Un collage con un denominatore comune: il tunnel della crisi è ancora senza uscita.
Le bugie sulla ripresa
di Ilvio Pannullo - Altrenotizie - 12 Novembre 2009
C'è una grande confusione in Italia sullo stato in cui versa l'economia. Nonostante la discutibilissima politica dell'ottimismo voluta ed imposta dal Presidente del Consiglio, la stessa maggioranza appare infatti divisa circa la valutazione dei problemi che affliggono il sistema produttivo italiano. Dopo la contro-finanziaria depositata presso il Senato della Repubblica dall'onorevole Baldassarri, a confermare lo stato di agitazione in cui versa la maggioranza è arrivato lo stop imposto al governo.
L'esecutivo è stato infatti battuto due volte nell'Aula della Camera su due emendamenti, uno del Pd e uno dell'Idv. Con uno scarto prima di quattro e poi di soli tre voti (263 voti a 259 e 262 voti a 259) sono state approvate due proposte di modifica sulle quali il governo aveva espresso parere contrario.
Sarà certamente un caso, ma i due emendamenti mirano nella sostanza a sgomberare il campo da eventuali possibili fraintendimenti circa l'interpretazione da dare agli indicatori normalmente utilizzati nell’analisi della contabilità dello Stato.
Questo a pochi giorni di distanza dal trionfale annuncio, fatto in conferenza stampa dal Presidente del Consiglio e rilanciato immediatamente dal ministro dell'economia, dei dati provenienti dall’Ocse, l'organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico, che apparentemente sembrano descrivere uno scenario in cui l'Italia è, per la prima volta, prima in Europa.
Il primo articolo sul quale l'opposizione ha battuto la maggioranza è l'art.21, che disciplina il bilancio di previsione. Con l'emendamento dell'Idv, a prima firma Renato Cambursano, viene introdotto un raccordo tra i programmi di bilancio e la nomenclatura Cofog (Classification Of Function of Government, una classificazione definita a livello internazionale dalle principali istituzioni che si occupano di contabilità nazionale: Ocse, Fmi ed Eurostat, ndr).
Con l'altro emendamento, a firma Linda Lanzillotta e fatto proprio dal Pd, si punta ad evidenziare il collegamento tra gli indicatori e i parametri che devono essere indicati negli stati di previsione e il sistema di indicatori ed obiettivi previsto dalla legge sulla trasparenza ed efficienza della pubblica amministrazione.
Ora, visto il ristrettissimo margine con il quale i due emendamenti sono stati approvati, questo segnale potrebbe essere considerato come la prova, da parte di una minoranza all'interno del popolo della libertà, della volontà di una maggiore serietà nell'analisi dello stato dell'economia del paese.
Appena pochi giorni fa, il 7 Novembre, il Cavaliere si era infatti affrettato a comunicare che l' economia italiana, secondo quanto si evince dal superindice dell'Ocse, appare in testa al gruppo dei 30 Paesi più industrializzati per la performance segnata nell' ultimo anno.
Rispetto al settembre del 2008 l'indice dell'Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo che anticipa le fasi di crescita e rallentamento dell' economia, mostra per l' Italia, considerata in fase di "espansione", un più 10,8%, contro l' 8,4% della Francia, il 7% di Cina e Regno Unito, il 5,7% della Germania.
Dati che dipingono un'immagine apparentemente molto positiva dello stato dell'economia italiana a questo punto della crisi. Purtroppo per il paese, tuttavia, l'indicatore che si va tanto sbandierando in giro descrive semplicemente una particolare condizione dell'economia, un'attitudine, un possibile potenziale di crescita e non certo il concreto stato di avanzamento della stessa.
Addentrandosi nel meccanismo di formazione dell'indice si può comprendere, infatti, quanto questo in realtà non mostri altro che i punti di svolta del ciclo economico stimati con riferimento all'output gap. Un indice, cioè, che fa riferimento alla deviazione del livello dell'attività economica dal livello consistente con il pieno impiego.
Rappresenta, dunque, il risultato di un rapporto e conseguenza di ciò è il fatto che l’indice finale può migliorare semplicemente perché è peggiorata la stima degli effetti della crisi sulla crescita di medio periodo. E purtroppo per l'Italia la caduta del tasso di crescita potenziale nel 2010 è più ampia rispetto ad altri paesi.
Come infatti ha puntualmente fatto notare l'economista Francesco Giavazzi, “l’Ocse non rivela quanto del miglioramento registrato nel mese di settembre dipenda da una chiusura dell’output gap e quanto invece dipenda da un peggioramento delle previsioni sulla disoccupazione di medio periodo”.
Se, esemplificando, si stima, ad esempio, che il tasso di disoccupazione di medio periodo dopo la crisi sarà più elevato di quanto non si stimasse prima, questo è sufficiente a far migliorare l’indicatore. Ciò significa che un suo miglioramento non è necessariamente una buona notizia. Paradossalmente, potrebbe indicare una cattiva notizia, cioè un aumento della stima degli effetti della crisi sulla disoccupazione nei prossimi anni.
Nonostante l'amara verità, il governo tuttavia non perde occasione per vendere agli ignari cittadini un po' del suo fumo. Arrivano infatti immancabili le dichiarazioni di commento dei dati: «Ci sono forti segnali di ripresa un po' ovunque. In Italia non possiamo lamentarci, non va malissimo», così il presidente del Consiglio, Silvio Berlusconi. Ancor più soddisfatto il ministro dell' Economia, Giulio Tremonti: "Sono tanti anni che stavamo dietro, sembrava che altri fossero pecore bianche e noi quella nera. Invece il tempo è stato galantuomo, e ora dobbiamo insistere".
Sempre Berlusconi, forse incredulo per la possibilità di commentare dati positivi che non siano sondaggi commissionati dalle sue società, ha insistito sostenendo: "Ho continui contatti con il mondo delle imprese. Certo ci sono quelle in difficoltà, ma nella generalità dei casi c' è ottimismo diffuso e una sensazione di ripresa". E ancora: "Siamo i sesti contributori delle Nazioni Unite e l'economia italiana ha recuperato la terza posizione in Europa, davanti alla Gran Bretagna" ha aggiunto non contento il premier, in evidente stato di estasi.
Lungi dall'essere catastrofisti, va tuttavia sottolineato come il dovere di ogni giornalista economico sia quello di commentare i dati e possibilmente contestualizzarli nella realtà politica e sociale del paese. Non è infatti pessimismo, ma realismo, osservare che l’entità di una ripresa non è indipendente dall’entità della caduta iniziale.
Come ricorda, infatti, sempre Francesco Giavazzi nel suo ultimo articolo su La voce. Info, “fra settembre 2008 e la primavera del 2009 l'indicatore era caduto di 32 punti in Italia e Germania, ma di soli 14 punti in Francia, 12 negli Stati Uniti, 10 in Gran Bretagna. Ciò significa che nella fase più acuta della crisi l’output gap, o almeno la stima calcolata dall’Ocse, si era allargato di oltre il doppio in Germania e in Italia rispetto agli altri tre paesi”. Non ci si deve dunque sorprendere se dopo una caduta tanto pronunciata, la ripresa sia ora più ampia.
Se a questo si unisce la caduta del tasso di crescita potenziale nel 2010, calcolato dall'Ocse e pubblicato nel giugno scorso nell’Economic Outlook no. 85, si comprende come l'indicatore possa migliorare semplicemente perché ad essere peggiorata è la stima degli effetti della crisi sulla crescita di medio periodo dell'economia.
In altre parole la spiegazione del miglioramento dell’indice è, almeno in parte, una chiusura dell’output gap non perché sia migliorata la stima del livello di produzione, ma perché si è ridotta la stima del livello potenziale. Appare dunque evidente quanto sia parziale e faziosa l'interpretazione data dal governo ai dati pubblicati dall'organizzazione internazionale.
Ancora una volta da un'analisi attenta dei dati e da una comprensione della logica seguita nel corso della loro elaborazione si evince quanto la politica del sorriso, del sole in tasca, abbia contaminato il rapporto tra governanti e governanti. Se la semplice menzogna, infatti, in altri paesi è causa di sdegno e biasimo e può talvolta portare addirittura alle dimissioni dalle cariche pubbliche, in Italia questa è innalzata a livello di strumento di governo, mezzo attraverso il quale creare e mantenere il consenso, per la gioia di tutti coloro che sognano un governo seriamente impegnato nella gestione degli interessi pubblici.
Il futuro della ripresa si gioca a Pechino
di Mauro Bottarelli - www.ilsussidiario.net - 12 Novembre 2009
Nei primi nove mesi del 2009 più di 50mila esercizi al dettaglio hanno chiuso i battenti a causa della crisi e a fine anno «si prevede un saldo negativo tra aperture e chiusure di circa 20 mila unità». È il calcolo fatto da Confcommercio in uno studio presentato ieri.
