Quattro SI per cambiare
di Fabrizio Casari - Altrenotizie - 7 Giugno 2011
Magari sembrerà il problema minore, ma sarebbe bene tenere a mente che ci troviamo a dover votare il 12 e 13 Giugno perché il governo, tramite l’inutile Maroni, stabilì l’impossibilità di celebrare “l’election day”, cioè di accorpare il voto referendario a quello amministrativo del mese scorso.
Si sarebbero risparmiati oltre 300 milioni di Euro, certo, ma pur di evitare che la consultazione elettorale amministrativa determinasse di per sé l’affluenza al voto referendario e, con essa, il raggiungimento del quorum, non si è badato a spese e nemmeno a espedienti.
Il terrore vero e proprio che pervade il governo Berlusconi-Bossi-Scilipoti è che gli italiani si pronuncino sui referendum, giacché difficilmente la scheda per loro più importante (quella sul “legittimo impedimento”) verrebbe ignorata nel momento in cui si vota per gli altri tre.
Ed è fin troppo evidente che la pretesa di erigersi al di sopra della legge e di decidere egli stesso dei procedimenti giudiziari che lo vedono imputato, vedrebbe una bocciatura sonora nelle urne. Questo era quanto Berlusconi voleva evitare e, a questo fine, si é giocato anche gli ultimi brandelli di decenza politica.
Si deve ricordare che il governo ha tentato ogni mossa possibile per evitare il voto referendario: dapprima cercando di far annullare la consultazione con una furberia da retrobottega, firmando cioè un decreto che sospendeva il precedente, dove si annunciava il rilancio del nucleare.
Successivamente, di fronte alla sentenza della Suprema Corte che confermava invece la procedibilità del pronunciamento referendario, ha dato mandato all’Avvocatura di Stato per inoltrare un ultimo, disperato ricorso, presso la Consulta affinché dichiarasse nulla la sentenza della Cassazione.
Sono stati gli ultimi tentativi, in ordine di tempo, per tentare di impedire ad ogni costo la celebrazione del referendum. E non solo perché i temi oggetto della consultazione riguardano direttamente gli affari privati del capo del governo e delle lobby finanziarie che l’hanno da sempre sostenuto, ma anche perché nel corso di questi anni sia da parte della Corte Costituzionale, sia da quella dei cittadini nelle urne referendarie, il governo Berlusconi è uscito a pezzi.
Tanto la Consulta, infatti, come i cittadini, hanno respinto in ogni occasione, nei rispettivi ambiti e nelle diverse forme, le forzature anticostituzionali che il cesarismo del cavaliere tentava d’imporre al Paese.
Perché la riduzione della Carta a mero feticcio ideologico è stata, da sempre, l’ossessione del premier. Non per ignoranza giuridica, quanto meno non solo; ma perché l’idea proprietaria che Berlusconi ha delle istituzioni non può trovare concreta applicazione senza che il testo fondamentale sul quale le istituzioni esercitano il loro compito perda efficacia.
Questa è stata la madre di tutte le battaglie ingaggiate dal cavaliere in 17 anni di vita politica. Nel perdurare del piagnisteo sulle “mani legate” che il governo avrebbe, intendendo con ciò l’insieme delle norme previste dall’ordinamento costituzionale,
Berlusconi ha tentato con volgare pervicacia forzature istituzionali ad ogni occasione possibile, indifferente ai richiami delle autorità istituzionali che tentano di far comprendere a lui e ai suoi guardasigilli la differenza tra una Repubblica e un sultanato.
Avendo una maggioranza parlamentare che risponde ai suoi interessi personali, Berlusconi ha ritenuto che, forte del potere esecutivo e legislativo, potesse sopraffare quello giudiziario.
Il tentativo costante è stato infatti quello di porre il governo al di sopra delle altre istituzioni, cercando d’imporre il volere dell’esecutivo a scapito dei poteri del legislativo e del giudiziario e di porre il ruolo del capo del governo in supremazia nei confronti del capo dello Stato. Insomma, un modo per trasformare la Costituzione in carta riciclabile.
