziaria e quella energetica. Risultato: potete immaginarlo da soli…
Esiste un quarto scenario: la fuga, magari concordata, del Colonnello in Venezuela o a Cuba, insomma l’esilio. L’esito perfetto, per tutti, ma anche il più improbabile. Se non ha abbandonato finora, Gheddafi si batterà fino all’ultimo.
O sbaglio? Prepariamoci, questa crisi rischia di durare a lungo e di non essere affatto gestibile. A una manciata di chilometri dalle nostre coste…
Ecco la mail di Andrea Paglialunga, che ripropongo con la sua autorizzazione:
Egregio Sig. Foa,
Ho avuto modo in questi giorni di leggere i suoi articoli dove parla della questione Libica e in generale delle zone in fermento in questi ultimi mesi. Non sono un politologo, un’analista o un’esperto, quindi mi perdonerá se alcune mie domande le sembreranno banali o scontate.
Lavoro da oltre dieci anni con il Medio Oriente e il Nord Africa. Ho avuto modo di organizzare reti commerciali in quelle aree. Per cui ho sviluppato anche relazioni personali importanti, amicizie solide. Senza contare che ho vissuto per oltre un anno a Dubai e altrettanto in Kuwait. Premesso questo, le confesso che ho davvero molti dubbi su quello che leggo sui giornali o sento alle televisioni.
1. Bahrain: mi saprebbe spiegare come sia possibile una sommossa in quel piccolo emirato dove la popolozione locale non vede limitate le proprie libertá, dove é ammessa, aiutata e incoraggiata l’attivitá imprenditoriale privata, dove non ci sono drammatiche condizioni di malcontento sociale (ho fatto riferimento ai locali ed ho escluso expat provenienti da Pakistan, India o Cina che vengono reclutati con contratti annuali, che hanno stipendi da miseria, che vivono in 15 in un appartamento ma che comunque vedono quella condizione come un’opportunitá se paragonata alle condizioni di vita dei luoghi da dove provengono)?
2. Ho parlato proprio ieri con due clienti Libici. Due importatori che lavorano nel settore dei materiali per costruzioni. Uno di Misurata e l’altro di Tripoli. Sono di generazioni diverse, uno di circa 70 anni l’altro di meno di 40, quindi neanche accomunabili ad esperienze e storie simili.
Ho chiesto loro prima di tutto della situazione personale e sono rimasto esterrefatto. Quello di Misurata oggi ha riaperto il negozio dopo essere stato chiuso una settimana, per cautela. Mi ha detto di aver sentito qualche sparo, ma niente di piú. Nessuna difficoltá nel vicino porto o problemi di ordine pubblico.
Ho pensato, é lontano dalla Capitale, vive in una zona tranquilla, non ha notizie in quanto le fonti informative non sono attendibili, cosí ho provato con quello di Tripoli. Mi ha detto che di Aerei non ne ha visti, giusto qualche elicottero, poi mi ha rassicurato dicendomi che giovedí scorso era andato in Banca per verificare che il bonifico che deve farmi non fosse bloccato.
HA LETTO BENE. Giovedí scorso lo sportello della banca era aperto e funzionante. Mi ha detto inoltre di aver sentito anche lui spari .. L’ultima settimana é stata un pó tesa, ma di guerriglia neanche l’ombra.
Adesso, posso immaginare che non mi dica la veritá. Che abbia timore di essere intercettato o non so cosa. Ma le assicuro che non mi é sembrato diverso da come é solitamente, era solo un pó preoccupato perché il flusso di clienti é sceso gli ultimi 10 giorni e probabilmente si vedrá costretto a spostare le date legate al rpgramma che abbiamo stabilito ad inizio anno.
Confesso che non so cosa pensare
Quelle parole sul nostro paese
di Sergio Romano - Il Corriere della Sera - 3 Marzo 2011
Le parole pronunciate da Gheddafi sull'Italia possono sorprendere il presidente del Consiglio, probabilmente convinto di avere stretto con il colonnello libico un rapporto infrangibile fondato sulla reciproca ammirazione e sugli interessi comuni.
Non possono sorprendere chiunque abbia qualche familiarità con il trattamento che Gheddafi ha riservato all'Italia sin dal giorno in cui conquistò il potere a Tripoli nel 1969.
