Qui di seguito un altro aggiornamento sulla quotidianità italiota, con uno sguardo speciale su ciò che in Italia ormai spopola in tutti gli strati della società dai 12/13 anni di età in avanti: la cocaina.
La caduta del Muro nell'Italia di Berlusconi
di Eugenio Scalfari - La Repubblica - 8 Novembre 2009
Ricorre domani l'anniversario della caduta del Muro di Berlino. La fine della guerra fredda. Sono passati vent'anni e sembra un secolo. È cambiata l'Europa, è cambiato il mondo ed è cambiata l'Italia. Forse è proprio l'Italia ad aver registrato un cambiamento maggiore che non gli altri paesi.
Spesso ci sorprendiamo a dire che, al di là delle apparenze, i problemi che affliggono il nostro paese sono sempre gli stessi. Ed è vero, ma è altrettanto vero che la società del nostro paese è profondamente diversa da quella del 1989. Il suo rapporto con le istituzioni, il suo rapporto con se stessa, la percezione che gli individui hanno della propria felicità.
Su questo aspetto è necessario riflettere perché coinvolge i modi di pensare, i comportamenti, il rapporto dei padri con i figli, l'assetto delle famiglie, la politica, la democrazia. Vent'anni fa il potere si identificava con la Dc di Giulio Andreotti e il contropotere antagonista con il Partito comunista italiano. Oggi il potere è Silvio Berlusconi, e il contropotere è disperso, cerca di ricompattarsi ma non ci riesce.
Ha scritto ieri Gustavo Zagrebelsky che la difficoltà va ricercata nella società civile perché sia il potere sia il contropotere emanano dal fondo del paese; non sono fenomeni che galleggiano nel vuoto, effetti privi di cause. Non si manterrebbero neppure un mese se la società esprimesse il proprio dissenso e il proprio malcontento. Se ciò non avviene, è dunque nella società civile che bisogna fissare lo sguardo.
Chiedersi che cosa è accaduto dalla caduta del Muro in poi, fino ad arrivare ai giorni nostri.
Il fatto più rilevante prodotto dalla caduta del Muro è stato la fine delle ideologie. Tutti si rallegrarono, sembrò qualcosa di simile alla rottura di un cordone ombelicale, un'immensa svolta di libertà, il passaggio dalla società dell'infanzia sottoposta a ferrea tutela ad una fase finalmente adulta di consapevolezza e di responsabilità.
Era questo il mutamento? Così fu festeggiato, non soltanto dai berlinesi e dalla Germania finalmente unificata, ma dal mondo intero.
In Italia vi fu un'analoga percezione. Dopo una lunga fase di politica ingessata con le bende dell'ideologia, si era finalmente liberi di decidere con la propria testa facendo saltare i castelli di carta, le "caste", i luoghi comuni degli spot e degli slogan. Contenuti invece di propaganda, problemi e programmi concreti invece di fittizie barriere e sterili contrapposizioni.
Il potere si spaventò: si liquefaceva il cemento che aveva tenuto insieme sensibilità e interessi contrastanti. Il contropotere ebbe analoga percezione: il crollo del Muro aveva sancito la sconfitta definitiva del comunismo e l'implosione del sistema imperiale dell'Urss. Achille Occhetto, allora segretario del Pci, proclamò la fine del Partito comunista e l'approdo sulla sponda democratica concludendo così la lunga e decennale marcia di avvicinamento iniziata da Enrico Berlinguer.
Niente più ideologie e finalmente una democrazia compiuta. Nel resto d'Europa non vi furono, almeno in apparenza, fatti così traumatici. Quasi in nessuna delle grandi democrazie esistevano partiti comunisti di massa. In alcuni non ce ne era neanche l'ombra. Al di là delle apparenze tuttavia, i mutamenti furono altrettanto profondi.
Per tutta la seconda metà del XX secolo infatti la politica aveva adottato sistemi di liberaldemocrazia sociale e mercati economici liberi ma regolati da norme, meccanismi di redistribuzione del reddito in favore dei ceti più deboli, interventi pubblici nella sanità e nella previdenza. Fu una grande stagione di liberal-socialismo, seguita ad una guerra rovinosa cui subentrò un sentimento di pacifismo largamente diffuso.
La caduta del Muro sancì la sconfitta storica del comunismo e liberò energie insofferenti di ogni regola, anche di quelle che presidiavano lo Stato sociale. L'implosione del comunismo produsse effetti anche sui partiti socialisti e socialdemocratici. Il pendolo non si arrestò a mezza strada. Non ci furono traumi, ma una graduale erosione della sinistra europea che durò a lungo ed è infine esplosa in tutta Europa.
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In Italia il trauma della caduta del Muro ebbe come suo primo effetto una ribellione della società civile contro la corruttela che nel corso degli anni Ottanta era diventata sistema di governo decaduto al rango di comitato d'affari della partitocrazia. L'inchiesta giudiziaria che fu poi denominata "Mani Pulite" contro la "Tangentopoli" della casta al potere era stata preceduta da una sorta di furore che mobilitò per la prima volta non solo la sinistra ma gran parte dei ceti medi. Non era mai accaduto, il vincolo della guerra fredda imponeva che gli steccati ideologici venissero scavalcati e che si formasse una sola opinione pubblica.