Ha cercato di perseguire l’obiettivo con un modo scorretto nella forma (giacché non predisposto secondo quanto previsto dall’art.138 della Carta) e pessimo nella sostanza (in quanto i provvedimenti erano palesemente viziati dall’interesse privato dei proponenti), di dichiarare l’avvenuto superamento del dettato costituzionale a vantaggio di una “Costituzione di fatto”, che altro non è se non l’affermazione di una volontà proprietaria privata della cosa pubblica da parte del premier e delle sue cricche. Insomma la riproposizione di quello che Antonio Gramsci definiva “il sovversivismo delle classi dirigenti”.
Per fortuna, la democrazia italiana, con tutti i limiti politici conosciuti, ha dimostrato di avere una tenuta forte, garantita sia dalle istituzioni sia dai cittadini. In questo senso é difficile vedere nel voto referendario solo un pronunciamento nel merito dei quesiti e non coglierne il senso politico generale di un’occasione per assestare un altro colpo durissimo al governo Berlusconi.
Di Pietro afferma che il voto referendario non dev’essere un giudizio sul governo: l’intento è quello - comprensibile - di portare al voto anche gli elettori del centrodestra che sono comunque contrari al nucleare, alla privatizzazione della rete idrica e, perché no, anche alle leggi “ad personam”, ma che, probabilmente, non vogliono utilizzare l’occasione referendaria per colpire nuovamente il governo.
C’è però un doppio dato, tutto politico, che non può essere taciuto in funzione tattica: i quesiti referendari sono, per contenuto, una battaglia politica contro la manifestazione esantematica di un morbo turboliberista.
Privatizzare i servizi idrici aumentandone il costo, diminuendone la qualità e limitandone la distribuzione è un esempio chiaro di come il governo (e forse anche qualcuno all’opposizione) intende la cosa pubblica: smantellamento dei servizi pubblici locali come occasione d’affari per le lobbies a scapito degli interessi popolari.
Abolire la norma che obbliga i sindaci alla privatizzazione dei servizi pubblici locali si dice chiaramente cosa si chiede all’amministrazione delle comunità. Ricorrere al nucleare, poi, significa piegare l’economia, l’ambiente e la sicurezza del Paese alle lobby dell’atomo, dopo aver scatenato guerre per conto di quella del petrolio.
Il “legittimo impedimento” è la proposizione di un’idea della giustizia basata su un concetto semplice, che prevede un doppio binario di applicazione, uno per le persone comuni ed uno per i potenti. La riforma della giustizia, necessaria e non procrastinabile, diventerebbe così l’ingiustizia che diventa legge.
Il voto, proprio perché di contenuto e quindi politico, servirà anche per il futuro. Il ceto politico, di centrosinistra o di centrodestra che sia, deve ricevere un messaggio forte e chiaro: il berlusconismo è al crepuscolo perché anche l’ideologia di cui è portatore ormai non ha più senso comune, se mai l’ha avuto.
Welfare, diritti, ambiente, giustizia giusta, lavoro e sviluppo sono i punti da cui si ricomincia dopo aver archiviato la notte oscura della democrazia. Ci si può sedere a terra occupando piazze o impugnando schede e invadendo le urne: sono due modi diversi e ugualmente legittimi di far capire cosa si vuole e, soprattutto, cosa non si vuole più. L’ubriacatura liberista è finita. Chi vuole capire capirà.
Floris e Santoro, quelli che parlano di referendum senza invitare i promotori
di Marco Bersani - Megachip - 8 Giugno 2011
Cara redazione di Ballarò / Annozero,
sembrate appartenere alla libera informazione, ma intanto Vespa è stato l'unico conduttore di talk show che si è comportato correttamente con il Comitato Promotore dei referendum per l'acqua. Non avete capito nulla di quello che sta succedendo in questo Paese.
