Cristiano Congiu: parla il ragazzo afgano che il carabiniere ha ferito
di Maso Notarianni - Peacereporter - 4 Giugno 2011
Una testimonianza e due agenzie a confronto. Rimane da capire cosa ci facesse il carabiniere Congiu nel Panjshir
La testimonianza: "Io ed un mio amico stavamo salendo dal bazar alla montagna con un asino carico di cibo. Il sentiero era stretto e dalla montagna al bazar stavano scendendo il carabiniere italiano e una donna. Quando ci siamo incrociati l'asino ha urtato la donna e ho tentato di spostare l'asino. Immediatamente l' italiano ha tirato fuori la pistola. Quando ho visto l' arma pensavo stesse scherzando... Invece mi ha sparato. l mio compagno è scappato ed è andato al bazar ad avvisare gli abitanti dell'accaduto. Dopo un po' di tempo sono tornate altre persone che prima hanno picchiato con bastoni e pietre l'italiano, poi gli hanno sparato e se ne sono andati".
La testimonianza l'ha resa Mohtaudin, 24 anni, ricoverato e operato di urgenza venerdì 3 giugno all'ospedale di Emergency di Anabah, nella valle del Panjshir, per lesioni di arma da fuoco al fegato e a un rene, che gli è stato asportato E' lui il giovane afgano a cui Cristiano Congiu ha sparato.
Numerosi altri testimoni hanno raccontato che l'italiano e la cittadina statunitense erano andati a visitare le miniere di smeraldi della zona di Khinch, nel Panjshir .
Queste invece le agenzie uscite oggi.
9.45 Un ufficiale dei carabinieri - il tenente colonnello Cristiano Congiu, 50 anni, di Roma - è stato ucciso con un colpo di arma da fuoco in Afghanistan, dove era in servizio presso l'ambasciata italiana a Kabul come esperto antidroga. Lo apprende l'ANSA da fonti dell'Arma, le quali precisano che si è trattato di un fatto di criminalità comune, da non mettere in relazione alla sua attività.
09.56 Secondo una prima ricostruzione, Congiu - ufficiale della Dcsa, la Direzione centrale dei servizi antidroga, a Kabul dal 2007 - si trovava in una località della valle del Panjshir, nell'Afghanistan nord orientale, insieme a due suoi conoscenti di vecchia data, entrambi civili: un afgano (che aveva anche frequentato l'Accademia militare di Modena, 6 o 7 anni fa) e una donna americana. Durante questo loro viaggio - stando alle informazioni finora apprese da fonti dell'Arma - hanno incrociato un gruppo di afgani. Uno di questi, un giovane, per motivi ancora imprecisati avrebbe afferrato la donna, sbattendola violentemente contro un muro. Il tenente colonnello Congiu ha interpretato questo atto come un'aggressione nei loro confronti e ha fatto fuoco con la sua pistola, ferendo lievemente al fianco il ragazzo. Gli altri afgani sono scappati e lo stesso militare dell'Arma ha prestato le prime cure al giovane: stava per caricarlo in auto e trasportarlo in ospedale, quando i compagni del ragazzo ferito sono tornati, questa volta insieme ad altri uomini armati. Questi, da lontano, hanno sparato tre colpi di kalashnikov, uno dei quali ha centrato alla testa Congiu, che è morto sul colpo. La donna americana e l'afghano sono riusciti a raggiungere la loro vettura e a scappare. Al primo posto di polizia afgano, a circa un chilometro, hanno denunciato l'episodio. Le forze di sicurezza locali si sono recate sul posto ed hanno recuperato il corpo dell'ufficiale. Durante successive ricerche è stato individuato il ragazzo ferito, che è stato arrestato.
12.23 Un cittadino americano che si trovava nella provincia centrale afghana del Panjshir per turismo è stato ucciso oggi a bastonate durante una dura lite con alcuni abitanti del distretto di Khanj. Lo ha riferito l'agenzia di stampa Pajhwok. Atta Mohammad Amiri, responsabile del consiglio provinciale, ha indicato all'agenzia che l'americano stava visitando la Valle di Mokni insieme ad una donna che, in un confuso incidente con un afghano che guidava un carretto tirato da un asino, è caduta e ha rischiato di finire in una scarpata. Mentre il carrettiere cercava di salvare la donna, ha ancora detto Amiri, il cittadino americano ha estratto un arma e lo ha ferito. A questo punto un gruppo di abitanti della zona che avevano assistito all'incidente, ha sostenuto un testimone oculare, Mohammad Musa, hanno assalito l'uomo uccidendolo a colpi di bastone e di pietre. Il capo della polizia provinciale, generale Qasim Jangalbagh, non ha rivelato l'identità della vittima, limitandosi a segnalare che non si trattava di un militare e che cinque persone sono state arrestate con l'accusa di omicidio.
Rimane da capire, e qualcuno dovrebbe chiederlo formalmente al nostro ministro della Difesa, cosa ci facesse un Carabiniere italiano, armato, in compagnia di una cittadina statunitense in visita alle miniere di smeraldi della zona di Khinch, a oltre cinque ore di macchina da Kabul.
La politica del conte Ugolino. Con o senza B.
di Massimo Fini - Il Fatto Quotidiano - 4 Giugno 2011
Quello che ci aspetta nei prossimi due anni lo conosciamo già. Lo abbiamo visto tante volte nella vita politica e intellettuale italiana. I roditori che diciassette anni fa erano saliti sul rutilante Rex che doveva portare l’Italia verso non si sa quali meravigliosi lidi, dopo averne saccheggiato le stive, abbandoneranno la nave che sta per affondare.
No, non si butteranno in mare. Il coraggio del suicidio, nemmeno quello politico, non gli appartiene. Non sono sorci, son uomini. Prima che la nave vada sotto la linea di galleggiamento armeranno scialuppe di salvataggio, protenderanno passerelle, lanceranno gomene verso quella dei probabili vincitori.
