Un fiume radioattivo sfocia nel mare
di Gabriele Battaglia - Peacereporter - 4 Aprile 2011
Rilascio "controllato" dell'acqua contaminata di Fukushima nel Pacifico
La notizia del giorno è che la Tepco, la compagnia che gestisce la centrale nucleare di Fukushima Daiichi, starebbe per - o avrebbe già iniziato a - riversare nell'oceano 15mila tonnellate di acqua radioattiva.
Con nonchalance solo apparente, i vertici della compagnia avevano precedentemente annunciato questa soluzione per sbarazzarsi di un'enorme pozza contaminata che, secondo la loro versione, ostacolerebbe il lavoro dei tecnici chiamati a ripristinare il funzionamento dell'impianto.
L'acqua è radioattiva "solo" cento volte oltre il limite legale, quindi a un livello "relativamente basso", secondo la compagnia.
A proposito dei tecnici, giunge voce che gli uomini in tuta bianca che in questi giorni si avventurano all'interno dei reattori danneggiati, tra cui gli ormai famosi "Cinquanta di Fukushima", sarebbero volontari solo fino a un certo punto: gente con età non inferiore ai cinquant'anni, retribuiti duemila dollari al giorno, non necessariamente "tecnici", che rischiano la vita appesi all'amo del ricatto occupazionale.
Notizia da verificare ma che trova parziale conferma in una testimonianza raccolta dal New York Times. Kunikazu Takahashi, 47 anni, è stato intervistato in un centro di raccolta dove è sfollato insieme all'anziana madre. Sente di non avere scelta, per guadagnare il necessario al mantenimento di entrambi, deve tornare al suo lavoro come tecnico all'impianto di Fukushima Daini, che dista una decina di chilometri da quello danneggiato.
"Mi hanno cercato diversi giorni fa - racconta - devo tornarci". Nell'economia stagnante di Fukushima, si considera fortunato ad avere ancora un lavoro. Quanto ai pericoli: "Cerco di non pensarci".
La scelta di rilasciare acqua contaminata nel Pacifico urta ulteriormente i nervi del governo, già abbastanza scossi perché la compagnia energetica non ha ancora posto rimedio alla falla del pozzo di contenimento del reattore numero 2 che riversa materiale fortemente radioattivo - più di quello del rilascio "volontario" - nell'oceano.
Inoltre è stata riscontrata radioattività superiore alla norma oltre il raggio di trenta chilometri dalla centrale, il limite di sicurezza stabilito dalle autorità giapponesi per l'evacuazione dei residenti.
L'impressione è che nessuno sappia bene qual è la distanza precauzionale, dato che Greenpeace, sulla base delle analisi effettuate intorno al sito, aveva già chiesto l'estensione della zona off-limits fino a quaranta chilometri e il governo Usa addirittura a ottanta.
Le radiazioni sembrano quindi sfuggire per aria, per terra, e ora anche per mare. Così l'esecutivo si smarca parzialmente della Tepco e comincia a premere con stizza sulla utility di Tokyo: "Dobbiamo assolutamente fermare l'infiltrazione di acqua contaminata il più presto possibile: con questa forte determinazione, abbiamo chiesto alla Tepco di agire in fretta", ha dichiarato il "volto" del governo Kan, quel Yukio Edano, capo di gabinetto, che dall'11 marzo compare sempre più imbarazzato davanti alla stampa. In mancanza di una svolta immediata - ha aggiunto in conferenza stampa - la fuoriuscita radioattiva "avrà un pesante impatto sull'oceano".
Si fantastica così su un'isola di contenimento galleggiante che dovrebbe essere collocata nello specchio di mare antistante alla centrale e che dovrebbe letteralmente "inghiottire" il materiale radioattivo rilasciato in acqua.
Si tratta di un'enorme struttura d'acciaio ancorata nel porto di Shimizu, dove svolge la funzione di parco acquatico, e che la città ha già offerto alla Tepco. Sarebbe in grado di contenere 10mila tonnellate d'acqua senza affondare. Resta il mistero su dove poi sarebbe trasportata l'isola con il suo contenuto radioattivo.
Nel frattempo, il governo ha anche annunciato che sarà probabilmente costretto a rivedere i propri target di riduzione delle emissioni di Co2 entro il 2020. Erano tra i più ambiziosi al mondo: il venti per cento in meno rispetto ai livelli del 1990.
Un vero fiore all'occhiello per chi diede il nome al protocollo di Kyoto. Ma a quei tempi, l'energia atomica sembrava un'alternativa "verde"; oggi è lo stesso futuro del programma nucleare giapponese a essere in bilico.
La battaglia per Fukushima potrebbe durare cent'anni
di Mike Adams - www.naturalnews.com - 1 Aprile 2011
Traduzione per www.comedonchisciotte.org a cura di ABATTAGLINO
Intanto si reclutano squadre suicide per partecipare alle operazioni.
La catastrofe di Fukushima continua a evolvere verso il peggio. Ecco gli ultimi sviluppi:
⁃ Secondo un esperto nucleare potrebbero occorrere da 50 a 100 anni per far scendere la temperatura delle barre d'uranio a un livello che consenta di trasferirle dal sito della centrale. Si dovrà continuare a inondarle con acqua di mare che sarà riversata nell'oceano dopo essersi caricata di radioattività. Si prospetta quindi una fuga radioattiva di forse un secolo.
(http://www.abc.net.au/news/stories)
⁃ La falda acquifera sotto gli impianti di Fukushima fa rilevare un livello di radioattività 10'000 volte superiore a quello normalmente consentito dalle autorità governative. Proviene da iodio-131 misurato 15 metri sotto uno dei reattori.
(http://cbsnews.com/stories/2011)
- Avrete forse già saputo che si è tentato di ricorrere ai robot per risolvere la crisi di Fukushima, ma senza successo.
Ma perché usare dei robot quando si possono pagare esseri umani per fare questo lavoro mortalmente rischioso ?
L'agenzia Reuters riferisce che un compagnia americana sta già reclutando negli Stati Uniti lavoratori disposti a lavorare sul sito di Fukushima con gli specialisti che tentano di salvare i reattori.
(http://ca.news.yahoo.com/exclusive).
Ma che cosa può spingere una persona ad accettare un lavoro del genere ? Semplice: basta offrire un lauto compenso.
Naturalmente, ci si potrebbe chiedere come questi uomini pensano di potersi godere i lauti guadagni una volta devastati dalle radiazioni. Certo che se gli dessero anche solo un dollaro per ogni millirem di radiazioni assorbite, potrebbero diventare i nuovi milionari di Fukushima.
⁃ La più grande autopompa da cemento del mondo è stata spedita in Giappone nel quadro di un progetto che verosimilmente decreterà la definitiva disattivazione di Fukushima
(http://chronicle.augusta.com/latest)
Infatti, il solo motivo per cui può occorrere una tale quantità di cemento è che si voglia costruire un gigantesco mausoleo, nello stile di Chernobyl, che inghiottirà l'intera centrale di Fukushima. Ma chi continuerà ad innaffiare le barre di combustibile nucleare per non far salire la temperatura ? Nessuno lo sa...
⁃ ⁃ In seguito al disastro di Fukushima, Tokyo conoscerà una serie di blackout per tutta la prossima estate. La quantità di corrente elettrica fornita a Tokyo è già stata ridotta del venti per cento circa.
(http://edition.cnn.com/2011/WORLD/)
⁃ I lavoratori di Fukushima che hanno disperatamente tentato di riportare i reattori sotto controllo hanno detto che si aspettano di morire presto per essere stati ripetutamente esposti ad alti livelli di radioattività. Ma c'è ancora gente che osa negare la pericolosità delle radiazioni, affermando che nessuno è mai stato danneggiato dalla radioattività !
(http://www.telegraph.co.uk/news/world)
- Val la pena rammentare che le autorità sanitarie ci ammoniscono da alcuni decenni sul pericolo mortale rappresentato dalle radiazioni solari. Invece le ricadute di Fukushima sarebbero magari inoffensive ? Vogliono farci credere che soltanto il sole è pericoloso, non la fusione delle barre di carburante nucleare.. Strana politica di salute pubblica...
A quasi un anno dalla catastrofe che ha ammorbato per mesi l’Oceano Atlantico e le coste meridionali degli Stati Uniti, sulla superficie di quei mari è riapparsa una enorme chiazza scura nei pressi della Deepwater Horizon, la piattaforma della Bp che, esplodendo, ha provocato una delle peggiori catastrofi ambientali della storia.
La Guardia Costiera americana sta conducendo delle indagini su di una chiazza grande all’incirca come il Molise che, da alcuni giorni, è comparsa sulla superficie marina del Golfo del Messico. Le acque interessate sono quelle che già subirono, negli scorsi mesi, la tragedia dovuta all’esplosione della Deepwater Horizon.
È stata confermata la presenza di una grande macchia sulle acque del Golfo, ma non si sa ancora con precisione se si tratta davvero di petrolio. Il timore che sia proprio “oro nero” c’è, perché l’avvistamento è avvenuto a sole 20 miglia dal punto in cui, undici mesi fa, saltò in aria la piattaforma della Bp.
Inquietante è anche la velocità con cui questa nuova macchia sembra propagarsi: se le prime segnalazioni ricevute dalle autorità statunitensi descrivevano una chiazza di mezzo miglio di diametro, infatti, solo due ore dopo si parlava di 12 miglia di larghezza e addirittura 100 di lunghezza. Si è quindi passati, nell’arco di due ore, da poche centinaia di metri di estensione a oltre 160 chilometri. Una rapidissima espansione che, si teme, potrà continuare.
Resta ora da capire la causa del fenomeno e da dove proviene questa enorme macchia galleggiante. La Guardia Costiera Usa ha riferito che non ci sono state segnalazioni di perdite o guasti agli impianti di estrazione da parte di nessuna delle società petrolifere operanti nella zona.
Si deve quindi pensare a perdite naturali di petrolio? Non sarebbe da escludere, visto che se ne verificano di frequente nel Golfo del Messico. Il fatto è però che non se ne vedono mai di così grandi.
Secondo i media americani, che stanno seguendo da vicino la vicenda, la macchia si sta avvicinando alla costa nei pressi di South Pass, in Louisiana. Stando invece agli ultimi aggiornamenti della Guardia Costiera, che ha prelevato campioni della sostanza oleosa che galleggia sul Golfo, si è escluso che si possa trattare di una fuga di petrolio: sono infatti lievi le tracce di idrocarburi che vi si sono trovate.
Di che si tratta, quindi? Gli esperti affermano che potrebbe essere un enorme accumulo di sedimenti provenienti dal letto del vicino Mississippi, celebre fiume che sfocia proprio nel Golfo del Messico. Una teoria che lascia abbastanza a desiderare, sia perché sembra improbabile che un fiume, per quanto grande come il Mississippi, possa generare una tale mole di sedimenti, sia perché la sostanza in questione è e rimane oleosa.