Pensate che il grande risultato delle elezioni amministrative sia la spinta per i referendum e invece è stata la spinta dei referendum (1,4 milioni di firme per l'acqua, do you remember?) a produrre il grande risultato delle elezioni amministrative.
Continuate a pensare che il Paese sia diviso tra il tiranno e l'opposizione di centro-sinistra e non avete capito che c'è una società dal basso che vuole cacciare Berlusconi, ma che al contempo non ne può più di un centro-sinistra politicista e liberista.
Non avete filato i referendum, fino a che il blocco di potere "Repubblica/Espresso/Pd" non ha immaginato che il referendum potesse essere utilizzato come "spallata" per il tiranno; solo allora siete scesi in campo, ma., mancandovi le basi per capire il protagonismo sociale in atto, non riuscite ad invitare l'anomalia del Comitato promotore (che non ha tessere e guarda al futuro) e ricorrete allo stantio copione del chiacchiericcio fra opinionisti e politicanti.
Mi fate tristezza.
Forse un giorno non ci sarete più.
Se quel giorno nessuno farà manifestazioni di popolo per voi, forse allora intuirete il perché.
Se si riuscisse a raggiungere il quorum nei referendum del 12 e 13 giugno si potrebbe dare un’altra bella batosta alla nostra classe dirigente: tutta, inclusa quella sinistra che non ha fatto nulla, fino ad ora, per promuoverli, spalancando invece le porte “alle privatizzazioni dell’acqua e lottizzato società di servizi in mezza Italia, pensiamo alle varie Hera (Emilia-Romagna) e Iren (Torino-Genova-Emilia occidentale)”, come ricorda Beppe Grillo sul suo blog.
Tralasciando l’importanza di una vittoria dei Sì, già ampiamente dibattuta anche sulle pagine di questo giornale, è importante che si vada a votare per far capire bene ai cialtroni che pensano di poter decidere tutto per noi che non siamo un popolo né di pecore, né di bambini idioti, che preferiscono “andare al mare” piuttosto che interessarsi alle proprie sorti ed al proprio futuro (e poi al mare, sperando che ci sia bel tempo, ci si può benissimo andare anche dopo che ci si è recati a votare).
Aver fatto di tutto per non accorpare referendum ed elezioni amministrative è stato uno scherzetto che, in un periodo di crisi economica come quello attuale, ci è già costato circa 350 milioni di euro.
Questo fatto, senza considerare le dichiarazioni di Berlusconi di qualche tempo fa, che con la sua solita sfacciataggine ha ammesso di volere solo rinviare la partita, dovrebbe bastare per far venire al popolo italiano un desiderio di votare tale da farlo anche se, per assurdo, fosse possibile accedere alle urne solo nella notte di domenica.
Quella del 12 e 13 giugno è un’opportunità di far capire forte e chiaro a lor signori che la sovranità è e rimane nostra. È triste ammetterlo, ma portare il Sì a vincere questo referendum è, ormai, soprattutto una questione di principio.
Che ci porti a dare un (altro) ceffone alla classe politica più arrogante ed incompetente che si sia mai vista in questo Paese. E che deve capire, appunto, che non sono loro a comandare, nonostante la loro spocchia e i loro privilegi.
I prossimi 12 e 13 giugno gli italiani saranno chiamati a esprimersi con un referendum sulla possibilità che il nostro Paese persegua una politica energetica nucleare.
Molte voci si stanno spendendo sul tema, riaprendo un dibattito che si era chiuso nel 1987, quando un altro referendum sancì, di fatto, l’abbandono, da parte dell’Italia, del ricorso al nucleare come forma di approvvigionamento energetico. La questione tornò d’attualità nel 2008, anno il cui il governo Berlusconi decise di iniziare un iter legislativo teso al ripristino della produzione elettronucleare.
Il fronte del no al nucleare, trasversale e incalzante, denuncia le potenzialità dannose che avrebbero centrali nucleari situate nel nostro territorio. Tuttavia, non tutti sanno che già attualmente in Italia il rischio di calamità nucleari non è affatto remoto, sebbene non siano attive centrali da quasi venticinque anni.