Fuor di metafora sarà uno smottamento lento, graduale, prudente (non si sa mai), la sagra dell’“io l’avevo detto” (vedi, per tutti, il fondo di Galli della Loggia sul Corriere di venerdì) per potersi trovare, al momento opportuno, se non fra i vincitori almeno nelle loro immediate vicinanze. E saranno accolti come il “figliol prodigo”.
Non per carità cristiana, ma perchè la classe dirigente italiana è un sistema di oligarchie il cui obbiettivo primario è la propria autoconservazione. Quella politica e intellettuale è l’unica, vera, classe in termini marxiani rimasta su piazza.
La presidenza di un Ente pubblico, l’ingresso in un prestigioso Consiglio di amministrazione, la conduzione di un talk show non si nega a nessuno. In modo che al prossimo giro, a parti invertite, sia restituito il favore.
Questa è la democrazia liberale, bellezza. Non quella immaginata da Stuart Mill o da Locke che voleva valorizzare meriti, capacità, potenzialità dell’individuo, ma quella reale, vera, praticata, che pretende affiliazioni a questo o a quel gruppo di potere ed emargina chi conserva quel tanto di rispetto di se stesso per rifiutarsi a questi umilianti infeudamenti e che sarebbe il cittadino ideale di una democrazia, se esistesse davvero, e ne diventa invece la vittima designata.
Ma le lotte più feroci non si avranno fra gli sconfitti, ma fra i vincitori, scene dantesche, da Conte Ugolino, in cui non si esiterà ad azzannare il cranio del compagno di ieri pur di affermare la propria primogenitura nell’aver affondato il Rex e il Corsaro che lo capitanava.
Abbattuto il Corsaro, certamente il Paese godrà di un restyling estetico, perchè l’uomo, negli ultimi anni, era diventato da neurodeliri, da autoambulanza oltre che da cellulare, ma nulla, nella sostanza, cambierà.
Perchè il problema dell’Italia non è di uomini, anche animati da buona volontà, ma di un sistema marcio fino al midollo, che si è incistato nelle nostre fibre più intime, di una metastasi che nulla, se non un evento realmente traumatico, può estirpare, di un Paese che ha perso, non solo nella classe dirigente ma nel suo popolo, ogni etica, ogni valore condiviso che non sia il Dio Quattrino.
Un Paese così non lo ha inventato il Corsaro, anche se ha contribuito a potenziarlo con le sue Tv, se lo è trovato già bell’e pronto e lo ha utilizzato, al peggio.
Intanto alla Festa della Repubblica per i 150 anni dell’Unità d’Italia il presidente Napolitano ha ricevuto Hamid Karzai, l’emblema della corruzione “democratica” che l’Occidente ha portato in Afghanistan, e ha elogiato le Forze Armate, sia italiane che alleate, per il coraggio e lo spirito di sacrificio con cui difendono la pace nel mondo.
Non più tardi di domenica questi coraggiosi “missionari di pace”, non avendo il fegato di affrontare i guerriglieri talebani nemmeno ad armi impari, hanno chiamato in soccorso gli aerei della Nato che, bombardando a casaccio un villaggio, hanno assassinato dodici bambini afgani. Un giorno questo sangue innocente, sparso a piene mani in una guerra ignobile, ci ricadrà sulla testa.
D’Alema e il richiamo della foresta
di Luca Telese - Il Fatto Quotidiano - 4 Giugno 2011
Eccolo, ancora una volta, “il richiamo della foresta del líder máximo”: inderogabile come un fioretto, puntuale come la morte, immancabile come tutte le proposte autolesioniste di questi anni: “Facciamo un governissimo?”.
Allora è proprio vero che queste elezioni ad alcuni non hanno insegnato nulla. Cadono le roccaforti del centrodestra, vincono i candidati scelti dal popolo del centrosinistra grazie alle primarie (quasi mai quelli che volevano i líder máximi…), saltano gli schemi pataccari (si puó correre solo con candidati moderati, in certe città é impossibile vincere, senza il terzo polo non si va da nessuna parte), si dimostra che gli elettori hanno molto più fiuto dei capi di stato maggiore del centrosinistra.
Ci eravamo illusi che i dirigenti di quella coalizione imparassero qualcosa da queste elezioni. Poi ieri abbiamo letto l’intervista a Massimo D’Alema di Massimo Giannini de La Repubblica (praticamente un format), in cui l’ex premier dice agli uomini di Pdl e Lega: “Servono una manovra equa e capace di rilanciare lo sviluppo, una riforma elettorale e poi nuove elezioni. Indichino loro – dice D’Alema - una persona che può realizzare questa agenda in pochi mesi. Noi – aggiunge – possiamo prenderci anche una quota di responsabilità”.
Insomma, il voto dice che si puó mandare a casa il centrodestra, e D’Alema gli propone subito un patto. Deve essere più forte di lui. Gli elettori chiedono di voltare pagina, lui subito progetta l’accordicchio con gli orfani del Cavaliere.
Il paese non si é ancora ripreso dai tagli di Tremonti, incombe una manovra da 10 milioni di euro (più 30 a settembre!) e il più autorevole dirigente del Pd dice: “Dateci un nuovo premier, un governo e noi faremo la nostra parte”.
Qui siamo oltre il tafazzismo. Qui siamo al furto di speranza. D’Alema ripete come un disco rotto l’unico schema politico che crede di essere in grado di applicare: il gioco di palazzo per il governissimo.
In tutta Europa i leader (moderati e non) si preparano a duellare. Da noi sognano di “patteggiare”. D’Alema e Bersani (che non a caso l’estate l’estate scorsa propose Tremonti premier) sembrano la copia della meravigliosa gag del doganiere di Non ci resta che piangere. Ricordate?
Roberto Benigni e Massimo Troisi si avvicinavano al confine e lui, con gli occhi chiusi, gridava: “Chi siete? Quanti siete?”. E prima di ascoltare qualsiasi replica rispondeva: “Un Fiorino!”. Ecco, D’Alema é così. E dice: “Chi siete? Quanti siete?”. Poi, senza ascoltare risposte, conclude: “Governissimo”.
