Ieri infatti Dubai World, la holding finanziaria dello stato del Golfo, indebitata per 59 miliardi di dollari, ha richiesto una moratoria di sei mesi nei pagamenti. E le Borse mondiali sono crollate, tranne Wall Street che era chiusa per la festività del Ringraziamento.
Secondo l'agenzia Bloomberg, gli istituti con crediti maggiori nei confronti di Dubai World sono Royal Bank of Scotland, che a Londra ha ceduto il 7,61%, Barclays (-7,07% sempre sul listino inglese), Hsbc (-4,57%), Lloyds (-4,17%) e Credit Suisse (-4,32%).
Nel frattempo Standard & Poor's ha messo sotto osservazione con implicazioni negative il rating di lungo periodo delle banche locali Emirates Bank International, National Bank of Dubai, Mashreqbank e Dubai Islamic Bank, vista la loro esposizione su Dubai World.
Il governo dell'Emirato arabo ha precisato che Dubai World e la controllata Nakheel intendono chiedere a tutti ai finanziatori di estendere le scadenze almeno fino al 30 maggio 2010.
La holding statale sta cercando di rinegoziare un "bond islamico" da 3,52 miliardi di dollari emesso da Nakheel - l'operatore immobiliare che ha realizzato quelle oscene isole artificiali a forma di palma - in scadenza il 14 dicembre prossimo.
I mercati rimangono ora nella preoccupante attesa di conoscere "l'azione decisiva" sui debiti di Dubai World che sarà assunta dalle autorità dell'emirato arabo, secondo quanto promesso dallo sceicco Ahmed bin Saeed al-Maktoum, presidente del Consiglio supremo dell'economia.
Ma basterà per risollevare dalla polvere sabbiosa questo "sogno", ormai già definitivamente svanito nel nulla?
La fine del mondo
di Christian Elia - Peacereporter - 26 Novembre 2009
Sarebbe stato visibile anche dalla Luna. Il Mondo, nel mezzo di tre palme artificiali. Questo il progetto che doveva fare di Dubai il faro dell'immobiliarismo di lusso del futuro.
Dietro questi progetti Dubai World, società a capitale pubblico che controlla i principali investimenti immobiliari degli Emirati Arabi Uniti.
Ieri sera Dubai ha fatto finta di niente. Il primo giorno di vacanza per l'arrivo dell'Eid ul-Adha, la festa del sacrificio, in riferimento alla prova di Abramo, e l'approssimarsi della ricorrenza della Festa nazionale degli Emirati, che commemora il 2 dicembre 1971, compleanno della federazioni dei sette sceicchi, hanno tenuto lontane le persone dalla cronaca finanziaria.
Ma il risveglio rischia di essere doloroso. Tutto è nato da un comunicato della Dubai World, che ha reso noto lo stato finanziario del colosso edile: la società ha chiesto alle banche di congelare per almeno sei mesi il pagamento delle scadenze sul debito, che complessivamente ha raggiunto la cifra di 59 miliardi di dollari.
La Nakheel, società di costruzioni considerata almeno fino a poche settimane il gioiello dell'emiro di Dubai, Mohammed al-Makhtoum, entro la metà di dicembre deve far fronte al pagamento di un emissione obbligazionaria in scadenza per 3,5 miliardi di dollari.
I media locali, mai troppo cattivi con lo sceicco, diffondono serenità. Ma la situazione, in realtà, era nota da tempo. Di palme ne è stata, più o meno finita solo una su tre. Dell'arcipelago a forma di mondo, nel quale la famiglia Beckham doveva acquistare la riproduzione dell'Inghilterra, neanche l'ombra.
Lo stesso Burj Dubai, il grattacielo più alto del mondo, ha rimandato ancora una volta la sua inaugurazione. Quello che sostengono in molti qui è la fiducia nei conti bancari senza fine degli sceicchi, in particolare per quello di Abu Dhabi. L'emirato che fa da capitale allo stato, infatti, conta su introiti garantiti dal greggio e la famiglia che lo governa, quella degli Al Nahayan, è già intervenuta in passato a sanare i bilanci allegri di Dubai.
L'ultimo esempio la metro di superficie di Dubai, inaugurata il 9 settembre 2009 dallo sceicco Mohammed in persona, alle nove del mattino, in onore del suo numero fortunato. Senza l'intervento finanziario di Abu Dhabi la prima metro araba non avrebbe visto la luce.
Al prezzo, dicono alcuni, di una sempre maggior influenza della capitale negli affari di Dubai, compresa un'accentuazione del conservatorismo religioso al quale Dubai è allergica. Anche a metà degli anni Novanta e alla fine degli anni Settanta, dicono i finanzieri locali, gli Emirati hanno saputo uscire da crisi economiche che sembravano annunciare la fine del sogno di far fiorire il deserto.
Si vedrà se non c'è due senza tre.
Dubai, senza soldi l'isola dei ricchi. Tremano le Borse di tutto il mondo
di Luca Pagni - www.repubblica.it - 26 Novembre 2009
Un nuovo fantasma si aggira sui mercati finanziari. Parla arabo, arriva dai paesi del Golfo e sta gettando nel panico le Borse di tutto il mondo. Con l'eccezione di Wall Street, ma soltanto perché la piazza di New York è chiusa fino a lunedì per i festeggiamenti del Thanksgiving Day.