Senza questo vero e proprio trauma, l'inchiesta giudiziaria del 1992 non sarebbe avvenuta e comunque non avrebbe avuto l'appoggio trascinante che si verificò. Sbaglia chi oggi sostiene che le forze politiche di governo furono decapitate dai magistrati "rossi": Borrelli era un liberale, Di Pietro e Davigo più di destra che di sinistra; gli altri membri del "pool" si identificavano soprattutto con il loro ruolo di magistrati e non hanno mai smentito con i fatti questa loro lodevole identificazione.
Il furore popolare durò fino al '93, poi sbollì con la stessa rapidità con la quale si era manifestato. E rifluì.
Il grande e sempre più indistinto ceto medio di vocazione moderata era stato il vero protagonista della distruzione dei partiti di governo. Aspirava ad una rappresentanza politica e ad una partecipazione diretta. La classe operaia si era sfaldata, un ceto di artigiani, piccoli e piccolissimi imprenditori-lavoratori aveva popolato di officine e capannoni la larga fascia che da Brescia si irradia verso Treviso da un lato e la Romagna e le Marche dall'altro.
Milioni di persone non avevano altro desiderio che di abbattere i famosi "lacci e laccioli", cioè le regole che presidiavano il corretto funzionamento del mercato, e di poter correre, anzi galoppare in una sterminata prateria dove mettere alla prova le loro capacità di iniziativa e di laboriosità. Magari aiutandosi anche con il lavoro nero e con l'evasione fiscale contro le dissipazioni di "Roma ladrona".
La Lega lavorò su questo tessuto sociale. Berlusconi lo amplificò su scala nazionale. Tutti e due ci misero dentro una robusta dose di paura per la sicurezza personale e fu questo il cocktail micidiale che fece oscillare il pendolo politico dal furore moralistico dei primi anni Novanta verso la destra. Ma quale destra?
Non starò qui a ricordare le caratteristiche di questo movimento che vide in Berlusconi l'Uomo della Provvidenza. Dico soltanto che nel frattempo la percezione della felicità era profondamente cambiata: si vive attimo per attimo e in ogni istante si può e si deve spremere il succo di una felicità da godere qui e subito. La trasmissione della memoria si è bloccata. Il futuro è sulle ginocchia di un Dio, dovunque si trovi e ammesso che ci sia. Si confida comunque nei miracoli e meno male che Silvio c'è.
Fino a poco fa eravamo a questo punto.
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Nel frattempo il vecchio Partito comunista aveva buttato alle ortiche il suo nome ma non si era sciolto per rifondarsi eventualmente su nuove basi ideali e sociali. Aveva cercato di preservare le proprie strutture, la propria classe dirigente, i propri insediamenti organizzativi. Perdendo per strada la parte ancora fortemente ideologizzata che non aveva digerito il contraccolpo della Bolognina. Guidato da D'Alema, poi da Veltroni, poi da Fassino. E fu proprio Fassino a mettere la parola fine, quella veramente definitiva, fondando il Partito democratico insieme ai cattolici e ai liberaldemocratici della Margherita.
Questa è stata la novità prodotta dall'Italia non berlusconiana. In mezzo a molti errori e a deplorevoli rivalità, la nascita di un partito democratico e riformista è stato il principale strumento d'una possibile ripresa quando il grosso della società civile deciderà che la strada del berlusconismo sta per sboccare in una rischiosissima avventura.
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"Di fronte al fantasma che si aggira per l'Italia in queste ultime settimane, cioè alla proposta di un'elezione popolare diretta del Primo Ministro o del Capo dello Stato, non mi spavento ma mantengo tutte le gravi obiezioni che ho già altre volte espresso nei confronti di ogni forma di presidenzialismo. Non è certo un modo comprensibile alla gente, il parlare, un giorno dopo l'altro, in forme confuse e contorte, di vari presidenzialismi più o meno importati, dei quali anche coloro che le propugnano non hanno manifestamente conoscenza adeguata e meditata.
Credo inoltre che far ruotare per intere settimane una crisi politica intorno a problemi costituzionali sia pure urgenti, equivalga ad una contorsione violenta della soluzione politica di problemi attualissimi e preliminari. Essi sono: l'avvio più deciso del risanamento delle finanze pubbliche, la crescente emergenza disoccupazionale, soprattutto giovanile, la soluzione dei nodi vitali del Meridione, le regole per una disciplina antitrust e quelle per un'informazione pubblica oggettiva e paritaria.
Questo 'urgente più urgente' sembra essere ignoto o comunque del tutto posposto dai principali protagonisti di questa crisi politica che sembrano altrettante maschere tragiche di questa assurda vicenda".
Questo testo non è mio né è stato scritto oggi. L'autore è Giuseppe Dossetti e la data è il 2 febbraio 1996, vigilia d'una campagna elettorale che portò il centrosinistra di Romano Prodi alla guida del Paese. Il berlusconismo non era ancora nella sua pienezza tant'è che fu sconfitto, ma aveva già conquistato una parte notevole della società italiana come si vide pochi anni dopo quando Prodi fu abbattuto anzitempo da "fuoco amico".