Se a questo uniamo il dato sulla produzione industriale presentato martedì che vede il paese ai livelli del 1990, viene da chiedersi - come ha fato l'altro giorno in un’intervista a ilsussidiario.net l'economista Francesco Forte - quanto siano ancora credibili le stime e i criteri di valutazione dell'Ocse che tanto hanno fatto gonfiare il petto al governo.
Lo scollamento totale tra finanza, mondo bancario ed economia reale ha ormai travalicato l'Atlantico e ci presenta il conto: le Borse corrono e le imprese chiudono, un mondo che difficilmente si può definire il migliore possibile. Soprattutto perché dimostra di non aver fondamenta su cui basarsi. Ma c'è di più. E peggio.
Con la crisi le imprese in Italia diventano più piccole e gli imprenditori più poveri, visto che se prima della crisi un'impresa italiana aveva in media circa 4 addetti, il dato scende oggi a 3,5. Un'impresa italiana su cinque ha ridotto il proprio personale e a perdere il posto di lavoro sono indistintamente uomini e donne. È quanto emerge da una stima dell'Ufficio Studi della Camera di commercio di Monza e Brianza su dati Registro Imprese, Asia Istat, Camera di commercio di Milano.
In particolare, nel 2009, oltre il 40% degli imprenditori lombardi ha chiesto nuovi finanziamenti alle banche ma l'11,7% ha lamentato difficoltà nell'ottenere anticipazioni dagli istituti di credito. E il 60% degli imprenditori lombardi, per portare al di là della crisi la propria azienda, ha messo mano al portafoglio, sottraendo nel 2009 dai propri risparmi personali quasi 1,5 miliardi di euro.
Questo significa che nel 2009 un piccolo imprenditore su due (artigiano e commerciante, ad esempio) ogni mese in media deve prelevare dai propri risparmi oltre 500 euro per mantenere la propria attività. Questa, al di là delle vetuste valutazioni di industrialismo anni Sessanta dell'Ocse, è la situazione attuale della regione più ricca e florida d'Italia.
Ma proprio dagli Usa, epicentro e punto di partenza della crisi, è arrivata ieri un'altra notizia tutt'altro che piacevole, anche perché fornitaci nientemeno che dal presidente della Banca Mondiale, Robert Zoellick, secondo cui «l'alto e sempre cresce tasso di disoccupazione potrebbe portare a un default sui prestiti il prossimo anno negli Stati Uniti. La gente non sarà in grado di coprire la carta di credito, di onorare i prestiti e pagare i mutui». Nemmeno un battito di ciglia ed ecco che il capo del servizio Supervisione intermediari specializzati della Banca d'Italia, Roberto Rinaldi, in un'audizione in commissione Finanze alla Camera ha lanciato un allarme simile: «Per 230mila famiglie italiane la rata del mutuo ha raggiunto una soglia critica per l'equilibrio del bilancio familiare». Tra le famiglie «con una spesa annua per il servizio del debito legato ai soli mutui prima casa - ha detto - tale debito si collocava nel 2006 al 17% del reddito disponibile. Tra il 2004 e il 2006, l'incremento più consistente ha riguardato i nuclei familiari appartenenti alla classe di reddito più bassa (campione stimato in 230mila famiglie) per i quali la rata di mutuo ha raggiunto il 32% del reddito disponibile, una soglia ritenuta critica per l'equilibrio del bilancio familiare». Insomma, una situazione potenzialmente esplosiva. Soprattutto, per ora, negli Usa. Anche perché, proseguiva Zoellick, «le politiche di stimolo governativo riusciranno a dare respiro all'economia ancora per il primo semestre del prossimo anno, poi toccherà agli investimenti e alla capacità di spesa dei cittadini prendere le redini del comando». Come, resta tutto da valutare. Insomma, occorrono politiche anche monetarie di rottura. Occorrerà agire sui tassi, limitare le politiche di quantitative easing per non renderle strutturali e soprattutto operare per un rafforzamento del dollaro. Anche perché, altrove, qualcuno ha messo la freccia e punta dritto al sorpasso. La Cina, infatti, ha reso noto che è pronta ad un apprezzamento dello yuan dopo 18 mesi di politiche ribassiste e che guarderà alle principali monete mondiali - il paniere misto usato precedentemente - e non più solo al dollaro come riferimento sul tasso di cambio: oro, yen ed euro sono già ben stipati nelle riserve della Banca Centrale cinese, ora si punta allo sganciamento dal peg con un dollaro sempre più debole che potrebbe rivelarsi una trappola mortale per il detentore record cinese di debito Usa. Secondo i dati del Tesoro statunitense, infatti, la Repubblica Popolare (esclusa Hong Kong) deteneva, a luglio 2006, 700 miliardi di dollari in titoli del debito americano a lungo termine. Di questi, 107 miliardi erano “agency bonds”, ossia pacchetti formati da mutui “garantiti” (più o meno) da qualche entità pubblica statunitense. La Cina ha comprato titoli a lungo termine per 2,5 miliardi di dollari a luglio 2007, ne ha comprati ancora 2,7 miliardi ad agosto quando è scoppiata la bolla dei subprime e addirittura 8 miliardi a settembre, quando le colossali dimensioni del crack erano ormai note a tutti. Il comportamento appare anche più strano se si tiene conto che nel 2002 la Cina acquistò non più di 100 milioni di questi titoli fatti di mutui. Nel 2006, ne aveva 107 miliardi: un aumento del mille per cento. A questo accumulo di debito Usa va aggiunto quello di Hong Kong: la città aveva, a giugno 2006, 13,4 miliardi di titoli Usa, di cui oltre 5 miliardi in mutui confezionati. Il perché di questa politica apparentemente suicida è semplice: Pechino non aveva altra scelta che questo gioco pericoloso per mantenere bassa la sua valuta rispetto al dollaro, mentre contemporaneamente stava accumulando troppi dollari con le sue esportazioni. Ora la camera di compensazione sembra pronta alla chiusura. O all'esplosione. Per questo, più che alle follie della Borsa o ai numeri allegri di Ocse e soci, occorrerà tenere gli occhi aperti sul prossima visita di Barack Obama a Pechino: molto del futuro economico mondiale si deciderà lì. Compresa l'entità e il tempo necessario alla ripresa, che in Cina, almeno stando alle valutazioni sulle commodities, sarebbe già iniziata visto che un aumento della domanda di petrolio da parte del Dragone ieri ha fatto risalire il greggio sopra gli 80 dollari al barile. Quanto sia richiesta e quanto sia speculazione, non è dato a sapersi: le “piscine oscure” sono piene di pescecani in questi giorni.
Le stime sulle riserve del petrolio sono false
di Terry Macalister - www.guardian.co.uk - 9 Novembre 2009
Un informatore racconta: i dati chiave relativi al petrolio sono stati distorti sotto la pressione degli Stati Uniti
Secondo un informatore dell’Agenzia Internazionale dell’Energia (IEA) il mondo è molto più vicino a rimanere senza petrolio rispetto a quello che dicono le stime ufficiali. L’informatore afferma che la carenza di petrolio è stata deliberatamente sottovalutata per paura di scatenare panico sugli acquisti.
L’alto funzionario sostiene che gli Stati Uniti hanno svolto un ruolo influente nel favorire la sottovalutazione del tasso di diminuzione dei giacimenti esistenti, mentre si è esagerato sulle possibilità di trovare nuove riserve di petrolio.
Le accuse sollevano seri interrogativi circa l’esattezza dell'ultimo World Energy Outlook (ndr rapporto sullo stato dell’economia mondiale pubblicato dall’Agenzia Internazionale dell’Energia) sulla domanda e l’offerta di petrolio che sarà pubblicato domani da tale organizzazione (ndr 10 novembre 2009) e che viene utilizzato dal governo britannico e da molti altri governi per dare un indirizzo ai loro consumi di energia e per le loro politiche sui cambiamenti climatici.
In particolare esse sollevano dubbi sulla previsione dell’ultimo World Economic Outlook, che probabilmente verrà ripetuta anche per quest’anno, che la produzione di petrolio possa essere aumentata dall’attuale livello di 83 milioni di barili al giorno a 105m di barili al giorno. Alcuni critici hanno sostenuto che questo non può essere suffragato da prove certe e dicono che il mondo ha già superato il picco della produzione petrolifera.
Ora la teoria del “picco del petrolio” sta guadagnando il sostegno delle istituzioni dell’energia globali. “L‘IEA (Agenzia Internazionale dell’Energia) nel 2005 ha predetto che le forniture di petrolio sarebbero potute aumentare ad oltre 120 milioni di barili al giorno entro il 2030, anche se l’anno scorso (2008) è stata costretta a ridurre gradualmente questa previsione prima a 116 milioni poi a 105 milioni”, ha detto la fonte IEA, che non ha voluto essere identificato per timore di rappresaglie all’interno della sua compagnia. “La previsione di 120 milioni di barili era una sciocchezza, ma anche il numero di oggi è troppo alto per poter essere giustificato dalla IEA”.
