E' di ieri poi la notizia che le elezioni legislative e presidenziali in Palestina previste per il 24 gennaio verranno rinviate a tempo indeterminato perchè sarebbe impossibile, per quella data, svolgerle anche nella striscia di Gaza, governata da Hamas.
Ciò vorrà dire che con ogni probabilità verrà prorogato il mandato di Abu Mazen, il quale solo qualche giorno fa aveva dichiarato di non volersi ricandidare.
Ma forse proprio grazie al rinvio delle elezioni si potrà arrivare ad un accordo tra Hamas e Fatah. Infatti un paio di giorni fa il presidente del parlamento palestinese e dirigente di Hamas, Aziz Dweik, in un'intervista al quotidiano arabo al-Quds al-Arabi ha annunciato che "Firmeremo entro febbraio la carta di riconciliazione palestinese proposta dagli egiziani così com'è, senza modifiche, avendo ottenuto alcune garanzie da parte dei funzionari del Cairo".
Purtroppo i dubbi su un accordo tra Hamas e Fatah rimangono tutti in piedi. Mentre va registrato positivamente il sondaggio pubblicato ieri dal quotidiano israeliano Haaretz secondo cui il 57% degli intervistati è favorevole a un dialogo con Hamas a condizione che il movimento islamico "riconosca Israele e ponga fine alle azioni terroristiche". Contrario è il 39%, mentre il 4% non si è pronunciato.
Un barlume di speranza che però non serve a cambiare alcunchè.
Obama e la questione palestinese
di Roberto Zavaglia - www.ariannaeditrice.it - 13 Novembre 2009
Tra le attese miracolistiche suscitate dall’elezione di Obama, c’era anche quella che il nuovo presidente Usa sarebbe riuscito, in tempi brevi, a risolvere l’eterna questione palestinese. Per la verità, chi ne aveva seguito la campagna elettorale senza farsi travolgere dall’atmosfera millenarista diffusa dai media, nutriva più di un dubbio a questo proposito.
Il candidato democratico, pur scandendole con il consueto fervore, si era limitato a pronunciare, a proposito della Palestina, una serie di banalità, sottolineando piuttosto il suo sincero sostegno “alle ragioni di Israele”, quando una parte della stampa aveva insinuato un suo molto presunto antisionismo. Anche la scelta di alcuni importanti collaboratori, notoriamente schierati senza incertezze dalla parte dello Stato ebraico, aveva accresciuto lo scetticismo.
L’ormai celebre discorso del Cairo, in cui Obama propose un nuovo inizio dei rapporti fra il suo Paese e il mondo musulmano, aveva però convinto alcuni degli “increduli” che il presidente, pur non preparandosi a sconvolgere la tradizionale linea Usa, sarebbe stato “più assertivo” nei confronti di Israele. Ebbene, a un anno di distanza dalla vittoria elettorale di Obama, la realtà è peggiore delle previsioni dei pessimisti.
Nel suo recente viaggio a Gerusalemme, il segretario di Stato Hillary Clinton ha dichiarato che Washington non chiede il congelamento dei nuovi insediamenti israeliani come condizione per la ripresa dei negoziati, contraddicendo le precedenti affermazioni dello stesso presidente. In seguito allo scalpore suscitato, la Clinton ha, in modo ambiguo, rettificato la sua affermazione, ma nessun esponente dell’Amministrazione l’ha in alcun modo censurata.
Per il momento, la posizione ufficiale degli Usa è che i palestinesi devono riprendere i negoziati, non si capisce su che basi, nel mentre gli israeliani si impadroniscono di altre parti dei loro territori. Anche Abu Mazen, l’arrendevole Abu Mazen, lo screditatissimo presidente che aveva perfino cercato, inizialmente, di insabbiare il rapporto Onu sui crimini di guerra israeliani a Gaza, non ce l’ha fatta più.
Il capo di Fatah ha comunicato ufficialmente che non si presenterà come candidato alle prossime elezioni presidenziali, che lui stesso aveva indetto per il prossimo gennaio. Colui che era diventato l’uomo degli statunitensi e, probabilmente, degli stessi israeliani, si è visto togliere anche la foglia di fico, rappresentata dalla possibilità di fermare l’ulteriore avanzata dei coloni.
Sempre a proposito della comprensione di Obama per “le ragioni di Israele”, è significativa la scoperta del “Washington Times” che ha rivelato come, contrariamente a quanto alcuni politici israeliani temevano, egli abbia rassicurato Netanyahu di non volere fare pressioni sullo Stato ebraico a proposito del suo arsenale atomico. La conferma l’ha data lo stesso capo del governo israeliano, dichiarando a una televisione locale che, fin dal loro primo incontro, Obama gli ha garantito che la questione sarebbe rimasta immutata.