Richiamo l'attenzione di chi mi legge sulle parole di Dossetti. Il presidenzialismo può essere uno dei modi della democrazia se rispetta ed anzi rafforza i poteri di controllo, i poteri di garanzia, i poteri neutri e insomma lo Stato di diritto; ma può esserne la tomba se si propone come unico potere autoritario e plebiscitario.
A questo sta mirando il presidente del Consiglio, che comincerà tra breve con una riforma della giustizia con due obiettivi: bloccare i processi che lo riguardano e smantellare il Consiglio superiore della magistratura. Intanto prosegue lo smantellamento di ogni pluralismo nella Televisione pubblica.
Seguirà il tentativo di cambiare la composizione della Corte Costituzionale per renderla più arrendevole al potere politico. Sarà infine la volta di un mutamento radicale della Costituzione con l'elezione diretta del Capo dell'Esecutivo, quando già i poteri di controllo e di garanzia saranno stati resi evanescenti.
Questa è la situazione in cui ci troviamo vent'anni dopo la caduta del Muro e delle ideologie. Sono cadute tutte ma una ne è rimasta ed è molto più ingigantita: è l'ideologia del potere per il potere, il potere intoccabile e incontrastato, una sorta di Leviatano del XXI secolo che ha nelle sue mani le tecnologie del XXI secolo: un altro cocktail micidiale. Perciò è l'ora di serrare i ranghi e non sparpagliarsi. Ed è ora che la società civile prenda coscienza di quanto accade e assuma su di sé la responsabilità di metter fine a questa sciagurata avventura.
Berlusconi? Cade a marzo
di Andrea Scanzi - http://temi.repubblica.it/micromega-online - 5 Novembre 2009
Intervista a Daniele Luttazzi
Il satirico più amato e odiato d’Italia non si ferma. Nuova stagione teatrale, tournèe musicale per i club, palestra comica nel suo blog, blitz a RaiNews24 e un libro per Feltrinelli. Daniele Luttazzi è ovunque, tranne che in tivù. E ha una certezza: “Silvio Berlusconi è finito, a marzo cade”.
Perché riprendere la parodia di Susanna Tamaro?
“In origine era uno spettacolo del ’96, l’autrice mi fece causa e la perse. La prima di una lunga serie. L’ho riscritto per più di metà, il tono è satirico-surreale. Il libro della Tamaro esprimeva tutti quei valori, per me decrepiti, che ne spiegavano il successo. Valori da spazzare via con la satira: si percepiva che portavano con sé qualcosa di fascistoide. Ora quei valori sono diventati un programma di governo. Un incubo esistenziale per molti. Non a caso adesso l’autrice scrive per Famiglia Cristiana”.
Lo spettacolo comincia con un’affermazione impegnativa: “Questo monologo celebra la fine del regno birbonico”.
“Con la bocciatura del Lodo Alfano, Berlusconi giustamente dovrà andare a processo. Tutto un sistema di potere che convergeva sulla sua figura si dissolverà come neve al sole. Credo verso marzo. Andremo a elezioni anticipate, governo tecnico, eccetera. Berlusconi è finito: do questa bella notizia ai lettori. Ora bisogna occuparsi di chi Berlusconi ce l’ha messo. Ovvero gli italiani. Berlusconi è l’ennesima espressione dell’eterno fascismo italico, che come un fiume carsico viene ciclicamente in superficie e provoca danni. Come diceva Petrolini quando qualcuno dal loggione lo importunava: “Io non ce l’ho con te, ce l’ho con quello accanto a te che non te butta de sotto”. Ecco: gli italiani sono quelli accanto a lui. Berlusconi è finito, il berlusconismo no”.
Se gli italiani restano malati di fascismo congenito, perché Berlusconi cadrà a marzo?
“Alcuni indicatori - settori della finanza, economia, politica, industria, Vaticano, USA - segnalano, come un aumento di radon dal sottosuolo, che Berlusconi anche per loro è superato. Da adesso fino a marzo sarà solo un problema di tempi tecnici. Berlusconi andrà a processo, verrà condannato e materialmente salterà. E’ stato già mollato. Servono altri personaggi, dicono Fini. Lo Stato, a quel livello cui noi non abbiamo accesso, non può permettere che uno come Berlusconi demolisca i fondamenti della Costituzione”.
C’entra anche l’immagine dell’Italia all’estero?
“Un po’ sì. Non è possibile che gli italiani siano diventati lo zimbello d’Europa per colpa di una persona malata, che ha problemi con le donne e con l’universo mondo. Questo però, attenzione, è solo l’epifenomeno. E’ molto più grave che Tremonti e Berlusconi, da un punto di vista economico, non abbiano fatto nulla per uscire dalla crisi economica. Assolutamente nulla, anche se il Tg1 di Minzolini non lo dice”.
Anche il Vaticano ha scaricato Berlusconi?
“Sì. La Chiesa è così: finché Berlusconi ha uno stalliere mafioso in casa, va bene. Falso in bilancio, corruzione, leggi ad personam: okay. Se però Berlusconi va a letto con una puttana, allora no, questo non si può fare. Spero che abbiano capito che non esiste una persona più profondamente anticattolica di Berlusconi. I suoi riferimenti sono altri, il suo stesso mausoleo non brilla certo per simbolismi cristiani”.
