L'Italia e il suo governo sono ora di fatto commissariati, ma forse tutto ciò non è ancora sufficiente a convincere la Bce ad acquistare domani i nostri Bond.
Buone vacanze...
Da B. e Tremonti solo interventi palliativi mentre si prepara una nuova crisi globale
di Mauro Meggiolaro - Il Fatto Quotidiano - 7 Agosto 2011
“Non credo che la crisi si aggraverà e non dobbiamo essere spaventati che gli spread attuali possano mantenersi”, aveva dichiarato giovedì Silvio Berlusconi prima di rimandare tutto a settembre.
Poi, a sorpresa e molto probabilmente cedendo alle pressioni di Stati Uniti e Germania, venerdì sera è stata convocata d’urgenza una conferenza stampa per presentare un piano di emergenza anti-crisi e spiegare che l’Italia è sul pezzo e l’Europa non deve temere.
In realtà, ancora una volta, la montagna retorica del governo ha partorito il solito topolino. Le misure di emergenza assomigliano molto di più a palliativi improvvisati per prendere tempo con promesse e dichiarazioni ad effetto, mentre i problemi veri – come il mostruoso debito del paese e le riforme per rilanciare la crescita economica – sono stati solo sfiorati.
“La notizia più positiva che ci è stata data nella conferenza stampa è che la politica non andrà in vacanza questa estate”, spiega l’economista Tito Boeri oggi su Repubblica.
“Il Parlamento avrà molto da lavorare quest’estate”. Certo, anche l’anticipo di un anno (dal 2014 al 2013) dell’obiettivo di pareggio di bilancio è un risultato positivo, anche se, in una situazione come l’attuale si sarebbe potuto molto di più. Gli altri tre provvedimenti sembrano invece semplici spot televisivi in mondovisione per rassicurare i mercati e cercare di accontentare soprattutto Confindustria.
La riforma dell’articolo 41 della Costituzione sulla libertà economica, “la madre di tutte le liberalizzazioni”, come l’ha definita Tremonti, è solo un progetto di cambiamento di una norma senza piani concreti per realizzarla. “Il problema del nostro Paese è la mancanza di crescita delle imprese”, continua Boeri. “Non si aumenta la concorrenza a colpi di Costituzione. Sarebbe fin troppo facile”.
L’altra riforma annunciata, quella dell’articolo 81 della Costituzione, che introdurrebbe il pareggio di bilancio come “obbligo costituzionale” (analogamente a quanto già accade in Germania), è stata accolta in modo positivo da molti analisti finanziari, anche se il suo valore – per ora – sembra essere solo simbolico. “E’ un segnale importante”, ha dichiarato Fabio Pammolli di Cermlab al Wall Street Journal.
“Ora però abbiamo bisogno di vedere quello che il governo ha veramente in programma di fare per garantire un pareggio di bilancio nel lungo periodo”. Lo stesso vale anche per l’annunciata riforma dello Statuto dei lavoratori, di cui esiste un progetto del Ministero del Lavoro, che ha però ancora un carattere generale e non prevede interventi concreti.
Il percorso sarà ancora lungo e bisognerà vedere se i mercati e gli investitori internazionali avranno la pazienza di aspettare. Anche perché, fino ad ora, mancano proposte chiare per la rapida riduzione dello stock di debito pubblico o per il rilancio della crescita.
Nessuno ha parlato ancora di quante e quali privatizzazioni o liberalizzazioni saranno effettuate, nessuno ha detto se c’è un piano per ridurre le tasse sul lavoro, né se saranno toccate le pensioni. La crescita economica, l’unica veramente in grado di ridurre in modo sostenibile il rapporto tra debito e PIL, continua ad essere la grande assente nei progetti del governo.
Intanto la tempesta finanziaria che non dà tregua all’Italia sta investendo anche altri paesi europei. Da lunedì a venerdì tutte le borse europee hanno chiuso con pesanti perdite in quella che è stata “la peggiore settimana dal crack di Lehman Brothers.”
La crisi dell’Eurozona assomiglia sempre di più al crollo dell’economia statunitense nel 2008. “I paralleli con l’autunno del 2008 sono molti e impressionanti”, scrive oggi Gillian Tett sul Financial Times. “Quando la Grecia ha iniziato a dare segni di cedimento molti politici e alcuni investitori hanno cercato di minimizzare, spiegando che la Grecia è troppo piccola rispetto ai mercati globali.
Lo stesso si era detto nel 2008 di Lehman Brothers e Bearn Stearns, che erano considerati insignificanti rispetto alle dimensioni dell’economia americana. Quando poi sono iniziati i problemi si è cercato di mettere delle toppe, di attaccare dei cerotti con soluzioni di ripiego che hanno solo ritardato decisioni più importanti, pensando che l’unico problema fosse la mancanza di liquidità e non la solvibilità di banche e interi paesi”.
A dare segni di cedimento, oltre agli stati europei più indebitati (come l’Italia) potrebbero essere presto anche le banche. Quel “sistema bancario reso sano e solido dalla alta propensione al risparmio degli italiani”, come ha spiegato Berlusconi nel suo discorso alla Camera.
Peccato che le nostre banche abbiano in pancia quasi la metà dei titoli di stato italiano, il cui valore nominale declina di giorno in giorno.
Ma non sono solo i titoli di debito a creare problemi. “Al diffondersi della paura sta ritornando un altro fantasma del 2008: i rischi sul finanziamento a breve delle banche”, continua il Financial Times.
Come ha evidenziato uno studio del Peterson Institute for International Economics, la struttura del sistema bancario nella zona euro avrebbe incoraggiato le istituzioni finanziarie ad essere “pesantemente dipendenti dai finanziamenti a breve termine”.
Le 90 banche analizzate nel recente stress test dell’EBA (Autorità Bancaria Europea) devono rifinanziare 5.400 miliardi di euro di debiti nei prossimi due anni, che equivalgono al 45% del prodotto interno lordo dell’Unione Europea. Un obiettivo che, a queste condizioni di mercato, potrebbe diventare sempre più costoso e difficile da raggiungere.
“Le banche oggi fanno fatica a raccogliere capitale. I tassi italiani di approvvigionamento del denaro sono schizzati verso l’alto”, spiega al fattoquotidiano.it un analista finanziario che ha scelto di non essere nominato. “Ogni credito concesso sta diventando una perdita quando la banca si rifinanzia per coprirlo, perché dagli impieghi si ottengono tassi più bassi rispetto a quelli che si pagano sulla raccolta”.
Come se non bastasse le banche europee (non solo quelle italiane) sono largamente sottocapitalizzate e moltissime sofferenze (nel settore immobiliare) non sarebbero ancora state registrate. “Alle sofferenze nascoste si aggiungono poi le perdite su titoli, per le quali si stanno attuando azioni di fantasiosa ingegneria finanziaria e modifiche della normativa relativa alla contabilizzazione”, continua l’analista.
