giovedì 10 marzo 2011

Libia update

Qualche articolo sugli eventi libici, con un occhio particolare sulle conseguenze estremamente negative per l'Italia dal punto di vista economico e geopolitico, in caso di crollo del regime di Gheddafi e relativa balcanizzazione della Libia.

Comunque la novità delle ultime ore è che, a parte la Francia - che ha riconosciuto come rappresentante legittimo del popolo libico il Consiglio nazionale provvisorio creato dagli insorti a Bengasi - e la Gran Bretagna, continua a scemare la voglia di impelagarsi in un altro lungo e fallimentare intervento militare.

Oggi infatti il ministro degli Esteri tedesco, Guido Westerwelle, si è detto "scettico" sull'ipotesi di una no fly zone sulla Libia dichiarando che "Il rischio è quello di ottenere l'opposto di ciò che vogliamo per la Libia, vale a dire libertà e pace. Una cosa è chiara per il governo della Germania: non vogliamo essere risucchiati in una guerra in Nord Africa".

Parole chiare che preannunciano un infuocato vertice straordinario dei ministri degli Esteri dell'Ue, in programma oggi a Bruxelles.

Idem per quanto dichiarato oggi dal ministro degli Esteri russo Serghiei Lavrov, "E' inaccettabile ogni intervento di forza in Libia e in altri Paesi africani".

E l'Italia che dice? Mah...per ora ci dobbiamo accontentare del classico passivo/supino cerchiobottismo italiota uscito dalla bocca di La Russa, "L'Italia condividerà le scelte della Nato sulla Libia. La nostra posizione non sarà nè quella di aizzare nè quella di frenare".

Cioè?....


L'Italia colpita assieme a Gheddafi
di Pietro Ancona - http://medioevosociale-pietro.blogspot.com - 9 Marzo 2011

Non condivido chi dice che gli USA sono stati sorpresi dagli avvenimenti che hanno scosso e continuano a scuotere quella che alcuni, con locuzione colonialista, chiamano quarta sponda del Mediterrano e la penisola arabica. Non credo proprio.

Credo che la rivolta del pezzo di classe dirigente libica che si è impadronita subito della zona dei pozzi petroliferi sia stata lungamente e minuziosamente preparata anche negli uffici delle grandi compagnie petrolifere e naturalmente dal Pentagono.

Non so se la Nato ne fosse al corrente ma non dubito che i fratelli inglesi siano stati della partita. Si tratta della più grande rapina organizzata dagli anglosassoni dopo lo spaccio dei derivati fasulli.

La Libia ha già avuto sequestrati 70 miliardi di dollari di fondi sovrani e credo che ci sia un piano di spartizione delle immense straordinarie risorse petrolifere attuali e quelle avvistate nel golfo della Sirte.

I dirigenti del Comitato dei Rivoltosi che siede a Bengasi si muovono negli uffici della Unione Europea, della Nato e dell'ONU con la naturalezza di chi è conosciuto da tempo ed è stato riconosciuto ancora prima di avere strappato il potere al colonnello Gheddafi.

Ci sono tante riflessioni da fare sulle " rivoluzioni" della Tunisia, dell'Egitto, dello Yemen, del Behrein. Intanto, all'indomani della rivoluzione vittoriosa in Tunisia i giovani che l'hanno fatta scappano verso l'Europa a migliaia e migliaia.

Ma come! non dovrebbero essere i complici di BenAlì a scappare come questi e la consorte hanno fatto portandosi dietro 1500 chili di oro in lingotti ed avendo già all'estero trenta miliardi di euro che non risulta siano stati sequestrati dal solerti governi occidentali? Che ne è stato di Ben Alì e di Mubarak.? Del primo ci è stata raccontata la storia che è morto proprio allo indomani dell'espatrio e di Mubarak non sappiamo più niente.

Ci hanno raccontato che è malato e non ci dicono niente ma proprio niente dei 50 miliardi di euro che questi ha depositato all'estero. Il refugium peccatorum dei tiranni è l'Arabia Saudita che con le sue televisioni scrive le veline a tutta la stampa occidentale raccontando balle colossali che vengono accettate nella colta Europa come notizie vere.

L'ultima balla è la richiesta di Gheddafi al Comitato Monarchico di Bengasi di trattare in cambio di un salvacondotto per se, per la famiglia e per i suoi soldi......

Non credo proprio che quanto stia accadendo non sia stato programmato. L'Impero studia i suoi piani e non sono mai piani di pace, ma di arricchimento della cupola mafiosa delle multinazionali e del pentagono a spese del mondo.

Si rifanno delle perdite che il sistema finanziario ha subito e che vengono recuperate spremendo i popoli attraverso il FMI, costringendo l'Europa ad un welfare sempre più povero, abbassando i salari dei lavoratori e riducendo quasi ad elemosine le pensioni e con le guerre di rapina.

Nel caso della Libia ci sono in gioco tutta la ricchezza che è stata accumulata negli anni dalla geniale lungimirante e saggia gestione di Gheddafi e le risorse petrolifere.