Lei non è mai stato tenero con il Pd. E’ diventato più indulgente dopo le primarie?
“No. Lo dicevo anche due anni fa, in due interviste a Repubblica e Unità. Stavano tirando la volata a Veltroni e mi chiesero cosa pensassi del Pd. Io risposi che il Pd era un’inevitabile stronzata. Tagliarono domanda e risposta. Il Pd è un progetto inconsistente e sbagliato. Anche la narrazione del Pd è inadeguata. Il Pd non sa chi rappresenta: a chi parla? Cosa dice? Non lo sa. Va sempre in televisione, ma parla a vanvera. Non ha alcuna efficacia. Sentire D’Alema che parla di 'amalgama non riuscito' e vederli ancora impegnati nelle baruffe chiozzotte, non stupisce. Però, anche qua: perché un satirico due anni fa c’era arrivato e gli Scalfari no? Stanno ancora lì a fare propaganda”.
Chiederlo a lei fa un po’ ridere, ma esiste un problema di libertà d’informazione?
“Certo. All’origine di tutto c’è il conflitto di interessi berlusconiano. Inoltre, in Italia, la voce libera da appartenenze non ha accesso. Esistono clan di sinistra, clan di destra, chiesa, massonerie. Ciascuno difende interessi particolari. Io aspetto ancora che Repubblica faccia una seria inchiesta sulla Sorgenia di De Benedetti, sui progetti Sorgenia di produrre energia bruciando paglia o metano ad Aprilia e in Val D’Orcia. Oltretutto il progetto Aprilia fu autorizzato da Pierluigi Bersani, quando era ministro. E aspetto ancora che qualcuno chieda conto ai maggiori propagandisti italiani della guerra in Iraq, Giuliano Ferrara e Carlo Rossella, delle centinaia di migliaia di morti innocenti. L’ottava puntata di Decameron parlava di questo, ma mi hanno sospeso alla quinta”.
Internet è più libero?
“Su Internet ho enormi riserve. Innanzitutto è un Panopticon micidiale: i carcerati sono anche i carcerieri. Chi interviene in un blog, è osservatore e osservato. I suoi gusti sono monitorati sempre. La tua personalità viene trasferita interamente in Rete, fino al caso micidiale di Facebook. A quel punto non avrai più difese: c’è un’area del pudore che Internet violenta costantemente. Baudelaire diceva che l’artista è sempre quello che mantiene viva la sua vulnerabilità, la sua sensibilità. Quello che non viene ottuso dall’alienazione. Se non ti proteggi, ti offri alla violenza. Il web diventa uno spazio molto impudico. Inoltre il web favorisce il populismo, come dimostra il caso Grillo. Fra l’altro, la sua 'democrazia dal basso' non è che marketing partitico in cui sono esperti quelli della Casaleggio Associati, la società che ne segue le mosse. Il modello è la guerrilla advertising del Bivings Group”.
Però almeno Grillo ha sciolto l’ambiguità: non più satirico, ma politico. Quello che lei gli aveva chiesto dopo il primo V Day.
“Sì e no. L’ambiguità non è stata risolta completamente. Grillo ha creato un partito. Da quel momento, ogni suo punto di vista è pregiudiziale. Fine della satira. Adesso i suoi sono comizi. A pagamento. La satira è politica, ma l’attività partitica è un’altra cosa. Al Franken, grande satirico, si è candidato coi democratici, ora è senatore, e ha subito smesso di fare spettacoli satirici. Grillo no”.
Il satirico, in tutto questo, che ruolo ha?
“Far ridere commentando i fatti. Quando funziona, i bersagli non ridono. Il satirico inquadra il problema e lo mette in prospettiva. Non dà indicazioni su come comportarsi o dire per chi votare, ma fa sì che ognuno si interroghi e cominci un percorso personale di approfondimento. L’arte fa questo: ha tempi più lunghi della politica, ma è inesorabile. Rimane. La satira ha il ruolo della poesia:
apparentemente nullo. Ma bisogna credere in ciò che si fa. Poi, una volta scoperte certe cose, il pubblico potrà anche rimpiangere il Matrix di prima, perché magari aveva un buon sapore. Ma il compito del satirico resta quello: provare a svelare il Matrix”.
Molti satirici si sono avvicinati a Di Pietro. Lo stesso Travaglio, da lei “lanciato” in tivù, non lo nasconde. Luttazzi no. Perché?
“Sarebbe un atteggiamento di parte. La satira non è propaganda per questo o quel partito. Con la sua arte, il satirico ricrea un’agorà in cui suggerisce dubbi e lascia liberi di decidere. L’arte ha tempi più lunghi della politica, ma è inesorabile. La satira ha una sua nobiltà, di tipo artistico, molto più potente della semplice denuncia partitica. L’artista è il primo che deve mettersi in discussione, non deve credere di avere sempre ragione. Si tratta di rispettare il pubblico, non di plagiarlo. Io ho ricevuto una solida educazione cattolica. Agli inizi mi capitava di dire battute sulla religione che mi facevano molto ridere, anche se non le condividevo ideologicamente. Dopo vent’anni, ho scoperto che quelle mie battute avevano ragione. Devi fidarti della piccola verità che c’è in una risata. La satira ti rende terzo a te stesso”.