Nel 1969, Nixon e Golda Meir raggiunsero un accordo informale per non fare mai menzione delle atomiche in possesso di Israele, pur essendone nota l’esistenza. La situazione, dunque, non cambia, anche se il nuovo presidente Usa è il paladino della causa della non proliferazione nucleare. Ciò che vale per l’Iran, però, non riguarda gli amici più stretti.
Intanto, la condizione dei palestinesi procede nel suo “naturale” peggioramento”. Ogni giorno si ha notizia –non certo dalla grande stampa, ovviamente- di incursioni di Tsahal in Cisgiordania, di espropri di abitazioni palestinesi a Gerusalemme Est e di altre ordinarie angherie. Per capire come vadano le cose, si può, tra i molti esempi, citare il recente rapporto di Amnesty International sulla situazione idrica.
Secondo questo documento, i 450mila coloni israeliani, compresi quelli di Gerusalemme Est, dispongono di più acqua dei 2,3 milioni di palestinesi che hanno un accesso forzatamente limitato alle risorse idriche. Mentre negli insediamenti illegali non mancano le piscine, in alcuni territori circostanti i palestinesi ricevono una quantità di acqua insufficiente per le esigenze primarie.
Circa 200mila palestinesi, poi, non hanno del tutto l’acqua corrente nelle proprie abitazioni. A causa del persistente divieto di introdurre tubi e attrezzature metalliche, a Gaza non si possono riparare pozzi, fogne e stazioni di pompaggio danneggiati dall’aggressione israeliana del gennaio scorso.
Nessun progresso si registra anche nei rapporti fra i due maggiori partiti palestinesi: Hamas e Fatah sono anzi accusati di compiere, nelle aree da loro controllate, arresti illegali e omicidi contro i militanti delle fazioni rivali. La situazione, con tutta evidenza, può solo peggiorare.
Alcuni analisti pensano che la disperazione possa scatenare, entro breve, una nuova intifada che, oltre a causare un ulteriore spargimento di sangue, inchioderebbe Washington alle responsabilità della propria inazione. Il solitamente cauto re di Giordania, Abdallah Secondo, ha espresso, in un intervista al “Times” di qualche tempo fa, la preoccupazione che, se lo stallo dovesse permanere, tra non molto “ci sarà un nuovo conflitto fra gli arabi o i musulmani e Israele”.
Il governo israeliano cerca di distogliere l’attenzione internazionale da quanto succede in Palestina, propagando l’idea che la vera emergenza da affrontare, prima di considerare qualsiasi altra situazione, sia quella riguardante l’Iran. E’ possibile che l’assenso Usa all’ampliamento delle colonie sia stato pagato, da Israele, con la promessa di non effettuare, per ora, i bombardamenti aerei dei siti atomici iraniani, i cui piani sono da tempo pronti.
Obama, probabilmente, pensa di rabberciare, in qualche modo, la questione palestinese dopo avere risolto le altre crisi -in Afghanistan, Iran e Iraq- nelle quali il suo Paese è coinvolto. A prescindere dal fatto che il dramma dei palestinesi continua ad alimentare l’ostilità del mondo musulmano verso Washington e, senza provare a risolverlo, sarà difficile pacificare la regione, il calcolo potrebbe rivelarsi sbagliato anche per altri motivi.
In un mondo avviato sulla strada del multipolarismo, l’impotenza palesata dagli Usa in Palestina gli procura ulteriore discredito anche fra le nazioni emergenti che appartengono allo stesso campo. La Turchia, che era l’unico Stato islamico amico di Israele, mostra ormai una chiara insofferenza per l’incancrenirsi della situazione e incomincia a volgere lo sguardo verso la Siria e l’Iran, prendendo le distanze dalla disciplina occidentalista.
Altri Paesi, constatando come Washington preferisca sostenere sempre e comunque Israele in nome delle “comuni radici”, si potrebbero chiedere se una potenza così “ideologicamente condizionata” non sia un pericolo, piuttosto che una garanzia, per la stabilità internazionale.
Il bluff di Abu Mazen, rais senza alternative
di Michele Giorgio - www.ilmanifesto.it - 12 Novembre 2009
«L'apprezzamento espresso da Hillary Clinton per le posizioni di Netanyahu è stato un colpo basso per Abu Mazen, un modo per segnalare che (il presidente dell'Anp) non va più bene». Aveva visto bene lo stimato ex deputato di Fatah, Husam Khader, interpretando, la scorsa settimana a Nablus, il plateale sostegno dato dal Segretario di stato Usa alla limitatissima sospensione dell'espansione delle colonie ebraiche in Cisgiordania offerta dal premier israeliano.
