domenica 24 aprile 2011

Libia update

Un aggiornamento sulla guerra in Libia, aldilà delle menzogne propagandate dai media mainstream...


Libia, Misurata. L'ora delle decisioni
di Alberto Tundo - Peacereporter - 21 Aprile 2011

Il Colonnello stringe la morsa mentre la città è al collasso. Al fronte intervista il compito di liberarla, sempre che interessi farlo

Si sono avvicinati troppo alla linea del fronte, i due fotoreporter uccisi mercoledì dallo scoppio di una granata. Tim Hetherington e Chris Hondros erano grandi professionisti, tra i migliori nel loro campo, ma tutta l'esperienza maturata nei tanti teatri di guerra in cui i due erano stati per lavoro, a Misurata è servita a poco.

Troppo grande la tentazione di capire e documentare l'assedio che verrà ricordato come uno degli episodi chiave di questa guerra libica e del quale, tuttavia, si sa poco.

La forze rimaste fedeli a Muhammar Gheddafi e soprattutto i mercenari che lo sono diventati a suon di dollari, cercano di prenderla ormai da un mese e mezzo.

Oltre quaranta giorni di uno strangolamento che finora, secondo fonti dell'ospedale cittadino, ha fatto un migliaio di morti e tremila feriti, vittime dei proiettili dei cecchini che le truppe gheddafiane sono riuscite a far penetrare, dei razzi Bm-21, meglio noti come Grad e delle bombe a grappolo, che in linea teorica sarebbero vietate da precise convenzioni internazionali.

All'interno della città, la terza più importante del Paese, tra le trecento e le cinquecentomila persone sono letteralmente in trappola, visto che esercito e milizie controllano le tre vie d'accesso di terra. Ai ribelli, male armati e inesperti, resta solo la zona del porto, dal quale arrivano col contagocce navi di aiuti, principalmente cibo e medicine, e anche qualche carico d'armi da Bengasi.

E il porto è anche il simbolo dell'agonia di una città, dove mancano acqua ed elettricità e si va avanti con i generatori elettrici.

Lì si sono ammassati migliaia di disperati che stanno cercando di lasciare la Libia, principalmente lavoratori dell'Africa subsahariana ma non solo. L'Organizzazione internazionale per le migrazioni ha organizzato tre viaggi in pochi giorni per portarne in salvo una parte; giovedì mattina è partita l'ultima nave con un carico di circa mille sfollati.

Che da Misurata potrebbe arrivare una svolta nella gestione del conflitto libico, lo si è capito mercoledì quando Francia e Italia hanno rivelato il prossimo invio di piccoli team composti da personale militare in aiuto ai ribelli.

Non è ben chiaro se avranno compiti di consulenza o, come pare più probabile, di addestramento ma è certo che rispetto alla fase dei soli attacchi aerei, si tratta di un passo verso un intervento militare di ben altra entità.

Lo ha capito subito il ministro degli Esteri russo, Sergei Lavrov, che ha espresso la contrarietà di Mosca: "Noi riteniamo che operazioni del genere siano estremamente rischiose e dalle conseguenze imprevedibili. Ci sono stati altri casi cominciati con l'invio di istruttori militari e che si sono trascinati per anni con la morte di centinaia di migliaia di persone".

Un no secco, quindi, ad eventuali operazioni di terra, ribadito a stretto giro anche dalla grande assente della crisi libica, l'Unione Africana e dalle Nazioni Unite, che hanno già rifiutato un'offerta di truppe di terra fatta dall'Unione Europea. "Il nostro obiettivo è quello di far sì che i nostri aiuti siano offerti con imparzialità", ha detto la responsabile degli interventi umanitari dell'Onu, Valerie Amos. Quindi, no grazie.

Per gli analisti esperti di questioni strategiche, però, per la Nato, che ha il comando delle operazioni, non c'è altra opzione che l'escalation militare, con l'impiego di elicotteri da combattimento, operazioni di terra e l'impiego della flotta navale.

La situazione è talmente drammatica che è ora che le potenze intervenute nella crisi mettano sul tavolo una strategia chiara, sulla cui esistenza è lecito sospettare. La Francia ha irrobustito la qualità della sua partecipazione, aumentando il numero delle missioni giornaliere dei suoi caccia, passate da 30 a 41 nel giro di pochi giorni.

Ma tutti sanno che una guerra non si vince con la sola aviazione. La Nato lo conferma. Martedì, il generale di brigata Mark Van Uhm ha spiegato che "c'é un limite a quello che si può ottenere con le forze aeree per fermare i combattimenti in una città. Noi ci muoviamo con molta cautela per evitare vittime civili".

L'Alleanza ha distrutto una quarantina di tank di Gheddafi, troppo poco per fermare i miliziani che possono contare su armi a lunga gittata. D'altro canto, gli strateghi del Colonnello sono stati tanto accorti da evitare di concentrare troppi soldati così da esporli alle bombe dell'Alleanza.

Si muovono con una certa fluidità, lungo il perimetro esterno e in centro, tra Tripoli street e Naki el-Thequeel, la strada che conduce al porto. Se al Colonnello riuscirà di prenderlo, Misurata cadrà in un secondo e con lei anche gli altri centri della parte occidentale del Paese in mano ai ribelli, come Nalut, Yifrayn e Zintan.

A quel punto avverrà quella partizione tra est e ovest della Libia che all'Alleanza risolverà due problemi in un colpo solo: eviterà che l'Occidente si debba sporcare le mani con eventuali liquidazioni, esilii e processi a Gheddafi e toglierà a quest'ultimo l'aura del martire, oltre che un bel pò di pozzi petroliferi.

Il sospetto che gli occidentali abbiano già deciso per la partizione, i ribelli ce l'hanno. Si sentono traditi e, impotenti, covano risentimento.


Attacco alla Libia: spiegazioni inedite ma convincenti. Vedremo se è vero
di Antonio De Martini - Il Corriere della Collera - 20 Aprile 2011

Quale può essere il fil rouge che collega tutti i paesi attaccati – e presi di mira in varie forme - dagli USA e Gran Bretagna con l’aiuto di una serie di ausiliari tradizionali più o meno consapevoli? Libia, Libano, Siria,Irak,Somalia, Sudan, Iran.

Non hanno in comune l’etnia ( Iran è ariano mentre gli altri sono semiti o – Sudan – misti).

Non hanno in comune la religione: Libano ha cristiani, l’Iran è sciita, la Siria è mista. Non il petrolio: Somalia e Siria non ne hanno in quantità significative.

Non la ricchezza: Somalia e Sudan non lo sono. Se invece vediamo il negativo, vediamo che nessuno di questi paesi figura tra i 56 aderenti alla Banca per i Regolamenti Internazionali.

In pratica sono paesi che hanno rifiuutato di far parte della comunità finanziaria internazionale e la Libia in particolare se la stava cavando molto bene:

  • Stando ai dati del FMI la Banca centrale libica possiede 144 tonnellate di oro nei suoi forzieri. Per un paese di tre milioni e mezzo di abitanti, non è niente male. L’educazione e l’assitenza medica sono gratuite; le coppie che si sposano ricevono 50.000 dollari a fondo perduto.
  • I Ribelli, ancora prima di costituire un governo provvisorio, hanno annunziato (il 19 marzo) di aver costituito la BANCA CENTRALE DI LIBIA. La Banca centrale di Libia (quella di Gheddafi per intenderci) è pubblica e non privata, stampa la moneta e presta denari allo stato senza interessi per finanziare le opere pubbliche tra cui il famoso fiume sotterraneo fatto dall’uomo che utilizza le acque fossili del Sahara per irrigare tutta l’area agricola della Libia che si trova al Nord. A proposito: l’attività agricola in Libia è esentasse. Completamente. Questa politica è l’esatto contrario di quella seguita dal mondo occidentale, che fa pagare servizi quali l’educazione e la sanità e ha privatizzato le banche centrali, che fanno pagare gli interessi agli stati quando forniscono loro i fondi.
  • La ragione ufficiale che ha spinto l’occidente a non mantenere le Banche Centrali come pubbliche è che questi prestiti aumentano l’inflazione, mentre prendere prestiti dalle Banche estere o dall FMI , non provocherebbe inflazione. In realtà prendere i denari a prestito da Banche centrali pubbliche – senza interessi – riduce grandemente il costo dei progetti pubblici di investimento e in alcuni casi li riduce del 50%.
  • Gheddafi aveva da poco lanciato la proposta di creare una moneta unica africana: IL DINARO ORO; e l’unico paese africano che si era opposto è stato il Sud Africa, proprio quello che si è presentato a Tripoli per la mediazione con i ribelli e la NATO. Su questa proposta c’è un commento di Sarkozy che l’ha giudicata “una minaccia per l’Umanità”.
  • Sia Saddam Hussein che Gheddafi avevano proposto – entrambi sei mesi prima dell’attacco – di scegliere l’Euro (o il dinaro) come valuta per le transazioni petrolifere.

ADESSO RESTIAMO IN ATTESA DI VEDERE – IN CASO DI VITTORIA DELLA NATO – SE EDUCAZIONE E SANITA’ RESTERANNO GRATUITE, SE LA BANCA CENTRALE LIBICA ADERIRA’ ALLA B.R.I. E SE L’INDUSTRIA PETROLIFERA LIBICA VERRA’ SVENDUTA A PRIVATI. Poi anche i più ingenui cominceranno ad avere sospetti.



200 miliardi fanno correre Londra e Parigi. Le vere ragioni della guerra

di Ikram Ghioua - www.lexpressiondz.com - 21 Aprile 2011
Tradotto per www.comedonchisciotte.org da Mimi Moallem

Sparsi per l’Europa, i fondi sovrani libici stuzzicano l’appetito degli Occidentali.