“Molti all’interno dell’organizzazione credono che mantenere le forniture di petrolio tra i 90 e i 95 milioni di barili al giorno sarebbe impossibile, ma si teme che possa diffondersi il panico sui mercati finanziari se le cifre fossero ulteriormente ridotte. Gli americani temono la fine della supremazia del petrolio perché metterebbe in pericolo il loro potere sull’accesso alle risorse petrolifere”, ha aggiunto la fonte.
Una seconda fonte IEA (senior), che era anche disposta a dare il proprio nome, ha detto che una regola fondamentale presso l’organizzazione era che fosse “indispensabile non fare arrabbiare gli americani”, ma il fatto è che non c’era abbastanza petrolio nel mondo come era stato detto. “Siamo [già] entrati nella zona del ‘picco del petrolio’. Credo che la situazione sia davvero critica”, ha aggiunto.
L’IEA riconosce l’importanza dei suoi stessi dati, che vanta sul suo sito: “I governi IEA e le industrie di tutto il mondo si affidano al World Energy Outlook per avere una base coerente su cui si possano formulare politiche e piani di attività di progettazione”. Il governo britannico, tra gli altri, usa sempre le statistiche IEA piuttosto che le proprie per sostenere che non vi è minaccia per le forniture di petrolio a lungo termine.
L’IEA ha detto stasera che i critici del picco del petrolio avevano spesso erroneamente messo in dubbio l’esattezza delle sue stime. Un portavoce ha detto che non era in grado di pronunciarsi in anticipo sul rapporto 2009 che sarebbe stato rilasciato domani.
John Hemming, il deputato che presiede il gruppo parlamentare All-Party sul picco del petrolio e del gas, ha detto che le rivelazioni hanno confermato i suoi sospetti e che l’IEA ha minimizzato che il mondo sta esaurendo rapidamente il petrolio e questo ha profonde implicazioni sulla politica energetica del governo britannico.
Ha aggiunto che era anche stato contattato da alcuni funzionari IEA non contenti del suo indipendente scetticismo sulle previsioni. “Il ricorso ai rapporti dell’IEA è stato usato per giustificare chi sostiene che le forniture di petrolio e gas non raggiungeranno il picco prima del 2030. E’ chiaro ora che questo non è vero e le stime IEA non possono essere invocate a sostegno”, ha detto Hemming.
“Tutto questo dà un peso ai colloqui di Copenhagen [cambiamento climatico] e dà al Regno Unito un'urgente necessità di muovere rapidamente verso un'economia più sostenibile [basso tenore di carbone] se si vogliono evitare gravi perturbazioni economiche”, ha aggiunto.
L’IEA è stato istituito nel 1974 dopo la crisi petrolifera, nel tentativo di cercare di assicurare l’approvvigionamento energetico in occidente. Il World Energy Outlook viene prodotta ogni anno sotto il controllo del capo economista dell’IEA, Fatih Birol, che ha difeso le proiezioni da precedenti attacchi esterni. Alcuni critici spesso, sul picco del petrolio, hanno messo in dubbio i dati IEA. Ma ora fonti IEA, che hanno contattato il Guardian, dicono che Birol ha sempre più tenuto testa a domande sulle stime all’interno dell’organizzazione.
Matt Simmons, uno stimato esperto dell’industria petrolifera, ha da tempo messo in discussione i tassi di declino del petrolio e le statistiche fornite dall'Arabia Saudita per i suoi giacimenti. Ha sollevato interrogativi sul fatto che il picco del petrolio è molto più vicino di quanto molti hanno accettato.
Il mese scorso il rapporto Britannico “Energy Research Centre” (UKERC) diceva che la produzione mondiale di petrolio estratto in modo convenzionale potrebbe raggiungere il picco prima del 2020, per poi andare in declino terminale – ma che il governo non ha fronteggiato il rischio. Steve Sorrell, principale autore del rapporto, ha detto che le previsioni secondo le quali il picco della produzione di petrolio non avverrà prima del 2030 “nella migliore delle ipotesi sono ottimistiche e nella peggiore delle ipotesi implausibili”.
Ma già nel 2004 c'erano persone che davano avvertimenti simili. Colin Campbell, un ex dirigente della francese Total ha detto in una conferenza: “Se le vere stime [sulla riserva di petrolio] dovessero venir fuori ci sarebbe il panico sui mercati azionari … ciò alla fine non soddisferebbe nessuno”.
La "bomba" del Guardian: il peak oil fa paura
di Debora Billi - petrolio.blogosfere.it - 12 Novembre 2009
«I dati sulla produzione petrolifera vengono distorti e falsati dietro pressione statunitense, siamo in realtà molto più vicini all'esaurimento delle risorse petrolifere di quanto si pensi e si cerca di evitare il panico».
Non si parla di altro, nel mondo petrolifero. Mi riferisco alle rivelazioni del principale quotidiano inglese, il Guardian, che verso le questioni energetiche ha sempre avuto un occhio di riguardo.
L'articolo è uscito due giorni fa, in previsione del rilascio del nuovo World Energy Outlook da parte dell'International Energy Agency, e spara a zero proprio sui dati forniti dall'IEA. Il succo delle pesantissime accuse è il seguente: i dati sulla produzione petrolifera vengono distorti e falsati dietro pressione statunitense, siamo in realtà molto più vicini all'esaurimento delle risorse petrolifere di quanto si pensi e si cerca di evitare il panico.
Il World Energy Outlook viene considerato vangelo dai governi quando devono prendere decisioni in materia energetica, e il fatto che fornisca dati falsi mette a rischio il futuro di tutto il pianeta. Siamo già entrati nella peak oil zone, e la situazione è veramente brutta, dice un esperto IEA che vuole restare anonimo.
Fin qui il Guardian del 9 Novembre. La notizia ha ovviamente generato un'infinità di polemiche sui media, e l'accusa principale al Guardian è quella di dare voce ad anonimi (anche se io qualche sospetto su chi sia uno dei misteriosi anonimi ce l'avrei...). Ma è indubitabile che l'IEA ha da tempo parecchie questioni a cui rispondere, e il suo Outlook sembra sempre più traballante.
Come quando sostiene che la produzione non-OPEC è destinata a raggiungere il picco entro il 2010 ma contemporaneamente resta aderente al mantra generale scolpito nella pietra che vuole il picco globale nel 2030. Le due cose sono, ovviamente, inconciliabili (ancora di più lo sono considerando che il non-OPEC ha piccato 5 anni fa, come abbiamo recentemente ricordato).
Ma non finisce qui: il quotidiano ribadisce le accuse con un altro articolo nella giornata di ieri, che titola "Hanno troppa paura per pubblicizzare la realtà del peak oil", in cui si afferma:
L'establishment economico internazionale, inclusa l'IEA, ha in mente un unico proposito molto chiaro: niente panico. La loro missione sembra solo quella di mantenere i mercati tranquilli. (...) Molte persone hanno visto arrivare il picco, ma sono state marginalizzate, costrette al silenzio e l'evidenza è stata relegata alle note a piè di pagina. (...) Finora, nell'affrontare quest'immane sfida, il nostro sistema politico ed economico è stato incapace di fare i conti con la realtà. Siamo stati obbligati ad andare avanti nell'illusione che abbiamo un sacco di tempo per rimediare e che non abbiamo bisogno neppure di parlarne, o di pensare a come sarebbe il mondo senza fiumi di petrolio. La realtà è diventata troppo pericolosa.
Credo che stiamo assistendo ad un momento storico. Tempi interessanti, nevvero?
di Michael T. Klare - www.huffingtonpost.com - 22 Settembre 2009
Traduzione per www.comedonchisciotte.org a cura di Silvia Dammacco
Il dibattito attuale gira intorno ad una questione fondamentale: se abbiamo già raggiunto il picco di produzione del petrolio o se questo accadrà, a voler essere ottimisti, nel prossimo decennio.
Su una cosa non c’è dubbio: stiamo vivendo il passaggio da un’epoca basata sul petrolio considerato come fonte principale di energia ad un’epoca in cui una sempre maggiore quantità di investimenti energetici proverrà da fonti di energia alternative soprattutto da quelle rinnovabili del sole, del vento e delle onde. Allora, allacciatevi le cinture, sarà un viaggio turbolento in condizioni estreme.
Sarebbe ideale, questo è ovvio, che il passaggio dal petrolio ai suoi sostituti più clementi in termini ecologici, si producesse lentamente attraverso un macro-sistema, ben coordinato ed interconnesso, di installazioni di energia eolica, solare, mareomotrice, geotermica e di altre fonti rinnovabili.