Una sostanza che, qualunque sia la sua origine e la sua composizione, si sta dirigendo velocemente verso Grand Isle, Jefferson, e zone costiere limitrofe. Già in allerta personale specializzato e popolazioni locali, pronte ad usare anche le barriere galleggianti (così utili lo scorso anno con la marea nera) per limitare l’espansione di questa chiazza ed eventualmente proteggere la terraferma.
Che si tratti o meno di petrolio lo si vedrà. Sta di fatto che l’origine di questa macchia scura e galleggiante ancora non si conosce. Affidarsi alle rassicurazioni delle autorità non riesce facile, dopo quanto si è già visto nei mesi scorsi nello stesso Golfo del Messico, o dopo avere visto quanto, in ogni contesto ed in ogni circostanza, le rassicurazioni facciano sempre e comunque parte del gioco. Anche quando, come abbiamo visto ultimamente, ci si trova in situazioni apocalittiche come quella del Giappone, ad un passo dalla catastrofe nucleare.
I ribelli libici sono disposti a negoziare una tregua con Muammar Gheddafi, a condizione che “le sue truppe si ritirino immediatamente dalle città e lascino al popolo libico la libertà di scegliere”. La manovra di avvicinamento è stata annunciata ieri pomeriggio dal capo del consiglio per la transizione nazionale, Mustafa Abdul Jalil, in una conferenza stampa con l’inviato dell’Onu, Abdul Illah Khatib.
Dopo giorni di scontri in cui i lealisti hanno rovesciato l’inerzia della battaglia a loro favore, mostrando tutti i limiti militari dei ribelli (“Se gli scontri proseguono avremo bisogno di aiuto”, ha ammesso Jalil) guadagna campo la possibilità di un accordo per il cessate il fuoco, a cui da Londra sta lavorando anche Mohammed Ismail, consigliere di Saif al Islam, figlio di Gheddafi, inviato in terra britannica per trattare una possibile tregua.
Le avvisaglie di una svolta politica si sovrappongono alle notizie sulle vittime civili dei bombardamenti, assenti paradossali dalla narrazione di questa guerra profumata di Barack Obama. E’ singolare nel conflitto di Libia la scomparsa dei tragici conteggi che accompagnano anche i conflitti ispirati a ideali rotariani e condotti con bombardamenti chirurgici; l’assenza complementare è quella del segugio collettivo, figura che in ogni conflitto portato dall’occidente accorre alla ricerca delle vittime innocenti dell’imperialismo per denunciarne i misfatti.
Il vicario apostolico di Tripoli, Giovanni Martinelli, è stato il primo a porre il problema: i bombardamenti della Nato hanno fatto “dozzine di morti fra i civili a Tripoli”, ha detto, costringendo il comando ad aprire un’inchiesta.
Parlando con il Foglio Martinelli aggiunge nuovi dettagli: “Stamattina ci sono stati quaranta militari uccisi dalle bombe a Sirte e otto vittime tra donne e bambini. In più, all’ospedale di Tripoli ci sono stati in un giorno solo cinquanta aborti. Mi dicono i medici che sono donne che hanno subito un trauma dai bombardamenti e per questo hanno abortito”.
“La vita sociale – continua Martinelli – oggi è finita in tutto il paese. Non c’è benzina. Il cibo inizia a scarseggiare. Non so quanto si potrà resistere. Non bombardano più a Tripoli per ora ma sentiamo in lontananza i bombardamenti nelle città vicine”.
Alla preoccupazione per i civili del vicario apostolico si aggiunge un reportage della Bbc, secondo cui un raid della coalizione ha fatto sette morti fra i civili in un villaggio vicino a Brega. Secondo la ricostruzione dell’episodio, tutte le vittime avevano “fra i dodici e i vent’anni”. Anche su questo attacco la Nato sta indagando.
Il conflitto sul numero delle vittime civili è parte dell’essenza stessa della guerra; in ogni conflitto si annida un sottoconflitto fatto di propagande opposte circa i massacri di innocenti che a seconda delle esigenze vengono presentati ora come inevitabili danni collaterali di operazioni giuste e circoscritte, ora come arbitrari massacri dell’impero che schiaccia il popolo oppresso.
Ma la guerra di Obama sembra troppo profumata per non alterare pesi e misure del racconto: le vittime civili non solo vengono negate a livello ufficiale, ma gli stessi osservatori che in Afghanistan e Iraq bramavano morti innocenti da esibire come prova dei misfatti di Bush, in Libia si stanno accostando ai piaceri dello scetticismo.
Di fronte alle diciotto vittime mostrate dagli uomini di Gheddafi in un ospedale, l’inviato di Repubblica Vincenzo Nigro ha sottolineato esclusivamente l’aura propagandistica: “Nessuno ha potuto fare domande, vedere il luogo in cui i missili li avrebbero colpiti, vedere se i corpi magari avevano i segni di proiettili, erano morti in altri scontri. Stessa storia il pomeriggio, ai funerali di altri corpi sconosciuti, senza familiari, senza nomi o dettagli. Il fetore era poderoso, segno che quei corpi non erano stati uccisi nella notte, ma per il governo erano vittime degli ‘aerei dei crociati’”.
Sembra strano che un giornale immerso nella cultura liberal sia così perfettamente allineato sulle posizioni di Bob Gates, il capo del Pentagono che prima dell’era Obama ha servito sotto l’Amministrazione Bush.
Più realista invece la versione di David Wood, giornalista del grande aggregatore liberal, l’Huffington Post, che dopo aver parlato con piloti di aerei e ufficiali del Pentagono è arrivato a una conclusione semplice: in un conflitto aereo del genere è impossibile evitare di fare vittime fra i civili, soprattutto se entrambi gli schieramenti combattono con gli “stessi vecchi mezzi sovietici”.
Eppure della foga colpevolista verso l’occidente si sono perse completamente le tracce, così come si sono perse tempo fa a proposito della più imponente campagna di bombardamenti su un paese alleato della storia recente, quella ordinata da Obama sul Pakistan. Ma le guerre di Obama sono così profumate che i dettagli improvvisamente sfuggono.
Le anime impagliate della sinistra italiana
di Piero Pagliani - Megachip - 4 Aprile 2011
Ammiro Gino Strada e gli voglio bene; ci conosciamo da quando lui studiava medicina, scorazzavamo assieme per le montagne e condividevamo la stessa passione politica. E voglio bene a compagni come quelli dell’Associazione Culturale Punto Rosso per la quale otto anni fa scrissi un libro che, ahimè, prevedeva che sarebbero scoppiate molte guerre nel corso della presente crisi sistemica e ancora ne scoppieranno.
E’ proprio per questo, proprio perché sto parlando di persone a cui sono stato legato e con le quali c’è stato un percorso comune che mi sento obbligato a riflettere sulla trasformazione che sta subendo la coscienza di una sinistra che in pochi anni è passata da piazze di milioni che si opponevano alle guerre di Bush a piazze che raggruppano qualche centinaia di persone che sono contrarie alle guerre di Obama pur condividendone sostanzialmente gli obiettivi dichiarati (ovviamente non quelli reali, ciò è chiaro e non è messo in discussione).Perché proprio questo disquisire sull’onestà o meno degli obiettivi ufficiali che è il punto cruciale, ciò che fa pensare ad un disastro, ad una Fukushima politica.
Se posso immaginarmi la cautela con cui si deve muovere Emergency a causa della delicatezza delle situazioni in cui usualmente opera, non accetto però l’intrinseco opportunismo di quelle forze politiche che non vogliono prendere una posizione netta nel timore che potrebbe pregiudicare future alleanze. Ma più che altro rimango sbigottito da atteggiamenti che rivelano un problema di fondo.
In un articolo che compare sull’ultimo Bollettino di Punto Rosso si legge una frase come "Sarkozy è un compagno di merende di Gheddafi" (con riferimento al “mostro di Firenze”).
Frasi come queste, ripetute in mille varianti vuoi con protagonista Sarkozy, vuoi Berlusconi, vuoi gli inquilini di Downing Street, vuoi di quelli della Casa Bianca, devono fare riflettere perché sono paradigmatiche del modo di pensare che si è impadronito di una larga fetta della ex sinistra radicale.
Un modo di pensare che non permette più di denunciare come dato immediato e principale che anche la guerra contro la Libia è un’aggressione imperialistica bensì, cosa che per i residui no-war è più importante, che la guerra è ipocrita. E le due cose non coincidono affatto, o meglio non coincidono più nella pratica politica che ci verrà sempre più drammaticamente richiesta.
La conclusione logica del tardo-pacifismo di sinistra dovrebbe essere che invece di fare affari con la Libia occorreva aggredirla prima in qualche modo, preferibilmente non bellico, magari con embarghi tipo quello che ha causato la morte di 500.000 bambini iracheni, per via di una serie di considerazioni politico-umanitaristiche sviluppate qui in Italia, ma che fanno riferimento ai più infallibili transponder per bombardieri mai sviluppati sinora: “i diritti universali”.
Così sul palco di Piazza Navona, lo scorso Sabato, si è sentita ancora una volta la litania: “Perché non si ha allora il coraggio di attaccare la Cina, dato che anche la Cina è una dittatura?”. Questo servirebbe a dimostrare che la guerra non è contro una dittatura, ma per perseguire laidi interessi (che si fermano al solito petrolio, perché più in là non si va).
E quindi è una guerra ipocrita (ma il neocon William Kristol non è per nulla ipocrita: lo dice apertamente che in politica estera ogni decisione non ha nulla a che vedere con l’etica bensì con gli interessi; quindi non è detto che i bombardatori siano ipocriti, possono essere sincerissimi, e quindi nel loro caso quella critica sarebbe disinnescata).
Ma dato che poi si ribadisce che l’appello è rivolto anche “contro i dittatori” e dato che noi abbiamo decretato unilateralmente cos’è democrazia e cos’è dittatura, chi è dittatore e chi no, la conclusione logica è che se i potenti occidentali non fossero ipocriti e vigliacchi dovrebbero bombardare anche la Cina, anche se la conclusione empirica ed emotiva è che la guerra è comunque brutta e quindi non bisogna farla.
Cosa sulla quale non posso che concordare; ma questo è un altro paio di maniche, perché nell’apparato di motivazioni e ragionamenti della sinistra è una conclusione del tutto estemporanea, che non riesce a far pace tra cuore e cervello.
Oltretutto se di ipocrisia si vuol parlare è un bel po’ inquietante che molta gente che mentre mugugnava contro il neoliberismo a casa propria probabilmente votava come "meno peggio" (che comunque è sempre un "peggio", come avvertiva Hannah Arendt), o addirittura entusiasticamente, proprio la punta di diamante del neo-liberismo in Italia, cioè la sinistra, è irritante dicevamo che questa gente utilizzi le aperture liberiste, fatte coi missili puntati alla tempia, di Gheddafi, per dimostrare l'indimostrabile, ovvero che i "ribelli" della Cirenaica sono "rivoluzionari".