Nel 2004 Tony Blair, allora Primo Ministro britannico, è stato il primo Capo di Stato occidentale a recarsi in Libia, divenuta così frequentabile. E nel dicembre 2007 Parigi si è presa la briga di stendere il tappeto rosso nel parco del Marigny Hotel, dove il colonnello Gheddafi aveva piantato la sua tenda.

Cosa è cambiato da allora e che può giustificare l’accanimento di Gran Bretagna e Francia contro il regime di Tripoli quando prima andavano d’amore e d’accordo? La risposta è stata data dal quotidiano statunitense The Washington Times.

Questo stesso giornale ci ha rivelato lo scorso marzo che ci sono 200 miliardi di dollari dei fondi libici che fanno impazzire gli occidentali.

Questo è il denaro che circola nelle banche centrali, in particolare in quelle britanniche e francesi. In preda a una crisi finanziaria senza precedenti, la Francia, la Gran Bretagna e gli Stati Uniti vogliono a tutti i costi impossessarsi di questi fondi sovrani, il cui l’importo è stimato essere circa 200 miliardi di dollari.

“Queste sono le vere ragioni dell’intervento della NATO in Libia”, afferma Nouredine Leghliel, analista borsistico algerino trasferitosi in Svezia, che è stato uno dei primi esperti a sollevare la questione.

Questi 200 miliardi di dollari, di cui gli Occidentali non parlano che a mezza voce, sono al momento congelati nelle banche centrali europee. Spesso associano questo denaro alla famiglia Gheddafi, “cosa che è totalmente falsa”, sottolinea il signor Leghliel. I grandi gruppi finanziari nascondono segretamente questi investimenti nelle loro società e filiali.

“Più continua il caos, più la guerra dura e più gli occidentali traggono profitto da questa situazione che torna a loro vantaggio”, chiarisce il nostro analista. Il caos nella regione farebbe comodo a tutto l’occidente.

I britannici, soffocati dalla crisi della finanza, troverebbero così le risorse necessarie. Gli statunitensi, per mire squisitamente militari, si istallerebbero in modo definitivo nella fascia del Sahel e la Francia potrà ricoprire il ruolo di subappaltatore in questa regione da lei considerata come una sua appendice.

L’unico scoglio per la Francia, in questa regione, è ovviamente l’Algeria. Questo spiega l'aggressività del Quai d’Orsay (sede del Ministero francese degli Affari Esteri, N. d. T.) nei confronti di Algeri. Parigi sembra privilegiare le vie informali e, invece di collaborare con gli altri paesi alleati, li accusa di non fornire un sostegno sufficiente nella direzione da lei intrapresa.

Così, rimette in gioco il dossier della sicurezza dei suoi cittadini nel Sahel e si affretta a dare l’allarme sulle nuove minacce in base a un rapporto dell’ambasciata di Francia in Mali. “Esiste un rischio molto elevato di cattura di cittadini francesi in Mali e in Niger”, indica l'Ambasciata di Francia a Bamako in un’allerta pubblicato sul suo sito web.

Si potrebbe pensare che questo nuovo allarme sia attendibile per quello che riguarda la Libia, una situazione che vede la Francia sicuramente responsabile, ma dobbiamo interrogarci sulla solerzia dei francesi nel raccomandare ai propri cittadini di evitare il sud dell'Algeria.

“A causa delle attuali minacce nel Sahel, si raccomanda ai francesi residenti o in transito di evitare qualsiasi movimento nelle aree di Djanet e di Tamenrasset, anche nel contesto di itinerari turistici delle agenzie autorizzate”, sottolinea il Ministero sul suo sito web, nella rubrica “Consigli ai viaggiatori”.

La regione di Mopti si trova a più di 1.000 chilometri dalla frontiera algerina. E’ possibile trasportare, da un punto di vista logistico, uno o più ostaggi su simili distanze? Perché hanno fatto il nome dell’Algeria proprio quando questa nazione sta impiegando ingenti risorse per rendere sicure le sue frontiere con il Niger e la Libia?

La Francia, il cui ruolo in Libia è ambiguo, non sta forse mischiando le carte in tavola? La domanda merita di essere posta.
I francesi, colpiti da una crisi economica e sociale senza precedenti, impantanati nella campagna elettorale per l’elezione presidenziale, si trovano ad affrontare gravi problemi, alcuni dei quali nelle loro ex-colonie.

Ignorando gli accordi bilaterali con i paesi nordafricani e criminalizzando il pagamento di riscatto ai terroristi, Parigi interviene, facendo uso di tutte le carte in suo possesso, per far abortire le iniziative di lotta contro il terrorismo che i paesi del Sahel stanno promuovendo.

Il suo obiettivo è semplicemente quello di riprendere il controllo delle sue ex-colonie. La Francia ha una fissazione per il Sud algerino. Gioca d’astuzia per coinvolgere lo Stato algerino in una controversia avviata dal CNT libico (Comitato Nazionale Transitorio), accusando la stessa Algeria di sostenere Gheddafi.


I volenterosi puntano al fondo sovrano libico
di Manlio Dinucci - Il Manifesto - 22 Aprile 2011

L'obiettivo della guerra in Libia non è solo il petrolio, le cui riserve (stimate in 60 miliardi di barili) sono le maggiori dell'Africa e i cui costi di estrazione tra i più bassi del mondo, né il gas naturale le cui riserve sono stimate in circa 1.500 miliardi di metri cubi.

Nel mirino dei «volenterosi» dell'operazione «Protettore unificato» ci sono anche i fondi sovrani, i capitali che lo stato libico ha investito all'estero.

I fondi sovrani gestiti dalla Libyan Investment Authority (Lia) sono stimati in circa 70 miliardi di dollari, che salgono a oltre 150 se si includono gli investimenti esteri della Banca centrale e di altri organismi. Ma potrebbero essere di più. Anche se sono inferiori a quelli dell'Arabia Saudita o del Kuwait, i fondi sovrani libici si sono caratterizzati per la loro rapida crescita.

Quando la Lia è stata costituita nel 2006, disponeva di 40 miliardi di dollari. In appena cinque anni, ha effettuato investimenti in oltre cento società nordafricane, asiatiche, europee, nordamericane e sudamericane: holding, banche, immobiliari, industrie, compagnie petrolifere e altre.

In Italia, i principali investimenti libici sono quelli nella UniCredit Banca (di cui la Lia e la Banca centrale libica possiedono il 7,5%), in Finmeccanica (2%) ed Eni (1%): questi e altri investimenti (tra cui il 7,5% dello Juventus Football Club) hanno un significato non tanto economico (ammontano a circa 4 miliardi di euro) quanto politico.

La Libia, dopo che Washington l'ha cancellata dalla lista di proscrizione degli «stati canaglia», ha cercato di ricavarsi uno spazio a livello internazionale puntando sulla «diplomazia dei fondi sovrani».

Una volta che gli Stati uniti e l'Unione europea hanno revocato l'embargo nel 2004 e le grandi compagnie petrolifere sono tornate nel paese, Tripoli ha potuto disporre di un surplus commerciale di circa 30 miliardi di dollari annui che ha destinato in gran parte agli investimenti esteri.

La gestione dei fondi sovrani ha però creato un nuovo meccanismo di potere e corruzione, in mano a ministri e alti funzionari, che probabilmente è sfuggito in parte al controllo dello stesso Gheddafi: lo conferma il fatto che, nel 2009, egli ha proposto che i 30 miliardi di proventi petroliferi andassero «direttamente al popolo libico». Ciò ha acuito le fratture all'interno del governo libico.

Su queste hanno fatto leva i circoli dominanti statunitensi ed europei che, prima di attaccare militarmente la Libia per mettere le mani sulla sua ricchezza energetica, si sono impadroniti dei fondi sovrani libici.

Ha agevolato tale operazione lo stesso rappresentante della Libyan Investment Authority, Mohamed Layas: come rivela un cablogramma filtrato attraverso WikiLeaks, il 20 gennaio Layas ha informato l'ambasciatore Usa a Tripoli che la Lia aveva depositato 32 miliardi di dollari in banche statunitensi. Cinque settimane dopo, il 28 febbraio, il Tesoro Usa li ha «congelati».

Secondo le dichiarazioni ufficiali, è «la più grossa somma di denaro mai bloccata negli Stati uniti», che Washington tiene «in deposito per il futuro della Libia». Servirà in realtà per una iniezione di capitali nell'economia Usa sempre più indebitata. Pochi giorni dopo, l'Unione europea ha «congelato» circa 45 miliardi di euro di fondi libici.

L'assalto ai fondi sovrani libici avrà un impatto particolarmente forte in Africa. Qui la Libyan Arab African Investment Company ha effettuato investimenti in oltre 25 paesi, 22 dei quali nell'Africa subsahariana, programmando di accrescerli nei prossimi cinque anni soprattuttto nei settori minerario, manifatturiero, turistico e in quello delle telecomunicazioni.

Gli investimenti libici sono stati decisivi nella realizzazione del primo satellite di telecomunicazioni della Rascom (Regional African Satellite Communications Organization) che, entrato in orbita nell'agosto 2010, permette ai paesi africani di cominciare a rendersi indipendenti dalle reti satellitari statunitensi ed europee, con un risparmio annuo di centinaia di milioni di dollari.