L’aspetto più preoccupante di questa crisi, almeno per quanto riguarda l’Italia, potrebbe essere proprio la scarsa utilità delle misure di breve termine che saranno adottate per difendersi dai mercati. “Qualunque soluzione o provvedimento venga intrapreso, il risultato sarà probabilmente positivo a breve ma è lecito essere scettici sul lungo termine”, spiega l’analista finanziario.
“Il debito si riduce solo con la crescita, che l’Italia non è in grado di generare. Qualunque provvedimento straordinario, come una tassa patrimoniale o un progressivo taglio dei costi, potrebbe migliorare le finanze pubbliche ma potrebbe peggiorare la situazione economica del paese riducendo investimenti e consumi”.
L’Italia, in poche parole, è alle corde. Per uscire dalla crisi dovrebbe portare al più presto il rapporto debito/pil dall’attuale 120% al 70/90% (e non al 113% entro il 2014 come annunciato da Berlusconi).
Se non ce la dovesse fare tagliando i costi o aumentando le tasse, l’unica soluzione potrebbe essere il default o la “ristrutturazione del debito”. Una prospettiva che oggi sembra assai improbabile ma che gli operatori del mercato finanziario non si sentono di escludere del tutto.
Prima di alzare bandiera bianca – sempre che sia mai costretto a farlo – il governo tenterà il tutto per tutto, tagliando al massimo i costi e imponendo nuove tasse. Mentre B. chiude per ferie, per i cittadini italiani sta per iniziare una lunga e dolorosa stagione di “lacrime e sangue”.
E se non pagassimo il debito?
di Salvatore Cannavò - Il Fatto Quotidiano - 6 Agosto 2011
La decisione del governo Berlusconi di anticipare la manovra, rispondendo così ai diktat di Bce e “mercati internazionali” svela le ipocrisie e le litanie dell’ultimo mese: la crisi economica si traduce in quello che era lecito immaginarsi, l’ennesimo “massacro sociale” prodotto dalla corsa sfrenata ai profitti di un capitalismo al palo che non riesce a garantire più né benessere né un futuro degno. Si può certo puntare il dito contro il debito pubblico italiano, il terzo debito del mondo ma senza dimenticare due dati.
Quel debito c’era anche un mese fa, un anno fa, tre anni fa e non ha prodotto nessun attacco speculativo, nessuna crisi emergenziale. Secondo, quel debito è la misura non solo della dissennatezza della politica italiana degli ultimi trent’anni ma anche di una gigantesca redistribuzione del reddito dai salari, stipendi e pensioni ai profitti delle grandi banche e della società finanziarie internazionali che detengono gran parte del debito italiano. E’ dunque utile cercare di guardare la sostanza dei problemi.
Negli ultimi due decenni il capitalismo, grazie alla spinta delle politiche dominanti, portate avanti da governi di centrodestra e centrosinistra, ha cercato di salvare sé stesso e la sua assenza di spinta propulsiva accumulando una valanga di debiti.
Gli economisti più avvertiti spiegano bene che la lievitazione di “sub-prime” e similari è servita per compensare l’assenza di investimenti produttivi in grado di tenere alti i profitti. Solo che, a un certo punto, per evitare il collasso del sistema, i governi si sono accollati la mole di questi debiti trasferendoli sui bilanci pubblici.
Oggi il conto è presentato a lavoratori e lavoratrici, a giovani precari, a donne e pensionati. Non è un caso se l’unica misura concreta presa dal governo Berlusconi sia quella di anticipare il taglio delle agevolazioni fiscali e assistenziali, cioè le misure che interessano la maggioranza della popolazione, spesso quella che paga le tasse e che vive del proprio lavoro. Allo stesso tempo neanche un euro viene prelevato dalle tasche delle fasce più ricche.
A questa decisione, “ordinata” dalla Bce e dai suoi controllori, l’opposizione parlamentare non sa cosa rispondere, balbetta frasi incomprensibili oscillanti tra il senso di responsabilità ordinato dal presidente Napolitano e la necessità di segnalare una diversità che non esiste. Il Parlamento non offrirà risposte né sorprese interessanti visto che si è messo sotto tutela della banche e della finanza.
E anche il sindacato si è voluto incatenare a questa logica, mettendosi sotto la tutela di Confindustria, facendo proprio il dogma del pareggio di bilancio e rilanciando misure come privatizzazioni e riforma del mercato del lavoro.
Cosa hanno prodotto tonnellate di leggi – legge Treu, legge 30 etc. – che hanno precarizzato il lavoro oppure le grandi privatizzazioni italiane – Telecom, Autostrade, Alitalia – negli ultimi dieci-quindi anni? Nulla.
Il pareggio di bilancio in Costituzione, tra l’altro, impicca l’Italia alle variabili della finanza: che succede se una volta approvato un bilancio in pareggio si verifica un rialzo dei tassi di interesse, facendo aumentare la spesa, o se arriva una recessione imprevista?
In questo clima misure come la Patrimoniale non vengono prese in considerazioni da nessuno: la stessa Cgil l’ha proposta qualche mese fa per poi dimenticarsene.
Ma anche sul debito occorre fare una riflessione più seria. Esiste ormai in Europa una corrente di pensiero (vedi il libro “Les dettes illégitimes” di François Chesnais) che arriva addirittura a proporre il non rimborso del debito a certe condizioni. “L’ingiunzione di pagare il debito – spiega Chesnais – si basa implicitamente su questa idea che il denaro, frutto del risparmio pazientemente accumulato con il duro lavoro, sia stato effettivamente prestato. Questo può essere il caso per i risparmi delle famiglie o dei fondi del sistema di pensione per capitalizzazione. Non è il caso delle banche e degli hedge funds. Quando questi “prestano” agli Stati, comprando buoni del Tesoro aggiudicati dal Ministero delle Finanze, lo fanno con somme fittizie, la cui messa a disposizione si basa su una rete di relazioni e di transazioni interbancarie”.
Un esempio di non pagamento del debito, con ri-negoziazione con i creditori, spiega ancora l’economista francese, è quanto realizzato nel 2007 dal presidente dell’Ecuador, Rafael Correa che ha realizzato un audit pubblico quantificando il debito detenuto da società di speculazione internazionale o dai banchieri nordamericani i quali sono stati costretti a negoziare con il governo ecuadoregno.
Cose da terzo mondo, si dirà, ma la Grecia non ha dimostrato che la situazione in Europa può essere analoga e che quindi il problema non può essere eluso?
Anche perché come si può pensare davvero di rientrare da un debito del 120% per Pil senza annientare il nostro Paese?
Crisi del debito greco: la rivolta anti-austerità "Noi non paghiamo"
di Angelique Chrisafis - www.guardian.co.uk - 31 Luglio 2011
Traduzione per www.comedonchisciotte.org a cura di MICAELA MARRI
Mentre la Grecia è al tracollo finanziario ed è scossa dalle proteste, esaminiamo il crescente movimento di disobbedienza civile
Tra i lussuosi bar sullo storico lungomare di Salonicco, spicca un ristorante in particolare. Dalla terrazza del ristorante a buon mercato in stile diner & grill americano penzola lo striscione "Vogliamo i nostri soldi!".