Inoltre, con la Libia si colpisce quasi a morte l'Italia. Che fine farà la vituperata ENI a cui le Sette Sorelle danno la caccia fin dall'assassinio di Enrico Mattei? Cesserà l'interscambio di venti miliardi di euro annui tra Italia e Libia e una grande pacifica cooperazione economica e culturale entrerà in crisi forse per sempre.

Con l'aggressione alla Libia c'è anche un attacco sferrato all'Italia ed all'Europa. Non è forse casuale la fuga dei buoi dalla stalla.

Perchè la Fiat si trasferisce negli USA? Perchè Bulgari si mette sotto l'ala della Francia? Insomma, perchè c'è un fuggi fuggi delle maggiori imprese dall'Italia? Si tratta solo di delocalizzazione oppure c'è all'orizzonte un periodo difficile per il nostro Paese?

Credo che si stia programmando la retrocessione dell'Italia assieme a quella dei paesi del Pigs....Per retrocedere l'Italia bisognava assestarle un colpo mortale. Il colpo mortale arriva attraverso la Libia.

In fondo i potenti di sempre hanno sempre avuto disprezzo per il nostro Paese. Non disse Metternick al Congresso di Vienna del 1815 che l'Italia era " una espressione geografica"?

Kissinger e le teste d'uovo dei neocon al potere non la pensano diversamente. Senza Eni e Finmeccanica, senza il grande polmone libico, diventeremo più piccoli e più poveri. Ci resta il rapporto con la Russia. Ma anche di questo il Capo Mafia della casa Bianca presto ci chiederà il conto....

Tutto il Mediterraneo risulterà diverso dopo la guerra alla Libia e diventerà una sorta di lago americano. Alle importanti basi militari USA di Napoli e Catania si sommerà il presidio del Nord Africa di forti postazioni USA.

Per tutto questo e non solo per questo faccio il tifo per il colonnello Gheddafi e la sua Libia. Ma è assai difficile resistere ai progetti dell'Impero.-

Ieri sono state rese note le statistiche dell'Afghanistan relative al 2010: 2800 morti in grande parte donne e bambini. Non sappiamo quanti feriti, mutilati, malati... Non importa niente a nessuno. Santoro non dedicherà a questi un numero di Anno Zero. In fondo si tratta soltanto di una statistica di persone che scompaiono lontano dalla nostra vista.


Quarta sponda e quinte colonne
di A. Musto - Conflitti e strategie - 10 Marzo 2011

L’insieme delle rivolte che scuotono una parte del complesso e frastagliato mondo arabo rappresentano un indice interessante della condotta politica della nostra classe dirigente e della tenuta strategica del Paese. A queste si aggiungono le posizioni della sempre decantata opinione pubblica impegnata, militante o vagamente attenta che sia.

L’unica base possibile per rapportarsi alla questione è quella realista, su cui poi innestare le proprie posizioni politiche. Qualsivoglia scelta politica non può che esser tale se non al vaglio della presa di consapevolezza della concreta situazione in atto.

Ciò presuppone un necessario balzo oltre semplicistiche simpatie precostituite e letture predefinite, e presuppone che si debba avere un approccio che non sia in balìa delle mutevoli vicende, ma ben saldo su alcune linee di interpretazione.

In primis,va sgombrato il campo da reminiscenze romantiche o smanie di appartenenza, che solitamente riemergono quando sulla scena fanno la comparsa forze e movimenti reclamanti poteri o diritti.

In queste occasioni, spuntano subito fuori i paladini a distanza di questo o quel soggetto, lesti ad improvvisare analogie con situazioni socio-politiche interne-esterne, per le quali rispolverare alla bisogna mirabolanti vocazioni universalistiche con annessi schiamazzi di libertà e diritti.

Eventi come quelli in Tunisia, Egitto e Libia ci portano una volta di più ad una prima non nuova constatazione di fondo: la saldatura tra forme di pensiero apparentemente distanti in nome di un “interventismo universalistico”, intellettuale o politico, che non ha in alcun conto quanto lo spazio geografico sia sede di differenze sociali, culturali e politiche non assimilabili ad univoche teorizzazioni astratte.

Pertanto, non si capisce, se non inquadrandolo come presupposto ideologico, come si possano leggere le rivolte in corso come manifestazioni di libertà, democrazia ecc.

Una lettura di questo tipo rimane alla superficie del fenomeno e per di più è viziata da una palese forzatura, quella di voler collegare implosioni e squilibri territoriali a concetti indebitamente ritenuti a-spaziali ed a-temporali, quali appunto quelli solitamente ascrivibili alle categorizzazioni occidentali.

La predisposizione, da parte di ampie schiere di sedicenti antimperialisti o anche solo sedicenti democratici, a sposare ogni causa o quasi che abbia un che di ribollente contro un dato ordine di cose è una manifestazione di infantilismo politico o almeno di folclore idealistico.

Pertanto, sarebbe opportuno vagliare in maniera attenta lo scenario delle forze in campo e soprattutto cogliere gli aspetti collocati sul piano sovrastante l’incalzare degli eventi, vale a dire la situazione strategicamente intesa.