Sfortunatamente è abbastanza improbabile che ciò accada. Quel che più è certo è che prima vivremo un’epoca caratterizzata da un uso eccessivo delle ultime e meno attraenti riserve di petrolio e carbone, così come di idrocarburi “poco convenzionali” ma altamente inquinanti come le sabbie bituminose del Canada o altre alternative fossili decisamente poco allettanti.
Non c’è dubbio che Barack Obama e vari membri del Congresso gradirebbero accelerare il salto dalla dipendenza dal petrolio alle altre fonti di energia alternativa non inquinanti. Come ha detto lo stesso presidente a gennaio “ci stiamo impegnando nella ferma costruzione, diretta e pragmatica, di un paese (gli Stati Uniti) in grado di sganciarsi dalla dipendenza [dal petrolio] e di dotarsi di un nuovo modello energetico ed economico che crei nuovi posti di lavoro ai nostri concittadini”.
Certo è che dei 787 miliardi di dollari del pacchetto incentivi firmato a febbraio, 11 miliardi sono stati destinati all’ammodernamento della rete elettrica nazionale, 14 miliardi agli incentivi fiscali destinati alle società che investono in energie rinnovabili, 6 miliardi sono stati destinati ai programmi statali sull’efficienza energetica, e ancora altri miliardi alla ricerca in materia di energie rinnovabili. A questi provvedimenti potrebbero aggiungersene altri simili nel caso in cui il Congresso approvasse il progetto di legge sul cambiamento climatico.
La versione appena approvata dalla Camera dei Rappresentanti degli tati Uniti, per esempio, impone che nel 2020 il 20% della produzione elettrica degli Stati Uniti provenga da fonti di energie rinnovabili.
Ci sono però altresì cattive notizie. Anche se queste iniziative dovessero prender piede, e anche se nell’immediato venissero approvate altre iniziative simili, ci vorrebbero comunque decenni per ridurre sostanzialmente la dipendenza statunitense dal petrolio e dalle altre fonti di energia inquinanti e non rinnovabili.
La nostra domanda di energia è tale e gli attuali sistemi di distribuzione dei combustibili che consumiamo sono talmente radicati che, salvo una qualche sorpresa inaspettata, quello che ci aspetta è un periodo di alcuni anni in una terra di nessuno, a cavallo tra l’epoca del petrolio e quella di una eventuale diffusione delle energie rinnovabili.
A volerle attribuire un nome, questa fase potrebbe essere denominata era dell’eccesso energetico. Quel che è certo è che, da tutti i punti di vista possibili ed immaginabili, da quelli economici a quelli relativi ai cambiamenti climatici, saranno tempi davvero duri.
È inutile prenderci in giro pensando che questa nuova e cupa era porterà poi molte più turbine eoliche, lastre solari e veicoli ibridi. È probabile che la maggior parte dei nuovi edifici vengano equipaggiati con pannelli solari e che si costruiscano più treni leggeri. Ma ciò che sembra più probabile è che, in materia di trasporti, la nostra società continui a dipendere fondamentalmente da aerei, barche, camion e automobili a petrolio. Stesso identico discorso vale per il carbone e l’energia elettrica.
Buona parte delle infrastrutture per la produzione e distribuzione di energia resteranno intatte anche se le attuali fonti di petrolio, carbone e gas naturale iniziano ad esaurirsi. Tutto ciò porterà ad una conseguenza: saremo costretti a fare affidamento su fonti fossili fino ad ora non sfruttate, molto meno auspicabili e spesso molto meno accessibili.
Dalle recenti proiezioni del Dipartimento di Energia sui futuri livelli di consumo energetico degli Stati Uniti, si possono già notare alcuni indicatori che anticipano questa combinazione di combustibili nella nuova era. Secondo il Rapporto Annuale sull’Energia per il 2009 elaborato dal Dipartimento, si calcola che gli Stati Uniti consumeranno circa 114 quadrilioni di unità termiche britanniche (BTU) di energia nel 2030. [Il British thermal unit (BTU o Btu) è un'unità di misura dell'energia, usata negli Stati Uniti e nel Regno Unito (generalmente usata nei sistemi di riscaldamento) N.d.T.].
Di questo totale, un 37% proverrà dal petrolio e altri liquidi disciolti nel petrolio; un 23% proverrà dal carbone; un 22% dal gas naturale; un 8% dall’energia nucleare; un 3% dall’energia idraulica e solo un 7% dall’energia eolica e solare, dalla biomassa e da altri fonti rinnovabili.
Sembra dunque evidente che nessuno di questi dati permetta di prevedere un drastico abbandono del petrolio e degli altri combustibili fossili. Considerando la tendenza attuale, il Dipartimento di Energia prevede anche che, nell’arco di due decenni, nel 2030, il petrolio, il gas naturale e il carbone rappresenteranno ancora l’82% del consumo primario di energia negli Stati Uniti, appena due punti in meno del 2009.
(Non è da escludere, naturalmente, che un drastico cambiamento delle priorità nazionali ed internazionali possa condurre ad una maggiore crescita delle energie rinnovabili nei decenni a venire. Ma a questo punto uno scenario di questo tipo sembrerebbe più una speranza che un dato affidabile).
Anche se nel 2030 i combustibili di origine fossile continueranno a prevalere, la natura di alcuni e la loro estrazione sperimenteranno profonde trasformazioni. Attualmente la maggior parte del nostro petrolio e del nostro gas naturale proviene da fonti “convenzionali”, vaste riserve sotterranee ubicate in territori dell’entroterra o territori costieri poco profondi e relativamente accessibili.
Si tratta di riserve che possono essere sfruttate semplicemente con le tecnologie che già conosciamo, in particolare attraverso versioni più o meno moderne di quegli enormi pozzi petroliferi che divennero famosi grazie al film There Will be Blood [Il Petroliere, in italiano] uscito nel 2007.
In quanto fonte di consumo globale, la maggior parte di questi pozzi si stanno esaurendo. L’industria energetica sarà di conseguenza costretta a ricorrere a piattaforme marine (in grado di localizzare petrolio e gas a maggiore profondità), a sabbie bituminose, a petrolio e gas proveniente dall’Artico e a gas estratto da rocce scistose attraverso tecniche altamente costose e rischiose dal punto di vista ambientale.
Secondo il Dipartimento di Energia, nel 2030 queste fonti energetiche non convenzionali forniranno il 13% dell’offerta mondiale del petrolio (a paragone dell’appena 4% del 2007). Una tendenza simile si segnala in materia di gas naturale, soprattutto negli Stati Uniti, dove si calcola che la percentuale di energia proveniente da fonti non convenzionali ma non rinnovabili, crescerà nello stesso periodo dal 47% al 56% .
L’importanza di queste fonti di approvvigionamento è evidente a chiunque segua i giornali specializzati nel mercato dell’industria petrolifera o che semplicemente legga più o meno regolarmente le pagine di economia del Wall Street Journal.
A parte questo, non si è smesso di annunciare grandi scoperte di nuove riserve di gas e petrolio collocate in territori accessibili tramite le classiche tecniche di perforazione ed altresì connesse ai mercati chiave attraverso condutture o attraverso vie di commercializzazione già esistenti (o fuori dalle zone di guerra come l’Iraq, la regione del Delta del Niger o la Nigeria).
In ogni modo, sebbene si presuma che i giacimenti siano lì, nella pratica si tratta di riserve che si trovano nell’Artico, in Siberia o in acque particolarmente profonde dell’Atlantico o del Golfo del Messico.
Poco tempo fa, in effetti, la stampa ha annunciato con grande clamore grandi scoperte nel Golfo del Messico e nelle coste del Brasile che permetteranno inizialmente di dare un po’ di respiro all’era del petrolio. Il 2 settembre, la petroliera BP (la ex British Petroleum) ha annunciato la scoperta di un gigantesco giacimento nel Golfo del Messico, a circa 400 km a sud-est di Huston.
Si calcola che da qui a qualche anno, quando comincerà lo sfruttamento, il pozzo denominato Tiber potrà arrivare a produrre centinaia di migliaia di barili di petrolio grezzo al giorno, ciò che per la BP significherebbe consolidare il proprio status di grande produttore nelle zone marittime. “È davvero grandioso” ha commentato Chris Ruppel, analyst in materia di energia della Execution LLC, banca d’affari londinese. “I progressi tecnologici ci stanno dando la possibilità di sprigionare risorse sconosciute o il cui sfruttamento risultava troppo costoso dal punto di vista economico”.
Ciò nonostante, se qualcuno concludesse che questo giacimento potrebbe aumentare rapidamente e facilmente la fornitura di petrolio del paese, si sbaglierebbe del tutto. Tanto per cominciare il giacimento si trova a circa 10.600 metri di profondità (più dell’altezza del Monte Everest, come ha specificato un giornalista del New York Times) e decisamente parecchio sotto il livello della superficie del Golfo. Per raggiungere il petrolio, gli ingegneri della BP dovrebbero perforare chilometri di roccia, sale e sabbia compatta e per riuscirci dovrebbero ricorrere ad attrezzature particolarmente costose e sofisticate.