Il professor Alberto Bernardino Mariantoni, esperto di politica estera e relazioni internazionali, per vent’anni inviato speciale in Vicino Oriente e corrispondente permanente presso le Nazioni Unite di Ginevra, ne individua il motivo nella presenza delle basi USA e Nato entro i nostri confini.
Professore, anzitutto ci chiarisca un equivoco. Si è molto dibattuto intorno al numero di basi USA presenti in Italia. Lei è autore di un’inchiesta dalla quale ne emergerebbe un numero che tuttavia molti osservatori hanno ridimensionato. Può spiegarci come stanno le cose dal suo punto di vista?
Cosa hanno “ridimensionato”? Ma sta scherzando? Certo, alcuni “osservatori”, come li chiama lei – e per la maggior parte anonimi… come sottolineo io – ci hanno provato e continuano sistematicamente ed interessatamente a provarci. Purtroppo per loro, con sole chiacchiere, sofismi dialettici o concettuali ed “arrampicamenti vari sugli specchi”…
Affermando, ad esempio, che alcune di quelle che io chiamo basi, sarebbero in realtà dei “distaccamenti” o delle “sezioni militari” di “basi madre” più importanti, o semplici caserme italiane dove sarebbero acquartierati considerevoli e qualificati contingenti militari USA, o banali antenne radar, o centri di ascolto del sistema Echelon (sempre sotto controllo USA). Ma, per l’essenziale, la mia ricerca – sostenuta da fatti, prove e documentazioni incontrovertibili ed inoppugnabili – è sempre all’ordine del giorno, per inficiare o sbugiardare certe illazioni o diffamazioni.
Come le venne in mente di impegnarsi a realizzare la sua ricerca?
L’input per cercare di realizzare una ricerca sulle basi e/o le installazioni logistiche e militari Usa/Nato in Italia ed in Europa, ed Usa nel Mediterraneo, mi venne da una classica “soffiata”. In particolare, da un’imbeccata confidenziale di un Alto ufficiale della SETAF (Southern European Task Force) che mi fece avere una lista di basi, allora classificata Top Secret. Siccome, per principio, non mi fido di nessuno – e come sottolinea l’adagio, "Amicus Plato, sed magis amica veritas" = Platone mi è caro, ma la verità mi è ancora di più cara (Aristotele, Etica a Nicomaco, I, 4/1) – presi il coraggio a quattro mani ed andai a verificare de visu quanto mi era stato formalmente indicato. Capisce, quella “lista” poteva pure essere una provocazione, un tentativo di disinformazione o di manipolazione, per screditarmi professionalmente.
Insomma, per evitare quel genere di rischi, presi il mio paziente “bastone di pellegrino” e, in sei o sette mesi di intense investigazioni e di sopralluoghi a mie spese, riuscii a realizzare, nel 2003/2004, l’inchiesta di cui stiamo parlando. La sintesi descrittiva di quella mia indagine, apparve, per la prima volta, sul numero 3, Ottobre-Dicembre 2005, della rivista di studi geopolitici, Eurasia.
Questo, il link della rivista in questione: http://www.eurasia-rivista.org/cogit_content/numeri/EEkZAuuEEVgwWsJacN.shtml Quella mia ricerca, oltre a numerosissimi siti internet, venne ugualmente e successivamente ripresa, nel 2008, anche da Jura Gentium (rivista di filosofia del diritto internazionale e della politica globale), a questo link: http://www.juragentium.unifi.it/it/surveys/wlgo/marianto.htm Last but not least, nel Maggio 2008, il programma televisivo Matrix (Canale 5 - Mediaset), allora diretto e condotto da Chicco (Enrico) Mentana, vi dedicò addirittura un’intera trasmissione.