Ancora più importanti sono stati gli investimenti libici nella realizzazione dei tre organismi finanziari varati dall'Unione africana: la Banca africana di investimento, con sede a Tripoli; il Fondo monetario africano, con sede a Yaoundé (Camerun); la Banca centrale africana, con sede ad Abuja (Nigeria).

Lo sviluppo di tali organismi permetterebbe ai paesi africani di sottrarsi al controllo della Banca mondiale e del Fondo monetario internazionale, strumenti del dominio neocoloniale, e segnerebbe la fine del franco Cfa, la moneta che sono costretti a usare 14 paesi, ex-colonie francesi.

Il congelamento dei fondi libici assesta un colpo fortissimo all'intero progetto. Le armi usate dai «volenterosi» non sono solo quelle dell'operazione bellica «Protettore unificato».


Tripoli, bel suol d'amore (di ritorno dalla Libia)
di Fulvio Grimaldi - http://fulviogrimaldi.blogspot.com - 22 Aprile 2011

Il parlamento è costituito fondamentalmente come rappresentante del popolo, ma questo principio è in se stesso non democratico, perchè democrazia significa potere del popolo e non un potere in rappresentanza di esso., L'esistenza stessa di un parlamento significa assenza del popolo. La vera democrazia non può esistere se non con la presenza del popolo stesso e non con la presenza di suoi rappresentanti. I parlamenti, escludendo le masse dall'esercizio del potere e riservandosi a proprio vantaggio la sovranità popolare, sono divenuti una barriera tra il popolo e il potere. Al popolo non resta che la falsa apparenza della democrazia che si manifesta nelle lunghe file di elettori venuti a deporre nelle urne i loro voti. (Muammar Al Gheddafi)

I membri della società jamahiriyana sono liberi da ogni tipo d'affitto. La casa appartiene a colui che la abita... La dimora non può essere utilizzata per nuocere alla società. La società jamahiriyana è solidale. Assicura a ognjuno una vita degna e prospera e uno stato di salute avanzato fino a giungere alla socsieetà delle persone sane. Grantisce la protezione dell'infanzia, della maternità, della vecchiaia e degli invalidi. La società hamahiriyana è la tutrice di coloro che non hanno tutela. L'istruzione e le cognizioni sono diritti naturali di ognuno, Ogni individuo ha il diritto di scegliere la sua istruzione e le cognizioni che gli si confanno senza costrizioni o orientamento imposto... I membri della società jamahiriyana proteggono la Libertà e la difendono ovunque nel mondo. Sostengono gli oppressi e incitano tutti i popoli a far fronte all'ingiustizia,all'oppressione, allo sfruttamento e al colonialismo. LI incoraggiano a combattere l'imperialismo, il razzismo e il fascismo in conformità al principio della lotta collettiva dei popoli contro i nemici della Libertà. (Muammar Al Gheddafi)

E non volete che un tipo così non dovesse venir fatto fuori?

Stavolta ce l’abbiamo fatta ad andare in Libia. E anche a tornare. E il mio non è un plurale majestatis. Anzittutto è un plurale di noi due, io e il mio AK-47, un Kalachnikov che di nome si chiama Sony e, anziché sparare cose, le acchiappa, le incamera perché poi si trasformino in grandine di vetriolo sulle menzogne.

In questo caso, su quella planetaria che ha indotto un mondo di boccaloni, panciafichisti, felloni di sinistra, codardi, collusi, ad assistere tra il placido, i finti turbamenti e gli intimi sfrigolii, allo sbranamento di un grande paese, alla satanizzazione di un leader migliore di chiunque altro nel mondo arabo-africano attuale e neanche paragonabile alla feccia che governa la “comunità internazionale”, all’assalto alla vita di un popolo sovrano e libero.

Ma quel noi plurale si riferisce anche, e di più, agli strepitosi cittadini britannici – British Civilians for Peace in Libya – che un po’ scudi umani, un po’ investigatori di fatti veri, un po’ combattenti per la pace, si sono mossi, primi assoluti, a superare il melmoso oceano di complicità, disinformazione, ferocia colonialista e collusione eurocentrica, per stare almeno per un po’ e con dirompente significato simbolico, accanto alle donne, agli uomini, ai ragazzi, ai bambini che resistono e che l’imperialismo, da Obama a Rossanda Rossanda, vuole morituri.

Subito dopo il 17 febbraio, quando i revanscisti del colonialismo sconfitto, mimetizzatisi tra i fiori di pesco della primavera araba, dettero ai propri ascari di Bengasi il segnale per il colpo di Stato contro l’ultimo frutto ancora vivo della prima liberazione, avevo caricato la Sony e chiesto il visto per la Libia, specificando: Tripoli. L’ambasciatore a Roma era uno di quella mezza dozzina di rinnegati e comprati dell’establishment libico che erano passati all’opzione della convenienza: “Se vuoi andare a Bengasi, subito. Per Tripoli non se ne parla”.

A Bengasi, tra tagliagole Cia di Al Qaida, reduci delle missioni Usa in Bosnia, Afghanistan, Cecenia e mille altri luoghi delle provocazioni imperialiste, decerebrati o furbastri monarchici, terroristi dei servizi occidentali, mercenari egiziani, fuorusciti libici rientrati dopo decenni di addestramento e cospirazione Cia e MI6, sguazzava buona parte della consanguinea stampa occidentale.

Aureolati di democraticismo e di vituperio per la tirannide, pendenti esclusivamente dalle labbra di chi, inetto per difetto di motivazione sul campo di battaglia, andava rastrellando, torturando e uccidendo in massa poveri operai africani immigrati, presentati ai media come “mercenari di Gheddafi” e talquali posti alla mercé del disdoro mondiale, noi avevamo squallidi pifferai, svergognati perfino dai colleghi di destra anglosassoni. Abili con le foglie di fico, costoro raccontavano anche le ombre nere dilaganti sui “giovani rivoluzionari” di Bengasi.

Superavano le vette giornalistiche dei cinesettimanali “Luce” al seguito del conquistatore Graziani e si coprivano di gloria umanitario-democratica, personaggi come Lucia Goracci (TG3), e passi, o come i “sinistri” Stefano Liberti e, ora, perfino Michele Giorgio, corrispondente del “manifesto”, che già con i due primi reportage dall’avamposto coloniale Nato, esaltato come culla di una nuovo “società civile” (solito ricettacolo di ogni schifezza collaborazionista, bulimica di pingue democrazia individuale), ha saputo disintegrare la reputazione guadagnata anni di coraggioso lavoro in Palestina. A stare con loro c’era da mettersi una tuta che neanche a Fukushima.

Aggregatomi ai 13 britannici della Spedizione di pace e di verifica dei fatti, passato dalla Tunisia in Libia e giunto a Tripoli dopo un viaggio notturno di alcune centinaia di chilometri, pesantemente rallentato da numerosissimi posti di blocco con militari e giovani civili, volontari per il controllo e la difesa di un territorio infestato da infiltrati e provocatori, ecco infranto e oltrepassato lo specchio deformante nel quale i Fuehrer di una globalizzazione della catastrofe umana, qui mai passata, riflettono la loro impostura, pirateria, necrofagia.

Si, a Tripoli e per una buona parte della Libia libera siamo stati accompagnati da giovani funzionari del governo. Ma diversamente dagli embedded ontologici di Bengasi, dei quali solo qualche inviato britannico e statunitense ha la residua onestà di ammettere l’impossibilità di muoversi se non sotto il ferreo controllo degli sgherri del golpe, qui noi avevamo la libertà di recarci ovunque desideravamo, fermarci dove ci pareva opportuno, parlare con qualunque interlocutore scegliessimo per strada, nei mercati, nelle case, scuole, ospedali.

In una conferenza stampa conclusiva, nell’Hotel Rixos, lussuoso usbergo della stampa estera, i quattro gatti residui della manipolazione mediatica britannica, berciato contro i dati da noi acquisiti e che ridicolizzavano gli stereotipi della propaganda colonialista, lanciavano alti lai contro chi ne impediva la libera circolazione.

In guerra, con i bombardieri F-16 e i missili Tomahawk sulla testa e la quasi universale doppia qualifica di giornalisti e agenti dell’aggressione, questi tromboni di Murdoch e della BBC pretendevano di muoversi come fossero lì per un reportage sul futuro turistico del paese.

Ricordo Belgrado sotto le bombe. La circolazione assolutamente libera consentitaci dall’ eccessivamente generoso “dittatore” Milosevic aveva messo sedicenti giornalisti e pacifisti in grado di comunicare ad Aviano quali fossero gli obiettivi più succulenti da colpire.

Non c’è stato giorno in cui la 'Coalizione dei volenterosi', passata da 'Alba dell’Odissea' a 'Protettore Unificato', non bombardasse Tripoli allo scopo di “salvare civili” dai massacri di Gheddafi.

Soprattutto di notte, quando il nostro sonno, durissimo dopo giornate spremute allo spasimo per raggranellare fatti e verità, non ci faceva accorgere di nulla e i resoconti di chi aveva vegliato e quelli delle tv internazionali (tutte, anche le più nemiche e bugiarde) ci stupivano con gli elenchi delle distruzioni e dei civili salvati dagli eccidi di Gheddafi grazie al loro smembramento per mano Nato.

La notte del rientro, quando i bollettini degli embedded asserivano una frontiera con la Tunisia in mano ai ribelli, mentre era tranquillamente presidiata da un popolo in armi, via dal paese mi accompagnavano gli spettri dei 7 civili appena trucidati dal “Protettore Unificato” nel sobborgo tripolino di Khellat Al Ferjan.