In realtà mentre i veri Comunardi non osarono impadronirsi della Banca di Francia (errore colossale, come commentò Engels) questi novelli comunardi di Bengasi una Banca Centrale alternativa l’hanno immediatamente istituita per incamerarsi i beni congelati, ovverosia rubati dall'Occidente al governo libico tuttora riconosciuto come legittimo dalla stragrande maggioranza dei Paesi del mondo, e l’hanno già infeudata alla finanza anglosassone. Non contenti triangolano con gli Emirati (in primis quello del Qatar - da cui Al Jazeera, non per caso) per svendere il petrolio anch’esso rubato.
Questi sarebbero i rivoluzionari stanchi delle aperture al liberismo del "regime".
E fosse solo questo. Guardate qua, se vi sostiene lo stomaco, cosa fanno i “rivoluzionari” che la Rossanda vorrebbe andare ad aiutare magari con delle brigate internazionali.
E guardatevi questa carneficina, attribuita alle "truppe del raìs", ma in realtà eseguita dai "rivoluzionari" ai danni dei soldati libici.
Eppure nessuno si chiede: come mai dopo più di un mese che si parla di massacri da parte dei lealisti, con l’Est della Libia in mano agli insorti e calpestato da decine di volenterosi scarponi delle intelligence di Stati Uniti, Francia, Olanda, UK e Italia, ancora non si è trovata nessuna prova non dico degli inesistenti 10.000 morti strombazzati da tutti i media tre giorni dopo l’inizio della sedizione (smentiti anche dal Pentagono), ma nemmeno di massacri più circoscritti e quindi bisogna ancora dire bugie, “scippare” mattanze, per convincerci delle nefandezze del “regime”?
Non è che viene il dubbio che qualcosa nella propaganda di guerra non quadri? Nessuno si ricorda la vana benché tenace ricerca delle fosse comuni in un Iraq ormai a disposizione dei conquistadores? Nessuno si ricorda della balla delle armi di distruzione di massa?
Perché la sinistra, anche quella no-war, è diventata la cassa di risonanza più efficace di tale propaganda? Cosa possiamo farci con questa sinistra che ha già dimenticato che stiamo massacrando esseri umani ed è tornata con festosa isteria ad occuparsi del bunga bunga di un personaggio irritante e deleterio ma assieme al quale la cosiddetta opposizione ha preso le più nefaste e criminali decisioni (in molti casi, come l’attuale, addirittura con la saccenza del primo della classe)?
Perché nessuno indirizza qui, dove i dati ONU ci dicono che la Libia ha (aveva) il più alto indice di sviluppo umano di tutta l’Africa, calcolato con parametri come l’accesso all’istruzione, lo sviluppo e l’accesso ai servizi sanitari e lo standard di vita?
Su questo Paese nel primo giorno di bombardamenti abbiamo pensato bene di scaricare uranio impoverito pari a quasi cinque volte quello lanciato in tutta la guerra del Kosovo (si vedano l’articolo di Marco Sarti e quello di David Wilson, premio Pulitzer per aver denunciato e documentato il massacro di My Lai durante la guerra in Vietnam).
Le brigate internazionali della Rossanda correrebbero quindi un grave rischio; è meglio che se ne stiano a casa, magari urlando “Né né” (detto incidentalmente e facendo tutte le proporzioni del caso, “Né con Stalin né con Hitler” come sarebbe suonato durante la battaglia di Stalingrado?).
O si capisce che l’imperialismo è di per sé un crimine che non si combatte fingendosi anime belle, o bisogna ammettere senza reticenze di esserne complici, hard, soft, consapevoli o inconsapevoli (che non è una scusante).
Se si vuole sapere di cosa si è complici si abbia il coraggio di vedere queste foto (ma qualche anima bella ha mai condotto una battaglia di genere coerente, metodica e risoluta per le madri e i piccoli raffigurati in quella tremenda galleria della sofferenza, o è più importante cercare di far passare la D’Addario come vittima del connubio sesso e potere di stampo berlusconiano?).
A questo fine e fino a questo punto è stata spianata la nostra coscienza, con la più putrida corruzione dell’internazionalismo proletario diventato interventismo umanitario.
Dobbiamo stare molto attenti, perché la coscienza di molta destra rischia di uscirne più pulita delle nostre anime morte e impagliate di sinistra.
Al Qaeda porterà la democrazia in Libiadi Gianluca Freda - http://blogghete.altervista.org - 4 Aprile 2011
La manifestazione sindacal-pacifista di ieri contro la guerra in Libia ha avuto successo quanto un raduno di degustatori della marmellata di cipolle. Non se l’è filata proprio nessuno e questa è una buona notizia.
Sono state ben poche le emittenti televisive o radiofoniche interessate a trasmettere, in diretta o in differita, gli spillaccheranti deliri di questo popolo di balordi terminali. Ha fatto eccezione l’imperterrita e irredimibile Radio Popolare, dalle cui frequenze ho potuto ascoltare, finché mi ha retto lo stomaco, la consueta silloge di tardivi piagnistei, solidarietà e pietismo verso i tripolitani bombardati.
Il tutto per bocca di di pulzelle e pulzelli che fino all’altroieri mattina sventolavano su Twitter le allegre bandierine della rivolta del “popolo” contro il “dittatore”.
Ora assistono impietriti e con la boccuccia a “o” alla macellazione – perpetrata con l’avallo della loro ideologia da sussidiario - di quello stesso “popolo” che fino ad oggi, nelle grinfie del “crudele dittatore”, aveva vissuto egregiamente, prosperando e facendo prosperare le nazioni limitrofe.
Non li chiamerò “pacifinti”, come va oggi di moda, perché si tratterebbe di un’imprudente minimizzazione della realtà. Essi purtroppo non sono finti, come molti avevano ottimisticamente supposto, ma reali e concreti quanto i dolori nella minzione per chi è affetto da carcinoma alla prostata. Ascoltare le loro lacrime di coccodrillo è per chiunque un’esperienza rivelatrice e terribile.
Non si riesce a immaginare, senza averne un’esperienza uditiva diretta, quale sia il livello d’ignoranza, di rincitrullimento ideologico, di perniciosa astrazione dalla realtà di questa masnada di prefiche del dopobomba.
Non si può credere, senza ascoltarli dal vivo, che dopo oltre vent’anni di rivoluzioni colorate e di guerre statunitensi accortamente preparate con valanghe di menzogne giornalistiche, questi bimbiminchia non abbiano ancora capito come funziona il motore dell’aggressione statunitense e non siano in grado di avvertirne la messa in moto fin dai primi sussultori scoppiettii nei servizi d’apertura dei telegiornali.
Non sono bastati vent’anni di invasioni, di bufale sui “dittatori sanguinari” e sulle “armi di distruzione di massa”, di fosse comuni farlocche, di sbrodolate sui “diritti umani” risoltesi nell’ecatombe di milioni di persone in nome del principio di autodeterminazione dei popoli, per mettere un po’ di sale nelle loro zuccacce vuote.
Non sono bastati decine e decine di siti internet nei quali i meccanismi propagandistici e psicologici del consenso sono stati esposti e studiati nel dettaglio per strapparli alla loro puerile riconversione del mondo in grossolane categorie kantiane: il “popolo”, il “dittatore”, la “democrazia”, la “rivoluzione”, i “diritti”, la “libertà”... in nome e per mezzo di queste frescacce, milioni di persone sono state massacrate dagli USA negli ultimi vent’anni, l’Europa è stata ridotta in uno stato di servitù senza ritorno, intere nazioni sono state cancellate, ma loro non vogliono darsene per intesi e continuano, vezzosi & gagaroni, a salmodiare questa cantilena, a cincischiare di “masse arabe” e “rivolte di popolo” su Facebook, a intrattenersi con le loro battutine e le loro stucchevoli vignettucce satiriche sui social network gentilmente forniti dal nemico.
A questi bambaloni, la mamma ha spiegato che il mondo funziona così: da una parte c’è il “popolo”, che è sempre buono e giusto, e ci mancherebbe altro, visto che dentro al “popolo” ci sono anche loro, che sono buoni per definizione.
Poi ci sono i “dittatori”, da citare sempre congiuntamente all’aggettivo “sanguinari”, anche quando, come nel caso di Gheddafi, hanno dato ricchezza, benessere, unità, sovranità e indipendenza economica alla propria nazione.
I “dittatori” sono sempre cattivi, perché picchiano il povero popolo e lo privano di alcuni “diritti umani” fondamentali, come quello di scrivere stronzate su Facebook o di incitare al golpe militare contro il governo del proprio paese attraverso Twitter.
E poi c’è la “democrazia”, che è una cosa bella e santa, tranne quando viene eletto Berlusconi, il quale rappresenta un “pericolo” e una “anomalia”, essendo sostenuto da una parte di “popolo” ancora immatura, cioè non ancora convertita alla religione dei bimbiminchia.
Quando il “dittatore” lo picchia troppo forte, il popolo si arrabbia, scende in piazza, spacca tutto, fa la rivoluzione e instaura la democrazia, come succede in tutti i film americani, che fanno parte della dieta alimentare dei bimbiminchia quanto i Fonzies e i Kellogg’s Choco Pops. E questo è il mondo, nell’infantilismo iperuranio del pacifismo piazzettaro.
Questa alluvione di fanfaluche ha avuto fra i suoi principali propugnatori – oltre ai suddetti minorati del volemose bene – gli ambienti del giornalismo, del sindacalismo e dell’intellettualismo di sinistra, mai dimostratisi così spudoratamente incompetenti, cialtroni, traditori, gravidi di malafede e proni al nemico come in questa esecrabile occasione.
Nel tentativo di rimediare qualche consenso elettorale presso i cervelli bacati e di mostrarsi servili e pronti all’obbedienza verso i dominanti USA, i componenti dell’acquitrino ex comunista hanno messo in campo il peggio della loro weltanschauung da luna park, hanno dato fondo ad intere miniere di menzogne e distorsioni informative.
Di un tentato golpe tribale, finanziato e orchestrato dagli interessi americani, con l’ausilio di alcuni sguatteri europei (Francia e Inghilterra in primis), hanno fatto una gioiosa primavera del popolo libico in rivolta contro il tiranno. Della legittima e sacrosanta reazione del governo libico al tentato putsch, hanno fatto uno “ sterminio perpetrato dal dittatore contro il suo popolo”.
Quando lo sterminio, dopo l’intervento della coalizione da essi invocata, è iniziato sul serio, hanno glissato elegantemente, ciarlando d’altro o nascondendosi dietro i “né..né” tra la folla dei pacifisti buggerati.
“Né con Gheddafi, né con gli USA”: una posizione traballante e vigliacca, in cui la doppia negazione, ben lungi dall’equivalere ad un’affermazione, come avviene nella grammatica prescrittiva, è invece equiparabile ad un muggito bovino, al rantolo di un’ideologia che, non avendo più nulla d’intelligibile da comunicare all’universo mondo, non intende comunque risparmiargli il fragore dei suoi rutti.
Mai era successo che, per avere qualche scampolo di verità su una guerra americana, il lettore di quotidiani dovesse rivolgersi ai giornali della destra, dove è stato possibile reperire – fra inevitabili cumuli di baggianate – qualche prezioso articolo di Marcello Foa o di Giancarlo Perna.