Com’era bella la risposta di Troisi e Benigni. Prima educati: “Scusi…”. Poi preoccupati: “Ma noi…”. Infine incazzati: “E vavattenne affangulo”.
Risposta appropriata, va detto, ma troppo brusca, se riferita al doganiere dell’inciucio máximo. A noi basterebbe non pagare questo dazio.
Le uscite di D’Alema non sono mai casuali
di Pierfranco Pellizzetti - Il Fatto Quotidiano - 5 Giugno 2011
Giustamente Luca Telese segnala su Il Fatto e in questo blog la sconcertante/sconfortante intervista concessa da Massimo D’Alema venerdì scorso al proprio giornalista di fiducia, il vice direttore de La Repubblica Massimo Giannini; il cui titolo è tutto un programma: “Via Berlusconi e faremo la nostra parte per un nuovo governo di fine legislatura”.
Secondo il nostro opinionista, l’ennesima riprova del pernicioso “richiamo della foresta inciucista”.
Certamente nell’affannato gestore di una disastrosa Bicamerale di un tre lustri fa la coazione a ripetere raggiunge livelli ormai patologici. Rivelata non a caso da una mimica facciale in cui il disgusto cancella ogni pur vaga traccia di umana simpatia; quasi una sorta di estraniazione supponente dalla domanda democratica “basica” e le sue ingenue maldestraggini presunte (almeno per una mente tanto “sottile”; quale quella di chi salvò Silvio Berlusconi, considerato interlocutore facilmente “giocabile” da un professional astutissimo. Difatti…).
Ma forse tale esternazione ci dice qualcosa di più e di ancora più grave. Ad esempio che la struttura portante del Partito Democratico, in cui la furbizia tattica annichilisce sistematicamente l’intelligenza strategica (e la correlata generosità politica), recalcitra ad assumersi direttamente la responsabilità delle scelte incombenti: in primo luogo la manovra di riallineamento dei conti economici dello Stato.
Molto meglio – dunque, almeno secondo i furbissimi – lasciare la patata bollente nelle mani dell’attuale compagine, magari con un cambio di cavallo al vertice a cui offrire i necessari supporti in termini di voto parlamentare.
Che questo comporti – di fatto – il traghettamento dal berlusconismo con Berlusconi a un berlusconismo senza Berlusconi neppure sfiora le meningi del Lider Maximo che arzigogola tale tesi e dei suoi deferenti supporter.
Ossia l’idea che con i ballottaggi ha preso avvio una possibile fase di liberazione, con fuoriuscita da vent’anni deprimenti, a cui i prossimi referendum potrebbero imprimere un’ulteriore accelerazione.
Oppure – come è più plausibile – il succitato Lider Maximo ne è pienamente consapevole e si attiva per vanificarne gli effetti.
Allora la mossa di D’Alema va interpretata come l’offerta di una tregua per consentire alla maggioranza (ormai certificata minoranza presso la pubblica opinione) di prendere fiato, riassestarsi e riassorbire le spinte centrifughe. Ma una tregua che viene considerata anche a favore della propria parte.
Infatti troppe volte leggiamo le posizioni di D’Alema più per le apparenze che non per il loro significato intrinseco; a chi realmente si indirizzano. Perché il destinatario “vero” non siamo noi, frequentatori di questo blog e sostenitori di una drastica rottura con le prassi e i valori della sedicente Seconda Repubblica, sono le strutture interne del Partito Democratico di matrice piccista. Il popolo di cui D’Alema è riferimento e primo protettore in materia di status da nomenklatura e relativo reddito.
Un gruppo sociale che sul fronte dell’opposizione presidia il mantenimento di assetti che – tutto sommato – gli assicurano la sopravvivenza e (non di rado) il prestigio. Comunque una modesta quota di potere.
Sicché – in cambio – garantisce al proprio sponsor il peso di cui continua a godere quale supremo manovratore interno (e i tempi a venire diranno se Pier Luigi Bersani si è scrollato di dosso questa pesante tutela).
Quindi risulta evidente che un effettivo cambiamento non può prescindere dalla necessità di trascinare, suo malgrado, anche questo pezzo di ceto politico su posizioni di discontinuità rispetto al passato.
Come per una felice combinazione astrale si è verificato in questi giorni a Napoli, Milano e Cagliari. Dove tutto ciò dipende soprattutto da tre ragioni:
- Candidature che hanno rifiutato ogni logica collusiva;
- L’individuazione di poche parole d’ordine comprensibili e mobilitanti (e non la vieta retorica dei “programmi” chilometrici e onnicomprensivi, opera di qualche team di comunicatori professionali);
- L’adozione di un nuovo lessico pubblico capace di evitare le trappole della neolingua mistificatoria vigente (“i moderati” che nessuno sa chi sono: quelli che amano le mezze misure? I “riformisti”, ossia quanti propugnano un metodo privo di connotazioni – il riformismo – che può tradursi in qualsivoglia scelta, come pure nel suo contrario. E così via).
Ma tutte queste belle notizie restano sotto minaccia se non si affronta il problema del quadro generale, del governo. Che deve fornire una cornice favorevole perché le pianticelle spuntate in alcune città possano irrobustirsi e crescere. E, con loro, rifiorisca la vita civile nell’Italia intera.
Ciò significa affrontare il tema del “dopo”. Dunque trovare il coraggio per affrontare il tema difficilissimo di un New Deal nel Bel Paese che saldi il risanamento con la ripresa dell’accumulazione della ricchezza sociale.
Tema che impone una premessa metodologica: l’espulsione immediata di ogni svicolamento nel tatticismo furbesco.
Acqua pubblica? Bersani dice sì. Ma mezzo Comitato per il no è del Pd
di Matteo Incerti - Il Fatto Quotidiano - 4 Giugno 2011
Il Movimento 5 Stelle attacca frontalmente il partito di Bersani: "Hanno cambiato idea nell'arco di pochi mesi e mantengono interessi nelle aziende multiutility. La loro è una posizione opportunistica"
Bersani ora non ha dubbi. E invita gli elettori del Pd a votare ‘sì’ a tutti e quattro i referendum. Compresi i due quesiti sull’acqua. Ma sei dei 13 fondatori del comitato per il ‘no’ “Acqua libera tutti”, che vuole che il decreto Ronchi sulla privatizzazione della risorsa idrica resti in vigore, sono iscritti proprio al suo partito.