All'interno dodici membri del personale hanno cambiato le serrature, stanno servendo lattine di birra del supermercato ai sostenitori e fanno a turno a dormire sul pavimento del ristorante la notte in segno di protesta per i mesi di stipendi non pagati e per l'improvvisa chiusura del ristorante. Questo è il nuovo simbolo della spirale della crisi del debito della Grecia: un sit-in di camerieri.
Margarita Koutalaki, 37 anni, una cameriera gentile, divorziata, con una figlia di undici anni, ha lavorato qui part-time per otto anni, guadagnando circa € 6,50 l'ora. Adesso a turno dorme su un materasso gonfiabile in una stanza al piano superiore, facendo da guardia agli occupanti, mentre i suoi genitori fanno da baby sitter alla figlia.
"Mi spettano circa € 3000 di stipendi non pagati", dice, avvertendo che la sua situazione è la stessa per legioni di lavoratori in tutta la Grecia che stanno aspettando mesi di stipendi non versati da parte di aziende in difficoltà.
"All'inizio ci hanno detto che saremmo stati pagati il mese successivo, poi il pagamento è stato interrotto completamente e ci è stato detto al telefono che il ristorante chiudeva. Stiamo ancora lavorando, stiamo mandando avanti il locale, fornendo cibo e bevande ai nostri sostenitori. Abbiamo più clienti di prima. Questa protesta è tutto ciò che possiamo fare. Ci viene spontaneo farla".
I camerieri servono bevande a buon mercato e pietanze a prezzo ridotto a una nuova clientela di persone di sinistra e dai protestanti del movimento degli "indignati" di quattro mesi fa, che non avrebbero altrimenti mai messo piede in questo bastione dell'imperialismo, la franchise greca del gigante americano Applebee's. Un'insegna in inglese tenta i turisti con souvlaki e polpette a buon mercato "a sostegno dei lavoratori".
È passato un mese da quando la Grecia è stata paralizzata da uno sciopero generale contro le dure misure di austerity, con dimostrazioni in massa sulle strade e battaglie tra la polizia e i protestanti a Piazza Syntagma ad Atene.
I greci sono più diffidenti che mai nei confronti della loro classe politica e la sua [supposta] abilità di portarli fuori dalla paralizzante crisi finanziaria. I sondaggi mostrano un sempre più alto disprezzo per tutti i partiti e per il sistema politico screditato.
La disoccupazione è arrivata al livello record del 16 per cento, molto più alto per i giovani. Quelli abbastanza fortunati da aver conservato il posto hanno subito drastiche riduzioni dello stipendio e aumenti delle tasse.
Medici e infermiere hanno recentemente scioperato per i tagli alla sanità. I tassisti hanno paralizzato la Grecia con i loro scioperi nelle ultime due settimane contro i piani del governo di liberalizzare l'industria. La loro tattica ha compreso il blocco dei porti e l'apertura della biglietteria dell'Acropoli per fare entrare i turisti gratis.
Cosa fondamentale, il lungo movimento di "disobbedienza civile" della Grecia, dove i comuni cittadini si rifiutano di pagare per qualunque cosa, dai pedaggi stradali e i biglietti dell'autobus alle parcelle extra dei medici, non si è concluso durante le vacanze estive.
L'offensiva "Noi non pagheremo" è presentata come la forma più pura del "potere della gente". Gli organizzatori hanno avvertito che potrebbe prendere più vigore a settembre, quando il governo lancerà una nuova ondata di restrizioni finanziarie.
Sulla strada principale tra Atene e Salonicco, mentre gli automobilisti rientrano a Salonicco dopo una domenica al mare, una folla di civili con indosso giacchetti fluorescenti arancioni fanno la guardia alle barriere del principale casello stradale in direzione della seconda città greca. Sui loro giacchetti c'è scritto "Disobbedienza Totale".
Aprono le barriere bianche e rosse e fanno cenno agli automobilisti di passare senza pagare il pedaggio di € 2,80. Sugli striscioni si legge: "Noi non pagheremo" e "Non daremo soldi ai banchieri esteri". Gli automobilisti, grati, passano; qualcuno fa cenni di approvazione.
"Vedremo un aumento della disobbedienza civile il prossimo autunno", dice Nikos Noulas, un ingegnere civile di Salonicco, in un bar del centro mentre srotola una serie di poster che incitano al rifiuto di pagare.
Vivendo a quaranta minuti dal centro cittadino, si sposta in motocicletta per lo scarso lavoro che rimane, ma evita di pagare i biglietti dell'autobus e i pedaggi stradali.
Tende anche agguati ai supermercati, distribuendo ai clienti grossi adesivi di protesta da attaccare sugli articoli che considerano esageratamente costosi.
Il latte è un classico. Noulas e il suo gruppo riempiono i carrelli di articoli e chiedono al direttore uno sconto del 30%. Se gli viene rifiutato, abbandonano i carrelli pieni alle casse.
Ammette che un recente aumento dei controlli da parte della polizia ha reso le cose più difficili: "Se un poliziotto sta guardando, non c'è altra scelta che pagare il pedaggio stradale."
Ma dice che infrangere la legge non pagando piccoli pedaggi o biglietti dell'autobus è molto meno serio della corruzione dei politici e dei cartelli che, sostiene, hanno governato la Grecia per decenni con impunità: "Questo ci ha insegnato che il popolo greco può resistere. Ha acceso il sentimento pubblico."
Il movimento di protesta contro i pedaggi autostradali è iniziato più di due anni fa fuori da Atene per contrastare un sistema considerato esorbitante e corrotto, che prevede che gli automobilisti paghino per tratti stradali che devono ancora essere costruiti. Alcuni residenti si trovano a pagare più di 1500 euro l'anno di pedaggi per spostamenti nelle loro vicinanze.
Dall'inizio dell'anno, il movimento era consolidato e ha compreso il rifiuto di pagare i biglietti della metropolitana di Atene, con i protestanti che coprivano le biglietterie automatiche con buste di plastica, nonché un lungo boicottaggio dei biglietti degli autobus a Salonicco dopo l'aumento dei prezzi da parte di società private sovvenzionate dallo stato. Altri si rifiutano di pagare l'abbonamento alla televisione.
I partiti di sinistra sono stati coinvolti, aumentando la visibilità della campagna. A partire da marzo, oltre la metà della popolazione greca sosteneva la nozione del "Noi non pagheremo".
Il governo ha riversato una pioggia di critiche su quella che considerava una mentalità da "scrocconi", avvertendo che gli inadempienti avrebbero portato una cattiva reputazione al paese e che stavano privando lo stato del reddito vitale dei servizi di trasporto. Sono state introdotte nuove leggi contro l'evasione del pagamento dei biglietti e la polizia ha intensificato le misure di controllo.
George Bakagiannis, un direttore informatico della zona di Atene, non paga i pedaggi stradali da due anni, semplicemente scendendo dall'auto e spingendo le sbarre al casello. Il suo gruppo occupa i caselli stradali per due o tre ore svariate volte nella settimana, facendo passare gli automobilisti senza pagare.