Perfino Giuliano Ferrara, resosi conto che la storiella del “tiranno che massacra il suo popolo” era divenuta ormai insostenibile, ha scritto nel suo editoriale sul “Foglio” di oggi: “Tutto nasce da quella balla che l’inviato di guerra Ricucci ha denunciato in solitario: le fonti di disinformazione erano tutte dalla parte dei ribelli ed erano piazzate tra Bengasi e Londra, i diecimila morti fatti da Gheddafi non esistono, i bombardamenti del raìs contro il suo popolo sono un’invenzione macabra, le fosse comuni lanciate in tv erano un piccolo cimitero marino d’antan, la solita emittente Al Jazeera imbrogliava le carte e voleva rifarsi non si sa quale verginità sul terreno molle di un Gheddafi odiato dagli islamisti puri e duri [...]”.
In realtà Ricucci non ha denunciato affatto “in solitario” le menzogne dei media, che erano state immediatamente evidenziate su questo e altri blog. A parte questo, viene da chiedersi come mai il più filoatlantico dei giornalisti italiani denunci oggi con tanto vigore le bufale propagandate dai media americani per sostenere e giustificare una guerra americana.
Che cosa sta succedendo? Alla posizione di Ferrara si aggiungono altri eventi curiosi: D’Alema, anch’egli storicamente deferente verso ogni politica d’aggressione imposta all’Italia dai tirafili statunitensi, ha dichiarato che l’intervento militare “è stato necessario [sic] ma ora bisogna far parlare la politica”.
Gli eventi libici sono stati relegati nelle pagine interne dei giornali, soprattutto da quando le forze lealiste di Gheddafi sono passate per la seconda volta al contrattacco, riconquistando gran parte delle posizioni perdute dall’inizio dei bombardamenti della coalizione.
A ripensarci adesso, mi rendo conto che una delle fonti d’informazione più illuminanti e veritiere su quanto sta accadendo in Libia è rappresentata dal discorso che Gheddafi tenne alla TV di stato libica all’inizio della “ribellione” teleguidata delle tribù cirenaiche.
In quell’occasione, Gheddafi dichiarò: “L’Occidente mi chiede di farmi da parte per dare la libertà al popolo libico. Questo è ridicolo. Sono io il popolo libico”.
Questa affermazione, su cui all’epoca avevo sorvolato, ritenendola una magniloquente espressione retorica, esprime in realtà una banale verità oggettiva.
La Libia è un paese inventato. E’ stato creato a tavolino tracciando su una carta tante belle linee regolari e doveva servire alle potenze coloniali come avamposto per il controllo del Mediterraneo.
All’interno di quelle linee non c’è un “popolo” – come vanno farneticando i pacifisti e chi fornisce loro la biada – bensì una moltitudine di tribù diverse per lingua, tradizione e cultura, spesso divise da rivalità e faide secolari: Harabi, Warfallah, Bani Walid, Tarhuna, Obeidat, Zuwaia, al-Awakir, Magariha, ecc.
E’ stato Gheddafi a unificare questa macedonia di tradizioni e culture diverse, facendone qualcosa di molto simile ad una nazione coesa e sovrana.
Per farlo ha utilizzato sì il pugno di ferro (governare una realtà così frammentata e difficile non è esattamente come governare Gallarate), ma anche la politica, l’unificazione religiosa, la concessione di diritti, la costruzione di infrastrutture nazionali, la diffusione di benessere seguita alla nazionalizzazione delle imprese estere e l’orgoglio indipendentista seguito alla chiusura delle basi militari americane e inglesi. Senza Gheddafi non c’è nessun popolo libico.
Togliete Gheddafi alla Libia e la Libia scomparirà, tornando a essere quel caleidoscopio di tribù l’una contro l’altra armate che era all’epoca del fantoccio re Idris, prima del 1969.
Probabilmente è proprio a questo che mira l’intervento dei “volonterosi” crociati: distruggere la Libia come nazione per poter meglio controllare, nel caos risultante, le sue risorse e la sua posizione geostrategica.
Se l’obiettivo era quello di scatenare il caos, la “rivoluzione” preparata dagli USA con la collaborazione dei francesi nel novembre scorso, dopo la defezione del braccio destro di Gheddafi, Nouri Massoud El-Mesmari, può dirsi per il momento riuscita.
Gheddafi dichiarava, nella stessa occasione, che coloro che l’occidente chiamava “manifestanti” altro non erano che un’orda di masnadieri violenti e “drogati”, che assaltavano caserme e uccidevano poliziotti allo scopo di sovvertire l’ordine nel paese. Il termine “drogati” mi aveva colpito e soltanto adesso inizio a capire che anch’esso non era stato utilizzato a caso.
Queste truppe di “ribelli” mostrano di possedere lo stesso livello di coraggio, di disciplina, di strategia militare, di determinazione e di intelligenza politica che potevano avere i giovinastri sottoproletari strafatti di canne nelle rivolte del ’77 bolognese.
All’inizio della “rivolta”, molti giornalisti che accompagnavano questi bei tomi nel loro percorso erano rimasti allibiti dall’esibizionismo e dall’atteggiamento assai poco militare che costoro evidenziavano negli scontri con i lealisti.
Portavano con sé fucili e batterie antiaeree che non erano assolutamente in grado di utilizzare. Si sedevano sull’equipaggiamento militare (gentilmente offerto da chissà chi, essendo le batterie antiaeree un bel po’ al di fuori della portata economica di semplici “manifestanti”) al solo scopo di farsi scattare fotografie dagli amici e di mettersi in posa per la stampa.
Sparacchiavano continuamente a casaccio in segno di esultanza, sprecando munizioni e rischiando di colpire i compagni.
Si trastullavano, giocavano a carte, tutto facevano tranne che prepararsi ad affrontare l’imminente e prevedibile reazione delle truppe governative.
Questo branco di feroci cialtroni (che Gheddafi ha etichettato, a ragion veduta, come “drogati”) sembra venuto fuori dritto dritto da un fumetto di Andrea Pazienza.
Ha dimostrato una tale incapacità nella strategia e nel combattimento da lasciare interdetto anche il più bendisposto dei cronisti. Avevano dichiarato ai quattro venti di non volere nessun aiuto militare dell’occidente, ma poi hanno iniziato a frignare e a invocare tra i gemiti un intervento esterno quando le truppe del governo hanno spazzato via in pochi giorni tutte le loro “conquiste”.
Hanno avuto l’appoggio mediatico di tutte le TV e di tutta la stampa del mondo asservita ai progetti americani; hanno avuto l’avallo dell’ONU e il riconoscimento politico da parte della Francia; hanno ricevuto armi, finanziamenti e mercenari da Francia, Stati Uniti e Inghilterra; hanno potuto contare sui bombardamenti della coalizione, che, contravvenendo a quanto previsto dalla risoluzione 1973, non si è limitata a proteggere i civili, ma ha favorito sfacciatamente l’avanzata di questi codardi, facendo a pezzi le milizie di Gheddafi che stavano per raggiungere la loro roccaforte di Bengasi. E nonostante questo non sono riusciti ad ottenere niente.
Si sono limitati ad infierire sui cadaveri fumanti dei lealisti lasciati a terra dai bombardamenti americani, a torturare i prigionieri e a farsi scattare nuove fotografie sui rottami dei carri armati che incontravano sulla strada già “liberata” dalle bombe altrui.
Appena hanno rimesso piede a Ras Lanouf, hanno dichiarato, trionfanti e frettolosi, che avrebbero iniziato a vendere il petrolio della zona alle aziende straniere. L’emiro del Qatar era al settimo cielo, visto il gran numero di aziende qatariote che operano nella regione.
Ma non appena i bombardamenti alleati si sono rarefatti, i poveri idioti – che non si erano curati di predisporre nemmeno uno straccio di presidio del territorio - sono stati nuovamente ricacciati verso est, e questo nonostante le truppe lealiste fossero state fortemente indebolite dagli attacchi occidentali dei giorni precedenti.
Una simile criminale imbecillità può essere spiegata solo tenendo conto di quanto spiega Webster Tarpley nel video che ho sottotitolato qui sopra: in buona parte non si tratta di cittadini libici, tantomeno di persone fornite di addestramento militare, ma di mercenari senza arte né parte, reclutati tra il sottoproletariato dell’Egitto e di altri paesi arabi per essere messi al servizio delle tribù della Cirenaica; le quali sperano di avere, in una Libia senza più Gheddafi, una percentuale più consistente sulle vendite del petrolio che si trova nel loro territorio. Gheddafi aveva anche detto che all’origine di questi disordini c’erano “uomini di Al Qaeda”.
Anche qui avevo scambiato questa affermazione per una sparata propagandistica e anche qui ero stato poco attento.
Ormai anche i sassi hanno capito che “Al Qaeda” altro non è che un esercito di mercenari più o meno fanatici approntato dalla CIA per intervenire nelle zone del Medio Oriente, dove gli Stati Uniti, un po’ per scarsità delle risorse economiche, un po’ perché la fanteria non è mai stata il punto forte delle loro milizie, non possono più permettersi di inviare truppe di terra.
Il progetto è dunque – come spiega Tarpley – quello di armare questi jihadisti della domenica per utilizzarli al posto delle truppe di terra che gli americani non sono in grado di impiegare.
Naturalmente è assai improbabile che una simile armata Brancaleone riesca a conquistare o a controllare zone di territorio; ma per creare caos e destabilizzazione essa è perfetta, ed è probabilmente questo l’obiettivo che gli USA intendono perseguire.
Qualche mese fa, Robert Gates, il ministro della Difesa degli Stati Uniti, parlando ai cadetti dell’accademia militare di West Point aveva detto: «È mia opinione che ogni futuro segretario alla Difesa che dovesse consigliare di nuovo al presidente degli Stati Uniti di mandare un contingente militare importante in Asia, in Africa o in Medio Oriente dovrebbe essere spedito a farsi analizzare il cervello».
Siccome non risulta che Gates abbia prenotato appuntamenti con l’analista, è probabile che nelle intenzioni statunitensi non vi sia la prospettiva di inviare contingenti militari in Libia, almeno se per “contingente militare” si intendono truppe di terra.
Tuttavia il malcontento e le divisioni relative a questo nuovo intervento armato si stanno facendo più forti di giorno in giorno, acuite dalla resistenza – non prevista ma del tutto prevedibile – delle milizie di Gheddafi.
E non solo all’interno dell’UE, con la defezione della Germania, con il gelo diplomatico tra Italia e Francia sulla questione della direzione operativa dell’intervento e della gestione degli immigrati; ma anche in seno alla stessa amministrazione USA, in cui è forte la paura di un nuovo pantano militare e dell’emergere di uno scandalo (legato alla fornitura di armi ai jihadisti) proprio alla vigilia della campagna presidenziale.
Non è un caso che gli USA abbiano volentieri ritirato (almeno formalmente) i loro aerei da combattimento dalle operazioni libiche, lasciando i partner della NATO a metterci la faccia.