Accanto a vecchie conoscenze del Pdl, come Piercamillo Falasca ed i deputati Giuliano Cazzola, Benedetto Della Vedova di Fli, spuntano infatti anche i nomi di Luigi Antonio Madeo, membro dell’ assemblea nazionale del Pd, Fabio Santoro, autorevole esponente dei democratici napoletani, Giacomo d’Arrigo rappresentante del Pd e responsabile di Anci Giovani, Massimiliano Dolce, presidente del consiglio comunale del Comune di Palestrina, Antonio Iannamorelli, consigliere comunale Pd a Sulmona (Aquila), Giusy Gallotto, dirigente del Pd di Salerno già collaboratrice del ministro agli affari regionali Lanzillotta nel governo Prodi.
“La posizione del Pd in merito ai referendum è ambigua: prima erano contrari, oggi sono a favore, domani non sappiamo”, accusa il consigliere regionale in Emilia Romagna del Movimento 5 Stelle, Giovanni Favia. Molti di coloro che hanno raccolto le firme si ricordano che lo scorso anno i Democratici non avevano aderito all’iniziativa.
Era il 22 aprile 2010 quando Bersani aveva detto: “Noi non abbiamo una strategia referendaria perché in 15 anni si sono persi 24 referendum e poi perché il referendum manca dell’aspetto propositivo. Detto ciò noi guardiamo con simpatia a tutti coloro che si stanno muovendo contro la privatizzazione forzata dell’acqua pubblica”.
Una simpatia che ora non salva il segretario dalle accuse del Movimento 5 Stelle: quella di volere salire sul carro dei vincitori, ora che, dopo il flop di Berlusconi alle amministrative, il quorum sembra più raggiungibile.
“I due sì, indicati dal Pd per l’acqua pubblica, hanno il sapore dell’opportunismo e della vecchia politica fatta solo di slogan e convenienze – dice Favia -. I referendum infatti, sono vere e proprie martellate ai modelli di gestione affermati proprio dal Pd nelle varie Hera Spa ed Iren Spa per non parlare delle leggi pro acqua privata presentate da Bersani a novembre”.
Il riferimento è a una proposta di legge presentata il 16 novembre 2010 da Bersani, con altri quarantanove deputati da Franceschini a D’Antoni passando per Sposetti, Colaninno e Boccia.
L’idea era quella di superare il decreto Ronchi in tema di gestione delle risorse idriche senza passare per il referendum, ma all’articolo 2 comma 4 si affermava testualmente: “L’acqua è un bene di rilevanza economica”.
Proprio il concetto che il secondo quesito del referendum vorrebbe oggi abolire. Una frase che al comitato per il ‘no’ era piaciuta visto che il commento fu: “Per il Partito Democratico l’acqua è un servizio a rilevanza economica e può essere gestita da privati. Questo c’è scritto nella proposta presentata stamattina: il Pd di fatto si schiera contro i referendum truffa. Anche il Partito Democratico, quindi, prende atto che l’acqua deve gestirsi in maniera industriale e che gli investimenti vanno finanziati con la tariffa e non con nuove tasse. Oggi si consuma la Caporetto dei referendari e dei comitati per la statalizzazione dell’acqua. Speriamo in un confronto bipartisan per far fallire i referendum. La proposta del Pd va in questa direzione”.
C’è stata un’ “ambiguità” del Pd, dicono i 5 Stelle. Secondo loro, il motivo è pure che in una miriade di società multiservizi oggi quotate in borsa siedono uomini indicati dai Democratici. I dividendi di queste società arrivano poi a Comuni governati anche da Pd e alleati.
Un piccolo, ma eloquente esempio: nella bassa modenese, a Finale Emilia a fine 2010 è scoppiato il “caso Sorgea” dove con voto del centrosinistra, Pd in primis, è stato privatizzato il 40% della società idrica. Unico voto contrario quello del consigliere locale del Prc-Federazione della Sinistra.
Acqua privatizzata? Nemmeno nel Medioevo
di Massimo Fini - www.gazzettino - 13 Maggio 2011
Poiché non possiamo, per sfinimento, seguire gli irresponsabili e devastanti attacchi che Silvio Berlusconi lancia ogni giorno contro la Magistratura ("Pm eversori" 6 maggio, "Pm cancro della democrazia" 7 maggio; "I Pm di Milano sono un cancro da estirpare" 8 maggio; "È giusto definire i Pm di Milano un cancro del sistema" 9 maggio; "Il nostro partito chiederà una commissione d’inchiesta per accertare se nella magistratura ci sia un’associazione con fini a delinquere" 10 maggio), ci occuperemo di un’altra questione che riguarda pur essa la democrazia, la libertà, l’uguaglianza.
Fra i referendum che i cittadini andranno a votare il 12 e il 13 giugno c’è quello contro la privatizzazione dell’acqua. Da che mondo è mondo l’acqua è un bene pubblico. A rigor di termini non dovrebbe essere nemmeno un bene, soggetto alle leggi di mercato, perchè, come l’aria, è indispensabile alla vita.
È già grave, e indice dei guai in cui ci siamo andati a cacciare, che i cittadini la debbano pagare, è scandaloso che la sua erogazione sia data in appalto a quei pochi detentori di acque minerali che ne diventeranno monopolisti.
In contemporanea è in gestazione un decreto Tremonti che dà le spiagge del nostro Paese in concessione ai privati per 90 anni e che, di fatto anche se non forse ancora di diritto (la cosa non è chiara), espropria il cittadino di quei cinque, miserabili metri di battigia che, essendo del demanio, dovrebbero essere a disposizione di tutti.
Nei secoli "bui" del Medioevo l’acqua non si pagava. La si attingeva dai pozzi. Se un contadino non aveva un pozzo sul suo terreno la andava a prendere da quello del vicino senza dovergli pagar nulla.