Non vi è stato momento della sua lunga dittatura in cui il Colonnello abbia rinunciato a usare il colonialismo italiano come una piaga aperta della memoria nazionale. Se ne è servito per distinguersi da Idris, il re bonario e saggio che aveva stabilito rapporti cordiali con l'Italia, aperto il Paese all'Eni nel 1959, lasciato che gli italiani vivessero indisturbati e svolgessero attività utili per il suo Paese.
Se ne è servito per dimostrare che nessuno meglio di lui incarnava l'orgoglio nazionale. Se ne è servito anche quando investiva denaro nelle imprese italiane, riceveva i ministri italiani nella sua tenda, stringeva calorosamente la mano dei nostri presidenti del Consiglio.
Si potrebbe sostenere che nulla gli importava veramente quanto la possibilità di dire ai suoi connazionali, con parecchie forzature, che all'origine dello Stato libico vi erano le sofferenze e le umiliazioni subite durante il periodo coloniale.
L'anticolonialismo e la denuncia delle colpe italiane sono stati lo zoccolo del suo potere, l'argomento retorico che gli consentiva di rappresentare se stesso come l'uomo che aveva liberato i libici dallo stato di soggezione morale e psicologica in cui avevano continuato a vivere durante il regno di Idris.
Beninteso, questo non gli ha impedito di fare affari con l'Italia e con la sua maggiore compagnia petrolifera. Ma accusarlo di duplicità sarebbe sbagliato. Duplice è l'uomo che nasconde i suoi pensieri e le sue intenzioni.
Gheddafi, invece, ha agito sempre su due piani egualmente visibili. Era pronto a trattare con l'Italia, ma non avrebbe mai smesso di usarla come la bestia nera del suo Paese, il nemico secolare della nazione.
Ne abbiamo avuto una ennesima prova quando ha portato con sé, durante la visita a Roma, un veterano della resistenza anti-italiana e appiccicato sul bavero della sua giacca il ritratto di Omar el-Mukhtar, il leader cirenaico che il generale Graziani fece impiccare nel settembre 1931.
È davvero sorprendente che questo nuovo attacco all'Italia coincida con una fase in cui il suo potere è traballante? Mai il «nemico italiano» gli è stato utile come in questo momento. Per certi aspetti l'ennesima sfuriata anti-italiana è un segno della precarietà della sua situazione.
Potremmo alzare le spalle e compatirlo se non avessimo il sentimento di avere contribuito al suo disprezzo. Ho sempre pensato che l'Italia avesse un interesse, non soltanto economico, a seppellire il passato.
Tutti i maggiori Paesi coloniali (la Francia in Algeria, la Gran Bretagna in India, la Spagna in Marocco) hanno sacrificato un po' del loro orgoglio e riconosciuto le loro colpe.
L'Italia e la Libia vivono nello stesso mare, hanno economie complementari, e la conflittualità permanente non può giovare né all'una né all'altra. L'accordo con la Libia è stato voluto da tutti i governi italiani.
Ma sarebbe stato preferibile raggiungere l'obiettivo con lo stile di Giulio Andreotti, tanto per fare un esempio, piuttosto che con quello di Silvio Berlusconi.
Dopo l'ultimo discorso di Gheddafi, il ricordo del suo trionfale viaggio a Roma diventa insopportabilmente penoso.
Libia, la scommessa do Obama
di Alberto Tundo - Peacereporter - 2 Marzo 2011
La guerra è un'opzione ma non la più probabile. Per Washington, la crisi libica è un test importante. Germano Dottori spiega perché
La Gran Bretagna preme per un intervento armato contro il regime libico, la Francia dice 'sì', ma solo sotto l'ombrello delle Nazioni Unite, gli Usa invece muovono la propria flotta nel Mar Rosso.
L'agonia del regno di Muammar Gheddafi apre la porta a diversi scenari, anche quello di un conflitto armato. Ma ogni guerra comporta una ridistribuzione delle risorse e soprattutto del potere geopolitico.
Peacereporter ha sentito Germano Dottori, docente di Studi Strategici alla Luiss di Roma. Con lui ha cercato di capire quanto l'opzione bellica sia probabile e soprattutto quali siano le implicazioni geopolitiche della crisi libica. Questa è una sintesi dell'intervista concessa dallo studioso. Qui, la versione integrale.