Un paio di giorni dopo le considerazioni fatte da Khader, il presidente dell'Anp ha annunciato di non volersi ricandidare alle elezioni da lui stesso convocate per il 24 gennaio 2010. «Stati Uniti e Israele cercano un Karzai palestinese, qualcuno che (come il presidente afgano) accetti senza fiatare i loro piani», aveva aggiunto Khader, che pure non è un sostenitore di Abu Mazen.
Il presidente dell'Anp è stanco e deluso dalle promesse non mantenute dagli americani, della vecchia e della nuova Amminitrazione. Per anni è stato «l'uomo giusto» di Washington (e dell'Ue) in terra palestinese. Si è contrapposto persino al «padre della patria» Yasser Arafat, scomparso esattamente quattro anni fa (oggi in Cisgiordania sono previste commemorazioni con migliaia di persone, Hamas invece ha vietato i raduni a Gaza e ha detenuto decine di attivisti di Fatah).
Più di recente ha permesso l'avvio di un programma di addestramento di truppe palestinesi anti-Hamas sotto la supervisione di un generale Usa, Keith Dayton. Ha anche lasciato che «l'uomo forte» di Fatah a Gaza, Mohammed Dahlan, complottasse contro il governo di unità nazionale guidato dall'islamista Ismail Haniyeh, finendo poi per pagare lui il prezzo più alto del conseguente colpo di mano di Hamas a Gaza.
Abu Mazen ritiene di aver fatto la «sua parte» e, per questo, è esploso quando l'Amministrazione Obama ha fatto retromarcia sullo stop totale della colonizzazione originariamente richiesto a Israele. Ora minaccia addirittura di dare le dimissioni e smantellare l'Anp, un'idea che non dispiacerebbe a una larga porzione della popolazione dei Territori occupati. «Il presidente ha lavorato per creare uno Stato palestinese ma questo Stato non è in cantiere, quindi perché dovrebbe rimanere al suo posto.
Inoltre non ha motivo di continuare a esistere anche l'Anp, che venne istituita all'unico scopo di gettare le fondamenta dello Stato di Palestina», ha spiegato il capo negoziatore palestinese Saeb Erekat mettendo in dubbio la ben nota formula dei «due Stati» ed evocando per la prima volta quella dello «Stato unico» per israeliani e palestinesi.
D'altronde segnali incoraggianti dagli Stati Uniti per i palestinesi ne sono giunti pochi, anche nelle ultime ore. Obama ha ricevuto Netanyahu nella tarda serata di lunedì, un incontro a porte chiuse durato un'ora e mezza e senza conferenza stampa finale, a segnalare quello che la stampa israeliana progressista ha definito il «gelo» tra la presidenza Usa e Netanyahu. Washington tuttavia si guarda bene dal prendere iniziative concrete per cercare di piegare l'intransigenza israeliana.
E la minaccia di uno scioglimento dell'Anp ha fatto rumore ma in molti sospettano che il rais palestinese stia solo cercando di far pressione su Obama per spingerlo ad alzare con voce con Israele. «Non credo che Abu Mazen voglia andare sino in fondo ma allo stesso tempo (il presidente) non può rimanere a guardare, deve fare qualcosa se vuole costringere Netanyahu a cambiare rotta e gli americani ad adottare una linea più decisa e neutrale», sostiene Mustafa Barghouti, che sfidò Abu Mazen alle presidenziali del 2005.
Dubbi anche sulla «non ricadidatura», visto che la Commissione elettorale dell'Anp non ha ancora avviato la preparazione del voto del 24 gennaio, al quale nessun palestinese crede, perché Hamas lo impedirebbe a Gaza e boicotterebbe in Cisgiordania.
Non è peregrina però l'ipotesi della ricerca di un «Karzai palestinese». Il moderato e filo-occidentale Abu Mazen potrebbe davvero non andare più bene a Washington e Tel Aviv, poiché anche lui (come fece Arafat) si rifiuta di accettare tutte le condizioni dettate da Israele per la nascita di uno Stato palestinese. Ma il «Karzai palestinese» non è facile da individuare.
Non certo è certo il premier Salam Fayyad (molto stimato dagli Usa), perché non essendo un dirigente del partito Fatah non ha possibilità di venir eletto. Non Mohammed Dahlan il quale, pur avendo recuperato influenza e potere (nei media), è visto dalla popolazione come un «agente degli americani».
Allo stesso tempo dovranno rinunciare alle loro speranze di cambiamento i sostenitori del «comandante dell'Intifada» Marwan Barghuti (in carcere in Israele). Il Comitato centrale di Fatah non ha intenzione di candidarlo, nonostante la sua enorme popolarità. Alla fine Abu Mazen rimarrà al suo posto.