Lo stesso Robert Gates, in una dichiarazione congiunta con il capo di stato maggiore Mike Mullen, si è dichiarato nettamente contrario al progetto della Casa Bianca di fornire armi ai ribelli, suggerendo che tale incombenza dovrebbe essere lasciata ai paesi arabi o ad altre nazioni. “Il mio punto di vista”, ha detto Gates, “è che se proprio deve esserci questo tipo di assistenza all’opposizione, vi siano una quantità di entità diverse dagli Stati Uniti che possono porla in atto”.
Questa dottrina del “partecipiamo, ma senza partecipare” è essa stessa rivelatrice di un’esitazione che rispecchia i contrasti e le divisioni presenti all’interno dell’amministrazione e del Congresso americano.
E’ probabilmente per questo che anche i maggiordomi italiani di sinistra e di destra, dopo l’iniziale entusiasmo interventista, hanno assunto posizioni più equilibrate e tengono ora il piede in due scarpe nell’attesa di vedere quale linea d’azione prevarrà nell’establishment americano.
Il rovesciamento di Gheddafi si è rivelato un’operazione assai più complessa del previsto, in cui tutti i mezzi della propaganda, della pianificazione strategica, dell’intelligence e della forza militare americana sono stati utilizzati senza però ottenere, per il momento, risultati apprezzabili.
Qualcuno forse inizia a capire che il leader libico non è poi così “odiato” dal suo popolo, se il sostegno della popolazione lo ha aiutato a rimanere in sella anche di fronte all’aggressione congiunta e poderosa dell’intero mondo occidentale.
Le stesse defezioni dei suoi fedelissimi, che sono state comunque esagerate per finalità propagandistiche (il ministro degli esteri Moussa Koussa, rifugiatosi a Londra, era comunque da tempo sgradito al governo libico perché sospettato di aver collaborato alla fuga di Nouri Massoud El-Mesmari), non sembrano influire sull’esito del solido contrattacco militare portato avanti dai lealisti.
Sarebbe bello se questa resistenza indomabile e quasi eroica da parte del leader di una nazione piccola e male armata contro la prepotenza dei padroni del mondo, insegnasse ai lamentevoli pacifisti nostrani che la differenza tra un paese prospero e forte e un paese degradato e irrilevante non sta nella forma di governo (“dittatura” o “democrazia”) o nel rispetto di chimerici “diritti umani”, bensì nella determinazione di un establishment dirigente a perseguire una politica incentrata sull’interesse nazionale, anziché su fantasie ideologiche dietro le quali si nasconde soltanto il vassallaggio verso padroni invisibili.
E sarebbe poi il massimo se questa banda di piagnucolosi tutori di “popoli” immaginari imparasse a diffidare delle “rivoluzioni” teletrasmesse; le quali hanno ben poco a che fare con il volere delle collettività nazionali e molto con il desiderio dei dominanti di annientarle, con il consenso indotto degli sciocchi, che scorgono fantasmagoriche “primavere di democrazia” dove c’è solo devastazione e conquista.
Orwell, la Nato e la guerra contro la Libia
di Domenico Losurdo - http://domenicolosurdo.blogspot.com - 2 Aprile 2011
Nel 1949, mentre infuria una guerra fredda che rischia di trasformarsi da un momento all’altro in olocausto nucleare, George Orwell pubblica il suo ultimo e più celebre romanzo: 1984.
Se anche il titolo è avveniristico, il bersaglio è chiaramente costituito dall’Unione Sovietica, raffigurata come il «Grande fratello» totalitario, che vanifica la stessa possibilità di comunicazione, stravolgendo il linguaggio e creando una «neo-lingua» (newspeak), nell’ambito della quale ogni concetto si rovescia nel suo contrario.
Pubblicando il suo romanzo l’anno stesso della fondazione della Nato (l’organizzazione militare che pretendeva di difendere anche la causa della morale e della verità), Orwell dava così il suo bravo contributo alla campagna dell’Occidente.Egli non poteva certo immaginare che la sua denuncia sarebbe risultata molto più calzante per descrivere la situazione venutasi a creare, pochi anni dopo il «1984», con la fine della guerra fredda e il trionfo degli Usa.
Come la strapotenza militare, così la strapotenza multimediale dell’Occidente non sembra più incontrare nessuno ostacolo: lo stravolgimento della verità viene imposto con un bombardamento multimediale incessante e onnipervasivo, di carattere assolutamento totalitario. E’ quello che emerge con chiarezza dalla guerra in corso contro la Libia.
Guerra
E’ vero, è all’opera il più potente apparato militare mai visto nella storia; certamente non mancano le vittime civili dei bombardamenti della Nato; vengono utilizzate armi (all’uranio impoverito) il cui impatto è destinato a prolungarsi nel tempo; oltre agli Usa, nello scatenamento delle ostilità e nella conduzione delle operazioni militari si distinguono due paesi (Francia e Inghilterra), che hanno alle spalle una lunga storia di espansione e dominio coloniale in Medio Oriente e in Africa; siamo in un’area ricca di petrolio e i più autorevoli esperti e mezzi di informazione sono già impegnati ad analizzare il nuovo assetto geopolitco e geoeconomico.
E, tuttavia – ci assicurano Obama, i suoi collaboratori e i suoi alleati e subalterni – non di guerra si tratta, ma di un’operazione umanitaria che mira a proteggere la popolazione civile e che per di più è autorizzata dal Consiglio di sicurezza dell’Onu.
In realtà, come nei confronti delle sue vittime, anche nei confronti della verità la Nato procede in modo assolutamente sovrano. In primo luogo è da notare che le operazioni militari dell’Occidente sono iniziate prima e senza l’autorizzazione dell’Onu.
Sul «Sunday Mirror» del 20 marzo Mike Hamilton rivelava che già da «tre settimane» erano all’opera in Libia «centinaia» di soldati britannici, inquadrati in uno dei corpi militari più sofisticati e più temuti del mondo (SAS); fra di loro figuravano «due unità speciali, chiamate “Smash” a causa della loro capacità distruttiva».
Dunque, l’aggressione era già iniziata, tanto più che a collaborare con le centinaia di soldati britannici erano «piccoli gruppi della Cia», nell’ambito di «un’ampia forza occidentale in azione nell’ombra» e dall’«amministrazione Obama» incaricata, sempre «prima dello scoppio delle ostilità il 19 marzo», di «rifornire i ribelli e dissanguare l’esercito di Gheddafi» (Mark Mazzettti, Eric Schmitt e Ravi Somaiya in «International Herald Tribune» del 31 marzo).
Si tratta di operazioni tanto più rilevanti, in quanto condotte in un paese già di per sé fragile a causa della sua struttura tribale e del dualismo di lunga data tra Tripolitania e Cirenaica.
In secondo luogo, anche quando si rivolgono all’Onu, gli Usa e l’Occidente continuano a riservarsi il diritto di scatenare guerre anche senza l’autorizzazione del Consiglio di sicurezza: è quello che è avvenuto, ad esempio, nel 1999 in occasione della guerra contro la Jugoslavia e nel 2003 in occasione della seconda guerra contro l’Irak.
Ora nessuna persona sensata definirebbe democratico un governo che si rivolgesse al Parlamento con questo discorso: vi invito a votarmi la fiducia, ma anche senza la vostra fiducia io continuerei a governare come meglio ritengo…
E’ in questi termini che gli Usa e l’Occidente si rivolgono all’Onu! E cioè, le votazioni che si svolgono nel Consiglio di sicurezza sono regolarmente viziate dal ricatto a cui costantemente fanno ricorso gli Usa e l’Occidente.
In terzo luogo: appena strappata al Consiglio di sicurezza (grazie al ricatto appena visto) la risoluzione desiderata, gli Usa e l’Occidente si affrettano a interpretarla in modo sovrano: l’autorizzazione per imporre la «no fly zone» in Libia diviene di fatto l’autorizzazione a imporre una sorta di protettorato.
Per potente che sia, l’apparato multimediale degli aggressori non riesce ad occultare la realtà della guerra. E, tuttavia, la neo-lingua si ostina a negare l’evidenza: preferisce parlare di operazione di polizia internazionale.
Ma è interessante notare la storia alle spalle di questa categoria. Riallacciandosi alla dottrina Monroe, da lui reinterpretata e radicalizzata, nel 1904 Theodore Roosevelt (presidente degli Usa) teorizza un «potere di polizia internazionale» che la «società civilizzata» deve esercitare sui popoli coloniali e che, per quanto riguarda l'America Latina, spetta agli Usa.
Siamo così ricondotti alla realtà del colonialismo e delle guerre coloniali, alla realtà che invano la neo-lingua cerca di rimuovere.
In prima fila nel promuovere la neolingua e lo stravolgimento della verità è disgraziatamente il presidente della Repubblica italiana, Giorgio Napolitano, più eloquentemente di ogni altro impegnato a dimostrare che quella in corso contro la Libia… non è una guerra!
Se appena rievocasse i ricordi della militanza comunista che è alle sue spalle, egli capirebbe che la tentata rimozione della guerra è in realtà una confessione. Come a suo tempo ha spiegato Lenin, le grandi potenze non considerano guerre le loro spedizioni coloniali, e ciò non soltanto a causa dell’enorme sproporzione di forze tra le due parti in campo, ma anche perché le vittime «non meritano nemmeno l'appellativo di popoli (sono forse popoli gli asiatici e gli africani?)» (Opere complete, vol. 24, pp. 416-7).
Civili
La guerra, anzi l’operazione di «polizia internazionale», scatenata contro la Libia mira a proteggere i «civili» dal massacro progettato da Gheddafi. Sennonché, la neo-lingua è immediatamente smentita dagli stessi organi di stampa che sono impegnati a diffonderla.
Il «Corriere della Sera» del 20 marzo riporta con evidenza la foto di un aereo che precipita in fiamme dal cielo di Bengasi. Sia la didascalia della foto sia l’articolo relativo (di Lorenzo Cremonesi) spiegano che si tratta di un «caccia» pilotato da uno dei «piloti più esperti» a disposizione dei ribelli e abbattuto dai «missili terra-aria di Gheddafi».
Ben lungi dall’essere disarmati, i rivoltosi dispongono di armi sofisticate e di attacco e per di più risultano assistiti sin dall’inizio dalla Cia e da altri servizi segreti, da «un’ampia forza occidentale che agisce nell’ombra» e da corpi speciali britannici famosi o famigerati a causa della loro «capacità distruttiva».
Sarebbero questi i «civili»? Ora poi, con l’intervento di una poderosa forza internazionale a fianco dei rivoltosi, è semmai il fronte contrapposto a risultare sostanzialmente disarmato.
Ma può essere opportuna un’ulteriore riflessione sulla categoria qui in discussione. Come osserva un docente (Avishai Margalit) dell’Università ebraica di Gerusalemme, nel conteggio ufficiale degli «attacchi terroristi ostili» il governo israeliano include anche il «lancio di pietre». E – si sa – contro i «terroristi» non ci può fermare a mezza strada.