Tutte queste cose, lei potrebbe dirle da Santoro, ma non ci va. Non potrebbe sfruttare lo spazio come Sabina Guzzanti?
“E’ una buona obiezione, ma io conosco il potere del contesto. Ho rifiutato anche Celentano e la conduzione di Sanremo: certi contesti sono più forti di te. Basta leggere McLuhan. Se vai a Sanremo, sei Sanremo. Non sei tu”.
Michele Santoro non è Sanremo. C’è Vauro, c’è Travaglio.
“Vero, ma anche lì c’è un contesto. Santoro è in onda per ordine di un giudice. La dirigenza Rai ha detto esplicitamente che, se potesse, lo farebbe subito fuori. Io non vado in un posto che è una riserva e un altro deve garantire per me. La satira è libera. Quando accetti anche solo un controllo minimo, hai accettato un limite alle tue opinioni. La satira non può avere limiti, a parte quelli di legge”.
Tutto bello, ma così lei si preclude una fetta smisurata di pubblico.
“Non faccio satira 'per andare in tv'. Ci vado se posso fare satira. La satira è come un’arte marziale. Quando porti il colpo, la forza che ci metti è l’ultimo dei problemi. Posso colpirti con molta più efficacia col minimo di potenza, se so il fatto mio. Infatti io non colpisco mai a vuoto. A differenza del Pd”.
L'Italia in bianco
di Mariavittoria Orsolato - Altrenotizie - 7 Novembre 2009
Una barzelletta di dubbio gusto, nonché parecchio irrealistica, racconta che se mai un giorno il Po si dovesse prosciugare, sul letto del fiume invece che i ciottoli e la sabbia, si troverebbe uno spesso strato di cocaina. La battuta è circolata a tal punto, che persino rispettabili telegiornali come Studio Aperto ne fecero servizi pieni di angosce e timori.
Che la suddetta barzelletta sia una verità di Bertoldo lo si sapeva da un pezzo, ma ad ulteriore conferma che il nostro è un paese di cocainomani, arriva un rapporto da Bruxelles in cui si precisa come in Italia i consumatori abituali di polvere bianca siano lo 0,8% della popolazione, contro una media europea dello 0,4%.
L’osservatorio europeo sulle droghe e le tossicodipendenze - che dal 1993 raccoglie e analizza tutte le informazioni disponibili su questo fenomeno culturale - ha affermato preoccupato che oltre 13 milioni di europei hanno provato cocaina almeno una volta nella loro vita, di questi la metà esatta sono giovani tra i 15 e i 34 anni.
L’agenzia europea con sede a Lisbona ha quindi confermato che la cocaina rimane lo stimolante più popolare d’Europa, sottolineando però che questo fenomeno interessa soprattutto la parte occidentale dell’Unione: l’Italia infatti rivaleggia, in termini di dipendenza diffusa, con Danimarca, Spagna, Irlanda e Regno Unito, tutti paesi in cui il consumo tra i ragazzi è attestato sul 4%.
Accanto a questo fenomeno, l’Oedt ha riscontrato che il sempreverde spinello, pur restando la sostanza illecita più comunemente usata in Europa con una media di 74 milioni di consumatori, sta registrando delle flessioni importanti in termini di diffusione e consumo, soprattutto nei giovanissimi.
Pare quindi che malauguratamente gli under 30 stiano spostando la loro attenzione dalla cannabis alla cocaina, in un contesto di policonsumo che interessa soprattutto l’alcool. Ora, se le motivazioni di questo boom europeo della “bamba” non ci sono date sapere, in Italia il singolare fenomeno di deviazione sui consumi può essere spiegato facilmente con le norme introdotte dall’ultima revisione operata al testo unico sulle droghe.
La legge 49 del 2006, meglio nota come Fini-Giovanardi, va infatti a modificare le tabelle sulle sostanze, equiparando hashish e marijuana alla cocaina e distruggendo quelle che erano le distinzioni tra droghe leggere (indubbiamente le prime) e droghe pesanti (inevitabilmente la seconda). Non solo, per quanto riguardava la severità delle sanzioni, il duo legislativo si era concentrato soprattutto sulla “piaga” degli spinelli ed aveva elevato in modo spropositato le pene pecuniarie e detentive per lo spaccio ed il consumo.
La beffa di questa legge, che fece inviperire non poco gli antiproibizionisti delle penisola, consisteva nel fatto che assimilando la cannabis alla polvere bianca, anche la quantità tollerabile per il consumo personale è stata parificata a 5 grammi. La differenza, non poi così sottile, è che se 5 grammi di marijuana non sono poi così tanti, 5 grammi di cocaina per il consumo personale sono un’enormità.
Questo escamotage ha permesso una diffusione capillare dello spaccio: dal momento che le dosi ordinarie di polvere bianca si aggirano sugli 0.70 grammi, il quantitativo permesso dalla legge a uso personale corrisponde a circa 7 dosi pronte da smerciare. Se a ciò si aggiunge che la nostra penisola - grazie ai traffici della ‘Ndrangheta - è la testa di ponte per la cocaina che, in arrivo dalla Colombia, va poi in tutta Europa, ben si capiranno le motivazioni che hanno spinto ad una così poco felice modificazione dell’esistente legge Turco-Napolitano.