Invocavano che, fuori, al mondo intorpidito dal rassicurante inganno umanitario, si dicesse che loro, almeno loro che avevano contezza delle loro ossa incenerite, erano stati salvati per il paradiso di Allah da un Rafale di Sarkozy. Erano donne e bambini.

Abbiamo incontrato il popolo libico. Studenti, donne, contadini, pastori, capitribù, operai, avvocati, magistrati, mercanti, ambulanti, ministri, portavoce governativi, un popolo di militanti della libertà. Per ogni dove, nei punti strategici di città e campagne, aggregazioni di volontari, giovani e meno giovani, spesso ragazze, tutti armati, concentrati in piccole tendopoli a presidio del territorio e a sfida di scudo umano.

Al nostro passaggio, non preannunciato perché erratico a seconda delle nostre richieste, spontaneamente e con scatenata esuberanza si improvvisavano manifestazioni di determinazione alla resistenza, di vituperio per gli aggressori, di amore per Gheddafi e per la patria da lui costruita. 42 anni alla guida della Libia: scandalo antidemocratico!

La dittatura borghese capitalista, quella che si innesta a partire dalla manipolazione delle menti fin da bambini, preferisce la propria continuità, altrochè quarantennale, espressa da un pensiero unico ma con facce diverse.

Allah – Muammar – ua Libia- ua bas, lo slogan con cui una stragrande maggioranza di popolo, confermata tale anche dagli esiti militari, impegna la vita per i suoi tre valori costitutivi della Resistenza (“Dio, Gheddafi, Libia e basta”), è diventato la canzone d’amore di questo popolo, la colonna sonora di una tragedia che si è già trasformata in epica.

“Tripoli, bel suol d’amore”, sottratta a camicie nere e ascari, oggi ha questo significato. Un amore che ride sui volti e vibra tra case, tende, scuole, deserto. Un amore che riesce a far volare la vita oltre la una domanda paralizzante che, nella sua infinita accoratezza, ci ha davvero sfregiato il cuore: “Perché ci fanno questo?”

Al centro della domanda, l’Italia del baciamano, l’Italia delle colpe, l’Italia beneficiata. L’Italia i cui Tornado guidano i bombardieri sui beni e sui corpi dei figli dei 600mila massacrati da Graziani. L’Italia, i cui ratti di regime, con il pugnale del colpo alla spalla ancora sanguinante in mano, vanno a elemosinare petrolio e business ai gangster di Bengasi.

“Perchè ce lo fanno?” Ve lo fanno, fratelli libici, perché non vi siete lasciati globalizzare, perché all’élite di tagliagole che tiranneggia il mondo e ne succhia il midollo non avete lasciato campo libero per depredarvi impunemente.

Perché avete conversato e trattato con gli altri alle vostre condizioni, condizioni che non dovevano compromettere quello che per l’ONU era stato il più alto Indice di Sviluppo Umano del continente e il primato nel rispetto dei diritti umani: istruzione, sanità, casa, lavoro, anziani, maternità, infanzia, donne.

Perché avete tenuto fuori dalle palle chi veniva con la pretesa di sostituire la dittatura dei consigli d’amministrazione alla vostra forma di democrazia socialista. Perché siete quelli che ai fratelli africani e di altre parti non garantivano CIE e affini, discriminazione, esclusione, razzismo, ma lavoro e dignità. A due milioni e mezzo su sei milioni di autoctoni.

I quattro scalzacani felloni che si sono venduti alla schiavitù politica, economica, sociale e morale dell’imperialismo e che oggi “governano” a Bengasi, sono i transfughi della Cia, già spiaggiati a Washington e Londra da decenni per coltivare la presa della Libia da parte del “libero mercato”.

E sono i due ex-ministri che oggi si fingono statisti del Consiglio di Transizione che, a partire dal 2005, entrarono in attrito con Gheddafi e si videro smantellare i progetti di libero mercato, liberalizzazione, privatizzazione, globalizzazione della miseria, fine dello Stato sociale, per i quali avevano lungamente brigato con governi e multinazionali. Un attrito che nel 2010 divenne scontro aperto tra la fazione “neoliberista” e i fedeli alla linea del socialismo come da Libro Verde.

Bab el Aziza, in piena capitale, era la casa di Gheddafi. Fu bombardata da Reagan nel 1986, 100 vittime innocenti, tra cui la piccola figlia adottiva del leader. Oggi è un rudere massiccio, con urlanti ancora tutti i segni della barbarie occidentale.

Allora si doveva punire un paese che, guidato da chi ne aveva capeggiato rivoluzione, riscatto dal colonialismo italiano e dall’asservimento a Londra, inserimento nella comunità dei popoli sovrani e delle società giuste, si era costruito in nazione, riferimento, dopo Nasser e con algerini, iracheni, siriani e palestinesi, per il rinascente movimento per l’unità araba.

Abbattuto Saddam, relativamente normalizzata l’Algeria, minata da tradimenti la resistenza palestinese, accerchiata la Siria, isolato, bombardato, squartato il Sudan, consolidate con le armi e la repressione le oscene satrapie arabe vassalle, la Libia aveva volto lo sguardo al suo retroterra geografico e, già sostenitrice fattiva dei processi di liberazione nel sud del continente, con l’Unione Africana era diventata il motore del rifiuto alla nuova colonizzazione.

Ma Bab el Aziza è stata nuovamente bombardata, ridotto in macerie il nuovo edificio, colpiti i quartieri tutt’intorno. Se non fosse stato per un grande uomo, Giovanni Martinelli, vescovo di Tripoli e vicario apostolico per la Libia, non avremmo saputo di neanche un morto dell’apocalisse scatenata sulla Libia, a partire dai 40 civili qui uccisi nell’Alba dell’Odissea.

Abbiamo visto e frequentato gli scudi umani di Bab el Aziza, quelli 'comandati lì da Gheddafi', quasi che l’uomo più amato della Libia avesse adottato il modello israeliano dei ragazzi legati ai carri armati in marcia su Gaza. Lo stesso transfert usato per attribuire a Gheddafi, forte della militanza di un intero popolo, quel mercenariato che è invece praticato, con i killer seriali della Blackwater, dagli esportatori di democrazia. In Libia non c’è bisogno di mercenari.

Un popolo in armi fa sei mesi di servizio di leva, un mese all’anno di aggiornamento e addestra i suoi ragazzi e le sue giovani, fin dalle scuole, alla difesa della patria. C’erano anche questi nella grande spianata di Bab el Aziza, sotto le palme e tra i ruderi dei palazzi devastati.

E c’erano coloro che erano venuti da lontano, dal deserto, con i loro tamburi, nelle loro tende da settimane, c’erano donne a migliaia, di ogni età, ragazze velate accanto ad adolescenti in blu jeans, la gente dei sobborghi, professionisti, studenti, nomadi delle cabile.

A sfidare i serial killer del cielo notte dopo notte, un’immensa folla tumultuante, un grande palco per le canzoni di lotta e d’amore, per gli interventi e gli appelli, ogni tanto un’esplosione di slogan, foto di Muammar innalzate da sorridenti matrone con i bimbetti in braccio. Dappertutto i concatenamenti in danze antiche. Devo riandare ai primi tempi della rivoluzione bolivariana, attorno a Hugo Chavez, per ritrovare un simile concentrato di forza, di positività, di entusiasmo, di determinazione, costi quel che costi.

La rivelazione più clamorosa e inconfutabile delle criminali frodi inflitte all’opinione pubblica internazionale a giustificazione di colpo di Stato e aggressione Nato, l’abbiamo avuta nelle cittadine sul mare della periferia tripolina; Suk Jamal, Tajura, Fajlun. Qui, secondo i cialtroni dei media e i delinquenti della guerra, c’era stata la pistola fumante che rendeva inevitabile e improcrastinabile l’intervento umanitario a difesa dei civili sterminati da Gheddafi.

Qui ci sarebbero state rivolte di massa, soppresse nel sangue dal 'pazzo sanguinario'. Sono centri di decine di migliaia di abitanti, sfolgoranti di luci, fervide di attività, con spiagge sconfinate a orlare un mare incontaminato, miraggio di turisti che i villaggi turistici delle tirannie petrolifere rischiavano di perdere a favore di luoghi più raggiungibili, meno artificiali e inquinati dalla corruzione e dagli antiestetismi del vacanzierato occidentale.

Con il plusvalore dell’accoglienza di genti autentiche, ospitali, incredibilmente cordiali e rispettose. Non è solo il petrolio e la porta all’Africa che ha solleticato il tradimento interventista dei fratelli monarchi del Golfo.

Abbiamo percorso questi luoghi in lungo e in largo, a nostro piacimento, fermandoci presso chi volevamo, girando per i mercati della ricca agricoltura sviluppata nei decenni del recupero di acque sotterranee con acqua a tutti, entrando nelle case, ascoltando i racconti dei congiunti delle vittime, riprendendo le distruzioni di abitazioni.

C’era la nonna in lacrime per la morte del nipote sedicenne che andava in moschea, c’era l’ambulante che riparava scarpe, il bancarellista delle melanzane, la signora con l’hijab, il dentista di ritorno dalla nottata a Bab el Aziz, l’omino del caffè in jalabiya, l’agricoltore la cui fattoria era stata devastata da missili e da raffiche ad personam dal cielo, i capi delle tribù locali che, nella figura, nell’espressione, nelle vesti, ricordavano Omar al Mukhtar, l’eroe della trentennale resistenza antitaliana, impiccato per ordine di Mussolini.