E con i giornalisti Roberto Pavone e Chiara Cazzanica, cercò parimenti, senza riuscirci, di minimizzare il significato ed il senso della medesima ricerca. Del reportage realizzato da questi ultimi, essendo da tempo inspiegabilmente scomparso dagli archivi video di quella trasmissione, ne troverà una sintesi privata su questo youtube: http://www.youtube.com/watch?v=zta5359CHhA
Come spiega, allora, che nella sua lista, vi siano comunque alcune basi Usa/Nato che, in realtà, non esistono o sono inesattamente situate o impropriamente riferite?
Vede, pur ribadendo la serietà e l’accuratezza della mia ricerca, non ho nessun problema a confessare che nella lista originale delle basi e/o delle installazioni militari o logistiche USA e/o NATO (sotto controllo USA) da me pubblicata nel 2005, ci siano effettivamente alcuni errori.
La ragione è semplice da spiegare: quegli “errori” furono, da me, volontariamente e vistosamente inseriti nella lista, per salvaguardare l’anonimato e l’incolumità del mio informatore iniziale. E, soprattutto, per impedire che Big Brother potesse risalire fino a lui e creargli dei problemi.
In ogni caso, per rispondere in blocco a tutte le diverse e variegate “contestazioni” che, fino al 2008, mi erano state sollevate, ed evitare che – da quelle studiate ed interessate insinuazioni e calunnie – potessero scaturire ulteriori ed antipatici qui pro quo, mi decisi a pubblicare una dettagliata messa a punto della mia stessa inchiesta sul sito web del Coordinamento Progetto Eurasia (CPE) che troverà su questo link: http://www.cpeurasia.eu/305/basi-americane-in-italia-una-messa-a-punto
Questo, naturalmente, senza contare che è stato il Pentagono stesso – in un suo documento ufficiale del 2007 (Department of Defense - Base structure report fiscal year 2007 baseline) – a confermare indirettamente la validità e la fondatezza della mia ricerca, come ognuno potrà facilmente verificare su questo link: http://www.defenselink.mil/pubs/BSR_2007_Baseline.pdf
Sostiene che in alcune di queste basi vi siano armi atomiche? Se sì, dove e in che quantità?
Non soltanto lo sostengo, ma – fino a prova del contrario – lo confermo e lo ribadisco. In altre parole, al momento della mia ricerca iniziale (2003/2004) e, almeno, fino a tutto il 2008, i Depositi nucleari statunitensi, in Italia, contavano (e contano ancora?) all’incirca 90 bombe, del tipo B-61-3, B-61-4 e B-61-10, (tutte unicamente sganciabili da caccia-bombardieri), con potenza media fra i 45 ed i 107 kilotoni, di cui 50 testate dislocate presso la base di Aviano, in provincia di Pordenone, e 40 in quella di Ghedi-Torre, in provincia di Brescia.
Queste armi possono essere usate dallo Stato italiano?
Ufficialmente, mia conoscenza, no! Il che non esclude che sulla base di uno dei numerosi Accordi segreti che sono stati siglati, dagli anni ’50 ad oggi, dal Servizi segreti Usa e quelli italiani, e mai ratificati dal Parlamento (art. 80 della nostra Costituzione) né dal Presidente della repubblica (art. 87), l’aviazione italiana – come forza militare della Nato e su ordine espresso di Washington – le possa utilizzare.
Reputa il cosiddetto Weapons Storage and Security System (WS3) un sistema efficace a scongiurare i rischi dovuti alla presenza di armi atomiche? Spieghi anzitutto in cosa consiste il WS3…
Come la stessa frase inglese lo indica, si tratta di un sistema di sicurezza per lo stoccaggio (sotterraneo) delle armi (atomiche). Messo a punto già dal 1976 e divenuto operativo nel 1988, il sistema in questione – interamente realizzato dalla ditta statunitense Bechtel International Inc. – permette l’immagazzinamento di testate nucleari, all’interno di tunnel individuali e compartimentati, scavati nel sottosuolo.