Si è inoltre impegnato nelle dimostrazioni contro il ticket di 5 euro per i controlli medici. Dice: "Andiamo in ospedale e chiudiamo la stanza del cassiere, dicendo alla gente, Non pagate, ci siamo noi qui'. Questa non è la nostra crisi, è la crisi del governo. Rubano i nostri soldi, ci rubano la vita. Adesso vogliono farci credere che i nostri risparmi non sono sicuri in banca. Questo movimento crescerà in autunno perché la situazione adesso è così tragica che la gente non ha davvero i soldi per pagare."
Lo scrittore e commentatore sociale Nikos Dimou afferma: "È l'inizio di un divorzio tra i greci e i loro politici. Tutti i movimenti hanno questo in comune: tutti disprezzano e provano orrore per la classe politica."
A Salonicco, la seconda città greca, le tensioni si fanno sentire. Le tende degli "indignati" sono state sgombrate con la forza lo scorso fine settimana da Piazza Syntagma ad Atene, ma l'antica fortezza sul mare di Salonicco, la Torre Bianca, è ancora circondata dalle tende dei protestanti e drappeggiata di striscioni su cui si legge "In vendita" e "Non in vendita".
Il nord della Grecia è stato colpito duramente dalla crisi. Le aziende hanno iniziato a chiudere molto prima della massima forza del tracollo finanziario. Così tante persone sono troppo povere per poter usare regolarmente la macchina e così tante aziende hanno chiuso i battenti, tanto che la municipalità di Salonicco ha riscontrato un sostanziale miglioramento della qualità dell'aria della città notoriamente congestionata.
Il 10 settembre prossimo, quando il Primo Ministro greco George Papandreou sarà presente alla famosa fiera internazionale di Salonicco per svelare le sue nuove misure economiche, sarà accolto dalle dimostrazioni.
I protestanti di Salonicco usano il "flash mobbing", dove si formano le folle inaspettatamente per picchettare le banche e gli edifici pubblici. Il loro ultimo bersaglio è stato il Consolato tedesco, dove decine di dimostranti hanno urlato i loro slogan e hanno sporcato con bombolette spray il marciapiede, chiedendo che l'Unione Europea facesse di più per la Grecia, mentre i poliziotti in borghese sono stati a guardare.
Durante la dimostrazione del 20 luglio Barbara, 30 anni, un'insegnante di Greco, che non ha voluto dire il suo cognome, ha detto che serviva il caffè in un bar per 30 euro al nero per ogni turno di nove ore.
Vive con suo padre, un pensionato, e con sua madre, che ha un negozio ed è piena di debiti: "Nessuno assume, non riesco a trovare un lavoro come insegnante né lezioni private. Non c'è speranza di una vita decente. La metà delle persone che conosco sono disoccupate; le altre sono sull'orlo della disoccupazione. Chiunque ha le possibilità di andare all'estero parte."
Alla Torre Bianca, Antonis Gazakis, un insegnante di lingua e storia, dice di essere colpito da come adesso i novizi stiano aderendo alle proteste, da una miriade di diverse posizioni politiche dalla sinistra alla destra, molti dei quali senza legami con i partiti o pregressi di proteste.
Tutti si stavano lanciando nel dibattito su come cambiare ciò che vedono come un sistema parlamentare e politico corrotto: "In Grecia si sta facendo storia politica. Ecco perché sono qui quest'estate. L'ultima volta che la gente si è radunata in una piazza per chiedere un cambiamento costituzionale è stato nel 1909. Questa è un'opportunità d'oro, un cambiamento paradigmatico. La Grecia si è svegliata."
Solo ricette suicide per la crescita
di Luciano Gallino - La Repubblica - 5 Agosto 2011
La crisi che il paese sta attraversando è davvero grave, sotto ogni profilo, nel quadro della crisi che investe la Ue. Rilanciare la crescita è una strada necessaria ma ardua da trovare e da percorrere.
Che in tale situazione il presidente Silvio Berlusconi si permetta prima battute quali l´invito a investire nelle sue aziende «che continuano a fare utili», poi assicuri che la situazione non può peggiorare, e spiattelli sul momento un piano anti-crisi in otto punti, vuoto di qualsiasi sostanza, offende l´intelligenza di tutti i cittadini italiani.
Come uno può pensare sul serio di rilanciare la crescita mediante un ampliamento della libertà economica da inscrivere nella Costituzione, quasi che tale libertà non esistesse quando negli anni 60 il paese cresceva al tasso del 5-6 per cento l´anno?
O di modernizzare il mercato del lavoro, quando alcuni milioni di lavoratori giovani e meno giovani hanno già sperimentato di persona che cosa ciò significa nell´età berlusconiana, se non precarietà, retribuzioni stagnanti da quindici anni, sindacati in difficoltà, diritti dei lavoratori in declino?
Quando non siano battute offensive oppure trovate inimmaginabili, come modificare la Costituzione per rilanciare subito la crescita, gli otto punti del piano anti-crisi indicati dal presidente del Consiglio sembrano ripresi tal quali dalle vecchie ricette del Fondo monetario internazionale.
Bisogna ridurre a ogni costo la spesa pubblica. Avviare un grande piano di privatizzazioni dei servizi pubblici. Modernizzare il sistema di welfare e le relazioni sindacali (cioè tagliare le prestazioni del primo e ridurre al minimo il potere dei sindacati).
Sono ricette di destra, che la crisi iniziata nel 2007 ha contraddetto in ogni possibile modo, ma che il governo italiano e la maggior parte dei governi Ue, combinando ottusità, incompetenza e un tot di malafede, hanno ora ripreso come rimedi alla crisi, trasmessa dalle banche ai bilanci pubblici.
Prima di indicare perché dette ricette sono suicide, sotto il profilo economico, politico e sociale, non si può far a meno di notare, con qualche preoccupazione, che le proposte avanzate dalle parti sociali contengono ricette del tutto analoghe.
Il loro «drastico programma per rilanciare la crescita» chiede a sua volta di tagliare la spesa pubblica, lanciare un piano di privatizzazioni, modernizzare (rieccolo, il più minaccioso dei termini quando si parla di riforme) le relazioni sindacali e il mercato del lavoro.
Che un tale piano sia stato redatto e sottoscritto da Confindustria è comprensibile. Che sia stato sottoscritto anche dalle confederazioni sindacali, tra cui nientemeno che la Cgil (anche se la segretaria Susanna Camusso ha detto di non essere del tutto d´accordo in tema di privatizzazioni), sta forse a indicare che la situazione è percepita di tale gravità da costringere tutti a non badare più all´identità del vicino nella scialuppa di salvataggio. Ma forse anche - e questo vale per tutta la Ue - che «gli dei fanno uscire di testa coloro che vogliono condurre a perdizione».
Sia nel piano anti-crisi buttato lì dal presidente Berlusconi, sia nelle proposte delle parti sociali a lui presentate per rilanciare la ripresa, si avverte nel fondo un´idea scriteriata: che la spesa pubblica sia una passività che bisogna assolutamente ridurre allo scopo di far crescere l´economia.