Se non vi si trovano personaggi o movimenti verso cui indirizzare un afflato idealistico o (peggio ancora, purtroppo) a cui riconoscere una convergenza almeno tattica rispetto alle proprie aspirazioni, bisogna farsene una ragione. Sarà un segno dei tempi.

Dalla complicità intellettual-ideologica a quella politica tra “interventisti universali” il passo è breve e spesso inconsapevolmente compiuto. Soltanto che la comprensione per tale inconsapevolezza finirebbe per essere a sua volta un’insopportabile idiozia, se reiterata. Quindi, se ancora ci sono – da parte di qualcuno - dei canali di corresponsione con i “militanti dell’ogni rivolta e in ogni luogo”, questi vanno troncati per imboccare la strada del realismo.

La complicità politica degli interventisti universali avrà il suo suggello se si dovesse materializzare la paventata ipotesi di un’azione anglo-americana in Libia. Che abbia o meno le effige dell’Onu o della Nato, sappiamo bene che anglo-americana rimane innanzitutto. L’origine strategica è atlantica.

Chi ha voglia di seguire, credendoci ed entusiasmandosi, l’incedere delle raffazzonate notizie all’insegna del “dicono…testimoni riportano che…pare che…” che giungono da quella che dovrebbe essere l’ormai nota macchina della propaganda, è già tranquillamente sul lettino della lobotomizzazione mediatica.

I buoni e i cattivi già sono stati indicati e con cotanto di bandiere. Invocare e schierarsi al fianco di un intervento “umanitario” o appoggiare tout court i rivoltosi ma ritenendo di mantenersi in contrapposizione agli USA, sono due facce della stessa medaglia.

Gli americani, in modo ovattato o per procura, sono già di fatto attivi nello scalzare Gheddafi e non per il semplice fatto di liberarsi del personaggio, ma in ossequio a mire strategiche. Un carpe diem a stelle e strisce.

Ma sorvolando ora su un tentativo di disamina della situazione libico-maghrebina, dovremmo tutti porci un criterio – ripetiamo realistico – che è quello proprio del nostro angolo visuale, cioè quello nazionale. Non per ristrettezza di vedute, parzialità o egoismo, ma perché la vicinanza geografica e l’emergenza dei fatti ci impongono una maggiore presa di coscienza.

Certo, non possiamo attenderci altro, se non la solita solfa liberal-perbenista, dalla classe intelletual-giornalistica dominante. Tra puritanesimo e giustizialismo, sarebbe anzi un danno tirarla giù dalla fallo-sfera fino alle sponde del Mediterraneo. La baratteremmo volentieri con una tribù libica.

La crisi libica riporta la nostra politica estera sul terreno della partecipazione attiva e ricolloca al centro dell’attenzione quanto qui ritenuto sempre fondamentale, cioè lo scenario internazionale.

Predisposte o no, prevedibili o sottovalutate, deflagrazioni di questo tipo sono concatenate con altrettante deflagrazioni di segno economico-finanziario e politico e tutte attengono al costante mutamento dell’epoca. Solitamente questi sommovimenti a carattere regionale, al di là dei risvolti autoctoni, sono terreno di ri/posizionamento delle potenze, misurandone le loro mosse strategiche.

L’Italia non ha ancora definito un insieme di interessi nazionali da perseguire e sulla base del quale elaborare una strategia di medio-lungo periodo. Si naviga a vista e si cavalcano le contingenze alla buona, che di solito significa decidere di seguire le decisioni già prese dagli altri.

Tuttavia, l’asse italo-libico ed il triangolo Roma-Tripoli-Mosca sono un mirabile tentativo di autonomia. Il problema, dati gli assetti attuali e una classe dirigente comunque non all’altezza di radicali cambi di rotta, è di come coniugare questo tentativo autonomista con la subordinazione atlantica.

Le quinte colonne interne, trasversali agli schieramenti ma primariamente incarnate dalle schiere moderato-progressiste (con annessa funzione attiva-passiva degli “antagonisti”), lavorano assiduamente per far saltare quel minimo di schema autonomista sin qui tracciato. Ne consegue che un dopo-Gheddafi, posto che ci sia, azzopperebbe la nostra proiezione mediterranea in generale.

E’ difficile immaginare un’evoluzione della crisi libica che arrechi effetti benefici all’Italia. Parteciperemo sì ad una spartizione dei compiti, ma uno stravolgimento del quadro comporterebbe un assorbimento della Libia in una sfera di influenza che limiterà la sua valenza geoeconomica rispetto ai nostri già maturati interessi, specie se si dovesse pervenire ad una frammentazione de iure o de facto del territorio.

Lo stato attuale è frutto di un processo continuo, dalla fase coloniale a quella post-coloniale, che tra reciproche “sviste” ed incomprensioni ha pur sempre consentito la specificità di un rapporto bilaterale. Se questo stato si infrange, ci sono le premesse perché questo rapporto perda non il suo carattere bilaterale, ma la sua specificità.