L'addio di Abu Mazen
di Luca Mazzuccato - Altrenotizie - 9 Novembre 2009
Il Presidente dell'Autorità Nazionale Palestinese Abu Mazen ha annunciato che non si candiderà alle prossime elezioni palestinesi, che lui stesso ha convocato per il prossimo gennaio. La decisione è stata presa in seguito alle forti polemiche per la sua posizione ambigua sul rapporto della Commissione Goldstone su Gaza e il buco nero in cui sono precipitate le speranze di pace in Medioriente. A capo dell'ANP da cinque anni, Abu Mazen (alias Mahmoud Abbas) è stato un pilastro di moderazione nel panorama palestinese, dopo la morte di Yasser Arafat.
A settantaquattro anni, una vita di militanza nell'OLP e in Al Fatah, ha rappresentato insieme al premier palestinese Fayyad l'interlocutore privilegiato degli Stati Uniti e il garante dello status quo. Personaggio chiave della strategia del “processo di pace,” durante l'amministrazione Bush e i governi Sharon-Olmert-Livni si è distinto per il suo supino allineamento alle richieste occidentali e israeliane.
Dopo la vittoria di Hamas alle elezioni del 2006 e il sequestro da parte israeliana di tutti i parlamentari eletti nel movimento islamico, Abbas ha avallato un vero e proprio golpe, insediando Fayyad a capo di un governo di Fatah e cercando di riconquistare con la forza delle armi la Striscia di Gaza, controllata da Hamas.
Quest'ultima azione, portata avanti dal compagno di partito Muhammad Dahlan sotto il controllo americano, è sfociata in una sanguinosa guerra per bande e nell'espulsione di Fatah dalla Striscia di Gaza. Il conflitto intra-palestinese cominciato allora rimane tuttora irrisolto, nonostante gli assidui tentativi di riconciliazione tra Hamas e Fatah perpetrati da Egitto, Qatar e Arabia Saudita.
Rappresentante della vecchia guardia di Fatah, notoriamente corrotta e ormai priva di consensi, Abu Mazen non ha perso occasione per minare la propria credibilità agli occhi del popolo palestinese. In seguito ai sanguinosi scontri tra Hamas e Fatah a Gaza, le forze di polizia palestinesi in West Bank, sotto il controllo del presidente, hanno attuato una feroce repressione ai danni degli attivisti di Hamas, in un gioco di squadra insieme alle forze di Occupazione israeliana. Ma la goccia che ha fatto traboccare il vaso riguarda l'atteggiamento tenuto da Abu Mazen nei confronti della Commissione Goldstone sull'invasione di Gaza nello scorso Gennaio.
Il rapporto della Commissione ONU, guidata dal giudice Goldstone, fervente sionista e dunque inattaccabile dalla propaganda israeliana, accusa governo ed esercito israeliano (insieme ad Hamas) di crimini di guerra durante l'invasione di Gaza. A fine settembre, la delegazione palestinese all'ONU avrebbe dovuto iniziare le procedure per presentare il dossier all'ordine del giorno del Consiglio di Sicurezza, per la prima volta nella storia delle Nazioni Unite. Ma Abu Mazen si è piegato alle pressioni americane e ha deciso di bloccare l'iniziativa e posticiparla all'anno prossimo, cercando di insabbiare il procedimento.
La sottomissione di Abbas al diktat americano è stata di fatto percepita come un tradimento imperdonabile della causa nazionale da parte dei palestinesi, che sono scesi in piazza numerosi a dimostrare contro Abbas, tanto che persino la Siria e gli altri paesi arabi hanno condannato la mossa. Nonostante siano stati presi di mira dalla Commissione Goldstone, i leader di Hamas hanno accusato Abbas di giustificare a posteriori il massacro dei millequatrocento palestinesi morti nelle tre settimane di conflitto.
Abbas ha cambiato idea la settimana scorsa, ottenendo l'approvazione del dossier Goldstone dal Consiglio ONU per i Diritti Umani nonostante la contrarietà americana, ma l'indecisione dimostrata in precedenza sarà difficile da digerire per gli elettori palestinesi. Durante una recente telefonata con Obama, in cui lo avvisava della sua volontà di farsi da parte, Abbas ha ammesso al presidente americano che il caso Goldstone è stato un grave errore politico.
Questo è il percorso che ha portato Abu Mazen a non ricandidarsi. Ha atteso la partenza del Segretario di Stato americano Hillary Clinton, in visita ufficiale tra Israele e Palestina, per rendere nota la propria decisione con un messaggio in diretta tv, ammettendo che qualsiasi tentativo di dialogo con il governo del falco Netanyahu è inutile e dunque la sua missione politica è esaurita.
