venerdì 10 giugno 2011

News Shake

Un altro collage di articoli per la rubrica News Shake, notizie a caso ma non per caso...



Fukushima, la Tepco e i pescatori

di Carlo Musilli - Altrenotizie - 9 Giugno 2011

La Tepco non perde occasione per fare brutta figura. L'ultima mirabolante impresa del colosso nipponico che gestisce la disastrata centrale nucleare di Fukushima ha a che fare con oltre 3.000 tonnellate di acqua radioattiva.

Vorrebbero scaricarle nel Pacifico senza starci a pensare troppo. Poco importa che si fossero impegnati a ripulire i liquidi dalla contaminazione pesante per riportarli a livelli vicini alla normalità.

"Non c'è tempo", dicono, e in effetti hanno le loro ragioni. Tutti quegli ettolitri finiti nell'impianto numero due provengono direttamente dallo tsunami dello scorso 11 marzo. Quindi si tratta di acqua salata, che rischia di corrodere apparecchi e strutture. Sono a rischio la turbina del reattore e altre parti della centrale che potrebbero contenere piccole quantità di elementi dannosi come il cobalto.

E' anche vero però che non stiamo parlando di Fukushima Daiichi, lo stabilimento semidistrutto dal disastro naturale, ma di Fukushima Daini, una centrale che si trova a circa dieci chilometri dalla sua sorella maggiore e che terremoto e tsunami hanno danneggiato in modo molto meno grave.

Già ad aprile la Tepco ha rilasciato oltre 10mila tonnellate di acqua contaminata nell'oceano, ma in quel caso lo scolo mortifero proveniva dal primo impianto, il più pericoloso. Una giustificazione che comunque non era servita ad evitare che contro la società si scatenasse l'ira funesta di Corea del Sud e Cina.

Tornando ad oggi, spiega Hidehiko Nishiyama, vicedirettore generale dell'Agenzia per la sicurezza industriale e nucleare (Nisa), che supervisiona le attività della Tepco, "l'acqua contaminata presente nell'impianto di Fukushima Daini contiene elementi radioattivi come il manganese e il cobalto, che solitamente derivano dalla corrosione del metallo, ma elementi come lo iodio e il cesio, che derivano da combustibile nucleare danneggiato, non sono stati rintracciati". Insomma, liberarsi di quell'acqua non è esattamente in cima alla lista delle cose più urgenti da fare.

La Tepco però sembra avere una fretta indiavolata, non si capisce bene perché. Ma a questo punto gli sbrigativi propositi della compagnia incontrano un nemico inaspettato: l'Agenzia nipponica della Pesca. E' inutile perdere troppo tempo a riflettere sul potenziale danno all'ambiente, andiamo al sodo: con l'acqua contaminata non si vende più il pesce.

Sembra la vecchia storia della tragedia che scivola verso la farsa, ma in questo caso l'elemento grottesco è servito almeno ad evitare che si combinasse un secondo disastro per risolvere il primo.

Eppure gli scienziati le provano tutte: come ultima risorsa propongono perfino di utilizzare un minerale speciale (lo zeolite) per eliminare la radioattività. Niente. L'Agenzia della Pesca non ne vuole sapere. E così la Tepco deve fare un passo indietro. A pensarci bene, anche se il problema è serio, non occorre essere degli ingegneri, né dei pescatori, per capire che non lo si può risolvere tirando la catena.

Acqua a parte, con il passare dei giorni (e dei mesi) la situazione di Fukushima non migliora. Solo ieri nei primi due reattori di Daiichi è saltata un paio di volte la corrente elettrica. Miracolosamente la Tepco è riuscita a non interrompere il processo di raffreddamento.

Nelle stesse ore il Giappone raddoppiava le stime sulle radiazioni fuoriuscite dall'impianto nella settimana successiva al cataclisma. La Nisa sostiene che in quei giorni furono dispersi nell'atmosfera circa 770mila terabecquerel (unità di misura delle radiazioni). La stima precedente era di 370mila.

Questi dati sono stati pubblicati poco prima che a Tokyo partissero i lavori della commissione di inchiesta indipendente sulla crisi nucleare. Il suo compito sarà di valutare se nelle prime fasi dell'emergenza le istituzioni e la Tepco abbiano messo in pratica tutte le misure di sicurezza più adeguate.

Alla guida della commissione c'è Yotaro Hatamura, professore all'università di Tokyo ed esperto nell'analisi degli errori umani. Nel corso della prima riunione, il professore ha espresso un concetto molto semplice. Anche stavolta, non serviva essere ingegneri per capire quale fosse il punto: "L'energia nucleare è pericolosa ed è stato un errore considerarla sicura".


Assetati di profitto
di Christian Elia - Peacereporter - 8 Giugno 2011

La Nestlè propone la borsa dell'acqua, mentre la Regione Toscana propone l'azionariato popolare

Della Nestlè si potranno dire tante cose, ma di sicuro non gli manca il senso degli affari. Non è un caso che una delle più grandi multinazionali della Terra abbia messo, da tempo, gli occhi sul business dell'acqua. Al punto da proporne, il 7 giugno scorso, la quotazione in Borsa nello Stato dell'Alberta in Canada.