La funzione geopolitica della Libia, per l’Italia, rischierebbe di perdere quel valore dato dalla vicinanza storico-geografica, per ridursi a quella di un partner, vicino sì, ma oggetto di una riconfigurazione - militare e politico-economica – sicuramente confacente alla sfera di controllo atlantico, con ciò che ne consegue.

Non sarebbe forse un reset, ma si presenterebbe una nuova gara a ricollocarsi da parte dei vari interessi strategici. A maggior ragione se il cambiamento riguarderà una porzione del quadrante nordafricano/vicino-orientale.

Alla luce di una complessiva valutazione politica, Gheddafi non è un modello di “buona condotta” né più di rivoluzionario; ha fatto più di un cedimento sia ad Israele che agli Usa, vuoi per il mutare delle contingenze storiche vuoi per ragioni di stabilità, ma ha pur sempre evitato che la Libia fosse terra di tutti e di nessuno o che diventasse un emirato qualsiasi.

In sostanza, è riuscito nell’intento di garantire un esercizio di sovranità che permettesse al suo Paese, reggendo un equilibrio tribale-regionale, di essere partner e non preda.

L’intimargli di andarsene è un atteggiamento da gangsters oltre che un’ingerenza fuori dal diritto internazionale, anche perché non è uno sconfitto in guerra a cui dettare le condizioni.

L’intelligence e la diplomazia italiane, a latere anche di talune dichiarazioni di certi esponenti di governo, si sono mosse inizialmente con cautela nell’intento di tutelare i connazionali di ritorno, ma ora si fa pressante il bisogno di una scelta politica.

Il fatto che Gheddafi resista e rilanci un’iniziativa negoziale con europei e americani porta l’Italia a slittare verso una consueta ambiguità dalla dubbia efficacia.

Calcare la mano e allinearsi ai diktat, significherebbe, in caso di permanenza al potere del rais, ritrovarsi in una situazione negoziale subordinata con un nuovo prezzo da pagare, con relativo aggravio di credibilità.

Nel caso di una sua uscita di scena, il rischio sarebbe quello di doversi confrontare con un’incertezza sconveniente in termini di referenti e stabilità nonchè con una probabile minore incisività geopolitica.

E’ auspicabile che nella vicenda rimanga fondamentale il valore del trattato ed il peso di Finmeccanica e soprattutto dell’Eni, cioè quei canali, a maggior ragione ora, da intendersi e muovere non solo come attori economici, bensì come autentici centri strategico-decisionali, come tradizione vorrebbe. A prescindere dal destino di Gheddafi.

Quella libica, del resto, è inevitabilmente una partita nella più ampia contesa in corso che si gioca sul campo dell’energia e dei valori industriali e, di qui, su quello della sovranità nazionale.

A fronte dell’incessante attacco esterno ed interno cui è sottoposta la nostra struttura energetico-industriale, la contingenza richiede che prevalgano questi fattori e determinate decisioni sull’indecorose posizioni antinazionali assunte dalle quinte colonne sciorinanti un truffaldino bon ton umanitarista.

Cercasi azione sovrana non omologata.



La leggenda nera di Gheddafi
di Claudio Moffa - www.claudiomoffa.it - 10 Marzo 2011

Tre jet che sfrecciano sui liberi cieli libici e Gheddafi sbaraglia i piani bellicisti di chi voleva incastrarlo con una (illegittima) no fly zone unilaterale. Certo, il futuro è incerto e i fautori della guerra ci riproveranno ancora. Anzi ci stanno già provando col progetto di blocco navale.

Ma quel che è accaduto ieri è un colpo vincente del capo di stato libico, una offensiva diplomatica verso gli “anelli deboli” dell’Europa, come titola oggi Maurizio Caprara sul Corriere.

Risultato immediato: i bollori bellicisti del segretario della Nato Rasmussen finiscono sotto la doccia; gli USA si interrogano su chi siano veramente i ribelli libici che chiedono armi [1](forse lo sanno già, ma la notizia è comunque un segnale che non è vero che Obama è deciso a rovesciare Gheddafi); l’Europa è incerta, perché i contatti degli emissari del rais a Lisbona, Atene, Il Cairo, Bruxelles e Minsk (Bielorussia) intralciano i piani pro-no fly zone di Cameron e Sarkozy, i due pro-sionisti di punta dell’Unione Europea [2]; infine, last but not least, in Italia il Consiglio Supremo di Difesa è finito bene, perché è stata stabilita la priorità ONU (e solo al terzo posto, dopo l’Unione Europea, la NATO dell’amico di Israele Rasmussen) su un eventuale alzotiro della “comunità internazionale” contro Tripoli, vale a dire il superamento (in peggio) della risoluzione 1970, con un passaggio-ritorno dall’egida dell’art. 41 della Carta dell’ONU (solo embargo e sanzioni) a quella dell’ormai famigerato art. 42, grimaldello giuridico delle guerre postbipolari angloamericane, a cominciare dall’Iraq 1991.