La facilità con cui si riescono a reperire bustine di polvere bianca ha poi fatto crollare i prezzi, rendendo una dose accessibile veramente a chiunque: se fino a qualche tempo fa la coca era infatti considerata una droga da ricchi, adesso nelle piazze italiane un “pezzo” (circa 0,70 grammi) si può comprare con soli 40-50 euro.
La valutazione sui prezzi é utile anche a spiegare il fenomeno di flessione che ha caratterizzato la cannabis, compagna di sventure nella legge Fini-Giovanardi: il prezzo che caratterizza una dose di coca al dettaglio, è circa 5 volte il costo di una pari quantità di marijuana e 10 volte quello dell’hashish. Dato che le pene si sono inasprite per la cannabis ma si sono notevolmente raddolcite nei confronti della polvere bianca, il mercato nero ha ovviamente spinto sulla distribuzione che rende di più e con cui si rischia di meno.
Questa inflazione ha così permesso alla sostanza di diffondersi tra tutte le classi sociali e di insidiare ogni generazione, diversificando di conseguenza le pratiche di consumo. Oggi la cocaina non si usa solo per movimentare le serate mondane: si sniffa nei bagni delle scuole prima delle interrogazioni, negli spogliatoi delle fabbriche per star svegli durante i turni di notte e, come le recenti cronache hanno abbondantemente documentato, la si usa (oltretutto a torto) come coadiuvante durante le prestazioni sessuali.
Esattamente 3 anni fa, gli inviati de Le Iene effettuavano un “drug test” in Parlamento all’insaputa degli interessati. Subito dopo la messa in onda, il servizio scatenava enormi polemiche: non tanto sul fatto che un deputato su tre risultasse positivo al test (l’8% dei quali alla cocaina), quanto piuttosto sull’imperdonabile violazione della privacy che Le Iene
avevano operato nei bagni di Montecitorio.
Oggi il cosiddetto “sistema Tarantini”, svela come in realtà la polvere bianca sia una potente merce di scambio e un’immancabile corollario a qualsivoglia tipo di incontro politico privato. Non ci stupiamo se allora quella della cocaina è ormai definibile come “cultura”.
Cocaina, controlli nelle aziende
di Andrea Senesi - Il Corriere della Sera - 7 Novembre 2009
La scuola e la famiglia, certo. Ma non bastano. Nella metropoli invasa dalla coca «bisogna puntare al cuore delle aziende». Riccardo Gatti è il direttore del Dipartimento dipendenze della Asl di Milano. «La prevenzione va fatta lì», giura. «Perché lì stanno in massima parte i consumatori di cocaina» e perché lì sta la classe dirigente della città. L’accusa è pesante: «Mercenarizzazione». Nella (ex) capitale morale la classe dirigente è ostaggio non solo della droga, ma anche del «giro», di chi la smercia, di chi la usa, di chi ne fa un modello di vita, una cifra sociale. «È una società civile in ostaggio e potenzialmente sotto continuo ricatto».
Ieri Gatti, uno dei massimi esperti italiani di tossicodipendenze, era in Comune, chiamato dai politici locali a raccontare del «doping della vita quotidiana della metropoli ». Ogni volta i numeri tornano a fare impressione. A Milano un giovane adulto su tre ha fatto uso, almeno una volta, della polvere bianca. «Serve a lavorare, a divertirsi, a fare sesso. Ma poi l’asticella della soddisfazione si fa sempre più alta. E allora chi consuma coca paradossalmente fa una fatica terribile a divertirsi».
Funziona così. Eppure dilaga, spopola, trova ogni giorno nuovi schiavi. Su cento milanesi, quasi quindici l’hanno provata. Nei Paesi Ue la percentuale non raggiunge il 4%. «Certo — puntualizza Gatti — è un dato che non può essere omogeneo: una grande città fa per forza di cose storia a sé». Prendiamo le metropoli, allora. Milano è sul podio, dopo due capitali riconosciute della movida mondiale: Londra e Barcellona.
EROINA - A Milano c’è la coca e c’è, oggi più di ieri, l’eroina. Lo confermano gli ultimi dati. Nella fascia d’età tra i 25 e i 44 anni ha provato eroina il 5% della popolazione. Stessa, identica percentuale di un’altra fascia anagrafica, quella dei 40-50enni, la «generazione del buco». La fascia intermedia dei trenta-quarantenni è invece su percentuali di consumo nettamente inferiori. L’eroina è tornata su piazza. Una questione di mercato. «In tempo di crisi è come tornare ai Bot. Rendimento basso, ma sicuro». Poi ci sono le altre dipendenze, quelle considerate leggere: cannabis e alcol. Il 44% dei milanesi s’è fatto almeno una volta nella vita una «canna».
E un ragazzo su tre nell’ultimo mese ha ammesso di essersi preso (almeno) una sbronza. Un quadro sconfortante? «Forse. Ma a Milano pubblico e privato stanno lavorando bene. Ci sono energie, competenze e i Sert offrono un servizio fondamentale ». Gatti lo rivendica con orgoglio: «Di fronte a questi numeri Milano poteva essere davvero travolta dall’Aids. E invece tutto sommato ha 'tenuto'. Nonostante le risorse sempre più scarse, nonostante tutto».