Per rendere le cose ancora più complicate c’è da dire che il Tiber si trova esattamente nel bel mezzo di una zona del Golfo regolarmente flagellata da massicce tormente e da stagioni caratterizzate da forti uragani. Qualsiasi perforatrice, quindi, che cerchi di operare in zona, dovrà essere progettata per resistere a venti e a violente ondate e, rimanere inattiva per alcune settimane ogniqualvolta gli operatori siano costretti ad evacuare la zona.
Nel caso del giacimento di Tupi, l’altra grande scoperta degli ultimi anni, la situazione è molto simile. Situato a 320 chilometri ad est di Rio de Janeiro nelle profondità dell’Oceano Atlantico, Tupi è stato spesso descritto come il più grande giacimento di petrolio scoperto negli ultimi 40 anni. È stato calcolato che potrebbe contenere dai 5.000 agli 8.000 milioni di barili di petrolio recuperabili, una quantità che catapulterebbe il Brasile in prima linea tra i produttori di petrolio.
Sempre che, chiaramente, i brasiliani riescano a superare la loro lunga e sconfortante lista di ostacoli: il giacimento di Tipi si trova sotto 2.500 metri d’acqua di mare e circa 4.000 metri di roccia, sabbia e sale. Per accedervi sono necessarie tecnologie di perforazione all’avanguardia e super sofisticate. Si stima che il costo totale dell’intera operazione si aggirerebbe tra i 70 e i 120 miliardi di dollari e avrebbe bisogno di anni di dedicato lavoro.
Se si considerano i potenziali elevati costi che comporta il recupero di queste ultime riserve di petrolio, non sorprende che le sabbie bituminose del Canada siano l’altra carta che il mercato del petrolio è disposto a giocarsi. Non si tratta di petrolio in senso convenzionale ma di una miscela di argilla, sabbia, acqua e bitume (un petrolio molto pesante e denso) la cui estrazione esige l’utilizzo di tecniche di perforazione tipiche del settore minerario e il cui utilizzo, come combustibile liquido utile, richiede un pretrattamento ad alta intensità.
In realtà il fatto che le grandi società energetiche si siano fatte largo a gomitate per l’acquisto delle licenze per l’estrazione del bitume nella regione di Athabasca o del nord di Alberta, si spiega solo perché si è ormai convinti che il petrolio convenzionale e facilmente accessibile si stia ormai esaurendo.
L’estrazione di sabbie bituminose e la loro trasformazione in combustibile liquido utile è un processo costoso e molto complesso. L’urgenza del dover ricorrere a tali risorse spiega chiaramente il singolare stato di dipendenza energetica in cui versiamo. I depositi situati in superficie possono essere estratti con le tecniche delle miniere a cielo aperto, ma quelle che si trovano in zone più profonde del sottosuolo esigono l’utilizzo del vapore prima di tutto, per separare il bitume dalla sabbia e successivamente, per estrarre il bitume stesso. L’intero processo impegna enormi quantità di acqua e di gas naturale (necessari per trasformare l’acqua in vapore).
Una parte dell’acqua utilizzata proviene dallo stesso giacimento e si riproduce; c’è invece una quantità significativa che solitamente si muove attraverso la rete di approvvigionamento idrico di Alberta del Nord, cosa che ha provocato, tra i gruppi ambientalisti, il timore di una possibile contaminazione su larga scala.
A questi inconvenienti se ne possono aggiungere altri come ad esempio l’intenso processo di deforestazione che una miniera a cielo aperto implicherebbe e l’elevato consumo di un bene prezioso come il gas naturale necessario per l’estrazione del bitume. In ogni caso, la domanda dei prodotti che derivano dal petrolio che la nostra civiltà ha sviluppato è tale che l’obiettivo per il 2030 è quello di far sì che le sabbie bituminose generino circa 4,2 milioni di barili di combustibile al giorno (tre volte la quantità prodotta oggi).
Poco importa se tutto ciò presuppone la devastazione di intere zone di Alberta, il consumo di ingenti quantità di gas naturale, l’aumento del rischio di contaminazione e il sabotaggio degli sforzi che il Canada compie per diminuire le proprie emissioni di gas da effetto serra.
Nel nord dell'Alberta è possibile trovare un’ulteriore abbondante fonte di energia: i gas e il petrolio dell’Artico. Se in passato era già solo difficile sopravvivere in questa regione, ancor meno si sperava che potesse produrre energia.
In ogni modo, nella misura in cui il riscaldamento globale ha facilitato alle società energetiche l’accesso alle latitudini settentrionali, l’Artico è diventato oggetto di una nuova febbre petrolifera. La compagnia statale norvegese StatoilHydro controlla attualmente il più importante giacimento di gas naturale del circolo artico.
Un numero imprecisato di società di diverse zone del mondo ha a sua volta in mente di compiere una serie di esplorazioni nei territori artici del Canada, della Groenlandia (territorio danese), della Russia e degli Stati Uniti. Addirittura le perforazioni delle zone costiere dell’Alaska potrebbero essere presto messe all’ordine del giorno.
Non sarà semplice, tuttavia, ottenere petrolio e gas naturale dall’Artico. Anche se il riscaldamento globale aumenta le temperature e riduce lo spessore della cappa di ghiaccio polare, le condizioni per le attività petrolifere in inverno continueranno ad essere estremamente complicate e rischiose.
Le violente tormente e i bruschi cambi di temperatura continueranno ad essere all’ordine del giorno. Tutto ciò comporterà un alto rischio per qualsiasi gruppo sprovvisto degli adeguati equipaggiamenti di sicurezza ed un evidente ostacolo per il trasporto dell’energia.
Niente di tutto questo è riuscito, in ogni caso, a dissuadere una serie di società energetiche che, di fronte al panorama dell’imminente caduta degli investimenti energetici, sono assolutamente disposte a tuffarsi in acque gelate. “Nonostante le condizioni avverse, l’interesse nei confronti delle riserve di gas e petrolio nell’estremo Nord non ha fatto altro che aumentare”, afferma Brian Baskin nel Wall Street Journal.
“Praticamente tutti i produttori vedono nel sottosuolo artico la prossima grande fonte di risorse energetiche”. Ciò che è vero per il petrolio, lo è anche per il gas naturale ed il carbone: la maggior parte delle riserve energetiche convenzionali ed accessibili si stanno esaurendo rapidamente. Ciò che resta sono fondamentalmente fonti “non convenzionali”.
I produttori statunitensi di gas naturale, ad esempio, hanno registrato un significativo aumento della produzione locale che ha avuto, come conseguenza, una considerevole diminuzione dei prezzi. Secondo il Dipartimento di Energia, si calcola che la produzione di gas degli stati Uniti passerà dai 20 miliardi di piedi cubici nel 2009 ai 24 miliardi nel 2030. Un’autentica benedizione per i consumatori nordamericani il cui riscaldamento domestico e la cui elettricità dipendono per buona parte dal gas naturale.
In ogni caso, lo stesso Dipartimento di Stato ha anche segnalato che “il maggior contributo alla crescita della produzione di gas naturale negli Stati Uniti proviene dal gas naturale non-convenzionale visto che l’aumento dei prezzi e i passi avanti fatti nelle tecniche di perforazione hanno prodotto gli incentivi economici necessari allo sfruttamento delle riserve energetiche più costose”.
La maggior parte del gas non-convenzionale negli Stati Uniti si ottiene dalle sabbie compatte, anche se esiste una percentuale sempre maggiore che si estrae dalle rocce scistose attraverso un processo noto come frattura idraulica. In virtù di questo processo, si provoca il passaggio di acqua nelle formazioni scistose sotterranee allo scopo di rompere la roccia e sprigionare il gas. Le quantità di acqua utilizzate in questo processo sono decisamente abbondanti e alcuni ambientalisti temono che parte di quest’acqua, carica di sostanze inquinanti, possa finire nelle reti di approvvigionamento idrico.
D’altra parte esistono molte zone in cui l’acqua rappresenta una risorsa decisamente rara per cui la deviazione di ingenti quantità di questo bene per l’estrazione del gas potrebbe diminuire le quantità utili per l’agricoltura, per la salvaguardia del territorio e per il consumo civile. Si calcola, inoltre, che la produzione di gas proveniente da formazioni scistose passerà dai due miliardi di piedi cubici all’anno del 2009 ai quattro miliardi nel 2030.
Il panorama in materia di carbone non è poi così diverso. Molti ambientalisti hanno denunciato la combustione del carbone dato che produce più gas effetto serra per BTU prodotta che qualsiasi altro combustibile fossile. Ciò nonostante, l’industria elettrica nazionale continua a ricorrere al carbone perché risulta essere ancora una risorsa relativamente economica e disponibile.