La nuova bolla finanziaria ha il suo epicentro a Dubai, una delle capitali del lusso mondiale, preda di una frenetica corsa all'investimento immobiliare. Lo stesso settore da cui è nata - partendo dagli Stati Uniti - la crisi dell'economia globale soltanto un anno e mezzo fa.
Nella tarda serata di ieri, Dubai World - la società a capitale pubblico che controlla i principali investimenti immobiliari del paese - ha fatto capire di essere sull'orlo del crac. Il comunicato ufficiale parla di una richiesta avanzata alle banche per congelare almeno per sei mesi il pagamento delle scadenze sul debito, che complessivamente ha raggiunto la cifra di 59 miliardi di dollari.
L'annuncio è arrivato a causa delle difficoltà finanziarie della Nakheel, la società di costruzioni, considerata almeno fino a poche settimane il gioiello dell'emiro di Dubai, ma che entro la metà di dicembre deve far fronte al pagamento di un emissione obbligazionaria in scadenza per 3,5 miliardi di dollari.
In serata è arrivata, da parte delle autorità dell'emirato arabo, l'assicurazione di "azione decisiva" sui debiti di Dubai World sarà, comprendendo "i timori dei mercati e dei creditori in particolare". E' ciò che ha affermato lo sceicco Ahmed bin Saeed al-Maktoum, presidente del Consiglio supremo dell'economia, in un comunicato ufficiale teso a rassicurare i mercati.
Una vicenda che potrebbe innescare un effetto domino dagli effetti ancora da valutare nella loro gravità, ma sicuramente preoccupanti, tenuto conto della debolezza in cui versa l'economia mondiale. Lo si è subito capito all'apertura delle Borse europee, investita da un'ondata di vendite che ha colpito in particolare il settore del credito.
Si teme gli effetti di un possibile default, cioè di un crac finanziario dell'emirato: secondo gli analisti di Credit Suisse, il sistema delle banche del vecchio Continente potrebbe essere esposto fino a 40 miliardi di dollari.
A Dubai - secondo gli ultimi dati disponibili - l'indebitamento del paese ha raggiunto gli 80 miliardi di dollari l'anno scorso di cui 70 miliardi fanno capo a imprese pubbliche. Tra l'altro le scadenze a breve e medio termine dei debiti di Dubai sono molto consistenti, circa 13 miliardi di bond da rimborsare l'anno prossimo e 19,5 miliardi di dollari nel 2011.
Tra gli investimenti più noti di Dubai World c'è l'isola artificiale a forma di palma le cui ville sono state vendute in questi anni anche a calciatori famosi e star del cinema e di cui è stato avviato anche un progetto gemello deliberato nonostante la crisi finanziaria. Si tratta di proprietà vendute a peso d'oro, considerate fine a un paio di anni fa investimenti sicuri e destinati ad acquistare valore nel tempo.
Ma come nel resto del mondo, anche a Dubai le quotazioni degli immobili sono crollate. E nonostante negli ultimi mesi ci sia stato un recupero dei prezzi, il calo da inizio anno è comunque attorno al 50%.
Dubai, la bolla di Bengodi che spaventa il mondo
di Ettore Livini - www.repubblica.it - 26 Novembre 2009
Due anni fa era il Bengodi della finanza mondiale. Un fazzoletto di sabbia sulle rive del Golfo Persico dove la roulette del denaro facile aveva fatto decollare progetti immobiliari per 350 miliardi di dollari. Oggi il giocattolo si è rotto.
La bolla del mattone è scoppiata. I cantieri sono fermi, i prezzi delle case sono crollati del 50%. E il Dubai - candidato fino a pochi mesi fa a diventare la Wall Street (o la Disneyland, suggerisce qualcuno) del Medio Oriente - non ha più i soldi per onorare i suoi debiti. A tremare sono in tanti.
In prima fila, ovviamente, le banche che hanno finanziato gli 80 miliardi di esposizione dell'emirato. E le aziende, migliaia tra cui molte italiane, che hanno investito sui suoi piani di sviluppo.
Il pericolo vero, però, è che lo tsunami-Dubai tracimi verso gli altri paesi del Golfo, facendo scricchiolare le casse di quei fondi sovrani che negli ultimi due anni hanno recitato un ruolo da protagonisti nel salvataggio dell'economia mondiale. Puntellando a suon di petrodollari il capitale di banche e imprese sull'orlo del crac.
Gli analisti, per ora, gettano acqua sul fuoco. Gli Emirati sono realtà differenti tra loro, assicurano. Dubai è una mosca bianca, la sua crisi affonda le radici in un'economia "di carta", povera di greggio (rappresenta solo il 6% del pil) e travolta dal crac di un settore, il mattone, arrivato a rappresentare il 30% della ricchezza nazionale.
I vicini, aggiungono, sono messi meglio. Abu Dhabi - nel cui sottosuolo c'è il 9% delle riserve petrolifere globali - è una macchina da soldi. Mentre Qatar e Kuwait non hanno conosciuto gli eccessi finanziari della dinastia degli Al Makhtoum.