Era una delle tante servitù che gravavano sulla proprietà e sul possesso privati. I diritti di uso dei boschi: il contadino vi prendeva la legna per riscaldamento e costruzione (servitù di legnatico), il diritto di pascolo libero, il diritto di aggregare la propria pecora o la propria vacca al gregge comune guidato dal pastore comunale pagato dalla comunità (e aveva questo diritto anche chi non era in grado di pagarselo), diritto di pesca nei fiumi e nei laghetti altrui (servitù di acquatico), diritto di spigolatura: le spighe sfuggite al mietitore appartenevano ai più poveri, erano "la parte di Dio".
Non era un sistema comunista, ma comunitario, basato sul regime dei "campi aperti" (open fields) proprio per permettere l’esercizio di quelle servitù collettive. Per un secolo e mezzo, a partire dal ’500 in Inghilterra le case regnanti dei Tudor e degli Stuart si opposero ai grandi proprietari terrieri che volevano recintare i loro campi (enclosure) perchè capivano benissimo che questo avrebbe rotto lo straordinario ma delicato equilibrio del mondo rurale, buttando milioni di contadini alla fame.
Col parlamentarismo di Cromwell, preludio della moderna democrazia, venne introdotta l’enclosure: quel Parlamento era pieno di grandi proprietari terrieri oltre che di banchieri.
E si preparò quella massa di disperati pronti a farsi carne da macello nelle fabbriche e negli slums così efficacemente descritti da Marx ed Engels. Un contadino autosufficiente, come era stato prima delle enclosure, padrone del suo lavoro, non avrebbe mai lasciato il proprio campo per andare in quell’inferno.
Era nata la Modernità, il "mondo libero"come noi lo chiamiamo, dove siamo tutti, come scrive Nietzsche, degli "schiavi salariati". E dei sudditi cui fra non molto sarà fatta pagare anche l’aria che respirano.
Wikileaks, e le mazzette sul nucleare italiano
di Debora Billi - http://petrolio.blogosfere.it - 3 Giugno 2011
E' un articolo dell'Espresso che risale a oltre due mesi fa. Mi era sfuggito, ed era sfuggito a quasi tutti: visto che siamo in zona Cesarini per il referendum, è buona cosa leggerlo. Anche perché possiamo così smetterla di alludere con prudenza per parlare invece con cognizione di causa.
Dai cablo Wikileaks, esce finalmente la storia che riguarda il giro di mazzette, interessi ed intrallazzi intorno al nucleare italiano. Quello che appunto sospettavamo tutti. Alcune perle:
Quando invece si parla delle nuove centrali da costruire, allora i documenti trasmessi a Washington diventano espliciti, tratteggiando uno scenario in cui sono le mazzette a decidere il destino energetico del Paese. Uno scontro di Stati prima ancora che di aziende, per mettere le mani su opere che valgono almeno 24 miliardi di euro e segneranno il futuro di generazioni.Lo scontro più feroce però è quello che avviene per costruire i futuri impianti: almeno sei centrali, ciascuna del costo di circa 4 miliardi. Si schierano aziende-Stato, che sono diretta emanazione dei governi e godono dell'appoggio di diplomazie e servizi segreti. In pole position i francesi di Areva, quasi monopolisti nel Vecchio continente (...) E anche i russi, che nonostante Chernobyl continuano a esportare reattori in Asia, cercano di partecipare alla spartizione della torta. Negli Usa ci sono Westinghouse e General Electric che "sono interessate a vendere tecnologia nucleare all'Italia".
Ed ecco la previsione: "La corruzione è pervasiva in Italia e temiamo che potrebbe essere uno dei fattori che dovremo affrontare andando avanti". L'avversario è Parigi, che può sfruttare gli intrecci economici tra Enel ed Edf per stendere la sua trama. "Temiamo che i francesi abbiano una corsia preferenziale a causa della loro azione di lobbying ai più alti livelli e a causa del fatto che le compagnie che probabilmente costruiranno gli impianti in Italia hanno tutte un qualche tipo di French connection.
"L'intensa pressione dei francesi, che forse comprende tangenti ("corruption payment") a funzionari del governo italiano, ha aperto la strada all'accordo di febbraio tra le aziende parastatali italiana e francese, Enel e Edf" Gli americani ipotizzano che dietro la scelta degli standard a cui affideremo il nostro futuro e la sicurezza del Paese ci possano essere state bustarelle.
Interessante anche ciò che segue, su cui c'era già qualche sospetto. Che in Italia ci sia il "partito ENEL" e il "partito ENI", e che si combattano sotterraneamente, è quasi una certezza:
"Si dice che l'Eni stia facendo una dura azione di lobbying contro la riapertura della partita da parte di Enel", registra nel 2005 l'ambasciatore Sembler, "perché ridurrebbe sia il mercato di Eni che la sua influenza politica".
E poi le beghe elettorali locali:
L'ambasciatore Thorne scrive: "Noi abbiamo saputo che Scajola ha un'altra ragione per appoggiare il coinvolgimento delle aziende statunitensi. L'accordo con la Francia ha tagliato fuori dai contratti le società italiane che vogliono contribuire a costruire le centrali. Una di queste, Ansaldo Nucleare, ha sede nella regione di Scajola: la Liguria."
Tutto l'articolo, e tutti i documenti, sono una sequenza incredibile di intrallazzi ad ogni livello planetario per spartirsi la torta nucleare italiana. E' davvero deprimente, che ci sia ancora qualche ingenuotto a credere che facciano tutto ciò "per il futuro energetico dell'Italia".
"All'Italia mazzette sull'atomo"
di Stefania Maurizi - l'Espresso - 18 Marzo 2011
In un cablo segreto spedito a Washington, l'ambasciatore americano rivela che 'alti ufficiali' dell'esecutivo di Berlusconi avrebbero preso tangenti per comprare tecnologie e centrali francesi
All'inizio è solo un timore, poi si trasforma in più di un sospetto: la rinascita del nucleare in Italia è condizionata dalle tangenti. Un'ipotesi circostanziata, messa nero su bianco in un rapporto del 2009 per il ministro dell'Energia di Obama, Steven Chu.