Alle spalle dello stallo poi, non ci sono solo gli equilibri intra-occidentali, ma anche quelli mondiali: forse è vera la smentita di un sostegno sudafricano a Gheddafi [3], ma di certo come ha ammesso la Clinton ieri alla Cbs, «serve il sostegno dell’Onu per una no fly zone sulla Libia» nel cui Consiglio di Sicurezza però, «c’è ancora molta opposizione» [4].

C’è la Russia che si oppone, ed anche la Cina [5], anch’essa esplicitamente contraria al passaggio all’art. 42.

Partita dunque aperta ad ogni possibile sviluppo. Su tutto incombe però il convitato di pietra delle cancellerie e dei capi di stato e ministri degli esteri dell’euro-america: i mass media lobbisti, il vero regime a tutto Occidente, quel ceto giornalistico che come ricordava il grande leader sionista Vladimir Jabotinsky già negli anni Trenta, conta più dei re, dei capi di stato e dei primi ministri.

E’ il panorama desolante confermato anche, un secolo dopo, dalla crisi libica: ripercorriamo ad esempio, in Italia, le leggende costruite da Repubblica e cugini.

1) Gheddafi isolato, debole, in fuga, dal bunker sottoterra, alle strabilianti “vittorie” dei ribelli, alle implorazioni di trattative rivolte ai bengasini, alle fughe in aereo, in auto o a nuoto: tutto falso, comizi di piazza non oceanici ma certo consistenti, un esercito nazionale che ancora esiste e resiste nonostante qualche defezione, la taglia sull’ex ministro El-Jalil (altro che pietire accordi), e sugli aerei (ultima leggendaria “fuga”) emissari di un governo ben saldo e con un suo progetto). Gheddafi è un dittatore, ma come Mussolini e Mobutu negli anni Settanta, anche i dittatori possono avere consenso di massa.

2) Le stragi: ma quali stragi, dove, quando? [6] Guardate ai bombardamenti di questi giorni, che peraltro Gheddafi, probabilmente mentendo, attribuisce ai ribelli: colpiscono solo e unicamente i pozzi petroliferi, misura ovvia perché attorno al controllo del petrolio si giocano i rapporti di forza in divenire dei due fronti in guerra, Bengasi e Tripoli. Ma non ci sono immagini di stragi né di fosse comuni: tutto falso. Tanto che è stato Gheddafi, domenica scorsa, prima della giusta sortita di Frattini, a chiedere una inchiesta delle Nazioni Unite.

3) Internet bloccato: leggenda smentita dagli stessi giornali che lo affermano, nell’articolo a fianco [7]. E poi, comunque le immagini viaggiano anche via cellulare, tanto che Repubblica ha pubblicato la foto di tre gheddafisti prigionieri.

Perché la fonte del quotidiano di De Benedetti non ha tirato fuori una sola foto della moschea di Zawiya presuntamente rasa al suolo, o di almeno una ventina di cadaveri (si è parlato di 1000 morti), prima che venissero secondo altra possibile leggenda portati via dai camion gheddafisti?

Un clic dura un decimo di secondo, ne basta uno foto le stragi sono confermate. Invece è il modello Timisoara e Neda che viene applicato. Stragi e assassini inventati: pura e semplice propaganda di guerra.

Teoricamente un simile comportamento di molti giornalisti dovrebbe essere stigmatizzato e sanzionato. In Italia, Vittorio Feltri è stato messo a tacere per tre mesi dall’Ordine dei giornalisti, per una inchiesta su Boffo, colui che protetto dal Cardinale Ruini avallò la guerra del 2003 con i risultati che abbiamo visto – centinaia di migliaia di morti – e vediamo, l’ondata di persecuzioni di cristiani in Iraq, un paese che ai tempi di Saddam aveva un ministro degli esteri cristiano, Tareq Aziz, ed era un paese pacifico e unito.

Posto che fossero fondate le ragioni del silenziamento di Feltri, non si capisce perché analoga misura non possa essere presa nei confronti di Ezio Mauro. Ma non sarà così: Repubblica e il suo braccio politico, il centrosinistra, sono - rare eccezioni a parte - il vero “regime” in Italia.

Questa gente continuerà a mentire, come è suo costume, e non solo in politica internazionale, vedi Noemi, Bertolaso e Moffa: sono i veri goebbelsiani della nostra epoca, la verità dei fatti non conta, conta la loro invenzione che reiterata mille volte, diventa essa la “verità” utile a seminare odio tra i popoli e tra le persone.

PS. Oltre alla leggenda, c’è anche l’occultamento: digito sulla rassegna stampa del Corriere della Sera “Consiglio Supremo di Difesa”, riunione finita bene come detto nell’articolo nonostante certo dibattito nei giorni precedenti, e compaiono solo 12 strisce per sole quattro testate: Il manifesto (2), adnkronos (1), Dagospia (5) Libero-news (3), ma alcune sono dei giorni scorsi).