Le borse però hanno drizzato le antenne. Le cifre in gioco, in effetti, sono altissime (i fondi sovrani del Golfo gestiscono un patrimonio superiore ai mille miliardi di dollari) e molte blue chip su entrambe le sponde dell'Atlantico sono ancora in vita grazie solo ai capitali degli emiri.
La cassaforte pubblica del Dubai ha in portafoglio il 20% della Borsa di Londra (che controlla anche Borsa Italiana spa), quote di Standard Chartered, Daimler, Eads - la casa madre di Airbus - e persino il 20% del Cirque du Soleil. In Italia gli Al Makhtoum hanno trattato a lungo per rilevare le aree di Zunino a Sesto San Giovanni e Santa Giulia.
Il ricchissimo Abu Dhabi investment fund - con la sua potenza di fuoco da 700 miliardi di dollari - ha il 2% di Mediaset ed è stato il protagonista del salvataggio a stelle e strisce di Citigroup.
I sovrani del Qatar hanno appena speso 7 miliardi per tenere a galla la Porsche dopo la disavventura della speculazione su Volkswagen e nella loro collezione di trofei finanziari hanno pure partecipazioni significative in Barclays, nella Borsa di Londra e nei grandi magazzini Sainsbury. Il Kuwait investment office ha contribuito a strappare dal crac la Merrill Lynch ed è socio di Bp e Daimler.
Il timore dei mercati - al di là delle conseguenze per le banche esposte con Dubai (Credit Suisse stima in 40 miliardi il rischio di quelle europee) - è che Dubai World sia in realtà solo il primo tassello di un domino di default immobiliari nel Golfo.
Standard&Poor's stima che i progetti messi in stand by - opere stravaganti come le piste da sci nel deserto, isole artificiali a forma di planisfero e grattacieli modellati sulle figure degli scacchi o alti un chilometro - siano pari a quasi 500 miliardi di dollari.
Una montagna di soldi che rischia di costringere gli emiri - reduci dal salvataggio del capitalismo occidentale - a liquidare le loro posizioni azionarie. Per salvare, questa volta, l'economia di casa propria.
2009, fuga da Dubai. La crisi arriva anche in paradiso
di Matteo Nucci - www.repubblica.it - 26 Novembre 2009
L'emirato arabo più aperto agli investimenti stranieri sta vivendo uno dei suoi momenti peggiori: metà dei cantieri chiusi e migliaia di persone senza lavoro che se ne vanno. Lasciando dietro di sé un cimitero di auto abbandonate
"Sono almeno duemila le macchine abbandonate all'aeroporto di Dubai, con le chiavi inserite nel quadro. I proprietari sono saliti su un aereo per non tornare mai più. Il deserto comincia la sua avanzata. Macchine abbandonate, ma anche carte di credito buttate nei cestini, vestiti lasciati negli armadi. Migliaia di persone ogni settimana lasciano la città...".
A parlare è un tassista nel romanzo reportage di Sergio Nazzaro, Dubai Confidential (Elliot, pp. 143, euro 16). Una voce diretta su quanto sta accadendo a Dubai da quando la crisi ha messo fine a una lunghissima sbornia: imprese che hanno smesso di costruire, investitori che reclamano i propri soldi e un Paese in cui tutto è emanazione della famiglia reale, improvvisamente indecisa sul ruolo da giocare. Chi deve restituire i soldi agli investitori? I costruttori o il governo, che ha smesso di garantire la realizzazione delle infrastrutture? Risultato, oggi Dubai è invasa di cause legali.
Racconta questi "tempi duri e ambigui", Nazzaro, napoletano di 36 anni, alle prese con un mondo, quello di Dubai, che frequenta ormai da quasi cinque anni come agente immobiliare. Un mondo dove, nel giro di poco tempo, "sono stati raggiunti record d'ogni tipo".
La compagnia aerea più efficiente (Emirates vanta anche un programma di voli eco-efficienti all'avanguardia), la metropolitana automatizzata più estesa (Dubai Metro, completamente sopraelevata e con un design avveniristico, è lunga settanta chilometri), l'isola artificiale più grande (Palm Island Jumeirah), la fontana più costosa (su Dubai Fountain, per dirne una, sono stati piazzati 6600 luci e cinquanta proiettori colorati), il grattacielo più alto (Burj Dubai, con i suoi 780 metri, ha battuto ogni primato).
Protettorato inglese sul finire del secolo, Dubai divenne uno dei sette Emirati Arabi Uniti nel 1971, ma la sua crescita vertiginosa inizia solo una quindicina di anni fa. E nel corso del tempo si lega sempre meno al petrolio, e sempre più al commercio e al turismo. Lo sviluppo immobiliare è frenetico, fondato su opere mirabolanti e anche più piccoli progetti, che, nell'insieme, arrivano a portare qui quasi un quarto di tutte le gru esistenti nel mondo.
Ma, nel corso del 2009, la crisi economica non ha lasciato scampo. I progetti di edilizia residenziale e commerciale, il cui completamento era previsto tra l'anno in corso e il 2012, sono in forse. Oltre il 50 per cento dei cantieri di Dubai ha subìto gravi ritardi (molti hanno chiuso). Persino la realizzazione del Burj Dabai - l'ultima meraviglia dell'emirato - è stata così accidentata, che la data dell'inaugurazione è stata annunciata e disdetta più volte.