È un´idea che le due parti paiono condividere con la destra repubblicana in Usa, quella che ha appena voluto tagliare l´assistenza ai poveri ma non le tasse ai super-ricchi, perché così, osa sostenere, si crea occupazione.
Che l´idea non stia in piedi lo dice perfino l´Onu, in un recente rapporto sulla situazione economica mondiale: «Molti governi, in specie nei paesi sviluppati, stanno orientandosi verso l´austerità di bilancio. Ciò inciderà negativamente sulla crescita economica globale durante il 2011 e il 2012».
Ma nei due documenti in parola, oltre alle idee sballate, spiccano quelle che mancano. Non c´è in essi, ad esempio, una parola sul fatto che l´Italia non cresce perché i suoi investimenti in ricerca e sviluppo sono al fondo delle classifiche Ocse.
E qui le imprese non possono puntare il dito contro lo stato, perché se è vero che questo ha contribuito alla povertà della R&S, sono esse che hanno chiuso o malamente ridimensionato i grandi centri di ricerca che l´industria italiana vantava negli anni 60 e 70, nel settore della chimica, della metallurgia, delle telcomunicazioni.
Per tacere infine di un´assenza macroscopica, nei due documenti, del problema alla base della bassa crescita: la redistribuzione del reddito dal basso verso l´alto avvenuta negli ultimi decenni.
Almeno 8-10 punti di Pil sono migrati in Italia (ma anche in altri paesi Ue) dai salari ai profitti e alle rendite. Se non si interviene su questo snodo fondamentale, cominciando almeno con il discuterne, di ripresa se ne riparlerà nel 22mo secolo.
Gli scongiuri del premier: "Quello che accadrà ora non dipende da noi"
di Amadeo La Mattina - La Stampa - 7 Agosto 2011
Basterà l’annuncio fatto venerdì da Berlusconi e Tremonti di anticipare al 2013 il pareggio di bilancio? Nella maggioranza non c’è traccia di ottimismo. Il governo rimane con il fiato sospeso durante il fine settimana in attesa dell’apertura delle borse. A a complicare tutto è arrivato ieri il downgrade del debito sovrano americano.
«Quello che accade e accadrà non dipende da quello che facciamo noi», ha spiegato ieri Berlusconi che prende tempo. Infatti non è stata ancora fissato il Consiglio dei ministri che dovrà rendere operativa la mossa annunciata insieme al ministro dell’Economia.
Ci sarà prima l’incontro con le parti sociali, l’audizione di Tremonti in Parlamento e poi «bisognerà rifare i calcoli», dice il portavoce del premier, Paolo Bonaiuti, che smentisce una riunione del governo tra mercoledì e giovedì.
Non è questo il problema, osservano a Palazzo Chigi.
Il problema principale è verificare se la Bce comincerà ad acquistare i titoli di Stato italiani. Questo darebbe all’Italia una vera boccata d’ossigeno. La Germania sembra ancora contraria, ma la pressione che viene da Washington e da Parigi potrebbe sbloccare il veto della Merkel.
Bossi lo ha detto chiaro e tondo: se non riusciremo a far comprare i titoli di Stato alla Bce, diventa «un casino; tutti hanno paura che diventino carta straccia».
Il leader leghista tuttavia è convinto che la svolta ci sarà e ciò grazie alla decisione di anticipare di un anno il pareggio di bilancio.
La stessa certezza Berlusconi non ce l’ha perchè quanto accadrà negli Stati Uniti dopo il downgrade ha effetti imprevedibili. Si teme il peggio. E non è per nulla consolatorio il giudizio di un ministro che parla di nemesi per Washington: «Per anni l’Italia è stata criticata e attaccata per il suo debito pubblico, ora anche gli Usa subiscono il giudizio negativo di un’importante agenzia di rating».
Una magra consolazione per il Berlusconi che vola nella sua villa in Sardegna ma deve mostrarsi totalmente concentrato sulla crisi internazionale («la nostra attività continua senza interruzione»).
Deve dimostrare di essere saldamente in sella. Smentisce ipotesi di elezioni anticipate, avalla i contatti con l’Udc di Casini attraverso il segretario del Pdl Alfano per allargare il sostegno al suo governo. «In questo momento - sostiene il premier - la cosa più deleteria per il nostro Paese è mostrare segnali di sbandamento politico. Ad essere allo sbando è l’opposizione che divisa su come fare il bene dell’Italia».
Che invece lo sappia il presidente del Consiglio non è un dato certo. In pochi giorni ha cambiato posizione: ha anticipato al 2013 il pareggio di bilancio dopo avere escluso questa ipotesi solo 48 ore prima.
Adesso da più parti ci vengono chieste altre misure per rafforzare il rigore. Dalla Bce e da Bruxelles arrivano indiscrezioni secondo cui quelle varate finora sono insufficienti. Tremonti sostiene che invece la manovra va bene così com’è.
I prossimi giorni ci daranno se è vero o se il governo dovrà fare un altro dietrofront. Intanto non c’è la convocazione del Cdm. Il destino del centrodestra è senza dubbio legato alla crisi.
E Berlusconi prende tempo e non può permettersi di andare a elezioni anticipate. «Sarebbe un suicidio in queste condizioni», ha detto ieri a Francesco Storace, leader della Destra, che gli consigliava di introdurre misure contro i costi della politica. Sarebbe un suicidio tranne se Alfano riuscisse ad agganciare Casini nella prospettiva di una nuova alleanza politica.
Un centrodestra allargato ancora una volta all’Udc avrebbe maggiori possibilità di vincere le elezioni politiche. Almeno così ragiona una parte del Pdl. Quella parte che si illude nella ciambella di salvataggio, ora che il Terzo Polo, a parole, è disposto ad evitare che l’Italia (più che Berlusconi) anneghi come la Grecia.
Italia "commissariata", Berlusconi fa dietrofront
di Pietro Vernizzi - Il Sussidiario.net - 6 Agosto 2011
«La mossa anti-crisi del governo è una scelta obbligata, che giunge però con ampio ritardo. Le riforme andavano fatte per tempo, e non si capisce perché si siano aspettati momenti così drammatici per varare dei cambiamenti». Intervistato da Ilsussidiario.net, l’editorialista del Corriere della Sera, Paolo Franchi, commenta così le iniziative dell’esecutivo per fare fronte all’assalto degli speculatori, presentate ieri nel corso di una conferenza stampa da Silvio Berlusconi, Giulio Tremonti e Gianni Letta.
Franchi, ritiene che quella del governo sia una risposta adeguata alla crisi dei mercati?
Per come le cose si sono messe negli ultimi giorni, era innanzitutto una risposta obbligata. Pochi giorni fa Berlusconi si era presentato alla Camera affermando che i fondamentali dell’economia e della finanza italiana sono a posto, che l’andamento dei mercati è ingannevole e non tiene conto della realtà. Nell’arco di tre giorni ha abbandonato quella posizione, che non poteva reggere e che era addirittura controproducente. Ci sono stati colloqui e telefonate, e Berlusconi quindi ha modificato la sua linea. Qualcuno ha detto che l’Italia è stata commissariata: forse è un’espressione è eccessiva, però di fatto le cose sono andate così. Quanto siano adeguate queste decisioni, e soprattutto quella relativa all’anticipo di un anno del pareggio di bilancio, cominceremo a vederlo già nei prossimi giorni dall’andamento dei mercati. Reso ovviamente complicatissimo dal fatto che l’Italia è uno degli anelli deboli, in un contesto in cui Europa e Usa versano nella crisi che sappiamo.