Negli oltre quattro mila cablo dell'ambasciata americana di Roma la parola corruzione compare pochissime volte e in termini generici. Quando invece si parla delle nuove centrali da costruire, allora i documenti trasmessi a Washington diventano espliciti, tratteggiando uno scenario in cui sono le mazzette a decidere il destino energetico del Paese.
Nel momento in cui il devastante terremoto giapponese obbliga il mondo a fare i conti con i rischi degli impianti e lo spettro di una colossale contaminazione, i documenti ottenuti da WikiLeaks che "l'Espresso" pubblica in esclusiva permettono di ricostruire la guerra nucleare segreta che da sei anni viene combattuta in Italia.
Uno scontro di Stati prima ancora che di aziende, per mettere le mani su opere che valgono almeno 24 miliardi di euro e segneranno il futuro di generazioni. Francesi, russi e americani si danno battaglia su una scacchiera dove si confondono interessi industriali, politici e diplomatici: cercano contatti nel governo, nei ministeri, nei partiti e nelle aziende. Per riuscire a conquistare quello che appare il mercato più ricco d'Europa. E lo fanno - secondo i dossier statunitensi - senza esclusione di colpi.
LA FENICE ATOMICA
Gli americani cominciano a muoversi nel 2005, quando con una certa sorpresa scoprono che l'energia nucleare sta risorgendo dalle ceneri del referendum del 1987. Per gli Usa si tratta di un'occasione unica: lo strumento per allontanare l'Italia dalla dipendenza nei confronti del gas russo, l'arma più potente nelle mani di Vladimir Putin.
La questione diventa quindi "prioritaria" per l'ambasciata di Roma, che si muove verso due obiettivi: convincere i politici a concretizzare il programma atomico e far entrare nella partita i colossi americani del settore. Complici il prezzo sempre più alto degli idrocarburi, i rincari delle bollette e le promesse di sicurezza dei reattori più avanzati, gli italiani sembrano sempre meno ostili al nucleare.
E il governo di Silvio Berlusconi non mostra dubbi su questa scelta. Più difficile - scrivono nel 2005 - convincere il centrosinistra che "si oppone largamente all'idea. Comunque, i nostri contatti sostengono che, anche se dovesse tornare al governo, il rinnovato impegno dell'Italia nei programmi nucleari non si fermerà".
La componente verde della maggioranza di Romano Prodi si oppone a ogni programma. Il ministro Pier Luigi Bersani invece apre alle sollecitazioni statunitensi e nel 2007 spiega all'ambasciatore che "l'Italia non è fuori dalla produzione di energia nucleare, l'ha solo sospesa", per poi riconoscere che "carbone pulito e nucleare probabilmente giocheranno un ruolo importante nell'assicurare i bisogni del futuro". Lo stesso Bersani che in questi giorni, dopo la crisi nipponica, è stato pronto a condannare "il piano nucleare del governo".
Lo scontro più feroce però è quello che avviene per costruire i futuri impianti: almeno sei centrali, ciascuna del costo di circa 4 miliardi. Si schierano aziende-Stato, che sono diretta emanazione dei governi e godono dell'appoggio di diplomazie e servizi segreti.
In pole position i francesi di Areva, quasi monopolisti nel Vecchio continente dove hanno aperto gli unici cantieri per reattori di ultima generazione: hanno 58 mila dipendenti e 10 miliardi di fatturato l'anno. E anche i russi, che nonostante Chernobyl continuano a esportare reattori in Asia, cercano di partecipare alla spartizione della torta.
Negli Usa ci sono Westinghouse e General Electric che "sono interessate a vendere tecnologia nucleare all'Italia, ma si trovano a dover affrontare una dura competizione da parte di rivali stranieri i cui governi stanno facendo una pesante azione di lobbying sul governo italiano".
MAZZETTE ALLA FRANCESE
L'allerta diventa massima nel 2008, quando Berlusconi assicura agli Usa che stavolta il suo esecutivo "rilancia sul serio il settore. Se andranno davvero avanti, ci saranno contratti per decine di miliardi". Con una minaccia: "Vediamo già un'azione di lobbying ad alto livello da parte dei leader del governo inglese, francese e russo".
I colloqui con il consigliere diplomatico del ministro Claudio Scajola, Daniele Mancini, "suggeriscono che i francesi e i russi stanno già manovrando e facendo lobbying per i contratti". Ed ecco la previsione: "La corruzione è pervasiva in Italia e temiamo che potrebbe essere uno dei fattori che dovremo affrontare andando avanti".
L'avversario è Parigi, che può sfruttare gli intrecci economici tra Enel ed Edf per stendere la sua trama. "Temiamo che i francesi abbiano una corsia preferenziale a causa della loro azione di lobbying ai più alti livelli e a causa del fatto che le compagnie che probabilmente costruiranno gli impianti in Italia hanno tutte un qualche tipo di French connection. Continueremo i nostri energici sforzi per garantire che le aziende americane abbiano una giusta chance".
Pochi mesi dopo i francesi danno scacco: Sarkozy e il Cavaliere firmano l'accordo che assegna ad Areva la costruzione di quattro reattori modello Epr in Italia. Siamo a febbraio 2009, la diplomazia statunitense vuole impedire che il successo di Parigi si trasformi in scacco matto. E intensifica gli sforzi per occupare gli spazi rimasti, ossia la fornitura di almeno altre due centrali. A maggio arriva a Roma il Mister Energia di Obama, Steven Chu.
L'ambasciata lo mette in guardia: "L'intensa pressione dei francesi, che forse comprende tangenti ("corruption payment") a funzionari del governo italiano, ha aperto la strada all'accordo di febbraio tra le aziende parastatali italiana e francese, Enel e Edf, in modo da formare un consorzio al 50 per cento per costruire centrali in Italia e altrove. L'intesa prevede la costruzione di quattro reattori dell'Areva entro il 2020 e, cosa ancora più preoccupante, può imporre quella francese come tecnologia standard per il ritorno dell'Italia al nucleare".