Se la cocaina inquina politica ed economia
di Furio Ravera - Il Corriere della Sera - 7 Novembre 2009
Come si concilia un Parlamento frequentato da un certo numero di cocainomani con la lotta al traffico della droga e alla criminalità? E come si concilia la difesa della legalità con il fatto che ogni persona che compra droga «sponsorizza» e alimenta un mercato illecito e da questo può essere ricattato? Molti cittadini si fanno queste domande davanti agli allarmi (inascoltati) e alle notizie che leggono sui giornali in questi giorni. C’è in giro un fiume di cocaina che rischia di inquinare la nostra vita, i rapporti sociali e la scala dei valori di una società.
Se un politico diventa un irresponsabile, per ragioni neurologiche sottili determinate dall’uso della cocaina, ci sono molte ragioni per essere preoccupati. Non si può parlare di fatto privato. Gli effetti riguardano noi tutti. Lo scandalo che ha travolto il presidente della Regione Lazio dimostra che sotto l’effetto della cocaina una persona cessa di preoccuparsi delle conseguenze delle proprie azioni, commettendo imprudenze che danneggiano se stessi e il ruolo o la professione che esercita, con conseguenze anche sul prossimo.
La cocaina altera le condizioni fisiologiche del cervello: nel lavoro clinico abbiamo verificato come il cocainomane si allontana progressivamente dalle acquisizioni della civiltà in termini di comportamenti e responsabilità. La trasgressione sessuale è una di queste: il livello di disinibizione provocato dalla cocaina porta i consumatori a desideri sempre più estremi ed eccitanti, che per la liberazione di tratti sessuali primitivi e polimorfi conduce alla frequentazione dei transessuali — con i quali tutto si immagina possibile — perché incarnano la violazione di tutti i limiti e delle differenze.
Se pensiamo alle varie attività umane e immaginiamo il peso che nel buon svolgimento di queste attività ha la capacità di essere responsabili, prudenti e non impulsivi, si possono comprendere i pericoli potenziali dell’uso della cocaina. Un chirurgo (ce ne sono tanti) che usa la cocaina tenderà ad essere più temerario e sopravvaluterà le sue capacità. Ciò che desidera verrà confuso con ciò che può essere realizzato. Ma anche chi si occupa di finanza avrà lo stesso comportamento.
RIDOTTA PERCEZIONE DEL RISCHIO - Un broker dedito all’uso della cocaina, per sostenere ritmi di lavoro intensi, avrà una ridotta percezione del rischio anzi ne sarà attratto perché sotto l’azione della cocaina si cercano stimoli sempre più eccitanti. Agirà così senza prudenza, con spericolatezza e con una valutazione idealizzata e ottimistica delle conseguenze delle sue azioni.
Se consideriamo la diffusione della cocaina nel mondo degli operatori finanziari, come ha ricordato anche Jaques Attali, si può immaginare che essi diano vita ad un sistema caratterizzato dalla temerarietà e dalla irresponsabilità. Per i destini economici della società questo è un grave pericolo di cui poco si parla e su cui poco si riflette. Chi conosce da vicino i cocainomani sa che non conviene affidare a loro nulla: sia che si tratti di risparmi, figli, automobili, sia il proprio corpo su un tavolo operatorio, oppure la conduzione della cosa pubblica.
A Barcellona si sono posti il problema dei medici che fanno uso di droga. Da noi non c’è traccia di preoccupazione. Anche per i giovani non ci sono strategie di contrasto: i primi contatti con la cocaina si registrano ormai intorno ai 13 anni, con una certa frequenza. C’è persino chi sostiene il proprio ritmo di studio così… Ma quale tipo di cittadino ci dovremo aspettare da giovani esposti all’uso della cocaina nel corso di quel periodo (altamente prezioso per la formazione dell’individuo) che è l’adolescenza? Che effetti avrà la lunga abitudine all’illegalità, alla mancanza di rispetto per il proprio corpo?
DANNI CEREBRALI SULLE GIOVANI - Che ne sarà di quelle ragazze che hanno conosciuto il sesso fra i fiumi della cocaina? E che cosa succederà nel loro cervello, visto l’effetto altamente dannoso della cocaina sul tessuto cerebrale? Il cervello è un organo eccezionale, ma molto delicato. La cocaina lo maltratta pesantemente.
Queste alterazioni, fra vent’anni, porteranno a un incremento di soggetti ancora relativamente giovani ma con segni di deterioramento delle capacità. Si può già ipotizzare anche un aumento di spesa (pubblica?) per assistere queste persone che, per i bagni di dopamina favoriti dalla coca, sviluppino sindromi parkinsoniane e pseudo demenze.
Nonostante molto di questo sia noto, è difficile far comprendere la portata del danno ai consumatori e alle persone loro vicine (mogli, mariti, genitori). Come pure non appare chiara la capacità della cocaina di danneggiare le caratteristiche che fanno di una persona un cittadino responsabile. Siamo ancora legati a un’idea della droga plasmata sul modello dell’eroina che generava un pericolo sociale per gli scippi di disperati alla ricerca di una dose. L’eroina uccideva senza clamore, nei parchi delle periferie.