Così il 45 per cento del personale impiegato nell'edilizia ha perso il lavoro. Si tratta per lo più di stranieri - provenienti principalmente da India, Pakistan e Bangladesh - da sempre pagati una miseria e confinati in "campi immensi, riservati alle abitazioni degli operai", e ora costretti a tornare nel Paese d'origine, senza alcuna garanzia.
Come racconta anche Nazzaro nel suo libro, a Dubai "non ci sono sindacati, lo sciopero non è ammesso, si lavora sotto il sole bruciante a 40 gradi". E, se ti licenziano, hai solo trenta giorni per trovarti un altro lavoro, altrimenti sei un clandestino e rischi l'arresto: ecco il perché delle auto abbandonate nel parcheggio dell'aeroporto, con tanto di chiavi inserite. Vero, però, che le morti sul lavoro sono meno che da noi: "Il governo è estremamente sensibile alle critiche. Di fronte ai dossier (come quello della ong Human Rights Watch del 2006, che denunciava la semischiavitù dei lavoratori impiegati nell'edilizia), che sono stati pubblicati in Occidente, hanno cominciato a preoccuparsi e a intervenire".
Il libro di Nazzaro racconta anche la Dubai dove "tutto è tenuto sotto controllo e le pene per chi "sgarra" sono aspre". Se guidi e hai bevuto, per esempio, "innanzitutto vieni frustato e, poi, ti fai almeno tre mesi di galera". Se emetti un assegno in bianco, "finisci dentro e ci resti finché non saldi il debito". Per non parlare dell'adulterio, "punito con il carcere". E questo nel Paese in cui la concentrazione di prostitute è la più alta del mondo.
Difficile, per un occidentale, comprendere certi meccanismi. "I primi tempi mi sentivo accerchiato" spiega ancora Nazzaro. "Poi ho scoperto che la parola tolleranza si può declinare in molti modi. E che questo Emirato ha rappresentato una grande speranza per tante persone, l'idea che un "incontro di civiltà" sia possibile. Ora la scommessa è che quella speranza non crolli miseramente a causa della crisi".
Perle degli Emirati
di Christian Elia - Peacereporter - 24 Novembre 2009
Il mio nome è Ibn Battuta. Avevo solo 21 anni quando ho lasciato mio padre e la mia famiglia a bocca aperta e ho detto loro, con semplicità: "Io parto". Ho lasciato la mia casa e la mia città, Tangeri, in Marocco, per conoscere il mondo. Era il 1325, secondo il vostro calendario. Non avrei rivisto i miei cari e la mia città, baciata dal Mediterraneo, prima del 1354. Tanti anni erano passati, tante cose avevo perduto. Ma perdendomi mi ero arricchito, girando per il mondo, dall'Andalusia alla Cina, percorrendo 75mila miglia e incontrando lingue e culture di genti differenti, che a volte parlavano ad un Dio diverso dal mio. Sono tornato più ricco di quando sono partito e mai, proprio mai, mi sono sentito migliore di qualcuno che ho incontrato.
Il mio viaggio, all'epoca, mi portò nella Penisola Arabica. Il pellegrinaggio alla Mecca, obbligo di ogni buon musulmano, divenne lo spunto per un giro lungo le coste di questa terra maestosa, tra l'Africa e l'Asia, lungo le coste dello Yemen e dell'Oman, fino ad arrivare in quel posto che tutti, oggi, chiamano Emirati Arabi Uniti. Proprio qui, dopo tanto tempo, ho deciso di tornare. Volevo vedere con i miei occhi l'omaggio che questo popolo mi ha tributato, dedicando al mio nome e alla mia fama di grande viaggiatore, un luogo enorme e importante.
Ibn Battuta Mall, si chiama. Il mall, nella vostra cultura, è un centro commerciale. Enorme. In fondo non avete inventato nulla di nuovo. I vecchi suq, i porti delle città che si affacciano sul Mediterraneo, gli antichi caravanserragli non erano altro che luoghi dove le merci di tutto il mondo, dopo lunghi viaggi, venivano scambiate. E' cambiato tutto il resto, però. Il mio ricordo era quello di un Paese di pescatori di perle e marinai, di pirati e beduini, che legavano la loro sopravvivenza a un cammello, un falcone e un cavallo, da soli o in lunghe carovane. Oggi sono macchine enormi, che rombano minacciose, a solcare le strade. Anche quelle che portano al centro commerciale dedicato a me. Migliaia di persone percorrono corridoi sfavillanti, suddivisi secondo le suggestioni dei paesi che ho visitato durante il mio lungo viaggio. Cantastorie e intrattenitori rallegrano il passeggio di famiglie locali e di persone che arrivano qui da tutto il mondo, arrivate fin qui per comprare quello che potrebbero acquistare a casa loro. Forse è questo che differenzia i miei tempi dai vostri: le merci venivano scambiate, ma non tutte erano a disposizione. Oggi le merci sono tutte uguali.