Eppure Il Giornale gli dedica un articolo a parte. Già nella mia presunta lezione “negazionista” (quale non sono, rifiuto il termine senza altro senso anche demonizzare chi fa affermazioni fondate ma non gradite) notai cose pazzesche. Qui la questione è importante, cruciale e l’omissione è assai più grave. A meno che addirittura non sia alla fonte, i singoli giornali, nonostante il servizio della (sola) Adnkronos


PS, NOTE DA COMPLETARE, NON HO TEMPO ADESSO

[1]

[2]

[3] http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplrubriche/finestrasullamerica/grubrica.asp?ID_blog=43&ID_articolo=1978 &ID_sezione=&sezione=

[4]

[5]

[6]

[7]



Prima di spedire dollari e fucili il Pentagono farà «l'esame» agli insorti
di Manlio Dinucci - Il Manifesto - 10 Marzo 2011

Washington ha scarse informazioni sui rivoltosi: la Cia si mobilita. Sigonella e Camp Darby al centro delle manovre Usa

Riferendosi ai ribelli libici che combattono contro Gheddafi, il portavoce della Casa bianca Jay Carney ha dichiarato: «La possibilità di armarli, di fornire loro armi, è una delle opzioni che stiamo considerando». Ma, ha aggiunto, se scegliamo questa opzione dobbiamo essere «ben informati» e consapevoli di «ciò che cerchiamo di realizzare».

Washington - spiega il New York times - sta ben attenta a non gettare armi in un conflitto che coinvolge «gruppi su cui vi è una limitata intelligence». Sarebbe «prematuro», ha detto Carney con tono ironico, «inviare un carico di armi a una casella postale in Libia».

Per questo «stiamo usando molti canali per contattare gruppi e individui dell'opposizione, per sapere di più sugli scopi che perseguono, su ciò che vogliono».

In altre parole: i diversi gruppi che partecipano alla ribellione vengono sottoposti a una sorta di esame da agenti della Cia e funzionari Usa, evidentemente già al lavoro in Libia. Lo ha confermato indirettamente Mustafa Abd al Jalil (già ministro della giustizia con Gheddafi, oggi presidente dell'organo politico dei ribelli), che ha parlato di contatti con rappresentanti statunitensi.

Scopo dell'esame è stabilire quali ribelli sono affidabili e quali no. I primi, ritenuti utili agli interessi statunitensi, sono giudicati idonei a ricevere armi dagli Usa; i secondi, no.

Col risultato che, se i ribelli riuscissero a rovesciare Gheddafi o se lo farà la Nato, saranno i gruppi che Washington ritiene fidati ad avere in mano il potere con la forza delle armi e dell'addestramento ricevuti dal Pentagono.

A Washington, conferma il New York times, si sta considerando l'opzione non solo di armare i ribelli (quelli che superano l'esame della Cia), ma anche di addestrarli e fornire loro intelligence, ossia informazioni sugli obiettivi da colpire.

Un'altra opzione presa in considerazione è quella di «infiltrare piccole squadre delle Forze per le operazioni speciali, per assistere i ribelli come è stato fatto in Afghanistan per rovesciare i taleban». Queste squadre sono specializzate per addestrare gruppi ribelli, così da «trasformarli nel giro di una notte in combattenti più efficienti, fornendo loro alcune basilari conoscenze, equipaggiamenti e leadership».

In tale quadro, un ruolo importante viene svolto dalle basi Usa di Camp Darby, tra Pisa e Livorno, e Sigonella in Sicilia. La prima è stata attivata per l'invio di «aiuti umanitari della Usaid», ufficialmente destinati ai profughi al confine tra Tunisia e Libia.

I materiali vengono trasportati dal 3° Battaglione della 405a Brigata all'aeroporto militare di Pisa, dove vengono caricati su C-130J giunti dalla base di Ramstein in Germania.

La nostra collocazione, dice il comandante della brigata, ci offre «capacità logistiche uniche poiché il nostro deposito è a 30 minuti dall'aeroporto di Pisa», lo stesso dove sorgerà l'Hub militare nazionale che sarà messo a disposizione anche di Camp Darby.

Poiché è compito di Camp Darby inviare in altri paesi sia armi sia «donazioni» della Usaid, nessuno può sapere che cosa ci sia nei pacchi dono che arrivano al confine delle zone libiche controllate dai ribelli.

È stata allo stesso tempo attivata la base aeronavale di Sigonella, da cui partono altri aerei, i KC-130 dei marines, sempre per portare «aiuti umanitari». Ma, particolare non trascurabile, da Sigonella opera una forza speciale Usa per missioni segrete in Africa e partono i voli degli aerei-spia Global Hawks.

I «falchi globali» che già volteggiano sulla Libia, non per portarvi la democrazia ma per portare la Libia e la sua ricchezza energetica sotto il dominio Stati Uniti/Nato.