Gli americani ipotizzano che dietro la scelta degli standard a cui affideremo il nostro futuro e la sicurezza del Paese ci possano essere state bustarelle. E chiedono al ministro per l'Energia: "Dovrebbe far presente che abbiamo preoccupanti indicazioni del fatto che alle aziende americane sarà ingiustamente negata l'opportunità di partecipare a questo programma multimiliardario". L'ambasciata è molto decisa nel delineare un contesto di scorrettezza.
Il promemoria scritto da Elizabeth Dibble, all'epoca reggente della sede di Roma oggi diventata consigliera di Hillary Clinton, insiste: "E' anche molto importante che ricordi al governo italiano che ci aspettiamo pari opportunità per le nostre aziende, visto quello che abbiamo notato fino a oggi nel processo di selezione".
RUSSIA? NO GRAZIE.
Alla fine del 2008 gli Usa ritengono che Berlusconi stia per annunciare un accordo per il nucleare anche con Mosca. Ma uno degli uomini chiave del ministero dello Sviluppo Economico, Sergio Garribba, rassicura gli americani e "ridendo" spiega la reale natura della collaborazione atomica con i russi: "E' una barzelletta, solo pubbliche relazioni".
L'ambasciata scrive che l'alto funzionario "probabilmente ha ragione: gli italiani nel 1987 hanno chiuso il loro programma in risposta a Chernobyl...". Ma non si fidano completamente "visti gli stretti rapporti tra Berlusconi e Putin".
E temono che comunque la coalizione tra Eni e Gazprom per il gas, che alimenta anche le centrali elettriche, si trasformerà in un muro per ostacolare il nucleare. "Si dice che l'Eni stia facendo una dura azione di lobbying contro la riapertura della partita da parte di Enel", registra nel 2005 l'ambasciatore Sembler, "perché ridurrebbe sia il mercato di Eni che la sua influenza politica".
Anche se le resistenze più forti verranno dal nimby, l'opposizione delle comunità locali ai nuovi reattori. "L'Italia è una penisola lunga e stretta, con una spina dorsale di catene montuose e con coste densamente popolate. Il numero dei siti dove costruire impianti è limitato... Se continua a decentralizzare i poteri alle regioni attraverso le riforme costituzionali - sostengono i nostri contatti - un revival nucleare sarà veramente improbabile".
Forse per questo, in tempi più recenti, l'ambasciata "programma" di contattare anche il leghista Andrea Gibelli, che presiede la commissione Attività produttive della Camera.
LA QUINTA COLONNA.
Nei ministeri di Roma la battaglia nucleare si combatte stanza per stanza. Gli americani cercano di avere referenti fidati negli uffici chiave e ogni nomina viene analizzata. Nel 2009 guardano con diffidenza ai tre tecnici italiani designati per il G8 dell'energia: "Uno attualmente lavora per la potente Eni".
Fino ad allora, si erano spesso rivolti a Garribba, "uno dei grandi esperti di energia, consulente tecnico del ministro Scajola": è definito "uno stretto contatto dell'ambasciata". Ma nel 2009 temono di venire tagliati fuori.
Nella gara per la direzione del dipartimento Energia del ministero, Garribba viene battuto da Guido Bortoni, "un tecnocrate poco noto che attualmente sta all'Autorità per l'Energia. Avendo lavorato 10 anni all'Enel, Bortoni potrebbe ancora avere legami stretti con l'azienda e gli investimenti comuni tra Enel e l'industria nucleare francese ci fanno preoccupare che Bortoni possa portare questa preferenza per la tecnologia francese nella sua nuova posizione".
Ad aumentare i loro timori c'è "la dottoressa Rosaria Romano, che guiderà la divisione nucleare del nuovo dipartimento energia": un fatto "potenzialmente preoccupante" visto che "nel corso degli anni, la Romano ha ripetutamente rifiutato in modo deciso i tentativi dell'ambasciata di incontrarla".
Ma i diplomatici americani "stanno già lavorando per assicurare che le nomine di Bortoni e Romano non danneggino gli interessi delle aziende Usa (General Electric e Westinghouse)".
Nel luglio 2009, il ritorno all'atomo diventa legge. A quel punto, Francesco Mazzuca, presidente dell'Ansaldo Nucleare, azienda genovese del gruppo Finmeccanica e unico polo italiano del settore, consiglia "un impegno ai più alti livelli del governo italiano, in modo da contrastare i continui sforzi di lobbying da parte di Parigi.
Mazzuca ha detto che il governo francese sta addirittura aumentando la sua pressione, inviando a Roma un secondo funzionario con portfolio nucleare". Il top manager di Ansaldo ipotizza che il governo Berlusconi potrebbe costruire i nuovi impianti nei siti delle vecchie centrali in corso di smantellamento: Trino Vercellese, Caorso, Latina e Garigliano.
E per l'Agenzia di sicurezza nucleare che dovrà vigilare su reattori e scorie, Mazzuca dichiara che la vorrebbe guidata dal professor Maurizio Cumo. Ex presidente della Sogin, in ottimi rapporti con Gianni Letta, nel novembre scorso Cumo è stato nominato dal Consiglio dei ministri come uno dei cinque membri dell'Agenzia guidata da Umberto Veronesi. Cumo è il nome che piace anche a Washington perché "è a favore della tecnologia nucleare Usa".
Ogni mossa in questa sfida ha ricadute anche sul futuro di tutti gli italiani. Nei cablo non si entra mai nel merito delle tecnologie contrapposte, se siano più sicuri i reattori francesi o americani.
Ma l'attivismo dell'ambasciata mette a segno un risultato importante: "Siamo stati capaci di convincere il governo italiano a cambiare una bozza della legislazione sul nucleare che avrebbe lasciato l'approvazione dei certificati per le nuove centrali agli altri governi europei. La nuova versione estende la certificazione a qualsiasi paese Ocse. Questo apre la porta alle aziende americane".