COME UCCIDE LA COCAINA - La cocaina uccide perché produce temerarietà, irresponsabilità, autoesaltazione, incapacità di valutare le conseguenze e coinvolge in questi disastri gli altri. Siccome non si vedono siringhe in giro, e il gesto di assumere la cocaina non è cruento (salvo i casi ormai poco diffusi dell’uso in vena), assomiglia a una inalazione di vicks vaporub, ciò illude circa una sua supposta innocuità. La dipendenza che produce non è fisica, con le tipiche crisi viscerali dell’astinenza da eroina, è psichica: rimane nella memoria dei consumatori il ricordo di un’esperienza di sé che appare quanto di meglio si possa sperimentare. E invece è l’inizio della fine, anche per una società.
Navi dei veleni ed attentati
di Nadia Redoglia - peacelink - 8 Novembre 2009
Attentato a Gianni Lannes, il ricercatore di verità che lotta per non affondare.
"...Se poi ti guardassi intorno vedresti che il nostro mar è pieno di meraviglie, che altro tu vuoi di più. In fondo al mar..."
Così cantava Granchio Sebastian alla sua Sirenetta. Pare che anche i nostri personalissimi granchi vogliano cantarci la stessa canzone, ma noi non siamo sirenette disneyane. Al più, se di sirene si vuol parlare, riferiamoci a quelle di chi lancia allarmi per cosa c'è in fondo al mare nostro. La storia, a partire dalla fine degli anni 80, ci racconta fatti inquietanti di morti ammazzati e non solo da patologie tumorali, di navi più o meno affondate o spiaggiate da affondamenti non andati a buon fine.
Le chiamano navi dei veleni: discariche che contengono tutti i tipi di rifiuti più venefici, dalle scorie radioattive a quelli tossici. Oltre alle morti sospette da inspiegabili picchi di neoplasie in aumento... i fascicoli giudiziari delle procure di tutta Italia contengono parecchi verbali di testimonianze e non solo da parte dei collaboratori di giustizia. Molti giornalisti d'inchiesta hanno seguito i casi e da qui sono state scritte pagine e pagine e andati in onda servizi drammatici (Rainews24, Blu notte, l'Espresso, solo per citarne alcuni). Via via che la verità stava per essere raggiunta o, quanto meno, illuminava la pista da seguire, ecco che succedevano immediatamente morti misteriose come quelle di Ilaria Alpi e Milan Hrovatin, di Natale de Grazia, punta di diamante del pool investigativo.
In più di 20 anni, nonostante la tecnologia abbia fatto progressi giganteschi, ancora non ci è stato risposto a che ci sta in quei relitti maledetti e, men che meno, i nomi di chi li ha inabissati. Ricordiamo il caso Pitelli di La Spezia, forse il primo barlume della criminale nefandezza. Il primo esposto partì nel 1988, ma solo nel 1996, grazie alle indagini del magistrato Tarditi di Asti e dei suoi collaboratori, si riuscì a dimostrare il disastro ambientale e a emettere avvisi di reato contro innumerevoli imputati “eccellenti”.
A che punto sono gli avvisi di reato? Ultimamente sono solo tornate a galla fantasie di imbarcazioni belliche, diventate case per pesci. Ben sanno i pescatori che da quelle parti è bene tenersi alla larga, ché la pesca potrebbe essere letale. Dai cantieri "spariscono" le navi, specie quelle definite carrette, ma quando troviamo gli scafi affondati, le sofisticate apparecchiature ci rispondono che non corrispondo alle caratteristiche della “nave sparita”. E' di pochi giorni fa la comunicazione del Ministero dell'Ambiente in tal senso. Si procede a informazioni altalenanti fatte di "tutto vero, niente vero", una specie di depistaggio della memoria e forse non solo di quella.
Chi non si fa depistare corre pesantissimi rischi per sé e famiglia. E' di ieri l'ennesimo attentato incendiario di stampo mafioso a Ortanova, ai danni del direttore di Terra Nostra, Gianni Lannes. In questo momento s'occupa di navi dei veleni e inceneritori. Di lui ricordiamo innumerevoli "inchieste scomode" per la Stampa e svariate altre testate nazionali. Sono tutte indagini giornalistiche volte a dimostrare che i crimini di stampo mafioso si concentrano prepotentemente sullo "smaltimento de rifiuti". La sua auto è saltata in aria.
Il suo giornale on line fondato non molto tempo fa, con lo scopo di denunciare e far denunciare i crimini che stravolgono non solo la sua Puglia, ma la nostra terra, appunto, è formato da giovani giornalisti che da lui imparano il mestiere, quello vero, libero. Intervistato dal Tg3 ci confida che teme per l'incolumità della sua famiglia.
Non chiede protezione per sé, ma per i suoi cari. Già a luglio Leoluca Orlando propose interpellanza parlamentare in tal senso. Quest'uomo è in pericolo solo perché fa il suo mestiere, perché rispetta il dovere d'informare e il diritto a essere informati. Perciò lo Stato deve proteggerlo. A oggi non c'è stata risposta.
Se è criminale affondare le navi dei veleni disseminando morte, ben più potrebbe essere l’inabissare, tacendo, i ricercatori di verità.