Infatti, in ogni caso, bisogna dire che le fonti che producono maggiormente antracite e carbonio bituminoso (quelle che contengono il maggiore potenziale energetico) sono ormai esaurite. Pertanto, così come accade nel caso del petrolio, ciò che resta sono solo le fonti meno produttive e vasti depositi di un carbone con basso contenuto bituminoso, decisamente poco allettante e altamente inquinante, nella zona del Wyoming.
Per accedere a quello che resta il più prezioso carbone bituminoso nelle montagne Apalaches, le compagnie minerarie ricorrono sempre più ad una tecnica meglio conosciuta come rimozione di cime di montagna. John M. Broder del New York Times ha descritto questa tecnica come una “esplosione della superficie delle montagne in cui i detriti sono gettati in un riempimento della valle o nei corsi d’acqua”.
Non è certo un caso che questa tecnica sia stata fortemente contrastata dagli ambientalisti e dai residenti nella zona rurale del Kentucky, nel West Virginia, i cui corsi d’acqua risultano minacciati dai detriti di roccia, dalle polveri e da una ingente varietà di sostanze inquinanti.
Questa procedura è stata invece appoggiata dalla Amministrazione Bush che nel dicembre del 2008 ha approvato una normativa che consentiva un ampliamento della sua pratica. Il Presidente Obama si è impegnato ad abrogare tale normativa al fine di favorire l’utilizzo di “carbone pulito” come parte di una strategia energetica di transizione.
In conclusione: non prendiamoci in giro. Siamo ben lontani (per lo meno ancora) dalla tanto annunciata era delle energie rinnovabili. È possibile che questo giorno così glorioso arrivi, ma non prima della fine del secolo e non prima che la febbrile ricerca delle vecchie fonti di energia abbia causato una considerevole quantità di danni al pianeta.
Nel frattempo l’era dell’eccesso energetico sarà caratterizzata da una forma di dipendenza sempre maggiore nei confronti delle fonti energetiche meno accessibili e meno auspicabili del petrolio, del carbone e del gas naturale. Per tutto questo periodo assisteremo di sicuro ad intense battaglie che si svilupperanno attorno alle conseguenze ambientali dell’uso di queste fonti energetiche così poco attraenti. Le grandi società petrolifere e del carbone cresceranno ulteriormente come conseguenza degli elevati costi dei processi d’estrazione di petrolio, gas e carbone nelle aree di difficile accesso.
C’è solo una cosa sfortunatamente certa: l’era dell’eccesso energetico porterà intensi scontri geopolitici per il controllo delle fonti energetiche rimanenti, conflitti che si verificheranno tra i maggiori produttori e consumatori di energia come gli Stati Uniti, la Cina, l’Unione Europea, la Russia, l’India e il Giappone. Russia e Norvegia, per esempio, hanno già in corso un contenzioso di frontiera nel mare di Barents, una sicura fonte di gas naturale nell’estremo Nord.
Cina e Giappone hanno vissuto, d’altro canto, contenziosi simili per quanto riguarda il Mare della Cina Orientale, un’area che contiene un altro grande giacimento di gas. Tutti i paesi dell’Artico (Canada, Danimarca, Norvegia, Russia e Stati Uniti) hanno reclamato i loro diritti spesso sulle stesse porzioni di territorio dell’Oceano Artico cosa che ha provocato, in queste zone ricche di fonti energetiche, nuovi conflitti di frontiera.
Nessuno di questi scontri è degenerato ancora in conflitto violento ma hanno già avuto luogo alcuni spiegamenti di navi e di aerei da guerra ed è possibile che gli animi si riscaldino nel momento in cui aumenterà la consapevolezza del valore delle risorse in gioco. Non dobbiamo dimenticare tra l’altro che di fatto esistono già alcuni punti caldi legati ai conflitti per l’energia, in Nigeria, in Medio Oriente e nel Bacino del Caspio. Dopotutto, in quella che a breve sarà un’epoca caratterizzata da non pochi limiti energetici, di certo non possiamo escludere eventuali conflitti che si genereranno attorno alle sempre più appetibili zone in cui le fonti energetiche sono semplicemente accessibili.
Per molti di noi la vita nell’era dell’eccesso energetico non sarà per niente facile. I prezzi dell’energia aumenteranno, i pericoli ambientali si moltiplicheranno, quantità sempre maggiori di diossido di carbonio si riverseranno nell’atmosfera e il pericolo di possibili conflitti crescerà. Abbiamo solo due opzioni in grado di abbreviare quest’epoca complessa ed attenuarne l’impatto.
Sono entrambe assolutamente ovvie, cosa che purtroppo non rende più semplice la loro applicazione: accelerare drasticamente lo sviluppo delle fonti energetiche rinnovabili e diminuire sensibilmente la nostra dipendenza dai combustibili fossili, riorganizzando le nostre vite e la nostra società in modo da non dover ricorrere necessariamente al loro utilizzo in tutto ciò che facciamo.
Certo, la cosa sembrerebbe davvero semplice, ma provate a dirlo a chi governa il mondo. Alle grosse società energetiche. Non possiamo perdere le speranze e dobbiamo continuare a lavorare a tal fine. Nel frattempo però, tenete allacciate le cinture di sicurezza. Il viaggio sulle montagne russe sta per cominciare.
Michael T. Klare è professore di “peace and world security studies” nell' Hampshire College. il suo ultimo libro è “Rising Powers, Shrinking Planet: The New Geopolitics of Energy” (Metropolitan Books).
6 miliardi e 700 milioni di dollari
di Loretta Napoleoni - http://lanapoleoni.ilcannocchiale.it - 12 Novembre 2009
La debolezza del dollaro potrebbe inceppare il funzionamento del sistema monetario internazionale e questa settimana due episodi ci mettono in guardia sulle probabili conseguenze disastrose causate dall’erosione della centralita’ del dollaro nel mercato globalizzato: l’eccesivo indebitamento in dollari e l’aumento delle riserve aurifere delle economie emergenti.
Martedi’ scorso sulle pagine del Financial Times, Nouriel Rubini ( http://www.lavoce.info/lavocepuntoinfo/autori/pagina179.html ) , tra i pochi economisti che hanno correttamente predetto la crisi del credito, ha denunciato il carry-trade del dollaro e della sterlina. Gli operatori di mercato si stanno indebitando a breve in queste monete, perche’ deboli e perche’ i tassi d’interesse sono vicinissimi allo zero. Lo fanno per poi investire a lungo termine in quelle forti, quali l’euro e il franco svizzero, dove i tassi sono superiori.
E’ questo uno dei tanti espedienti che la finanza globalizzata usa per fare soldi dal nulla, si guadagna grazie ai differenziali dei cambi e dei tassi d’interesse; una prassi, va aggiunto, totalmente legittima. Eppure tutti sanno che a causare la bancarotta dell’Islanda non sono stati i mutui subprime ma il carry-trade dello yen. Dal 2001 al 2008 la moneta debole era infatti lo yen.
All’indomani del fallimento della Lehman, su tutte le piazze affari mondiali e’ iniziata la corsa all’acquisto dello yen per coprire le posizioni debitorie, cosi’ la moneta ha iniziato ad apprezzarsi. Gli islandesi, poco esperti sulle conseguenze negative del carry-trade, avevano un debito in yen talmente grande che non sono riusciti a coprirlo, nel mercato mondiale non c’era abbastanza liquidita’ per farlo. E quindi sono rimasti a guardare l’indebitamento in yen salire giornalmente, senza poter far nulla.
Secondo Roubini, la finanza globalizzata rischia un nuovo pericolosissimo carry-trade. Alla prima brutta notizia, che potrebbe anche essere di natura politica, iniziera’ la corsa all’acquisto del dollaro e della sterlina ed e’ probabile che qualcuno finira’ come l’Islanda, in bancarotta, mentre Stati Uniti ed Inghilterra vedranno le loro monete apprezzarsi senza poter far nulla per evitarlo.
Le economie emergenti temono quest’ennesimo shock monetario legato alla volatilita’ del dollaro ed hanno iniziato a vendere il biglietto verde per acquistare oro. La banca centrale indiana questa settimana ne ha comprato dal Fondo Monetario 200 tonnellate per un valore di 6,7 miliardi di dollari, pari all’8% della produzione aurifera mondiale.
A quanto pare il FMI voleva vendere perche’ ha bisogno di contanti per i piani di salvataggio dei paesi dell’ex blocco sovietico. E questo un altro episodio che ci deve far riflettere sui pericoli all’orizzonte dell’anemica ripresa economica mondiale.
Per ora non c’e’ da preoccuparsi troppo e dinfatti l’acquisto indiano ha fatto gravitare il prezzo dell’oro ulteriormente senza pero’ rompere la prossima barriera dei 1100 dollari l’oncia. Gli Stati Uniti continuano a essere il paese con le maggiori riserve aurifere, pari al 77% delle riserve ufficiali, seguiti dall’Europa che ne possiede in media il 60%.