Quel genere di gallerie sotterranee, nel gergo militare statunitense, posseggono anche un nome: Weapon Storage Vaults (WSV) o Sotterranei (a volta) di stoccaggio di armi. Gli Usa ne posseggono all’incirca 204 in tutta l’Europa, di cui 2 in Italia (Ghedi-Torre e Aviano). Quello di Rimini (il 3° che esisteva in Italia) è stato dimesso nel 1993. Ora, affermare che si tratti di un sistema di sicurezza, sicuro al 100%, a me sembra una scommessa!
Chi potrebbe garantirlo, con assoluta certezza? Con il nucleare, come sappiamo, non si è mai sicuri di nulla. Certo, finché non succede niente o non vi sono incidenti o possibili fatalità o disgrazie, il sistema in questione può essere considerato sicuro.
Ma, il giorno che dovesse esserci un qualunque problema, tecnico o umano, il numero e la potenzialità di quelle armi stoccate sul nostro territorio potrebbe improvvisamente ed imparabilmente trasformarsi in un’immane e funesta catastrofe generalizzata per l’intero nostro Paese!
E’ vero che anche nel mar Mediterraneo, entro le nostre acque territoriali, vi sono centrali nucleari che approdano nei nostri porti?
La maggior parte delle unità navali statunitensi, appartenenti alla loro 6ª Flotta del Mediterraneo, che sono (permanentemente o saltuariamente) ormeggiate nei nostri porti (Livorno, La Spezia, Gaeta, Napoli, Taranto, Sigonella, etc.) o scorazzano indisturbate all’interno dell’antico Mare nostrum, sono a propulsione nucleare.
In modo particolare, l’intera flotta sottomarina Us-Navy che fino a qualche tempo fa era basata a La Maddalena-Santo Stefano (Sassari) e che, essa stessa, è stata costretta ad abbandonare, a causa dell’alto inquinamento che aveva prodotto in quelle acque.
Ognuna di quelle imbarcazioni (incrociatori, portaerei e sommergibili), inoltre, è ordinariamente equipaggiata con non meno di 10 o 20 o 30 missili a testata nucleare del tipo Cruise Tomahawk, la cui capacità distruttiva di ognuno, supera largamente di 10 volte le bombe atomiche che furono sganciate dagli Usa, su Hiroshima e Nagasaki, nell’Agosto del 1945.
Insomma, l’Italia – che ufficialmente, fino ad oggi, è un Paese denuclearizzato e la maggior parte dei suoi cittadini pensa addirittura, con uno dei referendum del 12 e 13 Giugno prossimi, di continuare a ratificarne la moratoria – è, nell’ignoranza e/o nell’indifferenza di ognuno, una vera e propria polveriera atomica, pronta ad esplodere in qualsiasi momento ed a cancellare definitivamente il nostro Paese dalla faccia della Terra.
Questo, ovviamente, senza contare gli innumerevoli pericoli che, in tempi normali, l’eventuale fuga involontaria ed incontrollata di radiazioni potrebbe irrimediabilmente causare per la salute dei cittadini.
Queste unità sono impegnate attualmente in operazioni militari? Se sì, che tipo di pericoli possono derivare da questo fatto?
Molte delle unità navali della 6ª Flotta americana sono al momento impegnate militarmente a ridosso delle coste libiche, nel tentativo, unilaterale, arbitrario ed illegale – e non affatto giustificato, come spesso si tende erroneamente a credere, dalla “Risoluzione 1973” del Consiglio di sicurezza dell’ONU! – di costringere il Leader della Giamahiriya, Gheddafi, ad abbandonare il potere. E questo, nonostante il largo e provato sostegno che quest’ultimo continua a mantenere tra la popolazione del suo Paese, specialmente in Tripolitania.
E’ vero che, allo stato attuale, le FF.AA. libiche (o quel che ne resta dopo 3 mesi di intensi e distruttivi bombardamenti Nato) non sembrano avere una qualsiasi capacità offensiva o controffensiva nei confronti della marina statunitense ed alleata (Francia + Gran Bretagna), ma se – per pura ipotesi – un missile o un’improvvisa ed imparabile azione kamikaze riuscisse comunque a centrare una qualunque di quelle navi da guerra con i loro arsenali atomici imbarcati, che succederebbe?