Per quali ragioni l’Italia si è dimostrata essere l’anello debole?
Per una serie di fattori molto complessi da sintetizzare. Quello che è certo è che i provvedimenti annunciati dal governo nella conferenza stampa di ieri sono positivi, ma andavano presi prima. Il centrodestra aveva promesso una rivoluzione liberale e su quella aveva impostato la campagna elettorale. Non si capisce quindi perché, disponendo fino a pochi mesi fa della maggioranza più ampia della storia repubblicana, non abbia messo in atto in tempi meno drammatici quello che era il suo tratto distintivo. Che bisogno c’era di attendere una situazione come questa per varare il cambiamento?
Forse qualcuno ha remato contro?Di sicuro ci sono state delle forze, anche all’interno del governo, che hanno impedito di attuare il cambiamento. E del resto, la composizione dei milioni di elettori che hanno votato per il centrodestra è molto variegata. C’è tantissimo ceto medio, molto lavoro dipendente, tutto un mondo che ha una serie di garanzie dal welfare, anche con quel minimo di statalismo che si portano appresso, e che tende quindi a difenderle come parte del suo tenore di vita.
E’ l’unica contraddizione del centrodestra?
Il centrodestra è molto composito ed è difficile generalizzare. Il vero problema è che fino a ieri, la rappresentazione che Berlusconi dava non solo dell’operato del governo ma anche dello stato del Paese era di segno completamente diverso. E’ un po’ complicato aver detto, come ha fatto Tremonti, che le cose in Italia vanno sostanzialmente bene, che i conti sono in ordine, che la manovra poteva essere fatta anche in tempi lunghi, e poi chiamare tutti a un impegno di salvezza nazionale.
Per ottenere il pareggio di bilancio, occorrerà puntare sui tagli alla spesa o su maggiori tasse?
Credo che ci saranno entrambe le cose. C’è poi un grande problema: è facile enunciare la necessità di tenere assieme il massimo del rigore e le esigenze della crescita. Farlo davvero però è come passare dalla cruna di un ago. C’è però un’evidenza che è impossibile non notare: sul piano fiscale, anche nell’ipotesi in cui si introducesse la patrimoniale, lo Stato non farà altro che continuare a colpire la platea dei soliti noti. Mentre c’è una dimensione dell’evasione fiscale spaventosa e che non ha riscontro in altri Paesi europei.
Si è visto però come sia debole la volontà di tagliare gli sprechi. Basti pensare come è andata con l’abolizione delle Province…
L’abolizione delle Province andava fatta, ed è stato incredibile che il voto del Pd alla Camera abbia contribuito a non farla. L’abolizione delle Province è infatti una cosa che ha un evidente valore simbolico, e i simboli in economia e in politica contano moltissimo. Poi le Province hanno anche delle competenze, e bisognerà passarle quindi a Regioni e Comuni, che di conseguenza avranno bisogno di più fondi. Più in generale, non credo che per quanto la politica sia costosa, e spesso inutilmente costosa, tagliarla possa garantire ingenti risparmi ai conti pubblici. Anche se avrebbe un valore fondamentale perché non si può chiedere alla gente di pagare ticket e tasse, vedersi ridotti i servizi e andare in pensione più tardi, e poi non toccare i propri privilegi di casta. Non si può parlare di lacrime e sangue e poi tuffarsi in piscina e uscire bevendo champagne. Quanto sta avvenendo è la testimonianza del disastro della politica italiana, che per l’opinione pubblica costa e non produce nulla, ma serve solo alla sua autoconservazione e autoriproduzione. Ed è una percezione molto pericolosa, perché se si estende chiama in causa quel minimo di tessuto democratico che c’è nel Paese.
Raggiungere il pareggio di bilancio adottando misure impopolari, porterà inevitabilmente il centrodestra a perdere le prossime elezioni?
In generale, è molto complicato imporre sacrifici pesanti e avere anche i voti degli elettori: di solito quello che avviene è il contrario. Se si riuscisse a dare la sensazione forte che si chiamano i cittadini a uno sforzo, ma che tutti si impegnano per farlo perché la situazione è seria e potenzialmente drammatica, ottenendo qualche risultato visibile e significativo in tempi relativamente rapidi, è possibile anche che alla fine le prossime elezioni andranno in modo diverso. Magari approfittando anche del fatto che l’opposizione non sta affatto vivendo un momento splendido. Continuare a ripetere come un mantra che il governo si deve dimettere, non porterà l’opposizione molto lontano: vista la gravità della situazione, è meglio aspettare due anni ad andare al voto.
Come valuta invece le proposte di modifica della Costituzione?
Il vincolo del pareggio di bilancio nella Costituzione è una riforma che, se approvata entro l’autunno, produrrebbe degli effetti sostanziali obbligando tutti a operare di conseguenza. Il vincolo non è formale, ma costituzionale, e quindi è una novità importante. Sulla modifica dell’articolo 41 invece ho dei dubbi, in primo luogo per il fatto di trasformare la Costituzione in senso. Tra l’altro in un momento di debacle dello stesso liberismo, con una crisi economica e finanziaria rispetto alla quale le politiche liberiste hanno avuto un ruolo molto importante. Trovo quindi che la modifica dell’articolo 41 sia una scelta ideologica, e che tra l’altro ne renderebbe la formulazione molto più vaga. Affermare che «è tutto lecito tranne ciò che è espressamente vietato», ha una traduzione sulla nostra vita quotidiana e mettere in pratica questo principio mi sembra un’impresa molto ardua. Anche perché nelle normative nazionali, regionali e locali è vietato quasi tutto, e quindi questo spazio di ciò che è lecito è difficile da definire.
Il podestà forestiero
di Mario Monti - Il Corriere della Sera - 7 Agosto 2011
I mercati, l'Europa. Quanti strali sono stati scagliati contro i mercati e contro l'Europa da membri del governo e della classe politica italiana! «Europeista» è un aggettivo usato sempre meno. «Mercatista», brillante neologismo, ha una connotazione spregiativa.
Eppure dobbiamo ai mercati, con tutti i loro eccessi distorsivi, e soprattutto all'Europa, con tutte le sue debolezze, se il governo ha finalmente aperto gli occhi e deciso almeno alcune delle misure necessarie.
La sequenza iniziata ai primi di luglio con l'allarme delle agenzie di rating e proseguita con la manovra, il dibattito parlamentare, la riunione con le parti sociali, la reazione negativa dei mercati e infine la conferenza stampa di venerdì, deve essere stata pesante per il presidente Berlusconi e per il ministro Tremonti.