I bambini si divertono molto, grazie a un tappeto volante virtuale, che gli permette di vivere l'esperienza dei viaggi che ho compiuto nella mia vita. Deve essere molto divertente, ma spero che a loro resti la voglia di andare con le proprie gambe in mondi lontani. Per perdersi e per ritrovarsi più ricchi. Qui si parlano tutte le lingue del mondo e si gusta una cucina planetaria, ma se fosse esistito un tappeto virtuale magari non sarei mai partito da Tangeri, oppure i grandi viaggiatori che hanno attraversato la Penisola Arabica sarebbero rimasti a bere un the a Londra o a Parigi. Avremmo però perso l'occasione di leggere le pagine scritte da Wilfred Thesiger, Paul Theroux, A.W. Kinglake e tanti altri. La differenza è che oggi berrebbero qui la stessa qualità di the.
La Penisola Arabica è la casa del Rub al-Khali, il più grande deserto sabbioso del mondo. Lungo 1.000 chilometri e largo circa 500. Lo chiamano il ‘quarto vuoto' ed è qui che è nata la mia religione e la una cultura millenaria. Visto dall'interno del mall che porta il mio nome mi sembra che il vuoto è stato riempito, utilizzando ogni millimetro disponibile.
Uscirò da qui, per cercare di capire come e quanto è cambiata questa terra. Anche perché non sono abituato a questa aria condizionata gelida. Rispetto alle condizioni di vita del passato, quando il termometro superava i 60 gradi, deve essere stato un bel miglioramento delle condizioni di vita. Sono curioso di vederla questa vita a Dubai, della quale ricordo i vecchi dohw con le loro vele tese e il fondo piatto, capaci di solcare il mare solo con l'ausilio della Luna e di portare merci fino alla Persia e oltre ancora.
Già, le merci. Continuo a parlarne. Mentre lascio il mall e vado a curiosare per le strade di Dubai penso che, alla fine, avete avuto una bella idea. Per secoli sono arrivati viaggiatori da tutto il mondo qui, ma molti di loro erano armati e volevano imporre il loro dominio su queste terre. Grazie all'attaccamento alle loro tradizioni le genti di queste terre li hanno respinti, ma è accaduto qualcosa di interessante.
Oggi non c'è più bisogno di usare le armi, perché è bastato convincere queste persone a desiderare di possedere gli stessi oggetti di coloro che un tempo sono venuti come conquistatori. Il risultato, per certi versi, è lo stesso. Solo che al posto dei cannoni, qui, si usano i carrelli stracolmi dei mall.
2 Puntata
Visto che il destino mi ha richiamato tra voi, io, Ibn Battuta, sono troppo curioso. Devo conoscere questo mondo. Per fare quattro passi a Dubai dovrò prendere un taxi, visto che qui ormai avete tutti le automobili. Ma qualcosa colpisce la mia attenzione. Un adesivo giallo, incollato sul retro di un camioncino che trasporta operai. Lo intuisco da tre elementi: hanno tutti una tuta, nel pullmino non c'è l'ombra di aria condizionata e tutti hanno lo sguardo malinconico perso nel vuoto, oltre un finestrino reso opaco da tanti sbuffi di malinconia.
L'adesivo dice: "AM I DRIVING SAFELY? IF NOT PLESE CALL 0558686987". Il numero cambia a seconda della compagnia, ma l'adesivo resta lo stesso. Ce ne sono milioni, come i milioni di veicoli si riversano, ogni giorno, per le strade di Dubai.
Le vie non sono più quelle che ricordavo io. Ai miei tempi il deserto era attraversato da lunghe carovane di cammelli, che portavano l'incenso, la seta e le spezie dall'Estremo Oriente fino alle ricche corti europee.
Oggi il deserto è attraversato da autostrade a sette corsie. Una di queste, la principale, si chiama Sheikh Zayed Road, dedicata all'uomo che per tutti è il padre degli Emirati Arabi Uniti. Il suo volto campeggia lungo la strada, ricordando a tutti il sito internet (che non so cos'è, ma sembra andare molto di moda) ourfatherzayed.com. Lui con gli occhiali da sole, lui in macchine sportive, lui e basta, con un'espressione truce che mi fa sobbalzare. Se non c'è Zayed, simbolo del passato, ci sono i suoi successori, Mohammed e lo sceicco al Nayahn, emblemi del presente, che ricordano a tutti quanto sono unite le famiglie reali e gli emirati.
Lo ricordano così spesso che viene da pensare che in primo luogo vogliano ricordarlo a loro stessi. Il futuro, invece, è rappresentato dai figli di Mohammed che, con tutto il rispetto, non mi sembrano molto svegli oppure sono solo poco fotogenici.
La ricchezza che ha baciato queste terre, materializzatasi in forma di petrolio, ha partorito quasi come una conseguenza naturale un fiume di automobili. Macchine grandi come carri armati percorrono a tutta velocità queste strade, tanto la benzina costa meno dell'acqua. Ma perché gli adesivi per la delazione? Secondo uno studio del Dubai Medical College, l'individuo più sospetto in città è un maschio pakistano tra i 20 e i 30 anni.
E' questo infatti l'identikit del guidatore più maldestro. Su tutti i casi di trauma cranico registrati dagli ospedali, il 50 percento è legato a incidenti automobilistici. Il 22 percento a pedoni investiti per strada. Da dire che a Dubai, salvo rare eccezioni, non è pensabile di attraversare, perché tra cantieri e svincoli è più faciel che un cammello passi dalla cruna di un ago.