A Tajura, Fajlun, Suk Jamal non c’è mai stata rivolta, mai un solo colpo sparato dalle forze lealiste. Tutto inventato. Come le armi di distruzione di massa e l’eccidio dei curdi con i gas in Iraq, come la pulizia etnica, Sebrenica, le bombe al mercato di Sarajevo e la strage di Razac in Jugoslavia, come Osama in Afghanistan, come l’11 settembre di Al Qaida…

Neanche un foro di pallottola a prova di uno scontro tra ribelli ed esercito, solo crateri e impatti dal cielo “no-fly”.

Ci raccontavano in tanti come in quei giorni di metà marzo, quando nel mondo si blaterava di “Gheddafi che uccide il suo popolo a Tajura, Fajlun e Suk Jamal”, da ogni dove amici e parenti terrificati chiamavano per assicurarsi di una sopravvivenza che minacciava di annegare nella mattanza gheddafiana.

E, stupefatti, gli veniva risposto che non era successo niente, che tutto era calmo. La stessa risposta non l’avrebbero più potuta dare allorché, pochi giorni dopo, a salvarli dalla carneficina, giunsero dal cielo i primi 110 missili all’uranio, ormai divenuti migliaia con la media di 150 incursioni al giorno, e le raffiche dei 6000 colpi al minuto, tutti all’uranio, dai C-10 e C-130. Armi di distruzione di massa da far operare per secoli su popoli in eccesso.

E se ci vanno di mezzo anche i mercenari di Bengasi, chissenefrega. Domani in Libia, come in Iraq, o Afghanistan, non ci saranno che gli scagnozzi spendibili dell’élite.

Nel profondo Sud, tra dune rosse e distese coltivate, a Beni Walid, ci accolgono i capi della più grande tribù libica, i Worfalla, schierata integralmente con il governo legittimo, come tutte le altre tranne qualche defezione in Cirenaica e di minoranze sparse. Superano il milione e mezzo, quasi un quinto della popolazione e si dicono pronti alla difesa all’ultimo sangue, fosse anche, come probabilmente sarà, in una guerra di lunga durata.

Ne hanno la memoria, la coscienza e la determinazione, ereditate dai trent’anni di indomata lotta al colonizzatore giolittiano e mussoliniano e dalla rivolta contro il monarchico fantoccio insediato da Churchill, il cui erede ora, da Londra, conta sulla restaurazione vaticinata dalle bandiere “rivoluzionarie” dei rivoltosi.

Il nostro pranzo e poi il confronto con gli anziani dei Worfalla richiama qualcosa tra lo sgranato repertorio dei cinegiornali Luce e la trasposizione cinematografica della vita e lotta di Omar al Mukhtar nel “Leone del deserto”.

Sui cuscini lungo le pareti della grande aula magna dell’Istituto di Alta Tecnologia Elettronica, tutte armate di fucile le figure ieratiche di antichi beduini, dai volti come scolpiti nel legno dei loro ulivi, ci accolgono con la dignità dei forti e dei consapevoli, quella che non si separa dal calore e dall’affettività.

Immaginiamo un raffronto con una parata di notabili alla Montecitorio. Ed è ancora un racconto di resistenza, di inimmaginabile e sofferto stupore per “l’amica Italia”, di non prevalebunt all’indirizzo degli avvoltoi che si affacciano sulla Libia e si vorrebbero lanciare sulle sue spoglie.

Qualcuno, anziano, ricorda con affetto un maestro italiano dell’epoca coloniale. Lo fa per gentilezza, per attenuarci la vergogna che abbiamo espresso sui crimini del nostro paese. Un connazionale imbecille se ne fa forte per cianciare di colonialismo italico benefico, di “italiani brava gente”. Un terzo del popolo libico ucciso nei lager e con i gas lo mette a tacere.

Ci portano nella sede della locale squadra di calcio e sulle bocche saltellano i nomi di Baggio,Totti, Cassano, della Roma, della Juventus. Ci regalano le maglie della squadra, seconda in serie B. I giocatori si son fatti attivisti del soccorso ai profughi di Misurata, città martire dell’ostinazione colonialista degli intrusi e dei loro ausiliari locali.

Di là dal mare non si parla che di civili sparati dai imilizianii di Gheddafi. Ma non è da costoro che sono fuggite queste 400 famiglie di Misurata. Piuttosto dalle incessanti incursioni a casaccio sulla città e dai barbuti salafiti che dagli umanitari giunti nel porto ricevono soccorsi sotto forma di lanciarazzi e mortai. Negli spogliatoi della squadra si accumulano i viveri e il vestiario portati ai profughi dagli abitanti della zona.

Scuole primarie, scuole superiori, scuole con ragazzi e con ragazze. Non perdono un’ora di lezione, neanche sotto la gragnuola di bombe, i grandi sono in divisa, hanno tutti fatto un corso di addestramento alla difesa, sanno tutti maneggiare armi leggere e pesanti. Curiosamente, in ogni scuola è una donna, anche abbastanza matura, che tiene questi corsi.

Non ce n’è uno che non si dica pronto a difendere il paese. “Che scendano a terra e se la vedranno con tutto un popolo”.

Lo sanno cosa li aspetta, quelli della neocostituita truppa d’invasione europea, Eufor, che si apprestano ad assicurare “corridoi umanitari” per l’occupazione militare e lo squartamento della Libia?

La Russa ha pronto i tricolori da bara e il raglio da compianto per nuovi nostrani “difensori della pace” e “guardiani contro il terrorismo” che rientrano con i piedi avanti? All’uscita, nel tripudio delle scolaresche, nella loro foga giubilante, ma anche disperata, per convincerci della verità, saettano dalla canna dell’istruttrice raffiche di colpi. Tanti punti esclamativi al cielo.

Anche nell’incontro con il viceministro degli esteri, Khaled Khaim, con i medici dell’Ospedale, con competenti giornalisti dalla sapienza geopolitica e giuridica al paragone della quale tanti dei nostri fanno la figura dei peracottai, con i rappresentanti delle associazioni nazionali dei magistrati e degli avvocati, con il brillante e popolarissimo portavoce ufficiale del governo, Mussa Ibrahim, il messaggio che ci viene chiesto di universalizzare è quello della pace, del dialogo, della conciliazione.

Perchè non arriva ancora quella maledetta commissione d’indagine, dell’ONU o di qualsiasi gruppo di buona volontà, ad accertarsi di vittime vere e vittime false, di ragioni buone e di ragioni cattive e di cosa vuole la gente?

Quella commissione che, sventrando la muraglia di bugie dei media, avesse la decenza giuridica primordiale di accertare fatti che si vorrebbero meritevoli di punizioni letali. Di Gheddafi nella zona oscura del pianeta si riportano solo “le minacce”.

Alcuni dei più potenti eserciti del mondo minacciano e poi attaccano un paese sovrano, facendosi scudo delle truculente quanto grottesche accuse di una banda di vendipatria prezzolati, ma sarebbe Gheddafi che ci minaccia, magari lasciando andare ai nostri sacri e incontaminati lidi coloro cui aveva dato lavoro e benessere e che dalla guerra Nato sono stati trasformati in animali da soma del libero mercato.

A Tajura abbiamo incontrato un capannello di migranti dai paesi sub sahariani. Non erano mai stati rinchiusi in lager, avevano perso il lavoro per la chiusura delle imprese nazionali ed estere, spesso cinesi, aspettavano un modo per fuggire alla guerra, chissà dove.

Erano preoccupati e impauriti. Serpeggiavano tra la gente, riferivano, sentimenti diversi dalla cordialità e fraternità con cui erano stati accolti. Frutto dei traumi di chi si sente improvvisamente bandito, diffamato, osteggiato, isolato dal mondo e perfino dai governi di questi migranti, rimasti, quale impassibile, quale complice, davanti al manifesto progetto di distruggere un paese pacifico e libero.

Padre Giovanni Martinelli, vescovo di Tripoli, è stata l’unica voce, riportata con volume assai basso dai media falsi e bugiardi e solo perchè prete e cattolico e vicario del papa, che ci ha parlato delle stragi di civili per mano nostra, occidentale. Testa quadrata da contadino della montagna, occhi vispi e sorridenti, eloquio tutto fuorchè profetico, ma altrettanto appassionato, ci accoglie nel giardino della sua grande cattedrale, punteggiata da tanti San Francesco.

Pochi giorni prima era successo un fatto senza precedenti: dal rappresentante della chiesa cattolica, vicario di un papa che se non aveva benedetto il crimine di guerra, neanche si era espresso in difesa della Libia, si erano recate decine di donne musulmane a chiedergli un intervento per la pace, a fidarsi di lui perché raccontasse al mondo una verità, un’afflizione, una speranza, che tutte venivano calpestate dai trombettieri dei “cani di guerra”.

Martinelli ci conferma una volta di più che i conclamati massacri di Gheddafi non c’erano mai stati, che giornalmente gli veniva dato conto degli sforzi dell’esercito di non coinvolgere civili nella battaglia e che proprio questo determinava ritardi e difficoltà nella riconquista dei centri occupati dai ribelli. I morti a Misurata erano 285 in oltre un mese di scontri, dei quali solo pochissime donne. In attacchi indiscriminati su centri abitati la media delle vittime donne è statisticamente il 50%.

Non avanzava cautele curiali, questo sacerdote innamorato del suo popolo, cristiano o islamico che fosse e da 40 anni al suo servizio, nel descriverci Gheddafi e la sua Libia. Un paese che non aveva accettato di sottomettersi, che si era impegnato per l’unità dei popoli, fuori da ogni manomissione e dominio esterni, che aveva garantito a tutti benessere, sicurezza, dignità e una capillare partecipazione ai processi decisionali.