Sulla più autorevole stampa statunitense («International Herald Tribune») possiamo leggere di «scene orripilanti di morte», che si verificano «allorché un carro armato e un elicottero israeliani aprono il fuoco su un gruppo di dimostranti palestinesi, compresi bambini, nel campo di rifugiati di Rafah». Sì, anche un bambino che lancia pietre contro l’esercito di occupazione può essere considerato e trattato quale «terrorista».
Un’avvocatessa israeliana (Leah Tsemel) impegnata a difendere i palestinesi riferisce di un «bambino di dieci anni ucciso vicino a un check point all’uscita di Gerusalemme da un soldato a cui aveva semplicemente lanciato una pietra» (su tutto ciò cfr. D. Losurdo, Il linguaggio dell’Impero, Laterza, Roma-Bari, 2007, cap. I, § 13). Qui la neo-lingua celebra i suoi trionfi: un pilota esperto che combatte alla guida di un aereo militare è un «civile», ma un bambino che lancia pietre contro l’esercito di occupazione è chiaramente un «terrorista»!
Giustizia internazionale
Se i campioni della lotta contro i bambini «terroristi» e palestinesi possono dormire sonni tranquilli, coloro che si schierano contro i «civili» all’opera in Libia saranno deferiti alla Corte penale internazionale.
A rischiare di essere deferiti (e condannati) non saranno soltanto i militari e i politici che comandano l’apparato militare. No, ad essere preso di mira è uno schieramento molto più ampio.
Spiegavano Patrick Wintour e Julian Borger su «The Guardian» già del 25 febbraio: «Ufficiali britannici stanno contattando personale libico di grado elevato per metterlo alle strette: abbandonare Muammar Gheddafi o essere processati assieme a lui per crimini contro l’umanità».
In effetti, su questo punto non si stancano di insistere i governanti di Londra e occidentali in genere. Essi considerano la Corte penale Internazionale alla stregua di Cosa nostra, ovvero alla stregua di un «tribunale» mafioso.
Ma il punto più importante e più rivoltante è un altro: ad essere minacciati di essere rinchiusi in carcere per il resto della loro vita sono funzionari libici, ai quali non viene rimproverato alcun reato.
E cioè, dopo essere intervenuti in una guerra civile e averla probabilmente attizzata e comunque alimentata, dopo aver dato inizio all’intervento militare ben prima della risoluzione dell’Onu, Obama, Cameron, Sarkozy ecc. continuano a violare le norme del diritto internazionale, minacciando di colpire con la loro vendetta e la loro violenza, anche dopo la fine delle ostilità, coloro che non si arrendono immediatamente alla volontà di potenza, di dominio e di saccheggio espressa dal più forte.
Sennonché, la neo-lingua oggi in vigore trasforma le vittime in responsabili di «crimini contro l’umanità» e i responsabili di crimini contro l’umanità in artefici della «giustizia internazionale».
Non c’è dubbio: assieme a un apparato di distruzione e di morte senza precedenti nella storia oggi infuria la neo-lingua, ovvero il linguaggio dell’Impero.
Inverecondo pasticcio all'Onu
di Giulietto Chiesa - La voce delle voci - Aprile 2011
Ha scritto molto bene il generale Fabio Mini, su Repubblica (20 marzo 2011), che stiamo assistendo, senza accorgercene, alla «trasformazione del Nord Africa in una confederazione di compagnie petrolifere», che andrà dalla ex Mauritania all’ex Egitto, all’ex Sudan, fino alla Penisola Arabica (finché continuerà a chiamarsi così).
I nuovi “stati” si chiameranno - chissà? - Total, BP, Exxon, Mobil, Chevron. Sicuramente nell’elenco non ci sarà ENI, che si è comportato male.
E non ci saranno neppure Gazprom, Lukoil, perchè Putin e Medvedev hanno votato male (cioè si sono astenuti) la risoluzione del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite che ha permesso “tutte le misure necessarie” contro la Libia.Quello che è accaduto al Palazzo di Vetro sarà ricordato, senza dubbio, come il più inverecondo pasticcio mai cucinato dall’Onu in tutta la sua non sempre onorata carriera. Cioè l’Onu ha approvato un documento che viola appunto una serie di fondamentali principi dell’Onu. Cioè ancora, l’Onu si è sparato nei piedi.
O, forse, potremmo dire che il premio Nobel per la pace, Barack Obama, gli ha sparato nelle palle, essendo evidente che è stato lui (sebbene non sia stato così evidente...) a guidare le bellicose azioni del piccolo capo Sarkozy e del bellimbusto Cameron, oltre che del neghittoso Cainano italiano.
Infatti gli autori dell’augusto documento si sono dimenticati di notare che il capitolo 7 della Carta (ora straccia) delle Nazioni Unite autorizza azioni militari solo in caso di «minacce alla pace e alla sicurezza internazionale».
Purtroppo la Libia non ha mai rappresentato una minaccia del genere. Lo stesso capitolo esclude espressamente «la ingerenza negli affari interni degli stati membri».
E la Libia è (era, al momento in cui scrivevo queste righe) uno stato sovrano, membro dell’Onu. E dunque? In mancanza di argomenti “autorizzanti” il CS (che andrebbe tradotto non come Consiglio di Sicurezza, ma come Corpo di Spedizione) ha tirato fuori la tesi della protezione dei civili inermi.
Purtroppo i “civili inermi” sono una forza militare a tutti gli effetti, tant’è che hanno conquistato tutto l’est del paese. E gli occidentali che hanno aggredito la Libia lo sanno benissimo, essendo stati loro ad averli armati e finanziati (si ricordi, tra i numerosi precedenti, la faccenduola dell’Uck, esercito di “liberazione” del Kosovo, spuntato fuori come un fungo, con divise e armi nuovissime, nel corto spazio di pochi mesi).
In altri termini il CS (che potrebbe essere tradotto anche come Coacervo di Sciocchezze) ha inventato un concetto nuovo e rivoluzionario, cioè l’idea di uno stato che aggredisce il proprio territorio, e che, per questo, deve essere punito e bombardato. Davvero una trovata originale, che avrebbe fatto impallidire d’invidia George Orwell.
Non azzardiamo previsioni sull’esito. Che potrebbe non essere così scontato. Le cinque guerre - inclusa quest’ultima - che l’Occidente ha scatenato dal momento della caduta del Muro di Berlino non sono state tutte vinte, sebbene siano state tutte sommamente vigliacche. E quelle contrassegnate come “missione compiuta” non sono andate poi così bene.
L’unica buona notizia è che, secondo i sondaggi, il 44% degli italiani sono contrari all’intervento militare in Libia. Risultato strepitoso, tenuto conto che governo e opposizione sono stati solidali, insieme al presidente della Repubblica, e a gran parte del mainstream informativo, nel plaudire alla guerra.
Vuol dire che, miracolosamente, molti italiani hanno ancora in funzione dei misteriosi anticorpi che impediscono loro di farsi infinocchiare.
di Michele Paris - Altrenotizie - 3 Aprile 2011
L’11 febbraio scorso, la caduta di Hosni Mubarak era stata giustamente salutata come una clamorosa vittoria del movimento rivoluzionario egiziano.
Nonostante la portata storica del risultato raggiunto dalle proteste di piazza, la giunta militare succeduta all’anziano dittatore ha fatto di tutto per impedire un reale cambiamento nel più importante paese arabo.
La prevedibile attitudine controrivoluzionaria delle forze armate in Egitto ha trovato immediatamente il sostegno degli Stati Uniti e degli altri paesi occidentali, pronti a puntare su uno dei pilastri del precedente regime per conservare una qualche “stabilità” in una regione in pieno fermento.
La prova più evidente del ruolo del Consiglio Supremo delle Forze Armate, alla guida dell’Egitto con poteri dittatoriali dopo aver rimosso Mubarak, è stata la promulgazione nella settimana scorsa di un decreto che mette fuori legge scioperi e manifestazioni di piazza che rechino disturbo all’attività delle compagnie pubbliche e private o all’economia del paese in genere.
L’iniziativa della giunta militare è arrivata dopo che le proteste e gli scioperi non accennavano a placarsi nelle settimane seguite all’uscita di scena di Mubarak e, in sostanza, finisce col criminalizzare quegli stessi metodi pacifici che centinaia di migliaia di persone avevano usato per chiedere il cambiamento.
Questo provvedimento serve ai militari per soffocare ulteriori proteste da parte dei cittadini egiziani e per bloccare sul nascere qualsiasi richiesta che vada al di là delle riforme di facciata adottate finora.
Nel dopo-Mubarak, i cortei e gli scioperi di lavoratori di svariati settori dell’economia egiziana sono infatti proseguiti, con l’obiettivo di ottenere veri diritti democratici ma anche opportunità di lavoro, aumenti di stipendio, giustizia e il licenziamento di quei funzionari e manager compromessi con il vecchio regime.
Se è pur vero che per le strade del Cairo si respira oggi un’aria diversa, l’ossatura del regime rimane pressoché inalterata, così come molti uomini vicinissimi a Mubarak continuano a ricoprire incarichi di potere.
A guidare il Consiglio Supremo delle Forze Armate è il 75enne maresciallo di campo Mohamed Hussein Tantawi. Per due decenni Ministro della Difesa (dal 1991), quest’ultimo viene descritto in un cablo del marzo 2008, redatto dall’allora ambasciatore USA al Cairo Francis J. Ricciardone e pubblicato da Wikileaks, “ostile al cambiamento” e, come Mubarak, “interessato alla stabilità del regime e al mantenimento dello status quo fino alla fine”.
Lo stesso premier, Essam Sharaf, era stato Ministro dei Trasporti tra il 2004 e il 2005 prima di dedicarsi all’insegnamento in seguito a divergenze con il governo e unirsi recentemente al movimento di protesta.
L’illusione di trovare nelle forze armate egiziane un alleato comune per la causa democratica si era diffusa rapidamente tra l’opposizione più o meno spontanea che si era riversata nelle strade a partire dalla fine di gennaio.
L’atteggiamento relativamente moderato dei militari di fronte alle proteste e alla repressione violenta dell’apparato di polizia del regime aveva contribuito ad alimentare le speranze di molti.
Questo entusiasmo, tuttavia, si è ben presto trasformato in diffidenza e rabbia non appena è apparso evidente che i vertici dell’esercito non rappresentano altro che una componente fondamentale del regime stesso.
In quanto tale, il Consiglio Supremo delle Forze Armate agisce per limitare il cambiamento nel paese e mantenere inalterata la struttura di un regime che si fonda su una ristretta cerchia di funzionari di alto rango e uomini d’affari arricchitisi a dismisura grazie ai favori ottenuti con la fedeltà dimostrata verso il deposto presidente Mubarak.
Per ottenere quest’obiettivo, la giunta militare continua ad appoggiarsi sul suo apparato di sicurezza - solo scalfito dagli eventi delle ultime settimane - e sullo stato di emergenza, in vigore dall’assassinio di Sadat nel 1981 e non ancora revocato nonostante le promesse.