Che accade in Libia?
di Domenico Moro - www.paneacqua.eu - 8 Marzo 2011

Visti i precedenti storici, si imporrebbe maggiore cautela e, invece di arruolarsi frettolosamente nelle fila degli interventisti "umanitari" contro il "sanguinario dittatore", ci si dovrebbe chiedere cosa accade in Libia, perché si preme per l'intervento militare e, infine, perché il gruppo dirigente Usa è spaccato su questa eventualità

"A mio parere, qualsiasi futuro ministro della Difesa che di nuovo pensi
di consigliare a un presidente di mandare l'esercito in Asia, in Medio Oriente
o in Africa dovrebbe farsi esaminare la testa
."
Discorso a West Point di Robert Gates, ministro della Difesa Usa,
25 febbraio 2011

Moisés Naim sulla prima pagina del Sole24ore ha definito "asse dei confusi" il gruppo, composto da Hugo Chavez, Daniel Hortega e Fidel Castro, che si rifiuta di denunciare il dittatore Gheddafi per il massacro di civili innocenti. Naim ha, però, scordato di includere un altri due "confusi" nella sua lista.

Si tratta di Mike Mullen e Robert Gates, rispettivamente capo degli Stati Maggiori Riuniti e ministro della Difesa statunitensi. I due, come riportato da Rampini il 3 marzo, hanno "persino negato che esistano prove sul fatto che Gheddafi abbia usato aerei ed elicotteri contro la popolazione".

Eppure, il 24 febbraio il Sole24ore aveva titolato: "Fosse comuni a Tripoli, paese spaccato", Per l'emittente al-Arabiya i morti sarebbero già10mila, secondo altre fonti un migliaio", e il 27 febbraio: "Bombe su tripoli, 250 morti, l'aviazione colpisce i manifestanti - Il vice ambasciatore all'Onu: genocidio". Quella che doveva essere la prova provata, il video del cimitero delle fosse comuni mostrato per giorni a mezzo mondo, si è rivelato essere vecchio e inerente ai lavori di ristrutturazione del cimitero, come precisato dall'inviato della Stampa il 26 febbraio.

Quasi sempre le notizie di massacri di civili riportate dai media si basano su lanci della britannica Reuter, a loro volta fondati su racconti telefonici di libici, ovviamente del fronte anti Gheddafi.

Le notizie di massacri sono rimbalzate via satellite attraverso al-Jazeera, riguardo alla quale Karima Moual sul Sole24ore si chiede a che giuoco stia giocando rispetto agli avvenimenti in Nord Africa e ne denuncia una "pericolosa deriva populista di stampo pro-islamico", e via internet attraverso il sito Debka, vicino all'intelligence israeliana. A tutto ciò si aggiunge la proliferazione, grazie a blog vari, Twitter e Facebook, di notizie di difficile verifica.

Il punto è che negli ultimi venti anni abbiamo avuto molte dimostrazioni di falsi fabbricati ad arte. Potremmo citare un caso analogo a quello libico, le fosse comuni di Timisoara attribuite a Ceaucescu, un altro "sanguinario dittatore", rivelatesi, a distanza di anni, un falso.

Ma il falso più famoso è certamente la prova dell'esistenza delle armi di distruzione di massa di Saddam Hussein, allo scopo di giustificare con ragioni "umanitarie" l'intervento militare occidentale.

A proposito di armi di distruzione di massa, quando Matteuzzi sul manifesto scrive il primo marzo: "Scommettiamo che se il colonnello non cade subito, ci sarà qualcuno che le trova anche in Libia?", non sa evidentemente che Quirico, sul Sole24re, le aveva già trovate il 26 febbraio.

Eccone il titolo: "Armi chimiche ‘la grande paura'" e nel testo: "Vero? Falso? Restiamo al fatto, in Tunisia già si preparano". "Si preparano", quindi è vero. Sillogismo veramente stringente, non c'è che dire.

Visti i precedenti storici, si imporrebbe maggiore cautela e, invece di arruolarsi frettolosamente nelle fila degli interventisti "umanitari" contro il "sanguinario dittatore", ci si dovrebbe chiedere cosa accade in Libia, perché si preme per l'intervento militare e, infine, perché il gruppo dirigente Usa è spaccato su questa eventualità.

Molti, anche fra studiosi di vaglia, sono stati colti di sorpresa dai fatti libici. Eppure, il professore della Dartmouth University Dirk Vandewalle in "Storia della Libia contemporanea" del 2006 prevedeva in qualche modo quello che sta accadendo.

Paradossalmente la rivolta dipende proprio dalla mancanza del presupposto di ogni dittatura, ovvero un forte Stato e dunque un saldo monopolio da parte di questo dell'uso della forza, mediante le Forze Armate.

Per decenni in Libia si è avuta una sistematica politica di limitazione e riduzione delle istituzioni statali, a favore del tradizionale tribalismo e il petrolio stesso è servito al rafforzamento delle alleanze tribali.

La Jamairya di Gheddafi non è riuscita a ricondurre le tribù nell'orbita di un'autorità statuale moderna, un po' per le difficoltà dovute all'isolamento diplomatico ed alle sanzioni Usa, un po' per l'aspirazione a realizzare un "sistema nel quale il popolo si autogoverna senza ricorrere agli apparati dello Stato moderno."