Solo negli ultimi quattro mesi sono stati 19,493 i traumi cranici in città.
Ogni dieci minuti il traffico, di solito velocissimo sulle grandi arterie principali di Dubai, s'inchioda di colpo. C'è sempre un incidente che paralizza tutto, anche quelli meno gravi. La legge locale prevede che in qualsiasi caso debba arrivare la polizia per ricostruire l'accaduto, senza possibilità di conciliazione. Di mezzo, una volta su due, c'è un taxi. Eccolo là, il nostro nemico pubblico numero uno. Il tassista pakistano!
La giornata media di un tassista consta di 12 ore di lavoro ininterrotto, in una città sempre trafficata, dove non esistono nomi per le strade che non siano le principali. L'ossessione edilizia, poi, rende impensabile l'utilizzo del Gps, in quanto tutto cambia in pochi giorni. Non ricevendo salario, i tassisti corrono come pazzi di qua e di là cercando di ottimizzare la propria giornata, visto che la paga è in proporzione ai risultati raggiunti.
Il tutto prima di consegnare la macchina al collega con il quale la dividono. Che si farà altre 12 ore al volante. La compagnia fornisce loro le divise e le auto, oltre a un alloggio in un caseggiato immenso, alle porte della città. Milioni di taxi parcheggiati di fronte a piccole casupole tutte uguali.
Quasi tutti, ormai, hanno un deodorante, regalatogli personalmente dallo sceicco, dopo le ripetute rimostranze di uomini d'affari e ricche signore che si lamentavano di come tante ore di lavoro nel traffico comportino una certa sudorazione di questi benedetti pakistani.
Loro sono la principale causa di tanti incidenti, per non parlare degli operai che, a mezzanotte, nei cantieri ancora aperti, finiscono per sfilare lungo le strade di notte spingendo gli autisti dei Suv a investirli e a perdere un sacco di tempo.
Solo nella zona industriale di Jebel Ali, per esempio, sono state 500 le vittime lo scorso anno. Immaginate quanti Suv danneggiati, una vera e propria strage.
Appena mi procuro un telefono, anche se io vivevo senza, chiamo il numero, giusto per togliermi lo sfizio di dire che magari i cammelli andavano lenti, ma non investivano nessuno.
Certo che detto da me, Ibn Battuta, che ho passato gran parte della mia vita in giro per il mondo, dormendo di tenda in tenda, di casa in casa, fa un po' impressione. Ma sono vecchio, ormai, e qui di spazzi liberi ce ne sono sempre meno. Per non parlare dell'ospitalità, poi, con tutto quello che si legge sui giornali! Dovrò cercarmi una casa a Dubai.
Guardandosi attorno non dovrebbe essere difficile: migliaia di torri costellano il cielo di Dubai, fin quasi a nasconderlo. Non le vecchie torri del vento che ricordavo io, quelle costruite per rendere le case fresche d'estate e calde d'inverno. Queste sono torri in vetro e cemento. Una, il Burj Dubai, è alta 800 metri. E' la torre più alta del mondo.
Sembra un dito puntato, capace di fare il solletico a Dio. Dicono che nelle rare tempeste che si abbattono su Dubai faccia da parafulmine a tutta la regione. Per non parlare dell'ebbrezza dei sui 300 piani, collegati dagli ascensori più veloci del mondo. La Mitsubishi ha brevettato, solo per il Burj Dubai, un modello di elevatore che si muove rapido come un fulmine. Solo che queste sono tutte chiacchiere, perché l'inaugurazione di questa meraviglia viene rimandata di giorno in giorno.
L'ultimo rinvio è arrivato per il 2 dicembre, data attesa qui, in quanto festa nazionale degli Emirati Arabi Uniti. Ma la festa si farà da un'altra parte, perché i lavori non sono completati. Come tanti altri. Il mitico mondo, insieme di isolotti artificiali che formano un planisfero, è un cantiere fermo da mesi. Le altre due palme, che dovrebbero far compagnia alla prima, visibile dalla Luna, non sono neanche cominciate. La torre che gira su se stessa, poi, è viva solo nella mente del suo creatore. La crisi, dicono tutti qui, ma in verità non si capisce bene come vadano le cose.
"Dubai: per la prima volta i prezzi delle case, dopo un anno, tornano a salire", titola oggi un giornale. Sarà, ma nello stesso giornale ci sono le rassicurazioni del general manager della Nakheel, un colosso dell'edilizia, legato ai più faraonici progetti di Dubai, che tranquillizza gli investitori che le banche non hanno alcuna intenzione di chiedere il risanamento del debito dell'azienda che ammonta a 72 miliardi di dirham, la moneta locale, pari a 14 miliardi di euro. Non solo, il giornale di ieri annunciava che il vicino emirato di Abu Dhabi è pronto a investire 100 miliardi di euro in nuovi progetti. Magari sulle palme, adesso, crescono i soldi e non più i datteri come ai miei tempi!
Un altro giornale racconta che il prezzo degli affitti degli appartamenti a Dubai ha quasi toccato il fondo, facendo registrare, nel terzo trimestre del 2009, un calo medio del 39 per cento rispetto allo stesso periodo dell'anno scorso. Un'ulteriore flessione è prevista nell'ultimo trimestre dell'anno.