A sentire i vertici della mega azienda, l'idea nasce dalla necessità di risolvere un'annosa questione locale legata alla concorrenza nel settore. L'acqua dell'Alberta è contesa dagli agricoltori locali che la utilizzano per irrigare i campi coltivati, e dalle compagnie petrolifere che la utilizzano per estrarre il petrolio dalle sabbie bitumose.

Peter Brabeck, presidente della Nestlè, in un'intervista concessa alla Reuters, ha affermato che l'acqua dovrebbe essere trattata ''come il petrolio, dove é evidente cosa accade quando la domanda sale. Il mercato reagisce e le persone iniziano ad usarlo in maniera più efficiente''.

Il governo dell'Alberta pare molto interessato alla proposta e ha già approntato la prima mossa: creare una distinzione tra diritti alla terra e diritti all'acqua, di modo che il possesso della terra non implichi il diritto all'acqua che vi scorre.

Il solito ritornello: il privato che arriva in soccorso - molto ben renumerato - del pubblico sprecone. Qui si va addirittura oltre la privatizzazione di un bene comune, arrivando a teorizzare l'acqua come un bene sul quale speculare.

"Affidare l'acqua alla borsa significa confiscare ai popoli della Terra un bene comune pubblico insostituibile per la vita, consegnando il futuro della vita di milioni di persone al potere di arricchimento di pochi grandi speculatori finanziari", ha commentato Riccardo Petrella, presidente dell'I.E.R.P.E (Istituto Europeo di Ricerca sulle Politiche dell'Acqua).

Questi i rischi che si corrono a trattare l'acqua come una merce. Una merce appetibile, visto che si stima in 300 milioni di euro i dividendi che le aziende legate alla gestione dell'acqua e quotate in Borsa distribuiscono ai loro soci ogni anno.

In attesa che gli elettori italiani possano esprimersi sulla materia il 12 e il 13 giugno prossimi, ecco che la Regione Toscana - traumatizzata dalle esperienze di privatizzazione dei servizi idrici ad Arezzo e altrove - lancia un'idea innovativa per portare quel denaro nelle casse esclusivamente degli enti locali e non delle multinazionali private.

Enrico Rossi, presidente della Regione Toscana, ha annunciato il 6 giugno scorso che varerà una legge che permetterà ai cittadini di diventare i proprietari degli acquedotti e dell'acqua che bevono, grazie allo strumento dell'azionariato popolare.

Una vera rivoluzione, che metterebbe fine alle mire speculative di coloro che sono assetati di profitto e produrrebbe i fondi necessari agli enti locali per gli investimenti necessari alla manutenzione degli impianti, per evitare gli sprechi.


La Cina avverte che l'ipotesi del default Usa è come giocare col fuoco
di Emily Kaiser - www.informationclearinghouse.info - 8 Giugno 2011
Traduzione per
www.comedonchisciotte.org a cura di Supervice

8 giugno 2011, Reuters - SINGAPORE Mercoledì un consulente della banca centrale cinese ha riferito che i parlamentari Repubblicani stanno "giocando col fuoco" se contemplano l’ipotesi anche di un piccolo default sul debito come mezzo per forzare l’aumento dei tagli alla spesa del governo.

L’idea di un default tecnico – essenzialmente il ritardo del pagamento degli interessi per pochi giorni – ha riscosso un'approvazione sempre maggiore tra i Repubblicani che lo considerano il prezzo da pagare per costringere la Casa Bianca a tagliare la spesa pubblica, secondo quando riportato dalla Reuters giovedì.

I funzionari del governo e gli investitori avvertono che una qualsiasi forma di default potrebbe destabilizzare l’economia globale e acuire le già tese relazioni con i grandi creditori degli Stati Uniti come la Cina.

Li Daokui, un consulente presso la Banca Popolare della Cina, ha riferito che un default potrebbe mettere a repentaglio il dollaro USA, e Pechino ha dovuto dissuadere Washington nel proseguire in questa direzione.

Li ha riferito ai giornalisti presenti a un forum tenuto a Pechino: "Io credo che ci sia il rischio che un default del debito USA possa davvero accadere. Le conseguenze sarebbero molto serie e spero realmente che la smettano di giocare col fuoco."

La Cina è il più grande creditore straniero degli Stati Uniti e deteneva a marzo più di 1 trilione di dollari del debito del Tesoro in base di dati degli USA, e le sue rimostranze hanno un peso considerevole su Washington.

"Mi preoccupo seriamente dei rischi di un default del debito degli Stati Uniti, che credo porterebbe a un declino del valore del dollaro", sono le parole di Li.

Il Congresso era riluttante a innalzare il limite fissato per la spesa del governo come indicato dai legislatori per limitare il deficit che si pensa raggiunga 1,4 trilioni di dollari in quest’anno fiscale. Il Dipartimento del Tesoro degli USA ha riferito che terminerà il periodo di sottoscrizione dei titoli il 2 agosto.