Gheddafi avrà potuto fare errori, magari attribuibili a un entourage non ben selezionato, ma nessuno poteva negargli il riconoscimento di aver cacciato reazione e reazionari, colonialisti e neocolonialisti e di essersi dedicato al suo popolo con una generosità e un’intelligenza che nella regione dei servi e proconsoli dell’imperialismo non ha il più lontano paragone. Come non ce l’ha, aggiungo, con proprio nessuno dei democratici capi-regime della “comunità internazionale”. E questo è quanto basta per sapere dove schierarsi.

L’Unione Sudafricana è intervenuta con una concreto e credibile piano di pace. Così hanno sollecitato fin dall’inizio i governi non contaminati dell’America Latina. Così hanno ribadito con la forza del loro peso economico e demografico, i BRICS: Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica. Gheddafi ha proposto un cessate il fuoco supervisionato da osservatori internazionali, corridoi umanitari veri, elezioni per verificare la volontà del popolo.

Voci, proposte, della razionalità, della giustizia, della pace, che non hanno neanche lambito le froge dei cavalli dell’apocalisse. La voce dell’altra parte è una non-voce. Anche per Rossana Rossanda. Hanno risposto insistendo sulla rimozione di Gheddafi, su un suo esilio là dove potrà più agevolmente raggiungerlo il solito sicario del Mossad.

“Non si illudano i fautori della rinuncia di Gheddafi e del suo esilio. Un leader non può rinunciare quando è un popolo a chiedergli di restare. Ma, a parte questo, Gheddafi non è tipo da arrendersi, è un beduino, combatterà fino alla morte”. Con lui, la Libia, vedrete. Il piccolo prete dalla testa quadrata di contadino e dagli occhi sorridenti ha congedato un gruppo di visitatori in lacrime.

Il resto più in là, soprattutto nel nuovo documentario “MALEDETTA PRIMAVERA - Arabi tra rivoluzione e controrivoluzione” in uscita a fine maggio.


Le minoranze etniche nel conflitto libico
di Vitalij Trofimov - www.eurasia-rivista.org - 18 Aprile 2011

I Tuareg sostengono Gheddafi, mentre gli Amazigh stanno con gli oppositori.

Gli interessi dei Tuareg sono sempre stati nel sud— a differenza della gente amazigh, che ha studiato in Europa e ha costantemente coordinato i propri sforzi con Parigi. E’ per questo che il passaggio con Gheddafi era abbastanza logico. Non è comunque chiaro quanto efficiente sarà la contro azione delle «selvagge divisioni dei Tuareg» contro la «guerriglia urbana» degli Amazigh, specialmente essendo stati privati del supporto dell’aviazione libica. I Tuareg hanno comunque la superiorità numerica ed una gerarchia sociale meglio definita — che potrebbe tornare utile non solo durante la guerra, ma anche per il supporto politico — e che gioca a favore di Gheddafi.

L’insurrezione in Libia ed il bombardamento della NATO ha messo in risalto l’eterogeneità della società libica. Sin dal colpo di stato militare del 1969 la Libia non ha mai cercato di porre in essere il suo progetto nazionale — è per questo che la diversità etnica del paese è rimasta invariata ed i gruppi etnici hanno deciso di inseguire i loro interessi nel conflitto: alcuni dei quali stanno dalla parte dei lealisti, gli altri hanno deciso di unirsi all’opposizione, cercando i propri profitti.

Il gruppo etnico Toubou — gente di grande resistenza — si è dimostrato essere l’etnia meno attiva. Le tribù semi-nomadi — abitanti delle regioni desertiche sud-orientali del paese allevatori di vacche, raccoglitori e contadini — sono sempre rimasti estranei a qualsiasi conquista conquista.

Né egiziani, né nomadi berberi, né bizantini, né arabi sono intervenuti contro queste etnie negroidi dal ritmo di vita misurato, e non hanno mai provato ad imporre loro la civilizzazione o abituare i Toubou alla tecnologia.

Nonostante il fatto che i loro compagni cadiani stanno partecipando attivamente nella vita politica del paese ed alcuni leader toubou sono anche stati presidenti del Ciad, i libici semi-nomadi hanno sempre evitato le battaglie politiche libiche. Il conflitto libico contemporaneo non ha interessato nemmeno le etnie negroidi.

Questo, però, non può essere detto dei berberi, che hanno partecipato attivamente alla guerra civile libica. Lo stile di vita tradizionale è molto diffusa fra loro, così come lo sono le connessioni familiari delle tribù e le faide sanguinose — tutto questo ha reso terreno fertile alla partecipazione dei berberi nelle guerre.

Il problema berbero ed il suo pretesto europeo per i paesi magrebini

I berberi — rappresentati da dozzine di gruppi etnici presenti in Marocco, Algeria, Tunisia, Libia, Niger, Mali ed Egitto — sono la popolazione nativa dei paesi del Nord Africa. Ci sono grandi comunità berbere anche in Francia, Spagna e Olanda.

Nonostante le lingue diverse — che sono generalmente legate alle lingue semitiche — in senso razziale i berberi sono associati al gruppo sud caucasico. Le conquiste arabe nel Maghreb hanno modificato appena i tratti razziali dell’area, ma hanno influenzato in maniera considerevole la cultura delle popolazioni native.

Attraverso l’ottavo secolo la forza dei conquistatori arabi ha reso possibile solamente la conquista del 2% della popolazione africana della costa mediterranea, anche se una diffusione attiva del Islam ed un tipo di vita stabile tra i pagani causò subito la diffusione dell’identità arabo-musulmana tra la popolazione.

Tutt’ora possiamo sentire opinioni su come un’intera popolazione del Nord Africa sia berbera in una certa misura. Il leader libico — proprio come la maggior parte dei governanti magrebini — ha radici berbere, di cui va fiera la classe dirigente.

In passato, i berberi possedevano molti stati propri, in particolare: Marinid, Zayyanid e gli stati Hafsid, i cui bordi coincidevano quasi completamente con gli odierni Marocco, Algeria e Tunisia.

L’ultima roccaforte di uno stato berbero — la Repubblica confederativa del Rif creata nel 1921 in seguito alla Battaglia di Annual — è stata abolita in 5 anni, quando i duecentomila uomini dell’esercito franco-spagnolo, guidato dal Maresciallo Petain, invasero la repubblica usando armi chimiche. Nel caso della Libia, i berberi sono anche una «nazione eponima», dando al paese il nome di una certa tribù berbera — Livs.

A dispetto di un enorme contributo berbero nella vita politica dell’Africa araba, le loro tribù non arabizzate non hanno autonomia — a volte nemmeno culturale — essendo però la maggioranza etnica. Tutti i tentativi di guadagnare sovranità vennero brutalmente soppressi.

La Francia, per esempio, ha conquistato l’Algeria nel 1830 (il Marocco e Tunisia seguirono poco dopo) garantendo ai berberi un’opportunità di studiare nella loro lingua. Erano soggetti a diverse procedure legali più che gli arabi, tuttavia il Cattolicesimo e il modo di pensare occidentale fu impiantato nella mente dei loro scolari — l’obiettivo dei colonizzatori era quello di creare un’identità euro-berbera che giocasse un ruolo importante in caso di rivolte arabe nelle colonie.

In seguito questo ha portato i berberi a guidare il Fronte di Liberazione in Algeria — il loro malcontento era dovuto alla politica di assimilazione.

I paesi liberati del Maghreb di solito mantengono la politica dell’arabizzazione. Anche se il problema berbero era ancora caratteristico di qualsiasi paese del Nord Africa, e veniva risolto in modo diverso in ogni paese.

Nonostante gli estesi diritti berberi in Marocco, per esempio l’opportunità di pubblicare la letteratura in lingua berbera, trasmettere programmi radio e televisivi, il paese affronto numerose rivolte berbere durante il primo anno della sua indipendenza (1956–1970).

I nativi berberi non erano disposti a riconoscere l’autorità dell’elite del Marocco arabo. Costanti nomine di berberi nei ranghi superiori dell’esercito e del governo aiutarono a risolvere il problema. Oggi il Marocco conduce una politica nazionale flessibile, combinando gli elementi dinastici ed elitisti con una politica di approccio multi-culturale.

In Tunisia le tribù berbere rappresentano l’1% della popolazione. Hanno accettato e quasi completamente assimilato lo stile di vita urbano.

In Algeria il problema berbero era particolarmente acuto. Negli anni ’90 il Fronte Berbero della Liberazione nei paesi del Maghreb ravvivò le sue attività in quattro stati delle regioni — il movimento veniva fondato a Parigi ed il suo obiettivo era l’auto-determinazione berbera, anche se di fatto veniva impiegato per fare pressione sui paesi del Nord Africa a seconda degli interessi regionali dell’Unione Europea (Francia in primis).

Il punto più alto del movimento berbero della liberazione erano le danze e le canzoni dimostrative che venivano eseguite per le strade algerine — insieme ad atti di disobbedienza civile e confronti con la polizia, questo periodo veniva chiamato «la primavera berbera».

Nel 1991–1992 il Presidente algerino decise una serie di compromessi con gli studenti berberi e ammorbidì le politiche di arabizzazione, accettando la cultura berbera nelle università statali.

Il movimento berbero aveva anche una dimensione socio-politica: indicava il conflitto tra i giovani politici «dai confini» e l’intellighenzia berbera, che si schierava con la parte francofona. Questi principi erano le fondamenta per la loro richiesta di indipendenza dall’Algeria. La regione rocciosa dell’Algeria, chiamata Grande Kabylia, era il centro della resistenza.