Lo dice un certo Richard Ellis, mente della società di consulenza immobiliare Cb. Dev'essere un pezzo grosso. Secondo lui, nel terzo trimestre del 2008, affittare un appartamento a Dubai costava in media tra i 20.000 e i 22.000 euro l'anno, adesso i proprietari chiedono tra i 10.000 e i 12.000 euro. Affittare un ufficio a Dubai oggi costa il 55 per cento in meno dell'anno scorso, continua il buon Richard.
Chi ha ragione? Richard o la Nakheel? Nel dubbio, un altro giornale dice che gli stipendi di chi lavora nel settore edile negli Emirati Arabi Uniti (Eau) sono scesi di più del 30 per cento a causa della crisi economica globale. Ora capisco queli sguardi tristi, nei camioncini che li riportano a casa, dopo 16 ore di lavoro a 50 gradi all'ombra. E che case poi, senza luce e acqua corrente, in dodici in un monolocale in mezzo al deserto.
Se prima guadagnavano 120 dollari al mese, più della metà dei quali finivano in tasca a chi gli aveva procacciato il lavoro, come faranno adesso a mantenere le famiglie che si sono vendute tutto per mandarli qui? L'informazione sugli stipendi degli edili viene da uno studio sul costo della vita nel Paese nel 2009, citato dalla testata online Arabian Business. Secondo lo studio, condotto dall'agenzia per il lavoro Kershaw Leonard, in alcuni campi, come quello finanziario, si è registrato un leggero incremento. Che strana la vita. Proprio loro che in questa benedetta crisi non hanno capito nulla si ritrovano a guadagnare più di prima.
Magari anche grazie al cattivo lavoro dei giornalisti. Già, perché il vostro Ibn Battuta è un vecchio arabo ed è venuto a sapere che la Nakheel è legata alla famiglia reale di Dubai. Magari il mercato, ai vostri tempi, si sostiene anche vendendo fumo. Preferivo i vecchi venditori di tappeti.
Sangue, sudore e lacrime
La parola mafiwasta, in arabo, si può tradurre come 'privo di identità'. Questo è il nome che il britannico Nicholas McGeehan ha dato all'associazione che si batte per il rispetto dei diritti dei lavoratori migranti negli Emirati Arabi Uniti, perché non siano più degli schiavi senza volto.
La sua storia non coincide con lo stereotipo dell'expat (come vengono chiamati gli occidentali nel Paese) che fa finta di nulla di fronte alle condizioni dei lavoratori a Dubai e dintorni. Dopo anni negli Emirati, McGeehan continua la sua battaglia mentre è impegnato in un dottorato in Legge alla European University Institute di Firenze, sui temi del rispetto dei diritti umani e civili dei migranti nei paesi del Golfo Arabico.
Come nasce l'interesse per le condizioni dei lavoratori immigrati negli Emirati Arabi Uniti?
Sono arrivato ad Abu Dhabi nel 2002 e fino al 2006 ho insegnato inglese. Dal 2003 al 2006 i miei studenti erano i lavoratori occidentali impiegati in due compagnie petrolifere a partecipazione statale nei pressi di Abu Dhabi, ma ho potuto incontrare i migranti dal Sud-Est asiatico. Raggiungevo gli studenti sulle piattaforme o negli impianti e questa esperienza mi ha permesso di entrare in contatto personalmente con gli immigrati.
Come erano le loro condizioni di vita allora?
Le disperate condizioni dei lavoratori migranti sono evidenti a tutti coloro che hanno il tempo e la voglia di guardarsi attorno. Comunque, trovarmi così a stretto contatto con i lavoratori delle compagnie petrolifere mi ha permesso di conoscere le loro storie.
Tutti gli operai con i quali ho parlato erano profondamente infelici delle loro condizioni e lavoravano per ripagarsi i debiti contratti per arrivare negli Emirati. Alla maggior parte di loro era stato requisito il passaporto e anche quelli che lo avevano non potevano tornare a casa perché non avevano i soldi per il biglietto aereo di ritorno.
La maggior parte di loro lavoravano sei giorni a settimana, non gli venivano pagati gli straordinari, nemmeno quando erano costretti a lavorare 18 ore al giorno. Sopportando discriminazioni razziali non solo da parte degli emiratini, ma anche da molti expat occidentali e dagli altri immigrati del Sud-Est asiatico con mansioni più qualificate delle loro.
Quando è nata Mafiwasta?
Non sono mai stato capace di essergli d'aiuto nei problemi della vita quotidiana. Io e il mio amico David Kane, ricercatore della Middlesex Universirty, abbiamo iniziato a scrivere delle lettere alle catene alberghiere chiedendo come mai non permettevano al loro personale di indossare pantaloni corti nei mesi più torridi e scrivevamo anche alle multinazionali occidentali presenti negli Emirati chiedendo se erano a conoscenza delle sconvolgenti condizioni di vita e di lavoro dei migranti.
Mafiwasta è nata davvero per caso, da un'idea mia e di David. Non avendo ottenuto nulla dalle nostre richieste alle multinazionali, abbiamo deciso di aprire nel 2005 un sito web presentandoci come una vera e propria organizzazione. Iniziando a considerarci tali, abbiamo preso ad esserlo per davvero.
Come funziona l'associazione, come lavorate adesso?