L’amministrazione Obama è già stata avvertita delle conseguenze "catastrofiche" nel caso in cui gli Stati Uniti non pagassero gli interessi sul suo debito, cosa che potrebbe spingere la sua fragile economia di nuovo in recessione.

"Tutto questo ha serie conseguenze per l’economia in un periodo in cui i dati macroeconomici stanno peggiorando", ha detto Ben Westmore, un economista di commodities alla National Australia Bank.

"È solo un’idea balzana", ha detto.

I mercati finanziari stanno seguendo il dibattito che avviene negli USA, ma considerano basso il rischio di un default.

Mercoledì i prezzi delle emissioni del Tesoro USA sono rimasti stabili in Europa, grazie a un aumento della loro fiducia per via della crisi del debito greco e delle preoccupazioni sul rallentamento della crescita economica degli Stati Uniti.

Marc Ostwald, uno stratega di Monument Securities a Londra, ha detto che i mercati stanno operando nella convinzione che la storia del debito USA "scomparirà". Ma il nervosismo potrebbe crescere se una soluzione non venisse raggiunta nelle prossime cinque o sei settimane.

“NON SUCCEDERÀ”

L'ipotesi dei Repubblicani si avvale sull'idea che i possessori di obbligazioni accetterebbero un breve ritardo nel pagamento degli interessi se ciò volesse dire che Washington ha finalmente sistemato i problemi fiscali di lungo periodo, mettendo così il paese in una posizione più solida per poter soddisfare le sue obbligazioni in futuro.

Ma le interviste con i funzionari dei governo e gli investitori ci rivelano che il default è considerato una possibilità assurda – e remota – tanto da non poterla neanche immaginare.

"Come possiamo permettere agli Stati Uniti di fare default?", ha detto un dirigente della banca centrale dell’India. "Non crediamo che sia possibile, perché creerebbe un panico finanziario globale."

I funzionari indiani fanno presente che hanno poche altre scelte oltre ai titoli del Tesoro USA, perché si tratta ancora di uno degli investimenti più sicuri e liquidi che ci siano. I dati degli Stati Uniti mostrano che questa banca detiene 39,8 miliardi di titoli del Tesoro a marzo 2011.

I funzionari non vogliono essere identificati perché non sono autorizzate a parlare ai media.

L’Oman si sta preoccupando dell’impatto di un default sulle riserve di moneta del sultanato e dei suoi vicini nel Golfo.

"Le nostre economie sono molto connesse con gli sviluppi delle finanze degli USA", ha detto un dirigente di alto livello della banca centrale, che ha parlato sotto anonimato.

"Semplicemente non succederà", ha detto Barry Evans, che controlla 83 miliardi di dollari in titoli a reddito fisso alla Manulife Asset Management. "Dovrebbero pagare i conti del Tesoro prima di tutto il resto. Molto semplice."

Ostwald della Monument considera lo scenario del default "spaventoso" e ha detto che la pazienza degli obbligazionisti potrebbe saltare se i legislatori continueranno a tenere questa strategia nelle prossime settimane: “Questo non è un dibattito, questa è una situazione di stallo e proprio qui sta il problema".

Yuan Gangming, ricercatore alla Chinese Academy of Social Sciences, un think tank governativo, pensa che ci siano delle trattative politiche intorno al dibattito sul debito USA - proprio quando le elezioni presidenziali del 2012 si stanno avvicinando - e crede che i Repubblicani "vogliono rendere le cose difficili a Obama".

Ma, visto che il Tesoro degli Stati Uniti sta finendo il periodo di sottoscrizione dei suoi titoli, Yuan ha detto che un default è un rischio reale: "La possibilità di vedere un default del debito USA è abbastanza alta, ed è una situazione che farebbe del male a molte nazioni, e alla Cina in particolare."


La nuova corsa all'Africa

di Tirivangani Masaw - The Southern Times - 27 Maggio 2011

Tradotto per www.comedonchisciotte.org da Pingus

Windhoek - L'Africa meridionale è diventata il campo di battaglia nella nuova corsa alle risorse, con gli Stati Uniti che cercano di estromettere l'influenza cinese al fine di assicurarsi l’accesso a minerali di importanza strategica, soprattutto per l’uso militare.

Quel che più preoccupa è che lo stesso esercito USA potrebbe entrare in gioco direttamente, nei prossimi venti anni, per mettere le mani su questi minerali strategici.

Secondo uno studio condotto dal dottor Stephen Burgess, originario dello Zimbabwe e professore associato presso l'US Air War College, per assicurarsi le risorse dell'Africa Meridionale Washington deve usare gli strumenti forniti da Dipartimento della Difesa, dalla National Security Agency e dall’African Command (AFRICOM).

Secondo lo studio, intitolato "Sostenibilità dei Minerali Strategici nell'Africa Meridionale, potenziali conflitti e alleanze", gli Stati Uniti devono muoversi velocemente al fine di assicurarsi l'approvvigionamento dall'Africa Meridionale di uranio, manganese, platino, cromo, cobalto e terre rare per coprire il fabbisogno della propria industria civile e militare e per la manutenzione dei sistemi bellici.