Cina e India sono ancora lontani da questi valori con un modesto 2-4%. Ma negli ultimi mesi entrambi hanno iniziato a convertire le riserve in dollari in oro. Un trend questo che nei prossimi e’ bene tenere d’occhio.
Gli analisti concordi: gli Usa rischiano una nuova recessione
di Mauro Bottarelli - www.ilsussidiario.net - 10 Novembre 2009
«L'economia mondiale ha evitato un depressione estremamente minacciosa ma deve comunque affrontare una situazione molto complessa». Parole e musica di Jean-Claude Trichet, presidente della Bce e del G10, il gruppo che raccoglie i governatori delle maggiori banche centrali.
«Per quanto concerne le prospettive che dobbiamo affrontare in termini di economia reale, la situazione è molto complessa con un numero molto grande di parametri da tenere in conto» ha proseguito, citando la "disoccupazione". Bontà sua, nonostante i trionfalismi di molti suoi colleghi e le fiabe raccontate dall'Ocse, non siamo affatto alla fine del tunnel. Di più, non si intravede alcuna luce e c'è il forte rischio che se anche apparisse un chiarore ci sarebbe seriamente da chiedersi se non temere che si tratti di un treno che viene verso di noi in corsa.
Ne sanno qualcosa al serissimo New York Times che ieri ha attaccato pesantemente la politica economica del governo statunitense con un'inchiesta che metteva a nudo l'incapacità dei vari enti di offrire alla politica dati macroeconomici reali, distorcendo la realtà e sovrastimando, ad esempio, la valutazione del Pil. Veniva fatto l'esempio del comparto auto e in particolare di un componente come il carburatore: il quale nella maggior parte dei casi viene acquistato in Cina dove costa 50 dollari invece che negli Usa dove la sua produzione porterebbe il prezzo a 100 dollari.
Il fatto di non sapere o non segnalare la provenienza di quel carburatore crea un pesante handicap macro e quindi porta a calcoli e strategie potenzialmente fallaci: stesso discorso per il dato sulla produttività, il quale - come scrivemmo la scorsa settimana - non maschera altro che tagli strutturali e un aumento spaventoso della disoccupazione. Tanto più che ieri un forum di analisti contattati e messi attorno a un tavolo da Cnbc concordava sul fatto che senza ulteriori politiche stimolo - le stesse che Trichet a detto verranno ritirate nei tempi adatti - il prossimo anno gli Usa andranno incontro a una recessione a doppia cifra.
Per Kirby Daley, capo stratega al Newhedge Group, «l'America senza l'estensione delle politiche di stimolo e l'estensione dei programmi di incentivo incorrerà verso la fine del 2010 in una recessione a doppia cifra che getterà in uno stato drammatico l'intera economia mondiale». Per Sean Callow, analista monetario alla Westpac Bank, «c'è una seria possibilità di Pil negativo per gli Usa nel secondo trimestre dell'anno prossimo, ipotesi che apre le porte a un orizzonte recessivo. Se a questo uniamo la contrazione del credito dei consumatori e la distruzione dello stato di salute dell'household balance sheet, sarà ben difficile poter governare e condurre una ripresa». Insomma, gli analisti concordando: tagli dei consumi e disoccupazione galoppante sono i veri indicatori di allarme. Chissà che anche Trichet adesso ci sia arrivato. In compenso, però, la Borsa corre e festeggia su queste prospettive. Addirittura, stando all'inserto economico del Corriere della Sera, la maggior parte degli analisti crede a un'ulteriore crescita dei listini anche del 10% entro la fine dell'anno: difficile dargli torto con il clima di euforia vigente e mantenuto in vita dal muro di liquidità a costo zero pompato da governi e istituzioni monetarie. C'è però anche un'altra faccia di questa corsa, una faccia che si palesa poco ma che deve farci pensare. Domenica, infatti, l'inserto Business del Sunday Times svelava in esclusiva che pochi giorni prima la Bank of England e anche altre banche centrali del mondo avevano garantito un prestito di 165 miliardi di sterline a Lloyds Tsb, la quale senza quell'intervento di emergenza sarebbe incorsa a breve «in un pesantissimo rischio da rifinanziamento». Lloyds, infatti, si era lanciata sul mercato per un aumento di capitale da 21 miliardi di sterline al fine di evitare il finanziamento da parte del governo e di fatto la nazionalizzazione ma lo ha fatto mettendo a rischio la sua stessa esistenza: e stiamo parlando di pochi giorni fa, non di quelli immediatamente successivi al crack Lehman Brothers. E parliamo di Lloyds, non di una banca regionale di El Paso o del Wyoming. La follia della crisi non solo non è passata ma è divenuta regola per far profitti maggiori e più in fretta, almeno finché il mercato del toro artificiale reggerà. Per quanto non si può dire con certezza, sicuramente dalla prossima primavera in poi ci troveremo di fronte a scenari molto, molto complessi e differenti. Il dollaro, stimano gli analisti, si rafforzerà anche del 20% mentre la sterlina - e questo potenziale crack bancario appare solo il segnale di una debolezza strutturale del sistema britannico, tanto che la Bank of England sta ormai giocando con il fuoco del quantitative easing e quindi del rischio debito fuori controllo portando il suo programma a 200 miliardi di sterline - entro marzo-aprile andrà a 0,95 sull'euro. Ma il problema non riguarda solo Usa e Gran Bretagna, visto che in un sistema così globalizzato quello dell'effetto domino è il rischio più grande che corrono i mercati: oggi San Paolo-Intesa e Unicredit presentano le loro trimestrali, vedremo un po' come saranno i conti. Di certo gli istituti italiani non si sono mai lanciati in operazioni folli come quelli statunitensi, inglesi o anche tedeschi ma resta il nodo irrisolto di finanziamenti a imprese e famiglie, soprattutto alla luce della scelta dei due istituti di non accettare la strada dei Tremonti-bond e cercare sul mercato - quindi senza vincoli verso il Tesoro - i mezzi per ricapitalizzare e rimettere in sesto le riserve. Non temete, non ci sono casi Lloyds all'orizzonte in Italia ma il problema è che ci sono molti, potenziali casi Lloyds nel mondo: tutti i grado di fare molti, molti danni. E questo lo sanno anche Corrado Passera e Alessandro Profumo. O almeno dovrebbero. Visto che ieri, le agenzie di stampa sembravano voler dar vita a uno scherzo del destino mettendo una dopo l'altra queste notizie di cui riporto il titolo: “Lettonia/ Pil terzo trimestre crolla del 18,4%. Inflazione -0,9%” seguito quattro minuti dopo da “Banche: Unicredit, in Est Europa torneranno a crescere da 2011”. Certo, se riescono a disincagliare i crediti bloccati e trasformati in bad assets dalla gelata della crisi e se il Fondo Monetario continuerà generosamente a pompare soldi. Lì come in Ucraina, Estonia, Lituania ma anche Repubblica Ceca, Romania e Bulgaria: quantitative easing come unica exit strategy sembrano dire i mercati, viste anche le reazioni delle Borse. Peccato che quella sia la strada che porta al default sul debito. Ma d'altronde in un mondo in cui il numero uno di Goldman Sachs si permette di dire al Sunday Times che «le banche stanno facendo il lavoro di Dio» e che «i bonus sono il segnale di ripresa dell'economia», tutto può accadere. Davvero. Anche che nostro Signore da lassù mediti querela. Nove segni dell'America in declino di Rick Newman - www.usnews.com - 26 Ottobre 2009 Traduzione per www.comedonchisciotte.org a cura di Mad Il cielo non ci sta cadendo sulla testa, non esattamente. Gli Stati Uniti non sono sulla corsia preferenziale verso l’irrilevanza. Persino in uno stato di totale abbandono, potremmo probabilmente trascinarci per qualche altro decennio da arruffata superpotenza. Cinque posti piu` in giu` dell’anno scorso. Quando gli Stati Uniti si trovavano al quarto posto. La discesa nella classifica potrebbe sembrare priva di conseguenze, specialmente nel mezzo di un’estenuante recessione – se non fosse che la maggior parte del mondo ha sofferto la stessa recessione, ed altre nazioni si stanno riprendendo piu` in fretta. Per un’economia enorme come quella statunitense un nono posto in classifica e` ancora rispettabile. E causa parziale della discesa dal quarto posto dell’anno scorso e` un cambiamento nella metodologia, che pone maggior enfasi sulla salute e la sicurezza dei cittadini. Pero`, nelle sottoclassifiche dell’Indice, gli Stati Uniti non sono nemmeno tra i primi 10 per elementi economici fondamentali, sicurezza o governo. Dovremmo fare meglio. Ed in un sondaggio della GfK Roper su come alcune nazioni siano considerate come “marchi” globali, gli Stati Uniti sono schizzati dal N.7 nel 2008 al N.1 nel 2009, soprattutto perche` il mondo ha salutato con entusiasmo l’elezione di Barack Obama a presidente degli Stati Uniti. Ma un leader di un marchio globale non puo` semplicemente sforzare la propria nazione di nuovo verso la gloria. Ha bisogno di molto aiuto da cittadini educati, sani ed impiegati, che siano determinati a condividere la propria prosperita`.