Eravamo e siamo volontari e non riceviamo finanziamenti. Anche se stiamo attivamente cercando fondi per dedicarci a tempo pieno all'organizzazione. Con il nostro tempo e le nostre limitate risorse, riusciamo comunque a monitorare le condizioni dei lavoratori immigrati negli Emirati, collaborando con i media internazionali e con le più importanti organizzazioni non governative in modo da far pressione sulle istituzioni negli Emirati quando questo è possibile.
Abbiamo scritto diversi report per le Nazioni Unite e abbiamo collaborato fornendo le informazioni necessarie con il Committee on the Elimination of Racial Discrimination (Cerd) nell'agosto 2009.
La nostra attività è seguita con interesse dai media internazionali e il nostro movimento è citato nei documentari che la Bbc e al-Jazeera hanno dedicato all'argomento*.
Alla fine di ottobre del 2007 il mondo ha conosciuto il lato oscuro dello sviluppo senza freni degli Emirati. Migliaia di lavoratori immigrati incrociarono le braccia chiedendo condizioni migliori di lavoro. Almeno 4mila di loro vennero espulsi. Com'è nata questa protesta?
Gli scioperi sono illegali negli Emirati, ma sono il risultato delle condizioni di lavoro dei migranti. Spesso sono legati al rifiuto da parte delle autorità di adattare i salari al costo della vita, mettendo queste persone nelle condizioni di non poter ripagare il debito contratto per arrivare qui.
E' molto difficile sapere cosa accade a coloro che vengono arrestati per aver scioperato, ma sembra che il governo individui i leader della protesta e li deporti verso i paesi d'origine senza processo.
Questo sistema dissuade i lavoratori dall'idea dello sciopero, sebbene non mancherebbero certo i motivi per incrociare le braccia sistematicamente.
Una situazione simile si è riproposta alla fine dell'agosto scorso, nella grande zona industriale di Jebel Ali, alle porte di Dubai. Cos'è accaduto?
E' difficile commentare senza informazioni di prima mano. Immagino, però, uno scenario simile a quello degli scioperi precedenti, ma non lo so e non ci sono ong indipendenti sul territorio che possano fare chiarezza su come sono andati i fatti.
I media locali si autocensurano e non osano contraddire la versione ufficiale del governo.
Qualcosa è cambiato negli ultimi anni?
No, ma l'aumento dell'attenzione internazionale sulla questione ha portato gli Emirati a fare delle promesse. In realtà, però, non c'è alcuna volontà reale di migliorare le condizioni di vita dei migranti. L'interesse primario è soffocare le rivendicazioni della manodopera e tenere il costo del lavoro più basso possibile. Le promesse sono fatte per tenere a bada la comunità internazionale, ma non vengono mai mantenute.
I media locali, però, riportano alcune novità: migliori condizioni abitative per i migranti, garanzie rispetto al pagamento dei salari e rapporti più equi tra lavoratore e azienda. Tutto falso?
Si, questo è un tipico esempio di promesse non mantenute. Il solo sistema per assicurare che i lavoratori vengano pagati sarebbe un'effettiva normativa sul lavoro che punisca chi non rispetta la legge. Il ministero del Lavoro degli Emirati, pur volendo, non ha l'autorità di regolare il mercato del lavoro nel Paese in particolare da quando le aziende locali sono pienamente consapevoli del fatto che non verranno punite in alcun modo in caso di violazione della legge.
Va sottolineato che tutte le compagnie che lavorano negli Emirati fuori dalla free trade zone devono appartenere per il 51 percento a un proprietario locale.
Cosa pensi di questa società?
Io sono britannico e l'economia del mio Paese trae enormi profitti da questo sistema schiavistico e il suo ruolo in questa parte di mondo rimane una vergogna nazionale. L'impegno dei singoli per porre fine a questo sistema dovrebbe essere, invece, una forma di orgoglio per la Gran Bretagna. Negli Emirati e negli altri paesi del Golfo bisogna prendere atto che esiste la schiavitù. La natura anti democratica di questi paesi rende impossibile la critica verso i regnanti, anche da parte di coloro che non sono arroganti, avari e sprezzanti dei diritti umani come loro. In quest'epoca caratterizzata dall'impegno per il rispetto dei diritti umani, spetta alla comunità internazionale far pressione per sostenere e sviluppare la società civile all'interno dei paesi del Golfo.
Qual'è il legame tra il modello di sviluppo occidentale e la società tradizionale locale?
I regnati sono dei turbo capitalisti in abito tradizionale. Il loro benessere dipende dalle relazioni amichevoli con l'Occidente, in particolare a Dubai, che non ha grandi riserve petrolifere.
La legittimità del loro ruolo è però legata al rispetto delle tradizioni locali, che non possono permettersi di tradire. La tragedia del Golfo, come ha spiegato il grande scrittore Abdul Rahman Munif nel suo libro Città di Sale, è legata al potere di dittatori legittimati dai proventi del petrolio.
* Il riferimento è al documentario Blood, Sweat and Tears, prodotto e trasmesso da al-Jazeera International nell'agosto del 2007 e al documentario Slumdogs and Millionaires, del giornalista Ben Anderson, trasmesso dalla Bbc all'interno del programma Panorama nell'aprile 2009.