Fin dal gennaio 1992 l’Algeria era in stato di emergenza, per via degli Islamisti, che vinsero alle elezioni del 1991 ed iniziarono una guerra contro l’intellighenzia filo-francese, in altre parole i berberi, avendo trasformato la Grande Kabylia in zona ribelle, combattendo per una maggiore autonomia e riportando la zona in mano islamista.

I tentativi di mettere gli uni contro gli altri gli islamisti ed i berberi è una caratteristica di tutte le elite politiche del Maghreb, dal momento che i Berberi si sono dimostrati assolutamente reticenti alle idee politiche islamiste.

Il 4 settembre del 1995, il congresso internazionale degli Amazigh (IAC) prese luogo — era stato organizzato con un certo aiuto da parte di Parigi. L’obiettivo del Congresso era di ottenere i massimi diritti politici e socio-economici per le minorità berbere in ogni paese della resistenza. Questo ha causato un’altra fase di problemi berberi nei paesi magrebini (e soprattutto in Algeria).

La Francia era interessata a guadagnare accesso a depositi di petrolio nelle province algerine di Tizi Ouzou e Bejaia che hanno costituito la storica regione della Grande Cabilia. Oggi è ovvio, che la Francia era anche interessata al petrolio delle regioni libiche, al quale avrebbe potuto accedere attraverso il popolo libico Amazigh.

A risposta di questo, i circoli conservatori algerini hanno ristretto le politiche di arabizzazione ed islamizzazione, avendo fatto nascere dei movimenti radicali berberi — come l’Alleanza per la Cabilia libera ed il Movimento armato berbaro.

Nel 2001 le autorità diedero un severo provvedimento alle proteste dei berberi — secondo i dati ufficiali, ci sono state 60 vittime. Le autorità algerine iniziarono ad opprimere i berberi radicali e molti berberi fuggirono in Libia, essendo spaventati dalla persecuzione.

Gli Amazigh appoggiano l’opposizione libica

In Jamahiriya i berberi sono rappresentati da due grandi gruppi etnici, che formano quasi il 10% della popolazione totale. La forma di governo libico non ha mai accennato ad alcun tipo di politica nazionale, anche se la parola «Jamahiriya» contiene la radice «nazione» in forma plurale.

Gli Amazigh sono una delle tribù berbere, vivono in un’area ristretta a est di Tripoli, vicino alla città di Az-Zawiyah. L’attività del IAC fra I berberi della Libia settentrionale non era limitata dallo sviluppo della cultura e della lingua — pubblicizzò anche una certa agenda politica.

Il rinforzo del personale della cellula libica avvenne in Algeria dopo gli eventi del 2001, quando i rifugiati berberi arrivati in Libia dalla Grande Cabilia — avevano un’indispensabile esperienza di resistenza armata.

Attraverso i canali del IAC, gli agenti segreti europei ed israeliani sono arrivati in Libia. Quindi l’11 gennaio del 2011 l’Organizzazione di Sicurezza Esterna libica ha annunciato di aver arrestato due libici di origine berbera con l’accusa di spionaggio. Secondo i comunicati sono stati arrestati per «spionaggio a favore di una certo servizio segreto estero». Arresti di questo tipo avvenivano regolarmente.

Il 16 marzo, si sviluppò un disordine berbero ad Az-Zintan e Er-Ragub nel distretto di Al Jabal Al Gharbi nella parte occidentale del paese — fin dal primo giorno i ribelli hanno espresso solidarietà agli oppositori.

Molti leader amazigh hanno partecipato attivamente alle attività del IAC nel territorio libico, mentre i loro emissari hanno visitato regolarmente la sede principale a Parigi. Due giorni dopo un bombardamento dell’aviazione libica ha indebolito in modo significativo i ribelli berberi.

Le tribù amazigh affini e parzialmente assimilate nell’est del paese — Darsa, Jawaahir e molte altre — avanzano le loro richieste a Gheddafi, sostenendo che lo sviluppo del loro territorio non è mai stato finanziato, mentre le autorità si preoccupavano solo dello sviluppo dell’industria petrolifera.

Hanno limitato le loro attività al lento raduno della resistenza. Data l’indefinita identità arabo-berbera, una bassa densità di popolazione, un basso livello di urbanizzazione e l’isolamento da Tripoli, lo IAC non ha potuto condurre una preparazione approfondita nelle province orientali.

I Tuareg si schierano con Gheddafi

I Tuareg — etnia berbera, che abita nei distretti sud e sud-est del paese (da Ghadames a Capo Gata), principalmente nell’altopiano Tinghert e nella zona occidentale della provincia di Idehan Ubari — assumono un comportamento diverso. Fin dall’inizio della guerra civile, hanno supportato il regime di Gheddafi e dal 6 marzo hanno iniziato a rimpinguare i ranghi dei suoi leali guerrieri.

I media occidentali hanno etichettato i Tuareg come mercenari, anche se non è del tutto corretto. A differenza dei coltivatori amazigh, i Tuareg sono un popolo nomade: sono gli operatori commerciali degli scambi trans-sahariani sin dal Medioevo.

Sfruttando i legami familiari e tribali, i Tuareg effettuano scambi di merce e risorse umane con Libia, Mali, Niger, Algeria e Burkina-Faso.

Molti tuareg hanno parenti in altri paesi e possono passare molto tempo in ognuna di queste nazioni — hanno anche una certa libertà di movimento, non pagano tasse e non hanno relazioni legali con i paesi elencati, quindi, quando si parla di Tuareg, termini come «cittadinanza» o «mercenari» non hanno gli stessi significati che vengono usati dagli esperti di legge europei.

All’inizio di marzo divenne noto che circa 40 camion si stavano spostando verso la Libia attraverso l’Algeria (un tradizionale percorso commerciale) e che circa 2300 persone avevano lasciato la regione del Kidal nel Mali durante l’ultima settimana — tutti diretti in Libia.

Muammar Gheddafi è stato molto attento ai problemi dei Tuareg, la possibilità di attrarre i Berberi del sud per reprimere la ribellione è stata possibile non solo grazie a donazioni in denaro, ma anche grazie a vecchie connessioni personali tra il Colonnello ed i leader della tribù tuareg.

Negli anni ’70 speciali unità mobili militarizzare erano state create per i Tuareg — dovevano rendere conto solo a Gheddafi, conducendo missioni nel Ciad, in Sudan e Libia. In seguito allo smantellamento della legione negli anni ’80 i soldati berberi divennero l’unità principale delle forze armate libiche.

Durante gli spostamenti i Tuareg ricevettero aiuti umanitari e grazie alla politica panafricana del leader libico gli era possibile attraversare e fare scambi con un grande numero di paesi — in alcuni dei quali gli erano persino concessi diritti speciali e privilegi commerciali (Niger, Mali).

Grazie soprattutto al supporto dei Tuareg da parte del governo libico, le attività del IAC fallirono. Gli interessi dei Tuareg sono sempre stati nel sud — a differenza degli Amazigh, che hanno studiato in Europa e hanno costantemente coordinato i propri sforzi con quelli di Parigi. E’ per questo ch’era abbastanza logico per i Tuareg schierarsi con Gheddafi.

Non è ancora chiaro quanto sarà efficiente la contromossa delle «divisioni selvagge tuareg» contro «la guerriglia urbana» degli Amazigh, specialmente essendo privati del supporto dell’aviazione libica. I Tuareg hanno la superiorità numerica ed una migliore gerarchia sociale — che potrebbe rivelarsi utile non solo durante la guerra, ma anche come supporto politico — il che gioca a favore di Gheddafi.


Aiuti agli insorti
di Marco Cedolin - http://ilcorrosivo.blogspot.com - 21 Aprile 2011

Già prima che l'insurrezione infiammasse la Cirenaica, manipoli di truppe scelte occidentali, con alla testa gli inglesi dei SAS, operavano segretamente in loco, con lo scopo di addestrare ed organizzare militarmente le fila dei ribelli.

Contemporaneamente, in maniera non ufficiale, alcuni paesi occidentali, Francia e Gran Bretagna in primis, rifornivano gli insorti di armi ed automezzi che avrebbero dovuto consentire loro di marciare vittoriosamente fino a Tripoli.

Ora che la guerra civile in Libia si trascina da settimane, senza che gli insorti abbiano guadagnato metri di terreno o credibilità, nonostante la copertura aerea e la propaganda mediatica gentilmente offerte dall'occidente, s'impone un cambio di strategia.

I paesi occidentali inviano ufficialmente elementi di spicco dei propri eserciti, con il compito di addestrare gli insorti e perfino l'Italia, come annunciato ieri dal ministro La Russa, provvederà a mandare in Libia 10 istruttori militari, nella speranza di trasformare i manipoli di ribelli in rotta, in un'armata senza paura che provveda alla cacciata di Gheddafi......

Allo stesso scopo, su richiesta di un fantomatico governo ombra denominato pomposamente Consiglio nazionale degli insorti e prontamente riconosciuto come legittimo dal nostro paese, alcuni stati occidentali stanno apprestandosi a rendere ufficiale anche il rifornimento di armi e mezzi contro pagamento in petrolio, che prima avveniva segretamente, facendolo diventare ovviamente più copioso.

L'impressione però è che non basti prendere una macchina scassata dallo sfasciacarrozze, riempire il serbatoio di benzina e assoldare il team di meccanici della Ferrari, per vincere il campionato del mondo di Formula Uno.

Anche addestrata ed armata fino ai denti, quella degli insorti rischia di rimanere un'armata Brancaleone che continuerà ad infrangersi contro lo scoglio rappresentato dall'esercito fedele a Gheddafi, senza oltretutto godere dell'appoggio di larga parte della popolazione.