Nonostante le elezioni siano programmate per il prossimo gennaio, è improbabile che la data venga rispettata. Hamas, che controlla la Striscia di Gaza, ha dichiarato che non riconoscerà le elezioni fino a quando non verrà raggiunto un accordo tra il movimento islamico e Fatah, accordo che al momento resta lontano. Dunque Abu Mazen rimarrà saldamente al potere ancora per qualche tempo, in attesa che tra le file di Fatah emerga un candidato alternativo. Ma quali sono le alternative?
Al recente congresso di Fatah, il maggior consenso è stato riscosso proprio da Muhammad Dahlan, l'artefice del fallito colpo di stato a Gaza contro Hamas e uomo di fiducia dei servizi segreti americani. Ma la popolarità di Dahlan tra i palestinesi è ridotta, per via delle voci di corruzione e soprattutto per la sua rocambolesca fuga da Gaza in West Bank, orchestrata dall'esercito israeliano.
Rimane Marwan Barghouti, ex-capo delle milizie Tanzim, che gode di un enorme consenso popolare e pare l'unico in grado di battere Haniyeh, il premier del governo Hamas a Gaza. Purtroppo, Barghouti si trova nelle carceri israeliane, dove sta scontando una condanna a cinque ergastoli, sebbene voci sul suo possibile rilascio riaffiorino di tanto in tanto.
Quel che è certo è che le speranze di pace per il Medioriente, all'apice un anno fa dopo l'elezione di Barack Obama, sono sprofondate. Nell'opinione pubblica palestinese, l'atteggiamento della nuova amministrazione americana nei confronti di Israele non è cambiato rispetto all'era Bush. La questione del congelamento delle colonie illegali in West Bank, che Obama aveva posto come precondizione per la ripresa del negoziato, è naufragata miseramente.
Netanyahu ha chiamato il bluff americano e ha vinto la partita. L'ultima doccia fredda per i palestinesi è stato infatti l'accordo tra Clinton e Netanyahu per un cosiddetto “blocco temporaneo delle colonie,” ostentato come un grande successo dagli Stati Uniti, ma visto dai palestinesi come la definitiva capitolazione americana. Non è del tutto implausibile che la moneta di scambio sia stato l'addolcimento della posizione israeliana sull'Iran, che Netanyahu avrebbe offerto in cambio della mano libera sugli insediamenti nei Territori.
Dopo la notizia dell'abbandono di Abbas, il capo negoziatore palestinese Saeb Erekat ha dichiarato che “i palestinesi dovranno abbandonare l'idea di uno stato indipendente,” e che Abbas dovrebbe “dire la verità al suo popolo, cioè che con l'espansione degli insediamenti la soluzione dei due-stati non è più un'opzione possibile.” Secondo Erekat, “non rimane che focalizzare la propria attenzione sulla soluzione dello stato singolo, dove musulmani, cristiani ed ebrei possono vivere con gli stessi diritti.”
Venti di guerra in Medio Oriente
di Eugenio Roscini Vitali - Altrenotizie - 10 Novembre 2009
L’allarme è stato lanciato dal Generale Amos Yadlin, capo dell’Agaf HaModiin (Aman), l’intelligence militare israeliana: il braccio armato di Hamas avrebbe a disposizione un numero imprecisato di razzi di fabbricazione iraniana con un raggio d’azione di 37 miglia (60 chilometri), capaci quindi di raggiungere la periferia di Tel Aviv.
Nel corso di un dibattito a porte chiuse, Yadlin ha riferito alla Commissione Difesa e Affari Esteri della Knesset che il primo novembre i miliziani del gruppo islamico palestinese hanno compiuto con successo il test di un missile identificato come Silkworm C-802, lanciato sul Mediterraneo dalla costa occidentale della Striscia di Gaza.
Anche se l’Aman non ha precisato da chi sarebbe stato fornito il missile, la notizia, diffusa il 3 novembre scorso dalla stampa israeliana, confermerebbe i sospetti espressi nei mesi scorsi dai servizi segreti ebraici sulle intenzioni di Teheran di continuare ad armare il Medio Oriente, e in particolare Hamas ed Hezbollah.
Secondo le informazioni in possesso, i militanti islamici sarebbero ora in grado di colpire le aree urbane che sorgono a sud della capitale israeliana, Hulon e Bat-Yam, la città di Rishon-Letzion, l’aeroporto internazionale Ben-Gurion e i principali collegamenti stradali che da Tel Aviv raggiungono Gerusalemme e molte alte località dell’entroterra.
Evoluzione del modello da esportazione del missile cinese Ying-Ji-802 (YJ-82), il Silkworm C-802 è lo stesso razzo con cui Hezbollah, il 15 luglio 2006, ha colpito e danneggiare seriamente (nell’attacco morirono quattro militari) la INS Hanit, una corvetta classe Saar 5 della Heil HaYam HaYisraeli, la Marina Militare israeliana.