Lascio volentieri al lettore, la possibilità di immaginare, a piacimento, l’intensità e l’ampiezza dell’eventuale catastrofe che ne potrebbe derivare, per la maggior parte di Paesi dell’area mediterranea!
A quasi settant’anni dalla fine della Seconda guerra mondiale come si spiega l’occupazione, da parte delle forze militari statunitensi, dei nostri territori?
Si spiega semplicemente con il fatto che l’Italia è uscita sconfitta dalla Seconda guerra mondiale. Quella guerra, infatti, noi Italiani – volens, nolens – l’abbiamo persa tutti. Anche coloro che pensano o credono (ingenuamente) o lasciano furbescamente credere (per la platea) di averla vinta dalla parte degli effettivi vincitori. Anche coloro che, nel 1945, non erano ancora nati. Anche coloro che, oggi – non solo non sono stati ancora concepiti, ma – non sono stati nemmeno immaginati, desiderati o vagheggiati dai loro possibili o probabili genitori! Questa, purtroppo, è la triste realtà… Per cercare di comprendere quanto sto tentando di trasmetterle, mi permetto di segnalarle questo mio vecchio articolo, intitolato: “8 Settembre… Liberiamoci dal tradimento” (http://www.abmariantoni.altervista.org/storia/h_8_Settembre_1943.pdf).
Una volta letto e meditato, capirà il motivo per il quale l’Italia continua ad essere considerata da Washington come una sua colonia, ed i nostri soldati – che sono impegnati nelle varie “missioni militari” all’estero, in “guerre per la pace” (sic!) – dei banali Ascari o Meharisti del suo “Impero”.
Alla luce di quanto ci ha spiegato, ritiene che le campagne contro la costruzione di centrali nucleari abbiano un senso?
Non credo abbiano un senso… Al contrario, tendo piuttosto a considerare quelle campagne (ed il resto delle competizioni elettorali che si svolgono nel nostro Paese), il classico e proverbiale “coniglio di pezza” che è fatto ciclicamente e studiatamente “galoppare” davanti ai musi attoniti ed incuriositi dei soliti “levrieri scemi” della nostra svigorita ed ottenebrata società.
Questo, per meglio continuare a nascondere o ad occultare, agli occhi dell’uomo della strada, il vero problema irrisolto del nostro tempo: quello, in particolare, dell’assoluto e non negoziabile recupero della nostra Libertà, Indipendenza, Autodeterminazione e Sovranità politica, economica, culturale e militare, sia come Nazione che come Stato.
Senza quell’indispensabile, centrale e vitale riscatto – non solo dovremo continuare, in coatta o rassegnata sopportazione, a vivere e ad operare sine die all’interno della medesima “gabbia” che gli Usa ci hanno riservato dal 1945, ma – qualsiasi obiettivo (politico, economico, culturale e militare) che ci potrebbe essere proposto, consigliato o suggerito dai maggiordomi (di destra, di sinistra, di centro, di centro-destra o di centro sinistra) che seguitano a “governarci” per conto terzi, continuerebbe ad essere, come negli ultimi sessantasei anni, praticamente inaccessibile, irraggiungibile o inconseguibile. E nel migliore dei casi, nullo e non avvenuto!
Secondo uno studio del professor Arturo Lorenzoni del dipartimento di Ingegneria elettrica dell'università di Padova, nel 2013 sarà raggiunta la “grid parity”: il prezzo del chilowattora per autoconsumo prodotto con panelli solari sarà uguale a quello dell’energia acquistabile dalla rete elettrica.
Nessuno l’aveva previsto. Eppure, entro due anni, l’energia solare “fai da te” sarà più conveniente, anche senza incentivi: autoprodurre elettricità con pannelli fotovoltaici, specie nel Sud, costerà meno della bolletta dell’Enel.