In pratica, si passa dagli standard di sicurezza dell'Unione europea a quelli di qualunque membro dell'Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo, che comprende 34 nazioni inclusi Giappone, Australia e Usa.
VIVA SCAJOLA.
Dal 2009 le attenzioni degli americani si concentrano su Claudio Scajola, "un collaboratore di lunga data di Berlusconi, che guida un superministero". Affidano a Chu il compito di "conquistarlo", sin dal summit romano del maggio 2009.
Ma il momento chiave è il viaggio negli States del settembre successivo: "Vediamo questa visita come un'opportunità decisiva per gli Stati Uniti per contrastare la preferenza italiana nei confronti della tecnologia nucleare francese e per aprire le porte a lucrativi contratti per le aziende statunitensi".
Scajola accetta anche "l'invito di Westinghouse a fare un tour nei suoi impianti". Lo strumento per fare leva sul ministro è l'Ansaldo Nucleare, la società di Finmeccanica "che ha stretti rapporti con Westinghouse".
L'ambasciatore Thorne scrive: "Noi abbiamo saputo che Scajola ha un'altra ragione per appoggiare il coinvolgimento delle aziende statunitensi. L'accordo con la Francia ha tagliato fuori dai contratti le società italiane che vogliono contribuire a costruire le centrali. Una di queste, Ansaldo Nucleare, ha sede nella regione di Scajola: la Liguria. E così se Westinghouse ottiene la sua parte, Ansaldo - azienda della terra di Scajola - ne beneficia. Noi abbiamo bisogno di tutto l'aiuto possibile nel nostro sostegno alle aziende Usa. Se Scajola ha anche un interesse locale nel cercare di fare in modo che le ditte americane ottengano commesse, questo è un vantaggio da cogliere e da massimizzare a beneficio degli Stati Uniti".
L'interesse statunitense si è tradotto la scorsa settimana nella cessione del 45 per cento di Ansaldo Energia - che controlla Ansaldo Nucleare - al fondo First Reserve Corporation, con un'operazione da 1.200 milioni di euro.
E anche il tour di Scajola negli States del 2009 si è rivelato un successo, con la firma di due accordi di cooperazione con Chu: gli interessi del ministro e di Washington sembrano sposarsi.
Il cablo ha toni sollevati: i francesi non sono più "l'unico protagonista ("the only game in town"). Il reattore AP1000 della Westinghouse è diventato un forte concorrente per le centrali nucleari che saranno costruite oltre a quelle proposte dal consorzio Enel-Edf".
E una schiera di aziende americane si prepara a sfruttare la breccia nel dicastero di via Veneto: "General Eletric, Exelon, Battelle, Burns and Roe, Lightbridge ed Energy Solutions", elenca Thorne.
Il database di WikiLeaks si ferma prima del maggio 2010, data delle dimissioni di Scajola per la casa con vista al Colosseo "pagata a sua insaputa". Nelle primissime dichiarazioni, il ministro ligure grida al complotto e comincia la sua lista di sospetti con un riferimento esplicito: "Le mie dimissioni indeboliscono il governo, ma chi può avere interesse a farlo? La Francia, in prospettiva, ha tutto da perdere dal nostro programma nucleare...".
Ma se le scelte sul nostro futuro energetico nascono da questi oscuri giochi di potere, a perderci rischiano di essere tutti gli italiani.
Siti nucleari, rubato il pc Enel con gli studi di fattibilità
da www.ultima-ora.com - 3 Giugno 2011
La fatidica mappa dei siti per la realizzazione delle centrali nucleari l'Enel non l'avrebbe comunicata "neanche sotto tortura", come dichiarato un paio di anni fa dall'amministratore delegato del gruppo elettrico, Fulvio Conti.
Ma a poco più di una settimana dal referendum, gli studi e le analisi dell'azienda, impegnata in prima linea con Edf nel contestato programma di rientro dell'Italia nella tecnologia atomica, sono spariti da una delle sedi romane della società, quella di Tor di Quinto, che ospita 'l'area nucleare' del gruppo.
Il furto
Al ritorno al lavoro dopo la festa del 2 giugno, l'Enel ha scoperto e denunciato al commissariato di Ponte Milvio il furto di un computer "contenente documenti aziendali relativi a studi e analisi preliminari, privi di risvolti operativi, sulle caratteristiche di siti per impianti nucleari in Italia e all'estero". Per l'azienda un fatto "davvero singolare" visto che un colpo "così mirato" è avvenuto "proprio a pochi giorni dalla tornata referendaria".
Il timore è quello che domani o a ridosso del voto i dati possano essere pubblicati con grande enfasi, condizionando così profondamente la consultazione.
Gli studi di fattibilità
Nella macchina, un semplice pc portatile di uso quotidiano, chiuso a chiave in un cassetto (ma non certo in una cassaforte iperprotetta come si potrebbe immaginare), sono custodite informazioni sui siti possibili, su dove cioè verosimilmente si potrebbero riscontrare i requisiti necessari alla costruzione di un impianto, dall'assenza di sismicità alla presenza di corsi d'acqua.
Ma la lista in mano all'Enel, come sempre si fa quando si avvia un'analisi di tipo generale, è molto più lunga rispetto a quella da cui prescegliere effettivamente i 4 siti per le nuove centrali italiane (sempre nel caso in cui il piano nucleare venisse attuato).
Anche perché la scelta non spetterebbe solo all'Enel: un ruolo determinante è infatti quello della neocostituita Agenzia per la sicurezza nucleare guidata da Umberto Veronesi, incaricata proprio di definire i requisiti tecnologici e gli standard essenziali di sicurezza e di individuare le aree adatte entro le quali l'impresa è obbligata a localizzare l'impianto, chiedendo ovviamente il parere degli enti locali e della Commissione Via (Valutazione di impatto ambientale).
Le indagini
Al momento nulla trapela sulle responsabilità del furto, ma, considerando che all'interno dell'area nucleare del palazzo Enel si entra solo con un badge e che il ladro ha rubato esclusivamente quel pc andando a colpo sicuro, non è esclusa la pista interna.