Un ruolo fondamentale lo svolge poi la collaborazione con le opposizioni nominali, come i Fratelli Musulmani, il partito liberale Wafd, il presidente della Lega Araba Amr Moussa e in una certa misura anche Mohamed ElBaradei, così da offrire una facciata di democrazia di fronte alla comunità internazionale.
A riprova della natura reazionaria della giunta militare egiziana c’è soprattutto la repressione messa in atto per spegnere le proteste di quanti hanno continuato a presentarsi in Piazza Tahrir e altrove negli ultimi due mesi.
Violenze, detenzioni e addirittura abusi sessuali hanno contraddistinto la risposta di quelle forze armate che, nelle parole del portavoce della giunta, generale Ismail Etman, dovrebbero “proteggere e difendere la rivoluzione”.
La situazione egiziana, ormai passata in secondo piano sulla stampa occidentale, assieme alle durissime repressioni in paesi come Bahrain, Oman e Yemen e all’intervento militare in Libia evidenzia i formidabili ostacoli che stanno incontrando i movimenti popolari sorti in Medio Oriente e in Africa Settentrionale per chiedere libertà e giustizia sociale.
Gli strati più disagiati di queste popolazioni devono fronteggiare la resistenza delle élites locali, che reprimono nel sangue le proteste o, nella migliore delle ipotesi, concedono solo riforme superficiali; a queste si sommano le pressioni delle potenze occidentali che intervengono - anche militarmente, come nel caso libico - per proteggere i loro interessi.
In questo scenario, le cause che hanno scatenato le rivolte restano immutate: dalla povertà diffusa alla mancanza di spazi democratici, dalla corruzione dilagante alle disuguaglianze sociali sempre più marcate.
In Egitto, la giunta militare opera con il pieno appoggio di Washington e dell’Europa. Non a caso, infatti, il decreto contro scioperi e manifestazioni è stato emanato proprio in concomitanza della visita al Cairo del numero uno del Pentagono, Robert Gates, e poco dopo il discusso blitz in Piazza Tahrir del Segretario di Stato Usa, Hillary Clinton.
Gli Stati Uniti hanno assicurato ai militari al potere che continueranno ad arrivare miliardi di dollari in aiuti se verrà garantita quella stabilità che aveva fatto di Mubarak uno dei loro alleati più fedeli nella regione.
Lo stesso referendum costituzionale offerto agli egiziani e approvato lo scorso 19 marzo rientra nel tentativo del Consiglio Supremo delle Forze Armate di prevenire qualsiasi cambiamento traumatico del sistema.
I militari avevano infatti messo assieme in tutta fretta una commissione di esperti incaricata di proporre alcune modifiche alla Costituzione. Ciò che ne è uscito sono otto emendamenti trascurabili, tra cui il limite di due mandati per la carica di presidente, che hanno impedito qualsiasi altra richiesta di cambiamento più radicale.
Incassato il via libera al referendum, i generali egiziani hanno così annunciato le nuove date delle elezioni. Quelle per il Parlamento si terranno a Settembre invece che a Giugno, mentre le presidenziali sono state spostate da Agosto a Novembre.
La giunta, salvo un’eventuale nuova escalation di proteste, dovrebbe rimettere i poteri legislativo ed esecutivo, che attualmente detiene, dopo le due consultazioni. Il Parlamento procederà poi ad eleggere un’Assemblea di cento membri che sarà chiamata a scrivere una nuova Carta Costituzionale, da sottoporre a sua volta a referendum popolare.
Le forze di opposizione avrebbero voluto tempi più lunghi per il voto. Tempi così brevi, sostengono gli animatori della rivolta, finiranno per favorire i partiti meglio organizzati, come i Fratelli Musulmani e il Partito Nazionale Democratico che fu di Hosni Mubarak.
Un esito che sarebbe tutt’altro che rivoluzionario, ma che i militari e gli americani gradirebbero per chiudere rapidamente e senza troppe scosse la travagliata transizione verso un Egitto “democratico”.
Le sta provando tutte pur di non lasciare la comoda poltrona da dittatore. Negoziati segreti, manifestazioni, offerte di compromesso, minacce, pressioni sugli alleati esteri. Dopo 32 anni alla guida dello Yemen, Ali Abdullah Saleh sembra sempre più vicino alla sconfitta.
Ma intende combattere fino all'ultimo le migliaia di manifestanti che da gennaio chiedono ogni giorno le sue dimissioni. L'ennesima proposta è arrivata mercoledì sera, quando il presidente ha incontrato Mohammed al Yadoumi, leader del partito islamico al Islah, un tempo alleato del governo ed ora capofila dell'opposizione.
Saleh ha offerto di trasferire i suoi poteri ad un esecutivo provvisorio, che avrebbe il compito di traghettare il Paese verso nuove elezioni. Ma alle urne non si andrebbe prima del 2012 e, fino ad allora, il dittatore yemenita rimarrebbe al suo posto.
"Saleh moltiplica le proposte inutili e le provocazioni - ha replicato Mohammad al Qahtan, portavoce dell'opposizione - e tutti questi tentativi non hanno che un unico fine, quello di rimanere al potere. Ma il presidente ha un'unica scelta: se ne deve andare".
Non solo. Dalle fila di al Islah è arrivata anche un'accusa ben precisa. Secondo lo sceicco Sadiq al Ahmar, Saleh starebbe pensando "all'esecuzione di omicidi eccellenti come soluzione per uscire dalla crisi". Nel mirino del regime ci sarebbero personalità politiche dell'opposizione.
Fra goffi tentativi d'accordo e oscuri piani sanguinari, il capo di Stato yemenita è anche costretto ad ammettere qualche sconfitta. Di fronte ai membri del suo partito ha annunciato che almeno sei delle diciotto province del Paese sono cadute in mano agli oppositori.
Una debacle che si è consumata nell'arco di poche settimane, da quando molti governatori hanno deciso di aderire alla causa dei manifestanti. Nonostante tutto, Saleh si mostra ancora combattivo: "Mi rivolgo a quelli che mi chiedono di andare via - ha detto - tocca a voi lasciare lo Yemen. Avete versato il sangue dei giovani per i vostri scopi".
Nei giorni scorsi il presidente ha ufficializzato la nomina dei nuovi generali che andranno a rimpiazzare quelli passati al fronte anti-regime. Ma l'esercito di Sana'a non fa paura tanto per il suo potenziale bellico, quanto per le funzioni che non può o non vuole più svolgere.
Da tempo le truppe sono concentrate nella Capitale a contrastare la rivolta, mentre le province periferiche del Paese sono abbandonate all'anarchia. Caso emblematico del nuovo scenario è la tragedia che si è consumata lunedì scorso a Jaar, nel sud dello Yemen, dove una fabbrica di armi è esplosa.
Centocinquanta persone sono morte, più di ottanta i feriti. L'esatta dinamica dell'incidente (o attentato) rimane un mistero. C'è chi parla di una sigaretta caduta per sbaglio, chi tira in ballo Al Qaeda, chi ancora sostiene sia opera dei gruppi indipendentisti meridionali.
L'unica cosa certa è che da qualche giorno l'intera area fosse nelle mani di alcuni miliziani islamici. L'opposizione ha accusato Saleh di aver ritirato l'esercito dalla zona proprio perché i terroristi se ne impadronissero.
L'ipotesi è che il presidente abbia deciso di collaborare con i gruppi fondamentalisti per ingigantire e sfruttare le paure degli Stati Uniti. Negli ultimi dieci anni il regime è stato alleato di Washington nella lotta contro il ramo yemenita di Al Qaeda, che ha rivendicato il fallito attentato del 2009 su un aereo diretto a Detroit e i pacchi bomba sui cargo indirizzati negli Usa lo scorso ottobre.
Adesso è probabile che il dittatore di Sana'a voglia rinfrescare la memoria agli amici americani, dando loro un assaggio di quello che potrebbe accadere se davvero nel Paese si compisse la rivoluzione. Si tratta di lasciare indifeso il territorio per poi poter dire: "Dopo di me, il diluvio".
Guarda caso, giovedì gli uomini di Al Qaeda hanno annunciato la nascita del loro primo emirato islamico in Yemen. Avrà sede nella provincia meridionale di Abyen, esattamente dove si trova Jaar. Secondo quanto annunciato dagli stessi terroristi via radio, i loro gruppi armati avrebbero già occupato il palazzo presidenziale e l'area intorno alla città.
Ma non è solo il sud a doversi preoccupare. Nella provincia centrale di Maarib, ad esempio, il governatore è stato accoltellato per aver cercato di disperdere i manifestanti. Anche qui Al Qaeda è molto attiva.
Secondo fonti militari, di recente i terroristi avrebbero attaccato una stazione dell'esercito, uccidendo sette soldati e ferendone altri sette. Questo dimostrerebbe che se davvero Saleh punta a sfruttare l'organizzazione criminale, quantomeno il suo piano non poggia su una vera alleanza con i miliziani.
Intanto ieri è stato un altro giorno di manifestazioni a Sana'a, dove gli oppositori e i sostenitori del presidente hanno dato vita a due diversi cortei, separati da un solo chilometro di distanza. Dopo la strage di due settimane fa, quando 52 persone furono massacrate dai cecchini in piazza del Cambiamento, era ancora grande la paura della violenza.
Per questo gli organizzatori della protesta contro il dittatore hanno deciso di non marciare fino al palazzo presidenziale, come all'inizio avevano programmato. Dal canto suo Saleh ha ribadito di fronte ai suoi fedeli che intende "sacrificarsi" per il popolo yemenita "con il sangue" e con tutto quello che ha "di più caro".
Forse per dar prova di buona volontà, nei giorni scorsi il presidente ha ordinato il rilascio di decine di attivisti che da settimane erano rinchiusi in prigione. Non si sa se lo abbia fatto davvero come gesto conciliante o se semplicemente abbia voluto evitare che i manifestanti prendessero d'assalto le carceri. Fatto sta che a nessuno è venuto in mente di ringraziarlo. Sono rimasti in pochi, nello Yemen, a non saper riconoscere i trucchi di Saleh.
Costa d'Avorio, verso lo scontro finale
di Alberto Tundo - Peacereporter - 4 Aprile 2011
Le forze del presidente Ouattara si preparano a lanciare l'offensiva contro Gbagbo. Ad Abidjan ore di attesa e di paura
Il vescovo di Abidjan, le forze speciali francesi della Brigade Licorne e il presidente uscente Laurent Gbagbo. Dicono cose diverse ma fanno tutti la stessa cosa: si preparano per la tempesta che tra poche ore colpirà Abidjan, la capitale commerciale della Costa d'Avorio, teatro della resa dei conti tra il golpista Gbagbo, il legittimo presidente Alassane Ouattara e i rispettivi gruppi armati.
Cominciamo dalla più alta autorità cattolica ivoriana, monsignor Jean-Pierre Kutwa, che oggi ha affidato all'agenzia vaticana Fides una testimonianza più eloquente di ogni reportage: "La situazione è calma, nel senso che le sparatorie sono ridotte, ma è una calma inquietante, per niente rassicurante. La tensione è fortissima. La popolazione è barricata in casa. In alcuni quartieri manca l'acqua e l'elettricità, non si trovano i viveri. Siamo in attesa della battaglia finale.