Dunque, in Libia stiamo assistendo a qualcosa di diverso rispetto a quanto accaduto in Egitto e Tunisia, dove lo scontro è stato di carattere popolare e sociale e l'esercito ha assunto il ruolo di ago della bilancia. In Libia siamo dinanzi a uno scontro tra tribù di aree diverse, Tripolitania e Cirenaica, che non si sono mai veramente amalgamate, e che hanno colto l'occasione del sommovimento in atto in Nord Africa per ridefinire i rapporti di potere e il controllo del petrolio.

Agli occhi di alcune potenze occidentali, Usa e Gran Bretagna in testa, l'occasione così creatasi è apparsa troppo ghiotta per restare a guardare. In primo luogo, la Libia ricopre una grande importanza strategica per due ragioni.

La prima è che è posizionata al centro di quella che forse è l'area più decisiva del mondo, il Mediterraneo. La seconda è che detiene enormi riserve di gas e petrolio di buonissima qualità e più vicine ed economicamente trasportabili in Europa.

In secondo luogo, questa è l'occasione buona per liberarsi di Gheddafi, colpevole di due peccati capitali, aver cacciato dalla Libia le basi militari e le compagnie petrolifere britanniche e statunitensi.

Inoltre, Gheddafi, col sostegno a movimenti di liberazione nazionale e antimperialisti dal Medio Oriente al Sud Africa all'America Latina, è stato e soprattutto continua ad essere una spina nel fianco degli Usa e di Israele.

L'obiettivo americano è, comunque, quello di ridisegnare gli equilibri in un'area che va dal Nord Africa all'Iran, dove la presa della potenza Usa si è costantemente indebolita negli ultimi anni, a seguito del fallimento della politica di Bush. A questo scopo, gli Usa stanno cercando di inserirsi nei sommovimenti in atto.

Anzi, c'è il dubbio che abbiano messo lo zampino anche nella fase delle rivolte, come dimostrerebbe l'esistenza di un progetto, riportato da Wikileaks, di liberarsi di Mubarak, ormai non più affidabile, o il ruolo di un'istituzione americana come American Freedom nel training di blogger anti Ben Alì, come riportato da Alberto Negri il 14 gennaio sul Sole24ore.

In Egitto, l'operazione di riassetto avviene attraverso le Forze Armate egiziane e il vice presidente Suleiman, che è storicamente trattino d'unione dei militari egiziani con Usa e Israele.

In Libia attraverso la frammentazione del Paese sulla base delle divisioni tribali, secondo il modello sperimentato in Iraq, attraverso il dispiegamento di una massiccia campagna mass mediatica internazionale contro Gheddafi.

Visto che, nonostante tutto, i ribelli non riescono ad avere ragione di Gheddafi, è proprio sulla linea politica da adottare in Libia che si è verificata la spaccatura all'interno della dirigenza Usa, che - paradossi della storia - avviene a parti invertite.

Mentre il segretario alla Difesa Gates, ex ministro di Bush, e i militari si sono detti contrari all'intervento, il presidente Obama, premio Nobel per la Pace e già considerato da milioni di americani ed europei come il candidato pacifista, sembra invece propenso all'azione diretta.

Gates è conscio che gli Usa non possono sostenere una terza guerra contemporaneamente, semplicemente non ne hanno i mezzi. Anche imporre una no-fly zone richiederebbe la distruzione preventiva delle difese aeree libiche, cioè la guerra.

Nella stessa occasione, alla fine di febbraio, in cui diede del matto ad un eventuale politico Usa che decidesse una nuova guerra, Gates ammise, a proposito delle guerre del recente passato degli Usa: "ogni volta ci siamo trovati a non avere neppure idea delle missioni in cui ci saremmo dovuti impegnare."

Ecco, se gli interventisti "umanitari" italiani avessero almeno un po' della prudenza di Gates non sarebbe male. A distanza di dieci anni dallo scoppio della "guerra al terrore" i risultati ottenuti dalle forze occidentali in Iraq e in Afghanistan sono catastrofici. Alcuni sembrano dimenticare che le guerre "umanitarie" non hanno portato democrazia, bensì destabilizzazione, guerre fratricide ed estremismo islamico lì dove non c'era, come in Iraq.

Senza contare i bombardamenti sui civili - questi certi-, commessi dai "volenterosi" in Iraq e dalla Nato in Afghanistan. Un intervento occidentale in Libia, avrebbe un effetto ancora peggiore, perché questa volta l'Afghanistan sarebbe alle porte di casa nostra e perché l'impatto della presenza di eserciti occidentali in Libia sarebbe devastante su tutti i Paesi arabi dell'area mediterranea.

L'Europa e soprattutto l'Italia, viste le sue responsabilità del periodo coloniale, dovrebbero evitare qualsiasi ingerenza. Invece di esacerbare i dissidi tra libici, bisognerebbe favorire una soluzione negoziata tra le parti in lotta, che, però, salvaguardi imprescindibilmente l'unità territoriale e l'autonomia della Libia.