Essi sono stati costretti a modificare posizioni che avevano sostenuto a lungo, in modo disinvolto l'uno e molto puntiglioso l'altro, e a prendere decisioni non scaturite dai loro convincimenti ma dettate dai mercati e dall'Europa.
Il governo e la maggioranza, dopo avere rivendicato la propria autonoma capacità di risolvere i problemi del Paese, dopo avere rifiutato l'ipotesi di un impegno comune con altre forze politiche per cercare di risollevare un'Italia in crisi e sfiduciata, hanno accettato in questi ultimi giorni, nella sostanza, un «governo tecnico».
Le forme sono salve. I ministri restano in carica. La primazia della politica è intatta. Ma le decisioni principali sono state prese da un «governo tecnico sopranazionale» e, si potrebbe aggiungere, «mercatista», con sedi sparse tra Bruxelles, Francoforte, Berlino, Londra e New York.
Come europeista, e dato che riconosco l'utile funzione svolta dai mercati (purché sottoposti a una rigorosa disciplina da poteri pubblici imparziali), vedo tutti i vantaggi di certi «vincoli esterni», soprattutto per un Paese che, quando si governa da sé, è poco incline a guardare all'interesse dei giovani e delle future generazioni. Ma vedo anche, in una precipitosa soluzione eterodiretta come quella dei giorni scorsi, quattro inconvenienti.
Scarsa dignità. Anche se quella del «podestà forestiero» è una tradizione che risale ai Comuni italiani del XIII secolo, dispiace che l'Italia possa essere vista come un Paese che preferisce lasciarsi imporre decisioni impopolari, ma in realtà positive per gli italiani che verranno, anziché prenderle per convinzione acquisita dopo civili dibattiti tra le parti.
In questo, ci vorrebbe un po' di «patriottismo economico», non nel fare barriera in nome dell'«interesse nazionale» contro acquisizioni dall'estero di imprese italiane anche in settori non strategici (barriere che del resto sono spesso goffe e inefficaci, una specie di colbertismo de noantri).
Downgrading politico. Quanto è avvenuto nell'ultima settimana non contribuisce purtroppo ad accrescere la statura dell'Italia tra i protagonisti della scena europea e internazionale. Questo non è grave solo sul piano del prestigio, ma soprattutto su quello dell'efficacia. L'Unione europea e l'Eurozona si trovano in una fase critica, dovranno riconsiderare in profondità le proprie strategie.
Dovranno darsi strumenti capaci di rafforzare la disciplina, giustamente voluta dalla Germania nell'interesse di tutti, e al tempo stesso di favorire la crescita, che neppure la Germania potrà avere durevolmente se non cresceranno anche gli altri. Il ruolo di un'Italia rispettata e autorevole, anziché fonte di problemi, sarebbe di grande aiuto all'Europa.
Tempo perduto. Nella diagnosi sull'economia italiana e nelle terapie, ciò che l'Europa e i mercati hanno imposto non comprende nulla che non fosse già stato proposto da tempo dal dibattito politico, dalle parti sociali, dalla Banca d'Italia, da molti economisti.
La perseveranza con la quale si è preferito ascoltare solo poche voci, rassicuranti sulla solidità della nostra economia e anzi su una certa superiorità del modello italiano, è stata una delle cause del molto tempo perduto e dei conseguenti maggiori costi per la nostra economia e società, dei quali lo spread sui tassi è visibile manifestazione.
L'incapacità di prendere serie decisioni per rimuovere i vincoli strutturali alla crescita e l'essersi ridotti a dover accettare misure dettate dall'imperativo della stabilità richiederanno ora un impegno forte e concentrato, dall'interno dell'Italia, sulla crescita.
L'Italia al bowling d'Europa
di Guido Viale - Il Manifesto - 5 Agosto 2011
Per invertire rotta l'Ue dovrebbe "sterilizzare" buona parte dei debiti degli Stati membri: un default continentale Portogallo, Spagna, Irlanda e Italia potrebbero essere travolte, come nel bowling, dalla caduta del birillo greco
Il "contagio greco" non esiste. La Grecia non è che il primo di molti birilli presi di mira nel gioco del bowling che tiene impegnata la finanza internazionale. Che le finanze greche possano salvarsi ormai non lo crede più quasi nessuno.
Il gioco è solo quello di tirare per le lunghe perché non si intravvedono misure in grado di raddrizzare la situazione. Portogallo, Spagna, Irlanda o Italia potrebbero essere travolte, proprio come nel gioco del bowling, dalla caduta del birillo greco; ma ciascuno di questi paesi potrebbero anche essere il primo a cadere; ed essere lui, poi, a travolgere tutti gli altri. È l'intera costruzione dell'Unione Europea che rischia il collasso.
E al centro di questa evenienza c'è l'euro. L'idea che si possa espellere dall'euro, uno a uno, i corpi infetti non sta in piedi. Intanto, anche da un punto di vista materiale, è un'operazione assai difficile; senza procedure; e tanto più rischiosa se attuata non secondo un piano cadenzato, ma sotto l'incalzare della speculazione.
L'euro ha privato i governi degli Stati membri di due degli strumenti tradizionali delle politiche economiche: la svalutazione e l'inflazione controllata (attraverso l'emissione di nuova moneta). Il terzo, la fissazione del tasso di interesse, non la fanno più né gli Stati membri né la Bce.
Chi la accusa di immobilismo non tiene conto che nel contesto attuale tassi di sconto più bassi fornirebbero denaro più facile non all'investimento produttivo, ma alla speculazione.
Ma il fatto è che da tempo l'indebitamento degli Stati membri ha consegnato la fissazione dei tassi di interesse - vedere per credere - ai cosiddetti "mercati", a cui i governi di tutto il mondo si sono assoggettati.
Una condizione di subalternità che per alcuni decenni è stata "prerogativa" dei paesi del cosiddetto "Terzo mondo", strangolati dal Fondo monetario internazionale; ma che la globalizzazione sta ora estendendo a tutti i paesi del pianeta.
Per invertire rotta l'Unione europea dovrebbe probabilmente assumere - e "sterilizzare" - buona parte dei debiti degli Stati membri: un default continentale, che certo sarebbe preferibile alla caduta in ordine sparso dei singoli Stati. In entrambi i casi, con i tempi che corrono, a rimetterci saranno tutti: economie "forti" comprese.
Ma che cosa ha ridotto governi e partiti a competere tra loro facendo a gara a chi è più adatto o capace di soddisfare o tacitare i "mercati"? E che cosa sono mai questi "mercati", ai quali è stata trasferita quella "sovranità", cioè il governo della vita di milioni di persone, che le Costituzioni di tutti gli Stati democratici assegnano al popolo? Sono la finanza internazionale, la forma più compiuta, astratta e "delocalizzata" del capitale.
Dietro il quale ci sono però grandi patrimoni privati - si chiamino hedge fund, private equity o fondi di investimento - che sono cresciuti grazie a un gigantesco trasferimento di ricchezze (mediamente, il 10 per cento del Pil di quasi tutti i paesi; il che, per un salario, può però voler dire il 30-40 o anche il 50 per cento del potere d'acquisto) dai redditi da lavoro a quelli da capitale.