A causa delle innumerevoli modifiche tecniche apportate, oggi non è abbastanza chiaro quante versioni ne esistano e quale sistema d’arma sia nelle mani Hamas: il primo YJ-8 (C-801), presentato nel 1989 dalla China Haiying Electromechanical Technology Academy (Cheta), pesava 815 chilogrammi ed aveva un range di 42 chilometri, 80 per il modello YJ-81 (C-801A).
L’ultimo modello (YJ-82, indicato dalla NATO con il codice CSS-N-8 Saccade) è mosso da un motore turbo-jet, monta una testata da 165 chilogrammi e alla velocità massima di 0.9 mach (1102 km/h) raggiunge una distanza di 120 chilometri. Per le sue caratteristiche tecniche e per il sofisticato sistema anti-jamming è difficilmente intercettabile e nel 98% dei casi riesce a centrare l’obbiettivo; nella sua versione da esportazione (C-802), lo Ying-Ji-802 è utilizzato dalle marine militari di Algeria, Bangladesh, Indonesia, Iran (più di cinquanta quelli dislocati sull’isola di Qeshm), Pakistan, Tailandia ed in Libano dai miliziani del movimento sciita Hezbollah.
L’intelligence israeliana sospetta che il missile lanciato nei giorni scorsi dal braccio armato di Hamas, le brigate Ezzedin al-Qassam, sia stato contrabbandato da Hezbollah e che gli istruttori siano militanti del gruppo sciita libanese. Il segnale è comunque chiaro: armare il movimento islamico palestinese per interrompere il blocco navale imposto da Gerusalemme sulle acque prospicienti la Striscia di Gaza; una strategia già applicata con successo nel paese dei cedri dove, grazie ai missili iraniani, Hezbollah è risuscito a trasformare la costa libanese in una vera e propria roccaforte, la più difesa costa del Mediterraneo.
A Gerusalemme sono inoltre preoccupati del fatto che, oltre all’area urbana di Tel Aviv, i palestinesi sono ora in grado di colpire le strutture militari e i porti, soprattutto quello di Ashdod, oltre che un numero non precisato di obiettivi strategicamente importanti come depositi carburanti e munizioni, centrali elettriche e nodi vitali per le telecomunicazioni. Nel 1987 l’Iran usò proprio questo tipo di missili per bombardare le istallazioni petrolifere in Kuwait.
In relazione al contrabbando di armi verso Gaza, alla fine di ottobre il sito israeliano Debka aveva parlato del coinvolgimento della Forza al Quds, l’unità speciale dei Guardiani della rivoluzione iraniana che all’estero organizza, addestra, finanzia ed equipaggia i movimenti islamici legati al terrorismo internazionale.
Secondo l’intelligence dello Stato ebraico i miliziani del Generale Qassem Suleimani starebbero cercando di far arrivare nella Striscia di Gaza i missili di superficie Fajr-5, razzi che hanno una gittata di 75 chilometri e possono quindi arrivare a colpire l’area settentrionale della capitale israeliana. Smontati in 8-10 sezioni e portati clandestinamente fino ai porti del Sudan, i vettori arriverebbe ai campi di addestramento palestinesi che sorgono al confine con l’Egitto per poi raggiungere clandestinamente i Territori controllati da Hamas attraverso il Canale di Suez, il Sinai e i tunnel sotterranei di Rafah.
Che nel vicino Medio Oriente qualche cosa bolla in pentola lo provano anche i fatti accaduti tra il 3 e il 4 novembre scorso a largo di Cipro, fatti che secondo il Servizio di sicurezza generale per gli affari interni (Shin Bet) dimostrano come Teheran sia fermamente intenzionata ad armare non solo Hamas ma anche le milizie Hezbollah.
Nel quadro dell’operazione “Four Species”, durante un’ispezione a bordo del cargo “Francop”, avvenuta a circa 100 miglia dalla costa dello Stato ebraico, i commandos della Flottiglia 13, unità speciale israeliana, hanno trovato un carico di 500 tonnellate di armi, un quantitativo 10 volte superiore a quello scoperto nel gennaio 2002 sulla Karin A.
Sulla nave, battente bandiera dell’Antigua, sono stati rinvenuti 9 mila proiettili da mortaio, 3 mila munizioni d’artiglieria, 2 mila razzi da 122 e 107 millimetri, 600 mila proiettili 7.62 per fucili d’assalto AK47 e 20 mila granate a frammentazione. Un vero arsenale che per le autorità di Gerusalemme si va ad aggiungere a quello che da mesi alimenta il gruppo armato libanese.