Si avvicina infatti la “grid parity”, la coincidenza tra il costo del chilowattora per autoconsumo, prodotto con panelli da 200 kW di picco (kWp), e quello dell’energia acquistabile dalla rete elettrica.
A rivelarlo sono i calcoli eseguiti dal professor Arturo Lorenzoni del dipartimento di Ingegneria elettrica dell’università di Padova. Ma le buone notizie non si fermano qui: per Vishal Shah, analista di Wall Street, il settore solare vedrà nei prossimi anni una riduzione dei costi di un ulteriore 40%.
Nel Sud Italia la grid parity sarà raggiunta già verso la metà del 2013, per gli impianti industriali da 200 kWp. Per gli impianti domestici (più piccoli, da 3 kWp) si dovrà aspettare un anno in più.
Per i grandi impianti allo stesso risultato si arriverà nel 2015 al Centro e nel 2016 al Nord. Per quelli piccoli ci vorrà un anno in più. I calcoli sono stati eseguiti stimando una vita media dei moduli di 25 anni e includendo un tasso di interesse del 5,3%, ma concentrandosi appunto sull’autoconsumo, invece che sulla produzione di elettricità da vendere alla rete.
Lo studio di Lorenzoni ed il suo team, commissionato da Conergy Italia, è partito dall’analisi della variazione di prezzo degli impianti prevista per i prossimi anni da European Photovoltaic Association e altre agenzie di ricerca: i moduli fotovoltaici dovrebbero passare dai 1,4 euro/Wp di oggi a circa 1 euro/Wp entro i prossimi due anni.
Questo porterebbe i sistemi fotovoltaici a costare molto meno: i piccoli impianti (3 kWp) passerebbero dagli attuali 3.600 euro/kW a 2.800 nel 2014, mentre quelli da 200 kWp da 2.800 euro/kWp a circa 2.000 nel 2014. Queste stime sono state elaborate prima del quarto conto energia, ma “con la riduzione delle tariffe incentivanti i prezzi caleranno anche più rapidamente del previsto”, spiega il professor Lorenzoni (fonte: QualEnergia).
Non solo, le ipotesi del gruppo di ricerca veneto sono approssimate per difetto: si è voluto stimare, ad esempio, un aumento annuale medio delle bollette elettriche del 3-3,28%. Un valore che potrebbe essere sottostimato, se si considera il possibile aumento del prezzo del petrolio.
Se i costi legati alla produzione di energia dovessero essere maggiori di quanto stimato e gli impianti dovessero costare meno, la grid parity potrebbe quindi essere raggiunta anche prima di quanto previsto dallo studio dell’Università di Padova.
Fino a pochi anni fa, nessuno avrebbe azzardato una previsione del genere sull’autonomia energetica familiare, né tanto meno una diminuzione dei prezzi del fotovoltaico che, dal 2008 al 2011, è arrivato a sfiorare il 60%.
Margini di riduzione che sono ancora ampi: nei prossimi 3-5 anni, infatti, il fotovoltaico potrà costare negli Usa tra 1,3 e 1,4 dollari per watt, ed è possibile arrivare presto alla soglia del dollaro per Watt. Ad affermarlo è Vishal Shah, analista a Wall Street specializzato nel settore solare.
Negli ultimi quattro anni, i prezzi del fotovoltaico sono scesi tanto da riuscire a superare in convenienza anche l’energia nucleare, secondo uno studio della Duke University in North Carolina.
A differenza del professor Lorenzoni, però, Vishal Shah ritiene negativo il fatto che i governi possano rivedere le loro politiche di incentivazione: per l’analista newyorkese, infatti, ciò sarà l’unico freno al boom del solare. Sul prossimo raggiungimento della grid parity in alcune parti dell’Europa meridionale, però, si è tutti concordi.
Non solo, per Shah nel vecchio continente l’energia elettrica da fonte solare sostituirà presto quella prodotta con il gas naturale, mentre in altre parti del mondo soppianterà anche quella prodotta con l’inquinante e sempre più costoso gasolio.