Lo studio analizza l'accessibilità a queste risorse nella Repubblica Democratica del Congo (RDC), Namibia, Sud Africa, Zambia e Zimbabwe, e delinea un parallelismo con la corsa degli anni intorno al 1880 per l'accesso alle risorse del continente africano. Per vincere questa corsa, nota Burgess, gli USA devono essere pronti ad utilizzare “tutti i mezzi a disposizione”.

Durante lo studio Burgess ha visitato tutti i paesi sopra menzionati, eccetto lo Zimbabwe, e ha messo a punto una serie di consigli su come meglio riuscire ad estromettere la Cina. La sua ricerca include varie interviste a esperti del settore minerario, rappresentanti governativi e giornalisti.

Sono stati consultate anche istituzioni americane come il Defence National Stock Pile Center, la Defence Logistics Agency e il comando dei Marine Corps. Lo studio include una nota in cui si afferma che lo studio condotto non è in relazione con lo US Air War College, da cui si evince la possibilità che Burgess abbia svolto l'analisi come consulente di Washington.

L'Africa Meridionale possiede risorse minerarie strategiche, necessarie agli Stati Uniti per i propri scopi industriali e al complesso militare per la produzione e il sostegno di armamenti. Per gli USA e i suoi alleati la principale minaccia alla sostenibilità in Africa Meridionale è costituita dall'incertezza nell'accesso ai minerali strategici. La causa di questa incertezza è l'aumento della domanda globale e la scarsità di approvvigionamento causati da infrastrutture inadeguate, politicizzazione dell'industria mineraria e approccio aggressivo e a volte monopolistico della Cina nell'accaparramento delle risorse minerarie.

Questo rischio è molto più acuto nei paesi dell' Africa Meridionale - Sud Africa e Repubblica Democratica del Congo (DRC) - e in aumento in Zambia, Zimbabwe e Namibia. Particolarmente preoccupante è la possibilità di futuri conflitti tra gli Stati Uniti, bisognosa di minerali strategici per la difesa nazionale e l'industria, e la Cina, che richiede una crescente quantità di risorse per la propria crescita industriale.

La corsa verso le risorse dell'Africa, soprattutto verso i paesi ricchi di petrolio e miniere, è costantemente in crescita. Il particolare l'interesse USA si concentra verso quelle risorse il cui accesso è di importanza critica per la difesa. Questo comporta un crescente interessamento verso i paesi africani in questione, utilizzando tutti gli strumenti di potere a disposizione e in simbiosi con le compagnie minerarie americane ed occidentali, e il contrasto nei riguardi della Cina e delle compagnie cinesi.

Nel peggiore dei casi, in un futuro non troppo lontano, gli Stati Uniti potrebbero passare a forme di diplomazia coercitiva (forse in 20-30 anni) allo scopo di riguadagnare accesso a risorse vitali. L'avvento di “guerre per le risorse” è stato prospettato da numerosi studiosi e esperti. Dato la crescente domanda cinese per questo tipo di risorse, le possibilità di un conflitto sono in aumento. La nuova corsa ai minerali (e al petrolio) dell'Africa Meridionale ha molti tratti in comune con la corsa europea alle risorse minerarie africane del 1800 che diede luogo a guerre tra i vari stati e alla Prima Guerra Mondiale.

I sempre più stretti legami tra Cina e Africa sono fonte di gravi preoccupazioni per gli USA e se Washington non agisce al più presto un conflitto diventa inevitabile. Gli Stati Uniti utilizzano i minerali strategici per produrre tutta una serie di materiali necessari alla costruzione di navi da guerra, aeromobili e apparecchi e componenti high tech.

Fino ad oggi gli Stati Uniti e i suoi alleati si sono basati sull'accesso al libero mercato in Africa Meridionale come altrove. Ma le industrie USA e alleate potrebbero in futuro non avere più accesso a queste risorse ed essere obbligate a ridurre la produzione e persino a cessarla. Un esempio preoccupante è stato il controllo cinese della produzione di oltre il 90% dei minerali componenti le terre rare. Di recente alcune società cinesi li hanno negati al Giappone in occasione della disputa sulle isole Senkaku/Daioyu e hanno minacciato di negarne la cessione agli USA in risposta alla vendita di armi a Taiwan.

Questi minerali sono alla base di componenti chiave nella fabbricazione di apparati di comunicazione, satelliti e celle a combustibile elettriche e batterie necessarie alle industrie e all'esercito USA.

Burgess afferma che i movimenti di liberazione (ZANU-PF nello Zimbabwe, ANC in Sud Africa e SWAPO in Namibia) stanno politicizzando il settore minerario a scapito della liberalizzazione del mercato, e ciò porterà seri problemi agli USA. Le istanze di emancipazione economica dei neri e di nazionalizzazione delle miniere sono tra le più sensibili.