In questo caso le armi sarebbero arrivate nel porto egiziano di Damietta (Dumyat) a bordo della Iranian Visea, nave di proprietà della Iran Shipping Lines (IRISL): il carico, imbarcato a Bandar Abbas (Stretto di Hormuz) o a Bandar Imam Khomeini (Golfo Persico), è salpato il 14 ottobre per il Mediterraneo; dopo aver fatto tappa a Jabel Ali (Dubai), il 26 ottobre la Visea avrebbe raggiunto il porto egiziano e, dopo aver scaricato i container, sarebbe ripartita per Felixtowe, 60 chilomentri a nord di Londra, ed Amburgo.
In Egitto il carico è rimasto fino al 1°novembre, giorno in cui viene caricato sul Francop, nave mercantile di proprietà della compagnia tedesca Francop Schiffahrts GmbH & Co, che al momento della scoperta delle armi dichiarerà di non essere stata a conoscenza del materiale trasportato. Intercettato il 4 novembre, il cargo, abitualmente utilizzato per il trasporto di alimentari tra il Damietta, Limassol (Cipro), Beirut (Libano) e Latakia (Siria), viene scortato nel porto israeliano di Ashdod e sottoposto a nuove ispezioni. Riprenderà il mare il giorno successivo.
Tornando al missile lanciato dalle coste palestinesi, Hamas nega ogni cosa e considera le accuse del Generale Amos Yadlin una “macchinazione” per creare nell’opinione pubblica un allarme generalizzato, un tentativo malriuscito per depistare l’attenzione della comunità internazionale dalle 575 pagine che compongono il rapporto Goldstone sull’operazione “Piombo Fuso” a Gaza.
Due giorni dopo la notizia sul lancio del missile palestinese, l’Assemblea generale delle Nazioni Unite avrebbe infatti votato una risoluzione di condanna contro le forze armate israeliane, accusate di aver compiuto crimini di guerra contro i civili che abitano la Striscia, e contro i miliziani di Hamas, colpevoli di aver puntato i loro razzi contro la popolazione ebraica del Neghev.
Approvata a maggioranza (114 Paesi a favore, 18 contrari e 44 astenuti), la risoluzione non ha comunque scalfito le posizioni di Israele, che ha anzi ribattuto affermando che il rapporto Goldstone è un tentativo arabo di infangare la reputazione dei capi militari ebraici ed ha invitato l’Onu a concentrare la sua attenzione sulle violazioni iraniane alle risoluzioni 1747 e 1701 del Consiglio di Sicurezza.
II 6 novembre 2009 il ministro degli Esteri israeliano, Avigdor Lieberman, ha dichiarato: “Durante l’Operazione Piombo Fuso, Israele ha dato prova di alto livello morale e anche in futuro intende difendere la popolazione dalla minaccia dei razzi in possesso dei suoi vicini; Israele respinge la risoluzione dell'Assemblea Generale dell'Onu che è completamente avulsa dalla realtà che Israele deve affrontare sul terreno”.
L'operazione militare Piombo Fuso ha avuto inizio il 27 dicembre del 2008; l’invasione via terra della Striscia di Gaza è partita il 3 gennaio 2009; la guerra si è conclusa il 18 gennaio; sono morti 1203 palestinesi di cui 410 bambini; migliaia i feriti, molti con dei quali in modo irreversibile; 5300 le persone che hanno subito l’amputazione di un arto; 13 gli israeliani che hanno perso la vita, quasi 200 i feriti.
Il 7 novembre il leader di Hamas, Khaled Meshaal, ha invitato il presidente palestinese Mahmoud Abbas a interrompere ogni tentativo di compromesso con Israele e gli ha proposto di mettere fine alle divisioni tra i palestinesi: “il compromesso con Israele, nato con gli accordi di Oslo del 1993, ha fallito nel tentativo di bloccare l’espansione degli insediamenti israeliani e non ha sostenuto i palestinesi nello stabilire un loro stato indipendente nelle terre occupate dagli ebrei con la guerra del 1967; qualunque leader palestinese creda realmente nel diritto al ritorno, deve sapere che l’unico modo per farlo non è attraverso i negoziati, ma con la lotta santa, la resistenza e l'unità nazionale”.
di Gian Carlo Caprino - www.clarissa.it - 13 Novembre 2009
Per Israele, dopo anni e anni, sembra sgretolarsi l'impunità di fatto di cui questo Stato ha goduto, in sede internazionale, per la sua politica avventurista e per quanto commesso dal 1982 ai nostri giorni sia in Libano che nei Territori occupati.
Ha cominciato l'AIEA, il 18 settembre scorso, approvando per la prima volta un documento che censura il possesso illegale di testate atomiche (mai ufficialmente dichiarate, ma stimate nell'ordine delle centinaia) da parte dello Stato ebraico, invitandolo perentoriamente a firmare il Trattato di non proliferazione nucleare ed a sottoporsi ai controlli periodici da parte della stessa AIEA.