Ma tutti gli imperi finiscono, ed i segni premonitori del declino statunitense sembrano brillare con piu` forza. Nel piu` recente “indice di prosperita`”, pubblicato dall’Istituto Legatum, un istituto di ricerca con base a Londra, gli Stati Uniti sono al nono posto in classifica per la nazione piu` ricca del mondo.
Per esempio la Cina e l’India si sono riprese elegantemente dalla recessione. Il Brasile sembra essere in rapida ripresa. L’Australia sta crescendo piu` velocemente del previsto, tanto da fare temere ai propri governanti di avere stimolato l’economia in maniera eccessiva. Ed intanto gli Stati Uniti si dibattono in una debole ripresa, in mancanza di nuovi posti di lavoro, e con una serie di altri problemi che potrebbero rendere la prosperita` un bene elusivo per ancora molto tempo.
Continuano ad esserci milioni di Americani diligenti e innovativi, che potrebbero aiutare la Nazione a tirarsi fuori da questo buco. Ma nel complesso la popolazione Americana tira indietro in una varieta` di modi. Eccone alcuni:
Posti di lavoro. Il Fondo Monetario Internazionale prevede che il tasso di disoccupazione statunitense rimarra` al 9,3% durante tutto il 2010. Meno che in alcune nazioni europee, ma di piu` che non in Canada e molto peggio che nella maggior parte dei paesi scandinavi ed in Asia. Considerato tutto, il tasso di disoccupazione degli Stati Uniti e` nella media per un paese sviluppato ed e` probabile che rimarra` cosi`. Potrebbe essere peggio, ma la capacita` di creare posti di lavoro non e` un segno di leadership globale.
(vedi anche “7 modi per sopravvivere a una ripresa senza nuovi posti di lavoro”)
Crescita economica. Il FMI prevede inoltre che l’economia statunitense crescera` dell’1,9% nel 2010. E` un pochino meglio della media per le economie avanzate, ma almeno 10 nazioni sviluppate cresceranno piu` in fretta. Evviva. Tre urra` per la mediocrita`.
Povertà. Il tasso di poverta` negli Stati Uniti, circa il 17%, e` il terzo peggiore tra le nazioni avanzate studiate dall’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico. In quel campione, soltanto la Turchia ed il Messico hanno un tasso peggiore.
Educazione: i giovani statunitensi di 15 anni hanno risultati al di sotto della media tra le nazioni avanzate in matematica e scienze. Ma non preoccupatevi, i futuri leader della nostra nazione hanno un punteggio maggiore dei loro simili in Messico, Turchia, Grecia ed alcuni altri posti.
Competitività. Nell’ultimo rapporto sulla competitivita` globale del Forum Economico Mondiale, gli Stati Uniti sono caduti dal primo al secondo posto. Certo, consoliamoci che al primo posto c’e` la piccola Svizzera, esterna all’unione, e che essere spodestati dalla prima posizione non sembra avere poi un gran significato. Aggiungi una nota a pie` di pagina e siamo ancora il numero uno.
(vedi anche “5 miti sulla ripresa economica”)
Prosperità. Le nazioni piu` ricche, secondo il rapporto dell’Istituto Legatum, sono la Finlandia, la Svizzera, la Svezia, la Danimarca e la Norvegia. Questi paesi europei piuttosto omogenei sono i cocchi di mamma delle classifiche globali, ed appaiono spesso in cima alle classifiche grazie ad economie a misura del loro paese ed un sottoproletariato quasi inesistente.
Salute. Nello studio Legatum, gli Stati Uniti sono al 27esimo posto per la salute dei loro cittadini. La speranza di vita in America e` inferiore alla media tra 30 nazioni avanzate misurata dall’OCSE, ed il tasso di obesita` americano e` di gran lunga il peggiore tra le 30 nazioni. E, ovviamente, spendiamo molto di piu` a persona in sanita` che chiunque altro – ma i nostri soldi non danno grandi risultati.
Benessere. Nell’Indice di Sviluppo Umano delle Nazioni Unite, che cerca di misurare il benessere complessivo dei cittadini nel mondo, gli Stati Uniti sono al 13esimo posto, uno al di sotto dell’indice emesso precedentemente. La Norvegia, l’Australia, l’Islanda e il Canada sono in cima.
(vedi anche “4 nazioni con una sanita` migliore della nostra”)
Felicità. Gli Stati Uniti sono all’undicesimo posto come misura di “soddisfazione di vita” dell’OCSE – al seguito di Danimarca, Finlandia, Paesi Bassi e degli altri soliti sospetti. Non e` male, ma gli Stati Uniti sono una delle solo quattro nazioni in cui la soddisfazione di vita e` in discesa, e non in salita. Le altre nazioni in discesa sono il Portogallo, l’Ungheria, il Canada ed il Giappone. Inoltre, la ricerca dietro questa particolare classifica precede la recessione, quindi e` probabile che gli Stati Uniti siano parecchio meno soddisfatti al giorno d’oggi.
Il ritratto degli Stati Uiniti che viene fuori da queste ed altre considerazioni non e` solo cupo; vi sono aree in cui sembra che continuiamo ad avere un importante vantaggio. Per esempio, l’indice di prosperita` Legatum mette gli Stati Uniti al primo posto per imprenditoria ed innovazione.
Estulin: il G-20 si riunisce in Scozia questa settimana per scaricare il dollaro Usa
da www.prweb.com - 3 Novembre 2009
Traduzione per www.comedonchisciotte.org a cura di Luca Paolo Virgilio
L’autore di best-seller Daniel Estulin afferma che la questione centrale che verrà discussa questa settimana al meeting dei Ministri delle Finanze e dei Governatori delle Banche Centrali, organizzato a St. Andrews in Scozia, sarà come far crollare l’attuale sistema finanziario mondiale scaricando il dollaro.
Prima di tutto, Estulin ha raccontato che quest’iniziativa è stata decisa nell’ultimo incontro del Gruppo Bilderberg, tenuto a maggio in Grecia. Estulin afferma che la riuscita o il fallimento di questo piano bieco dipenderà dalla capacità dei rappresentanti di USA e Regno Unito di convincere i governi russo, cinese e altri ad accettare il progetto.
Estulin sostiene che se i cospiratori hanno successo, una svalutazione così immediata del dollaro condurrebbe al tracollo dell’economia mondiale attraverso un collasso a catena dell’intero sistema finanziario globale. Come discusso nel conclave top-secret del Gruppo Bilderberg a maggio scorso, questo crollo verrebbe utilizzato come scusa per lanciare un nuovo sistema monetario mondiale.
I leader del G-20 sono consapevoli che chi guida i mercati monetari, il sistema monetario, controlla il mondo. Ecco perché oggi il mondo è governato per mezzo di un sistema dominato da una singola valuta e non da sistemi di credito nazionali.
Una grave crisi colpirebbe ogni angolo della Terra e sarebbe il preludio a instabilità, guerre e ostilità generalizzate a livello finanziario, geografico e geopolitico, interessando così non solo determinati paesi, ma società, culture e interi continenti. Una tale crisi potrebbe portare a un consolidamento del sistema monetario mondiale.
Estulin dichiara che la creazione della nuova valuta mondiale è il vero significato della globalizzazione, che non è altro che un impero. È la distruzione dello stato-nazione, la degradazione delle libertà nazionali individuali e la depredazione dei diritti civili.
Far cadere il dollaro, innanzitutto, è un assalto alla struttura dell’economia americana verso la creazione di una “Azienda Globale”. Quest’idea, dice Estulin, fu inizialmente discussa alla riunione del Gruppo Bilderberg nell’aprile del 1968, tenuto a Mont Trembland in Canada, da George Ball, un banchiere di Lehman Brothers ed ex sottosegretario agli affari economici sotto i Presidenti John Kennedy e Lyndon Johnson.
L’obiettivo di quest’Azienda Globale, nelle parole di Ball, era di “eliminare l’arcaica struttura politica dello stato-nazione” in favore di una più “moderna” struttura aziendale. Ball chiese anche una maggiore integrazione in Europa, e poi nel resto del mondo, come prerequisito per allargare i poteri di un’Azienda Globale, ponendo così i finanzieri sullo stesso livello dei governi.
Secondo Estulin quest’iniziativa, ovvero l’abbandono del dollaro come moneta internazionale, è il vero intento del meeting del G20 del 6 e 7 novembre a St. Andrews, in Scozia, già luogo della conferenza Bilderberg del 1998.