Il libero mercato e la tassazione governativa dei profitti minerari hanno determinato fino ad oggi le condizioni ottimali al mantenimento di un flusso costante di minerali in grado di coprire la domanda. Ma la crescente politicizzazione ha dato vita a forme di nazionalizzazione dell'industria mineraria e all'entrata in gioco di compagnie votate all'emancipazione nera, rendendo instabile il mercato e il flusso di minerali.

La RDC, la Namibia, il Sud Africa e lo Zimbabwe hanno in corso di implementazione politiche che prevedono una maggiore partecipazione delle popolazioni indigene.

Sud Africa

Il Sud Africa possiede vaste risorse di platino, circa il 75% della produzione mondiale, oltre ad estesi giacimenti di manganese. Il presidente sudafricano Jacob Zuma e il Ministro per le Risorse Minerarie, Susan Shabangu, hanno affermato che la nazionalizzazione non rientra tra le politiche del governo. Nonostante ciò, non esiste garanzia che queste politiche non rientrino nel programma di governo in un futuro abbastanza prossimo.

La nazionalizzazione delle miniere sudafricane è stata una delle bandiere della Lega Giovanile dell'African National Congress, che nel 2009 ha pubblicato una documento-proposta per la nazionalizzazione del 60% delle miniere del paese.

Repubblica Democratica del Congo (RDC)

La RDC è considerata la fonte principale in grado di coprire il fabbisogno americano di cobalto, uranio, cotan (columbite e taltan), tungsteno, zinco e terre rare.

Lo studio afferma che la società mineraria nazionale, Gecamines, detiene un controllo eccessivo dell'attività mineraria e sembra incline a favorire la Cina rispetto all'occidente.

Zambia

I giacimenti di cobalto dello Zambia costituiscono il 20% delle risorse mondiali, secondi solo a quelli della RDC. Anche qui le preoccupazioni sono per la crescente presenza cinese attraverso società integrate come il China Railway Group, SinoHydro e Metallurgical Group Corporation.

Namibia

L'interesse americano in Namibia risiede principalmente nell'uranio e ci sono preoccupazioni per la recente creazione di una agenzia mineraria statale, la Epangelo. Il governo della Namibia ha recentemente affermato che le future attività estrattive di minerali strategici saranno portate avanti in partnership con la Epangelo. La Namibia è il quarto produttore mondiale di uranio, la cui domanda mondiale cresce più di quella dell'oro. La società mineraria statale costituita di recente, Epangelo, è virtualmente priva di capitale e guarda con interesse ad un appoggio da parte di compagnie russe e cinesi.

Kalahari Holdings (una società legata al partito SWAPO ) cerca sbocchi e possibilità di joint ventures con società cinesi e russe. Sul lungo termine la politicizzazione del settore minerario potrebbe dirottare la produzione verso la Cina.

Raccomandazioni

Gli Stati Uniti potrebbero intraprendere una strategia di sviluppo di valore aggiunto. Gli USA potrebbero contribuire allo sviluppo della lavorazione locale del minerale e della fabbricazione metallica, e assistere il Sud Africa nello sviluppo di energia elettrica necessaria ad alimentare tali attività.

Inoltre gli Stati Uniti potrebbero negoziare accordi derivati con il Sud Africa per la fornitura di assistenza a beneficio delle comunità minerarie locali. Gli Stati Uniti potrebbero incoraggiare società minerarie americane a reinserirsi in Sud Africa e a collaborare con società australiane, canadesi e sudafricane orientate al libero mercato.

Inoltre il governo USA potrebbe stabilire comunicazioni strategiche volte a denunciare abusi cinesi e a dissuadere ANC e SWAPO a spingere verso un avvicinamento alla Cina.

Burgess continua.

Ci sono un certo numero di azioni che gli Stati Uniti possono intraprendere al fine del mantenimento di un libero mercato nella regione. C'è la possibilità di una azione diplomatica finalizzata alla costruzione di alleanze strategiche nei più importanti paesi dell'Africa Meridionale. Nel caso dei minerali strategici una attenzione particolare meritano il Sud Africa e la RDC.

Gli USA e i suoi alleati potrebbero sviluppare relazioni militari bilaterali con una serie di paesi africani strategici. Il Dipartimento della Difesa del Consiglio Nazionale della Sicurezza USA, e l'US African Command potrebbero sviluppare piani contingenti per fronteggiare situazioni di mancanza di accesso alle risorse e di conflitto. Il problema è come le istituzioni USA possono fronteggiare le sfide a venire. La costruzione di alleanze strategiche è politicamente difficile, dato il rifiuto di adesione all'AFRICOM da parte della RNC al tempo della sua formazione nel 2007 e 2008.

Il Sud Africa è la nazione egemone nella regione, e deve accettare l'adesione ad AFRICOM prima di intraprendere qualsiasi attività di collaborazione militare bilaterale nella regione. Gli Stati Uniti inoltre continuano ad imporre sanzioni contro il regime del presidente Robert Mugabe dello Zimbabwe, cosa che rende difficile la creazione di una partnership con la Comunità di Sviluppo dell'Africa Meridionale. Inoltre esistono resistenze alla politica estera USA da parte del presidente Joseph Kabila nella RDC, dello SWAPO in Namibia e del presidente Eduardo dos Santos in Angola.