E portare a termine una rivolta popolare, senza essere sostenuti dall'appoggio del popolo, risulta impresa assai ostica oltre che originale.

Se l'occidente vuole veramente cacciare Gheddafi, per appropiarsi della Libia e delle sue risorse, dovrà rassegnarsi presto a cambiare strategia. Far scendere i propri eroici soldati dagli aerei e dalle navi, dove bombardano comodamente seduti con in mano il joystick della playstation e mandarli in massa in terra di Libia, a combattere, sudare, ammazzare e venire ammazzati.

Dovrà insomma gettare la maschera, evitare di nascondersi dietro un dito, manifestare apertamente le proprie ambizioni imperialiste ed accettare la fila di bare che tornano a casa ogni settimana.

La guerra per procura è comoda, ma questa volta non funziona e nei piani alti della Nato dovrebbero essersene accorti da tempo, ma forse il vero problema consiste nel decidere una volta sbarcati in Libia chi dovrà entrare a Tripoli per primo?


La sovranità politica passa attraverso l’energia
di Francesco Bevilacqua - www.ilcambiamento.it - 22 Aprile 2011

Una delle chiavi della politica internazionale è il possesso delle fonti energetiche. L’Italia, pur muovendosi bene su questo terreno, non può essere considerata un giocatore di primo piano. Perché allora non pensare a una strategia che parta dall'energia pulita per determinare il peso politico di un paese?

Da sempre abbiamo scelto la compagnia di partner abbastanza 'scomodi', dalla Libia di Gheddafi alla Russia di Putin

Quello energetico è sempre stato uno dei campi su cui si disputano le partite più importanti in tema di geopolitica e di rapporti fra blocchi. La situazione odierna rende poi il discorso ancora più interessante: da un lato abbiamo uno scacchiere internazionale più che mai incerto, con una parte del mondo arabo in subbuglio, rapporti fra le potenze occidentali e paesi che stanno emergendo sempre più prepotentemente dal punto di vista politico ed economico.

Dall’altra, stiamo giungendo al momento in cui al problema energetico si dovrà trovare una soluzione: picco del petrolio prossimo o addirittura già superato, andatura singhiozzante del “mercato” delle fonti pulite e rinnovabili (ultima evoluzione in ordine di tempo, il decreto Romani), eventi che rimettono in forte discussione tematiche che, almeno in alcune zone, sembravano già archiviate (vedi il nucleare e il disastro di Fukushima) rappresentano elementi che fanno capire quanto sia urgente chiarirsi almeno le idee in merito a cosa succederà nel campo dell’energia nei prossimi decenni.

La politica energetica italiana, contrariamente a molti altri aspetti del nostro modo di porci sullo scenario internazionale, è sempre stata mirata a far conquistare al nostro paese un posto al sole, sin dall’epoca di Mattei, il primo grande persecutore dell’autosufficienza energetica.

Da sempre abbiamo scelto la compagnia di partner abbastanza “scomodi”, dalla Libia di Gheddafi alla Russia di Putin. Congelando momentaneamente le riflessioni su fonti alternative e autonomia energetica, è interessante definire meglio questo aggettivo – scomodi – che identifica i nostri principali fornitori.

Nella fattispecie, chi trova sconveniente il fatto che l’Italia intrattenga relazioni così cordiali con paesi considerati ostili – a cui si aggiunge l’Iran, verso il quale lo stesso Scaroni, confermato amministratore delegato di ENI, ha dichiarato di guardare per il futuro – sono diversi esponenti americani, dal vecchio ambasciatore Ronald Spogli al sottosegretario Reuben Jeffery, passando per Elizabeth Dibble, che ha usato parole dure nei confronti di Berlusconi e del suo scarso tatto.

Spogli, intercettato da Wikileaks nel 2008, ha dichiarato la sua ostilità nei confronti della Russia e di conseguenza il suo disappunto nel sapere che le relazioni fra Putin e Berlusconi sono così fitte; usando la scusa della preoccupazione per la dipendenza energetica dell’Italia verso i russi, ha mascherato l’ostilità nei confronti di un rapporto che sancisce di fatto una liason fra un paese amico, l’Italia, e uno nemico, la Russia, con le conseguenze che ci si può immaginare.

Ancora più adirate sono le parole di Jeffery, sempre “beccato” dal sito di Assange, che chiama in causa anche l’Iran, ricordando a Scaroni che il paese persiano è sottoposto a sanzioni da parte dell’ONU e che il Congresso intende inasprire tali misure.

Peccato che lo studio di fattibilità prospettato dall’Eni non violi alcuna normativa e le parole del diplomatico americano suonino più come un anatema di chi capisce che la situazione gli sta fuggendo di mano che come una minaccia fondata.

Per quanto sia un’opportunità sicuramente migliore rispetto al soggiogamento al potere americano, la dipendenza energetica, più o meno completa, da un paese estero non è mai una soluzione piacevole, soprattutto se si basa su una risorsa il cui futuro è caratterizzato da un grande punto interrogativo.

Ecco quindi la domanda che dovremmo porci: anziché investire tanto nella costruzione di rapporti di partenariato con fornitori di combustibili fossili, non sarebbe più sensato dirottare queste risorse verso un piano di transizione ben studiato e capace di rendere l’Italia energeticamente autosufficiente o almeno di pari grado rispetto ai paesi che oggi nel mercato dei combustibili la fanno da padrone?

Molti pensano che esista una relazione inscindibile fra la capacità energetica di una nazione e il suo peso politico a livello internazionale. In effetti attualmente è così, poiché l’unica risorsa energetica contemplata è quella derivante dalle fonti fossili.

E allora perché non immaginare un mutamento non solo delle abitudini energetiche degli italiani, ma anche dell’autorevolezza che l’Italia stessa potrebbe conquistare nel mondo in un prossimo futuro stilando un piano davvero lungimirante e ponderato?

Che la via per l’affermazione politica passi anche, se non soprattutto, attraverso lo sviluppo di un sistema energetico nuovo, sostenibile, pulito e rinnovabile, piuttosto che attraverso la tessitura di fitte trame con questo o con l’altro paese fornitore?

Trame che, inevitabilmente, hanno sempre l’effetto di inimicarsi la parte avversa, come abbiamo dedotto da una breve analisi delle dichiarazioni dei diplomatici americani.

Si tratta anche di un discorso di sovranità: è inaccettabile che la diplomazia di un paese straniero si intrometta nel rinnovo della dirigenza dell’ente energetico più importante solo perché la sua politica è vicina a quella di paesi “canaglia”. Se fossimo invece padroni delle nostre fonti di produzione e autonomi in qualsiasi fase del processo decisionale, queste inammissibili ingerenze perderebbero gran parte del loro peso.


La Libia no, la Russia no, l'Iran no...
di Debora Billi - http://petrolio.blogosfere.it - 18 Aprile 2011

Molto interessanti i nuovi cablo di Wikileaks usciti oggi ( http://www.repubblica.it/economia/2011/04/18/news/eni_wikileaks-15074501/ ) su Repubblica. Saranno pure un'operazione studiata a tavolino, ma a me quel che si riporta pare assai plausibile.

Dai riassunti dei cablo di oggi, il messaggio è chiaro: secondo i nostri alleati che li scrivono, l'Italia non dovrebbe comprare petrolio e gas proprio da nessuno. O almeno, a parte una lista di proibizioni non risultano suggerimenti su fornitori accettabili.

Oggetto del contendere è come sempre la Russia, e gli accordi dell'ENI e dello Stato italiano che non fanno dormire l'ex ambasciatore Spagli il quale non si capacita di come comprare dai russi a noi "non sembri un problema".

Proprio non ci entra in zucca che dobbiamo liberarci della "dipendenza" dalla Russia. Molto divertente leggere come Tremonti e Scaroni gli danno la guazza, condividendo serissimi che sì, è un disastro, di questi russi occorre proprio liberarsi, non se ne può più, per poi continuare imperterriti con accordi e importazioni.

Scaroni prova a convincere che "Gazprom è un partner commerciale perfetto, soltanto un po' burocratico e lento, ma affidabile", e viste le orecchie da mercante della controparte aggiunge perfidamente (e sensatamente): "importare gas dall'Iran è l'unica grande alternativa alla Russia".

Apriti cielo! "Gli Usa scoraggiano nei termini più netti possibili l'iniziativa", è la risposta, e "in seguito a quell'incontro, Washington dà ordine alle periferie di far giungere duri messaggi a Scaroni su Russia e Iran".

Libia, Russia, Iran, insomma se escludiamo l'Algeria nessuno dei nostri fornitori abituali, e finora affidabili, è gradito all'alleato. Per tacere dell'inesausta querelle sui tubi. E siccome l'Arabia Saudita, il Venezuela, il Canada e il Messico sono piuttosto lontanucci, guardando la cartina geografica pare che non esistano molte altre opzioni.

Che dobbiamo fare, di grazia, a parte continuare a depennare tizio e caio? Qualcosa bisogna pur metterci, nella caldaia e nel serbatoio, o ci inviassero una fornitura di biciclette così non se ne parla più.

Ultima osservazione, sui soliti media. Mi chiedo quale sia l'intento di Repubblica nel pubblicare tali sunti, oltre al sacrosanto diritto di cronaca. Mettere in cattiva luce il governo, forse? Dobbiamo quindi dedurre che Repubblica la pensa come gli autori dei memo, e che un eventuale futuro governo gradito a Repubblica NON comprerà più greggio e gas da Libia, Russia e Iran. Hmmm. Quasi quasi vado a fare il pieno. Con parecchie taniche, però.