È una tragedia indescrivibile". Dalle sue finestre, monsignor Kutwa può vedere a cosa ricorre un regime disperato e senza scrupoli.
Secondo quanto appreso da Peacereporter, in prossimità della cattedrale i luogotenenti di Gbagbo stanno schierando civili come scudi umani per fermare l'avanzata delle forze d'attacco di cui dispone Ouattara. Le Forces Républicaines de Cote d'Ivoire (Frci) lunedì 28 marzo hanno lanciato un'offensiva micidiale, che in quattro giorni li ha portati a prendere l'80 per cento del Paese.
Giovedì erano arrivati alle porte di Abidjan, il giorno dopo vi erano penetrati e avevano iniziato l'assedio del palazzo presidenziale. Poi, inspiegabile, una ritirata tattica nelle zone settentrionali della metropoli, in quei quartieri di Abobo e Anyama che nell'ultimo mese erano diventati i bastioni del fronte anti-Gbagbo. Da lì starebbero per dare inizio all'affondo finale. Questioni di ore, dicono a Peacereporter fonti vicine al presidente Ouattara.
A Gbagbo non resta che il controllo dell'area che comprende il palazzo presidenziale, la sua abitazione privata e la caserma della Gendarmeria d'Abgan, tra i quartieri di Plateau e Cocody. Per arrivare davanti alla sede della presidenza, però, le Frci dovranno passare di fronte alla cattedrale. Ed è lì che si stanno schierando i "martiri" che rischiano di restare schiacciate nella guerra che si scatenerà tra i due gruppi.
I due eserciti e tutto il coté di milizie e bande armate si sono già incontrare a Duékué martedì scorso ed è stata una carneficina: 800 morti secondo la Croce Rossa, 330 secondo Human Rights Watch; Ouattara che fino ad ora era riuscito a tenersi le mani relativamente pulite, è stato subito impallinato da Washington e dal Segretario generale delle Nazioni Unite, Ban Ki-moon, che gli hanno chiesto di tenere sotto controllo i suoi uomini. Ouattara e i suoi generali hanno promesso un'indagine interna e avviato una verifica sul campo, in seguito alla quale sono stati contati 152 cadaveri.
Pare che molte delle vittime siano cadute sotto i colpi di macete dei Dozos, un gruppo di cacciatori schieratosi al fianco del presidente. Ad Abidjan potrebbe scoppiare l'inferno. Per questo i francesi, che già avevano 900 teste di cuoio della Brigata Licorno negli ultimi due giorni hanno inviato altri 400 soldati di rinforzo.
Venerdì hanno preso possesso dell'aeroporto Houphouet-Boigny di Abidjan, preparandosi ad una operazione per evacuare i circa 12 mila stranieri nella loro ex colonia, 1600 dei quali hanno trovato rifugio in un campo d'accoglienza allestito all'interno della caserma francese.
Contro di loro, Gbagbo ha in campo la Guardia Repubblicana, i Fumaco (forze d'assalto della Marina), i gruppi speciali della Gendarmeria e una piccola parte dell'esercito regolare. In tutto cinquemila uomini, molti dei quali sentono che la fine è vicina e hanno paura.
Dal campo di Ouattara, dicono che hanno rinviato alla sera di lunedì l'offensiva finale per avere tempo di capire dove siano stati piazzati artiglieria e tank nemici.
In realtà, pare che siano emerse forti frizioni tra l'Frci e i Commando invisibili, anti Gbagbo ma non propriamente pro-Ouattara: obbidiscono a un generale ribelle, Ibrahim Coulibaly, personaggio inquietante che non si è ben capito quale partita stia giocando.
Paura ce l'aveva anche l'ex capo di Stato maggiore Philippe Mangou che venerdì scorso aveva defezionato, chiedendo protezione all'ambasciata sudafricana. Ora, il regime annuncia trionfante il ritorno del figliol prodigo.
Ma facendo domande si scopre che il generale si sarebbe consegnato dopo che Gbagbo aveva minacciato di radere al suolo il villaggio d'origine di Mangou e di uccidergli figli e parenti. Il suo destino è comunque segnato.
Ma anche quello del presidente golpista non riserva niente di meglio, tanto che - secondo quanto riferito a Peacereporter da fonti del governo ivoriano, il 31 marzo Gbagbo avrebbe contattato il governo del Benin per chiedere rifugio per sé e per i suoi. Aveva già pronto il discorso di resa. E invece l'hanno costretto a restare. Il cenacolo nero è composto dai pastori evangelisti che ormai costituiscono il nucleo forte dei consiglieri dell'ex presidente, l'anima oltranzista del regime.
Da mesi vanno ripetendo a Gbagbo che lui è stato scelto da Dio come suo emissario, che deve realizzare la sua missione. In questa storia di fanatismo suicida, spiccano tre personaggi oscuri: il ministro della Gioventù Charles Ble Goudé, che da ore lancia messaggi di terrore alla popolazione, dicendo che i francesi stanno per compiere un genocidio come quello ruandese; il Consigliere spirituale della presidenza, Moise Koré, ex presidente della federazione ivoriana di basket; la moglie del presidente, Simone, una zarina che ha fatto diventare Gbagbo una sorta di suo portavoce.
Numero due del partito di governo (Fpi), capo deideputati, già invischiata nella misteriosa scomparsa/omicidio del gionalista franco-canadase Guy André Kieffers, la signora ha convinto il marito ad abbandonare il cattolicesimo e a circondarsi di pastori protestanti evangelici fanatici. Che pregano notte e giorno. In queste ore d'angoscia prega anche monsignor Kutwa. Prega che non si realizzi il volere del dio allucinato di Gbagbo e della sua corte di stregoni.
La verità che nessuno vuole ammettere: ci stiamo incamminando verso un'altra crisi
di Robert Reich - www.huffingtonpost.com - 31 Marzo 2011
Traduzione per www.comedonchisciotte.org a cura di Supervice
Perché agli Americani (1) non viene detta la verità sull'economia? Siamo indirizzati verso un'altra crisi, ma non ne verremmo mai a conoscenza ascoltando i messaggi ottimisti che arrivano da Wall Street e da Washington.
I consumatori rappresentano il 70% dell'economia Americana e la loro fiducia è crollata: oggi è mediamente più debole che nel punto più basso della Grande Depressione.
Un sondaggio, tenuto da Reuters e dall'Università del Michigan, evidenzia un calo di dieci punti a marzo , il decimo più alto mai registrato. Parte di questo calo è da attribuire al rincaro della benzina e a quello dei generi alimentari.
Un diverso indice della fiducia dei consumatori, appena realizzato, mostra che la fiducia sta calando da cinque mesi, e per larga parte ciò è dovuto all'aspettativa di trovare impieghi peggiori e di ricevere salari più bassi nei mesi a venire.
I consumatori pessimisti acquistano meno, e vendite inferiori significano guai in vista.
E i 192,000 nuovi impieghi che si sono aggiunti a febbraio (per quelli di marzo ne sapremo qualcosa di più venerdì)?
Un'inezia in confronto a quanto sarebbe necessario;
ricordiamo che 125,000 nuovi impieghi sono sufficienti solo per vedere aumentare il numero delle persone in cerca di un lavoro, visto che la nazione ha perso così tanti impieghi negli ultimi tre anni che persino una quota di 200,000 nuovi assunti al mese non riuscirebbe a farci giungere al 6% di disoccupazione prima del 2016.
Ma l'economia non sta di nuovo crescendo, per una stima che va dal 2,5 a, 2,9%? Sì, ma sono bruscolini. Più profonda è la voragine economica, più rapida dovrà essere la crescita per rientrare sui giusti binari; al punto in cui siamo, da una vera crescita, dovremmo aspettarci un incremento che va dal 4 al 6% ogni anno.
Consideriamo che nel 1934, quando si stava uscendo dalla crisi più profonda della Grande Depressione, l'economia cresceva del 7,7%, l'anno successivo dell'8% e nel 1936 giunse ad un incremento sensazionale del 14,1%.
Aggiungiamo due fattori preoccupanti: il totale delle le ore lavorate continua a diminuire e i prezzi delle case continuano a scendere. Le retribuzioni orarie stanno calando, perché la disoccupazione è così alta che molte persone non alcun potere contrattuale e accettano qualsiasi cosa gli venga proposta; i prezzi delle abitazioni diminuiscono perché un numero ancora più alto di persone sono state sfrattate dato che non potevano pagare i loro mutui. Gli Americani stanno diventando sempre più poveri.
Non c'è alcuna possibilità che il governo riesca a risolvere la prossima diminuzione della spesa dei consumatori; al contrario, sta peggiorando la situazione. Quest'anno, gli enti locali e nazionali stanno tagliando i loro bilanci di circa 110 milioni di dollari: lo stimolo federale sta terminando e il governo alla fine taglierà qualcosa come 30 milioni di dollari rispetto a quanto stanziato l'anno scorso.
In parole povere: stiamo all'erta. Potremmo riuscire a evitare una doppia crisi, ma l'economia sta rallentando in modo inquietante e gli interventi di salvataggio sono in via d'esaurimento.
E quindi perché non ci viene detta la verità sull'economia? Come al solito, Wall Street si mostra esuberante, e la maggioranza dei notiziari economici che vengono diffusi arrivano proprio da lì.
I profitti di Wall Street sono arrivati a 426,5 milioni di $ nell'ultimo quadrimestre, in base a quanto divulgato dal Commerce Department (questo guadagno è superiore al calo dei profitti delle compagnie nazionali non finanziarie).
Tutti quelli che credono che la riforma finanziaria Dodd-Frank abbia posto fine alla creatività della borsa stanno girando la testa dall'altra parte.
Alla fine dei giochi anche le compagnie non finanziarie stanno comunque facendo bene, visto che la maggior parte dei loro profitti viene all'estero: dal 1992, ad esempio, i profitti offshore di G.E. sono saliti a 92 miliardi di $ dai 15 precedenti (anche per il fatto che così non vengono pagate le imposte USA).
Infatti, l'unico conglomerato che è ottimista sul futuro è costituito dai general manager delle grandi compagnie Americane. L'indice di prospettiva economica del Business Roundtable, che monitora 142 amministratori delegati, è adesso al suo punto più alto da quando ha iniziato nel 2002.
Washington, nel frattempo, non ha nessuna intenzione di suonare l'allarme economico: la Casa Bianca e la maggior parte di Democratici vogliono che gli Americani credano che l'economia sia in ripresa.
I Repubblicani, da parte loro, si preoccupano che, se gli venisse detto come stanno realmente le cose, allora gli Americani vorrebbero che il governo intervenisse ancora di più; preferiscono non parlare di lavori e di stipendi e così focalizzano l'attenzione sulla riduzione del deficit (oppure diffondendo la menzogna che con la riduzione del deficit si avranno più posti di lavoro e stipendi più alti).
Mi dispiace di aver portato cattive notizie, ma è meglio che voi lo sappiate.