La diplomazia parla con voci diverse mentre la crisi libica continua ad aggravarsi: un intervento militare è plausibile? E con che tempi?
Mah, dipende da che cosa si vuole ottenere con un intervento militare, questo aspetto è essenziale. Se si tratta semplicemente di impedire alla flotta aerea di cui ancora dispone il regime di alzarsi in volo oppure a Gheddafi di portare a Tripoli mercenari che lo difendano, questo è un conto e a mio avviso può essere fatto ed anche piuttosto facilmente.
Altra è l'idea di andare a terra, magari con un grosso contingente, per interporsi tra le parti in lotta ed entrare nel bel mezzo della guerra civile libica.
Una cosa, secondo me, da evitare assolutamente perché avrebbe come conseguenza una sollevazione generale e comunque la trasformazione della Libia in un mezzo incubo, stile Afghanistan o Somalia.
Ultima ipotesi in cui potrebbe aver senso un intervento militare, è se a un certo punto si avesse la sensazione che le infrastrutture energetiche della Libia sono a rischio. A quel punto si procederebbe con un intervento limitato per mettere in sicurezza piattaforme, pozzi, gasdotti e pipeline ma è una cosa diversa.
Alla luce delle informazioni di cui dispone, crede all'ipotesi di un intervento militare?
No, sono piuttosto scettico a riguardo. Credo che difficilmente si andrà al di là dell'intervento militare già in corso, perché da quello che si sa, c'è un certo numero di commando, agenti speciali e uomini dell'intelligence provenienti da Stati Uniti, Francia e Gran Bretagna che stanno lavorando molto nelle zone "liberate" e indipendenti rispetto al potere centrale di Tripoli. La cosa più probabile secondo me è la continuazione di un intervento militare in questi termini.
Una no fly zone può essere imposta e con quali tempi?
In tempi brevi, se c'è la volontà politica e soprattutto se lo vogliono gli americani. A me pare, invece, che Washington esiti e lo faccia con una buona ragione: gli americani si sono accorti che ottengono più risultati con il soft power che con l'hard power.
Se intervengono militarmente, si fanno dei nemici, se stanno lì a guardare, è più facile che il mondo si trasformi in un modo conforme ai loro interessi. A me pare che Obama, come si dice in gergo, abbia trovato la chiave dell'orto.
Detto più semplicemente?
Agli americani basta lasciar fare al loro modello, che funga da attrazione, e permettere che l'idea dell'autogoverno dal basso si faccia strada; ciò che loro vogliono è che il ribaltamento di certi regimi autoritari giunga come un frutto maturo. Non dobbiamo più pensare che gli Stati Uniti abbiano interesse nel preservare l'ordine che abbiamo conosciuto in Nord Africa o in Medio Oriente, un ordine tutto centrato sulle esigenze di sicurezza di Israele.
Gli americani stanno andando oltre questo modello, sono interessati alla grande partita per il potere globale: gli equilibri con la Cina e con la Russia, il futuro dell'Europa e in tutto questo che Israele debba pensare da solo alla propria sicurezza interessa molto meno.
E questo, detto tra noi, spiega perché il sito Debka File sia insolitamente empatico nei confronti del regime di Gheddafi. Io credo che quanto sta accadendo adesso sia quello che gli anglosassoni chiamano il defining moment della presidenza Obama, quello in cui si definisce cosa Obama vuole essere davvero, quello in cui per la prima volta il presidente decide passando sopra il Dipartimento di Stato e fa un atto di leadership
Un'ultima domanda: lei parlava di soft power, a proposito dei mezzi con cui gli Usa potrebbero condizionare la transizione libica. Ma in questo modo come possono garantirsi da una deriva fondamentalista?
Non si garantiscono affatto, l'accettano, sperando che nel frattempo emergano elementi che facciano assomigliare l'islamismo politico più a quello dell'Akp del premier turco Erdogan che non a quello di Hamas o Hezbollah.
E' una scommessa che fanno, fermo restando che per loro è meglio avere gli islamisti al potere e un certo grado di instabilità alle frontiere dell'Europa che non il tipo di ordine che ha prodotto l'11 settembre. Questa è l'analisi che secondo me stanno facendo a Washington in questo momento.