Poi ci sono le grandi banche, a cui la deregolamentazione degli ultimi venti anni ha permesso di investire, ma anche di speculare, con il denaro dei depositanti. Al terzo posto vengono le grandi multinazionali (petrolio, grande distribuzione, costruzioni, alimentare, farmaceutica, ecc.) che "integrano" i profitti delle attività estrattive o manifatturiere operando in borsa con le proprie tesorerie.
Ma i soggetti più forti dei cosiddetti "mercati" sono assicurazioni e fondi pensione - in Italia, questi ultimi, alle prime armi; ma all'estero da tempo padroni di immense risorse - che per garantire alti rendimenti ai loro investimenti non esitano a strangolare imprese e gettare sul lastrico quei lavoratori che hanno affidato loro il denaro con cui affrontare la propria vecchiaia. Tanto che in borsa le quotazioni di un'impresa spesso salgono quando aumentano i cosiddetti "esuberi". È il capitalismo diffuso - o "popolare" - bellezza!
Ma se l'euro - così come è stato fatto, perché l'idea non era male - sta travolgendo l'Unione Europea, a mettere alle corde l'intero pianeta, Europa compresa, è stata la diffusione pressoché universale del "pensiero unico", cioè del liberismo: l'idea che il mercato, o i mercati, debbano governare il mondo e siano la soluzione migliore per rispondere alle esigenze di chiunque.
Si tratta di una rappresentazione talmente lontana e diversa dalla realtà della vita quotidiana della gente da renderne impraticabili tanto la comprensione che il governo. Per tutti; anche per coloro - molti o pochi - che se ne avvantaggiano; o per coloro - pochi o molti - che sanno benissimo trattarsi di una favola per allocchi.
Per queste sue caratteristiche il liberismo rappresenta oggi la forma più compiuta e diffusa di travisamento della realtà e la presa che da tempo esercita sul pensiero e gli orientamenti di governanti e governati di tutto il mondo è rappresentabile solo come una vera e propria "dittatura dell'ignoranza".
Da questo punto di vista il berlusconismo e le sue propaggini ormai estese a tutti gli anfratti del mondo politico e culturale italiano non sono che un caso particolare - più evidente e pronunciato in Italia - di un fenomeno che caratterizza a livello mondiale l'intera epoca in cui viviamo. Con effetti tragici e paradossali, ma proprio per questo rivelatori.
Prendete per esempio il capofila di quel circo Barnum che sono i corsivisti del Corriere della Sera (Massimo Mucchetti escluso): dopo averci assicurato che il fallimento della banca Lehman Brothers era un evento salutare, e poi che la crisi mondiale era agli sgoccioli, o che la Gelmini aveva fatto una grande riforma, e infine che la manovra di Tremonti aveva messo al sicuro il bilancio dello Stato, ora - 2 agosto 2011 - Francesco Giavazzi affida all'"intuizione" del Berlusconi imprenditore (avete letto bene: "intuizione": e dopo vent'anni di regime tutti sanno di che cosa si parla: truffe e panzane) il compito di risollevare le sorti del paese. Come approdo finale della dottrina economica liberista, di cui Giavazzi è un alfiere, non c'è male.
Il fatto è che, vista la situazione di impotenza in cui il pensiero unico e le "intuizioni" di Berlusconi ci hanno cacciato, le ricette per tirarsene fuori scarseggiano.
Anzi, sono una sola, e si chiama "crescita"; che, scendendo alla sua declinazione pratica, vuol dire privatizzazioni (in barba ai risultati del referendum), liberalizzazioni (come se l'Italia non fosse il paese che offre - alle imprese - le maggiori libertà del mondo: vedi l'imprenditoria di mafia e camorra o, per scendere sul "legale", i metodi di Sergio Marchionne), taglio della spesa pubblica (come se l'Italia non avesse le spese per scuola, ricerca, sanità, famiglia e disoccupazione più basse d'Europa); e poi, lavorare di più (copyright di Giuliano Amato: non lavorare tutti, ma fare lavorare di più chi già lavora); per finire con le Grandi opere (Tav, Ponte, autostrade, gassificatori ed expò: investimenti inutili, devastanti, costosi e senza prospettive di "rientro").
Così la nostalgia di una crescita che non c'è e non tornerà più si consuma nell'invidia per la Germania, come se i successi dell'economia tedesca non fossero indissolubilmente legati ai disastri dei paesi dell'Unione più deboli: quelli verso cui si dirige, senza reciprocità, metà delle sue esportazioni (l'altra metà va in Usa e in Cina: due paesi che non godono più, ma che soprattutto non godranno più nei prossimi anni, dei successi che li hanno resi potenti e arroganti).
Purtroppo la dittatura dell'ignoranza e del pensiero unico - l'idea che a governare il mondo siano e debbano essere i "mercati" - non si arresta sulla soglia del Corriere né su quella dei partiti di maggioranza e di opposizione. Ha pervaso, e da tempo, tutta la società e, in qualche misura, ciascuno di noi.
Persino per difendere una bella trasmissione come Vieni via con me, non ci si è appellati alla qualità intrinseca dei suoi contenuti, e nemmeno agli ascolti - che pure in qualche modo sono legati, e viziati, dal mezzo su cui transitano - ma alla pubblicità che il programma poteva raccogliere e far incassare alla Rai. Come dire: è il mercato - della pubblicità - che decide del valore di un'opera.
Di fatto la delega al mercato - l'idea che spetti ai mercati il governo del mondo e della nostra vita quotidiana - ci ha resi tutti in qualche misura impotenti e imbelli: incapaci, e a volte anche restii, ad autogovernarci e a rivendicare il potere e il diritto di farlo.
Una grande battaglia è stata vinta con i referendum, soprattutto se pensiamo alla scarsità - e all'oscuramento - delle forze che lo hanno promosso. Ma adesso, per raccoglierne i frutti, bisogna mettersi in grado di "governare dal basso", con la forza dell'iniziativa, dei saperi diffusi e della solidarietà, i "beni comuni" che i Sì hanno sottratto all'obbligo della privatizzazione: non solo il servizio idrico integrato, ma tutti i servizi pubblici locali disciplinati dall'art. 23 bis ora abrogato: trasporto e mobilità urbana, gestione dei rifiuti, distribuzione e generazione di energia, mercato ortofrutticolo, mense e molte altre cose ancora. Per farlo bisogna attrezzarsi; e non è una cosa facile.
Ma è solo in una crescita di una cittadinanza attiva impegnata nella costruzione di queste nuove forme di gestione, né privata né "pubblica" - nel senso di statale - che si possono formare e costituire un nuovo orientamento culturale, nuovi saperi tecnici e gestionali, e una nuova "classe dirigente" in grado di esautorare e sostituire quella inetta e corrotta - politica e imprenditoriale - da cui siamo governati.
Gli embrioni di questo ricambio già ci sono, si tratta di riconoscerli, rafforzarli, farli crescere: domani potranno attrarre e inglobare anche le componenti meno compromesse di chi è oggi alle leve di comando.