Entro il 2020 potrebbe rendersi necessario un intervento USA e AFRICOM per garantire l'accesso costante ai minerali strategici da parte degli Stati Uniti e dei suoi alleati, il che implica la necessità di costruire alleanze strategiche nella zona nel prossimo decennio."

A proposito dell'Autore.

Il dottor Stephen Burgess ha sviluppato un'attività agricola commerciale nella provincia di Masvingo in Zimbabwe, per poi cedere la terra durante la riforma agraria del paese. Nel 2001 ha abbandonato lo Zimbabwe e lavora per l'Air War College negli Stati Uniti. È autore di tre libri: “South Africa's Weapons of Mass Destruction” (con Helen Purkitt), “Smallholders and Political Voice in Zimbabwe” e “The United Nations under Boutros Boutros-Ghali, 1992-97”.

Burgess ha collaborato a dirigere l'organizzazione e l'esecuzione del Simposio dell'Air Force Africa Command. È direttore associato dell'US Air Force Counterproliferation Centre. Ha un PhD dell'Università del Michigan ed è stato membro di facoltà alla Vanderbilt University, alla University of Zambia, alla University of Zimbabwe e alla Hofstra University.

* Lo studio completo "Sustainability of Strategic Minerals in Southern Africa and Potential Conflicts and Partnerships" può essere trovato qui.


La guerra dei droni (7)

di Enrico Piovesana - Peacereporter - 9 Giugno 2011

Pioggia di missili Usa sul Waziristan: decine di morti e di feriti con gravi problemi alle vie respiratorie, alla pelle e agli occhi che indicherebbero l'uso di sostanze nocive negli ordigni utilizzati

Negli ultimi giorni il Pakistan ha subito i più violenti bombardamenti aerei americani dall'inizio dell'anno. Tra lunedì e mercoledì, i droni della Cia hanno sganciato decine di missili sulla regione tribale del Waziristan, uccidendo oltre quaranta persone, talebani ma anche civili, e ferendone altre decine.

Fonti sanitarie pachistane hanno denunciato ieri che i civili feriti negli ultimi raid Usa, ricoverati negli ospedali di Peshawar e delle altre città del nordovest, accusano ''gravi problemi alle vie respiratorie, alla pelle e agli occhi'' che indicherebbero l'uso di ''sostanze nocive'' negli ordigni sganciati dai droni.

Quelli descritti dai medici pachistani, potrebbero essere gli effetti delle versioni potenziate dei missili aria-terra Agm-114 Hellfire II, in particolare quella con testata penetrante rinforzata con uranio impoverito e quella termobarica con testata arricchita da polvere d'alluminio.

L'intensificarsi della campagna aerea della Cia, oltre alla salute dei pachistani, sta danneggiando anche le relazioni diplomatiche tra Islamabad e Washington. I vertici politici e militari pachistani fanno sempre più fatica a ignorare il crescente malcontento popolare verso questi attacchi e il sempre più diffuso sentimento anti-americano.

Questo clima di ostilità montante è chiaramente avvertito dai diplomatici americani di stanza a Islamabad, preoccupati per gli effetti a lungo termine della linea dura di Washington. ''Lo scontento dei pachistani è legittimo'', ha dichiarato un diplomatico Usa al Wall Street Journal. ''Sottovalutando l'importanza dell'opinione pubblica pachistana, rischiamo di trasformare i nostri naturali alleati in nostri avversari''.

L'ambasciatore americano in Pakistan, Cameron Munter, sostenuto dal dipartimento di Stato americano, ha espressamente chiesto all'amministrazione Obama di frenare i bombardamenti della Cia.

Una richiesta che la scorsa settimana è stata discussa dal Consiglio per la Sicurezza Nazionale, e respinta per la ferma opposizione del direttore uscente della Cia e futuro capo del Pentagono, Leon Panetta.


Un calcio da playstation
di Massimo Fini - Il Fatto Quotidiano - 8 Giugno 2011

Nel 1982, dopo la vittoria dell’Italia ai Mondiali di Spagna e la decisione di introdurre il “terzo straniero”, scrissi per il Giorno un articolo in cui dicevo che il calcio andava a morire. Ma, data la sua fortissima struttura pensavo che l’erosione sarebbe avvenuta molto lentamente e non mi sarei mai aspettato che ne avrei visto la fine, o quasi, nell’arco della mia vita.

Non mi riferisco qui agli scandali che hanno recentemente coinvolto società di B e anche di A, che sono solo un epifenomeno, oltretutto abbastanza circoscritto se paragonato a quanto avviene di analogo in altri settori della società (politica, finanza), della ben più profonda corruzione che negli ultimi decenni ha corroso il mondo del calcio e il suo significato più autentico.

Il calcio (come altri sport minori, rugby per esempio, che questo significato hanno conservato) prima di essere spettacolo, prima di essere gioco, prima di essere sport è (o per essere più precisi: era) un rito collettivo. Una liturgia.