I rapporti con la Turchia poi, fino a pochi mesi fa alleato di ferro di Israele, stanno precipitando; infatti il primo ministro turco Erdogan, dopo aver aspramente criticato Israele per sua operazione "piombo fuso" contro Gaza tenutasi a cavallo tra il 2008 e il 2009, ha parlato apertamente di "crimini" di guerra da parte israeliana e ha cancellato le manovre congiunte tra l'aviazione israeliana e quella turca nell'ambito delle esercitazioni NATO che si sono tenute in Turchia.
Lo stesso Erdogan si è poi recato a Teheran il 27 ottobre, accolto con tutti gli onori da Ahmadi Nejad, per affermare la necessità di un deciso miglioramento dei rapporti tra i due Paesi e con la Siria di Bashar Al Assad. In quella occasione Erdogan si è anche detto sicuro della buona fede del governo iraniano nello sviluppo di tecnologia nucleare per scopi pacifici, facendo chiaramente intendere che un'aggressione armata da parte israelo-americana all'Iran potrebbe avere conseguenze molto gravi nelle relazioni di quei due Paesi con lo Stato turco.
Mahamud Abbas (alias Abu Mazen) ha recentemente manifestato la volontà di non ripresentarsi alle elezioni di gennaio per la presidenza dell'Autorità nazionale palestinese, amareggiato per lo stallo dei negoziati. Il governo israeliano si è grandemente allarmato per questa decisione, poiché Abu Mazen è stato, finora, l'unico ad accettare il negoziato con gli occupanti senza porre precondizioni e, soprattutto, senza porre limiti di tempo al raggiungimento di un accordo qualsivoglia, tanto da destare ragionevoli sospetti, nel mondo musulmano, che egli sia uno strumento in mano a Washington e Tel Aviv, piuttosto che colui che dovrebbe difendere gli interessi di coloro che subiscono da più di 40 anni un'occupazione militare da parte di uno Stato straniero.
La possibilità che venga eletto qualcuno che voglia negoziare risolutamente e con traguardi precisi preoccupa molto Tel Aviv, tanto che Shimon Peres (Presidente della repubblica) ha pubblicamente invitato Abu Mazen a rivedere le sue posizioni.
Ma la minaccia più grave, per la diplomazia israeliana, sembra oggi provenire dall'ONU.
L'assemblea plenaria ha infatti approvato, il 5 novembre, una risoluzione (con 119 "sì", 8 "no" e 44 astenuti) che "invita" il governo israeliano a istituire, entro 3 mesi, una commissione "credibile ed indipendente" che indaghi su "eventuali" crimini di guerra e di crimini contro l'umanità commessi durante l' operazione "piombo fuso" che ha provocato, a Gaza, circa 1400 morti (quasi tutti civili) per causa dell'esercito israeliano.
La stessa risoluzione raccomanda poi al Segretario generale Ban Ki Moon di portare, sempre entro 3 mesi, la questione al Consiglio di sicurezza per prendere eventuali misure.
La risoluzione deriva dal recepimento, da parte dell'Assemblea generale, del rapporto Goldstone (dal nome del giudice sudafricano che ha presieduto una apposita commissione istituita dal Consiglio dei diritti umani della stessa ONU); essa prevede altresì la trasmissione del rapporto Goldstone al Tribunale Penale Internazionale (TPI) dell'Aia.
A questo punto la grana passa nelle mani di Barack Onbama e del TPI.
Se, infatti, il Consiglio di sicurezza dovesse adottare una ferma risoluzione di condanna (con eventuali sanzioni) contro Israele per quanto perpetrato a Gaza, Obama, causa le fortissime pressioni delle lobbies sioniste, sarebbe costretto a porre il veto. Resta da vedere, in questo caso, cosa rimarrebbe della credibilità "ecumenica" verso il mondo musulmano di un Presidente americano che, per secondo nome (ironia della sorte!), porta quello di Hussein, cioè dell'Imam nipote di Muhammad morto da eroe a Karbala nel 680 e celebrato in tutto l'Islam.
Il TPI, dal canto suo, che ha sempre dormito sonni profondi nei confronti delle malefatte israeliane compiute negli ultimi decenni, non potrà più ignorare la questione delle stragi di Gaza, data l'autorevolezza (la segreteria ONU) da cui proviene l'invito ad esaminare il rapporto Goldstone; se ne dovesse scaturire una formula assolutoria per Israele, questo tribunale perderebbe ogni residuo di credibilità, già fortemente compromessa.
Un'epoca sembra finita per Israele: quella dell'impunità e della incriticabilità assoluta, pena l'accusa infamante (equivale ad una scomunica laica) di "antisemitismo".
Sarà veramente così?