Era l’ultimo spazio rimasto al sacro in una società che sotto la spinta della razionalizzazione economica si è completamente secolarizzata. Perché è basato su un elemento del tutto gratuito, la passione del tifoso, il quale gioisce come un bambino se la sua squadra vince o si dispera se perde, senza che questo abbia per lui, nell’uno o nell’altro caso, alcun significato economico.

Una liturgia (un mito) è per sua natura tendenzialmente immutabile, come sapevano bene i Greci e anche la Chiesa cattolica prima che, col papato di Wojtyla, perdesse la sua sapienza. Se qualche cambiamento deve essere apportato lo si deve fare con estrema cautela.

Son come le fiabe che racconti ai tuoi bambini, i quali vogliono che tu le ripeta ogni volta come gliele hai narrate la prima volta, immutate in ogni particolare. I tifosi sono come quei bambini.

Il business, l’astrazione del denaro, ha svuotato il calcio di tutti i suoi contenuti rituali, mitici, simbolici, magici, irrazionali, identitari. Addio alla Messa domenicale. Oggi, per il business televisivo, le partite sono spalmate su quattro giorni, dal venerdì al lunedì, e se è turno di Coppa dei Campioni (io preferisco chiamarla ancora così, anche se ormai, sempre per esigenze di business, è un’altra cosa) e di Uefa su tutta la settimana.

Un’overdose che ammazzerebbe anche un toro. Fine anche del sub-rito del sabato, della schedina giocata al bar con gli amici.

I calciatori cambiano squadra ogni anno per essere sostituiti da “novità” ritenute più stuzzicanti o durante lo stesso campionato (con buona pace della regolarità della competizione), non esistono più giocatori-simbolo, campioni che hanno fatto tutta la loro carriera in una sola squadra (Totti è stato, e sarà, l’ultimo, un’eccezione comunque rispetto all’epoca dei Rivera, dei Mazzola, degli Antognoni, dei Riva, dei Bulgarelli), persino le maglie, per interesse degli sponsor, non sono più quelle, ci sono squadre, in Italia e in Europa (che sono il centro del business) che giocano con undici stranieri.

Il processo di identificazione, il riconoscersi in una squadra, nella sua storia, nella sua tradizione, nelle sue maglie, nei suoi colori, nel suo carattere, la cui continuità era assicurata dal passaggio di testimone, di generazione in generazione, fra gli “anziani” e i giovani dei vivai (oggi semidistrutti dalla sentenza Bosman che ha portato nel calcio, cioè anche nella sfera del sacro, le ferree leggi del mercato) è diventato quasi impossibile. Ci vuole un grande sforzo di immaginazione, un voler illudersi a tutti i costi che il calcio, così come lo abbiamo vissuto per un secolo, esista ancora.

Non per nulla qualche anno fa gli ultras, i terribili ultras, i demonizzati ultras, in rappresentanza di 78 società di A, di B, di C e delle serie minori, organizzarono a Milano, davanti alla Figc, in una domenica canicolare di giugno, una civilissima e composta manifestazione al grido di “Ridateci il calcio di una volta!”. Ma non furono ascoltati. Non se ne dette quasi notizia, nemmeno sulla Gazzetta dello Sport. Disturbavano il manovratore.

Il calcio da stadio, l’unico, vero, calcio ha perso, dal 1982, anno simbolicamente della svolta, il 40% degli spettatori. E ha perso anche la sua caratteristica di evento nazionalpopolare, di “festa di tutti”, interclassista, con un’importante funzione sociale: sulle gradinate sedevano fianco a fianco, uniti dalla stessa passione, il piccolo e il medio imprenditore e il suo operaio.

La politica degli abbonamenti (denaro fresco da incassare a prescindere) e dei prezzi ha distrutto il senso di ritrovarsi insieme in modo comunitario, la suburra va dietro le porte, gli altri, a seconda del proprio status, nelle diverse tribune.

Chi può permetterselo guarda la partita su Sky, dove l’implacabile moviola va a cercare i labiali dei giocatori, gli sputi, le sacrosante bestemmie, gli scazzottamenti alle spalle dell’arbitro e insomma una parte importante del calcio (divenuta proibitissima, vietatissima, sanzionatissima) che è una metafora della guerra e come tale viene vissuta dai tifosi.

Uno sfogo di aggressività salutare, se circoscritto e incanalato nelle due ore della partita, ad evitare guai peggiori, i “delitti delle villette a schiera” come li chiama Guido Ceronetti.

Questo calcio pulitino, televisivo, asettico è certamente politically correct e, soprattutto economically correct, ma il risultato è che quanto in esso vi è di più concretamente umano, e cioè i valori rituali, mitici, simbolici, sociali di cui parlavo, è stato sacrificato all’astrazione-denaro.

Al loro posto resta la vuota forma della partita che domani potrebbe anche diventare, come tutto il resto, virtuale. Una PlayStation. Una perfetta simulazione, senza possibilità di errore, sull’iPad.

Ad ogni buon conto il calcio va a ridursi progressivamente a un qualunque spettacolo televisivo, a una Domenica in, da fruirsi solipsisticamente a casa, fra una telefonata al cellulare e una visitina al frigo.

Perdendo tutti i suoi connotati specifici susciterà un interesse sempre più generico, vago, intercambiabile che, come tale, prima o poi svanirà. Così gli apprendisti stregoni, a furia di spremerla, avranno ucciso “la gallina dalle uova d’oro” e il razionalismo nella forma del denaro avrà realizzato, è il caso di dirlo, l’ennesimo autogol.


Berlusconi, a quando il videomessaggio alla Bbc?
di Stefano Corradino - Il Fatto Quotidiano - 10 Giugno 2011

Forza Silvio“. La scritta compare in una foto di Berlusconi pubblicata su Facebook dall’omonimo gruppo. In basso un cerchietto riporta l’accorato appello: “Il 12 e 13 giugno non voto a tutela della mia intelligenza”.

Tra le tante mirabili perle di saggezza del premier, la pagina fan ne ricorda una: “Mi sono accorto che l’Italia era poco considerata. Ho telefonato ai leader degli altri paesi e gli ho detto: se fate così non contate più sull’Italia! L’atmosfera da quel momento cambiò”.

La telefonata ebbe un immediato successo. Da allora infatti non c’è giorno che il nostro Paese non venga quotato all’estero. Alcuni titoli e sottotitoli recenti tratti dalla rassegna stampa internazionale ci aiutano a comprendere quale considerazione hanno i giornali stranieri del nostro Paese e in particolare delle gesta del presidente del Consiglio italiano.

- “L’uomo che ha fregato un intero Paese. Un disastro. Solo Haiti e Zimbawe hanno fatto peggio dell’Italia a livello economico”. Così recita l’ultimo numero dellEconomist dedicando ben 14 pagine a Berlusconi.

Di seguito alcuni commenti all’indomani del ballottaggio per le amministrative:

“La disfatta del premier rappresenta un serio danno per un primo ministro già debilitato da una serie di scandali sessuali, giudizi per corruzione ed un’economia fragile” (El Mundo, quotidiano spagnolo).

“L’Italia è finalmente pronta per porre fine all’era di Berlusconi?” (Público, quotidiano portoghese).

“Questa è innanzitutto la sconfitta personale del presidente del Consiglio Italiano, che si è improvvisato manager di una campagna elettorale, dettando temi e toni dei suoi candidati” (Le Monde, quotidiano francese)

“Nonostante il fango riservato su Giuliano Pisapia dal bastione berlusconista e dalla xenofoba Lega Nord, il centro sinistra ha vinto inaspettatamente le elezioni” (Ta Nea, quotidiano greco).

“Il governo italiano è stato punito per non aver attuato delle riforme atte a stimolare la crescita, ecco perchè l’Italia è stata recentemente declassata nella classifica di Standard & Poor’s” (Al Jazeera, tv pan araba).

A pochi giorni dalle notizie sulle note prodezze sessuali del premier ecco come commentavano altre testate internazionali (chiaramente comuniste):

“E’ una grande vergogna per l’Italia” (Financial Time, quotidiano Usa).

“La volgarità è sempre stata una componente distintiva della sua avventura politica, ma un procedimento penale è un’aggiunta che oltrepassa l’ordinario squallore. Dovrebbe essere superfluo affermarlo, ma Berlusconi è distante dalla consapevolezza quanto lo è dal decoro, quindi ribadiremo l’ovvio: la sua condotta è incompatibile alla carica istituzionale che ricopre quindi dovrebbe dimettersi immediatamente (The Times, quotidiano inglese).

“Il premier Silvio Berlusconi ha pagato per fare sesso con una minorenne marocchina nella sua villa vicino a Milano” (Japan Today, quotidiano giapponese).

“Lo scandalo sessuale del presidente Berlusconi ha creato grande imbarazzo in Italia” (China Daily, quotidiano cinese).

Nella conferenza stampa di ieri a Palazzo Chigi il premier, oltre a dichiarare che non andrà a votare per i referendum ha affermato: “Avendo molto da fare, abbiamo dedicato poco tempo alla comunicazione, colpevolmente”.

Non vorremmo essere nei panni dei suoi addetti alla propaganda Capezzone e Bonaiuti“Ci siamo ripromessi - ha concluso – di dare più spazio alla comunicazione”. Tradotto: studieremo una strategia per monopolizzare ulteriormente i mezzi di informazione.

Aspettiamo di sapere se il presidente editore Berlusconi, dopo aver invocato e ottenuto la cacciata di Michele Santoro, si limiterà a condizionare media e giornali italiani (quelli che ancora non sono di sua proprietà) o se vorrà intraprendere anche un piano di occupazione della stampa internazionale.

Magari spedendo videocassette alla Bbc, alla Cnn o ai principali quotidiani stranieri. Ma temiamo per lui che, difficilmente, fuori dall’Italia troverà direttori di giornali e telegiornali altrettanto compiacenti e servizievoli.