Mentre qualche giorno fa il presidente afghano Karzai ha annunciato l'avvio di un "Alto Consiglio per la pace" con i talebani.
Un organo già approvato lo scorso giugno dalla "Jirga per la pace", l'assemblea dei notabili e capi tribù del Paese convocata da Karzai.
E tra una settimana si dovrebbe conoscere la lista dei partecipanti al Consiglio.
Il portavoce di Karzai, Simak Herawi, ha comunque anticipato che l'Alto Consiglio di Pace include ex combattenti talebani e dell'Hizb-i-islami, il movimento guidato dall'ex premier e storico warlord Gulbuddin Hekmatyar, attivo soprattutto nell'area settentrionale del Paese.
Intanto si continua a combattere, a morire e, come se non bastasse, a tutto ciò si aggiunge ora anche la crisi bancaria. Non ci si fa mancare proprio niente in Afghanistan...
Kabul Bank, la paura del crollo
di Carlo Musilli - Altrenotizie - 7 Settembre 2010
Stavano in fila ordinati, sotto il sole, con un bigliettino numerato in mano. Non aspettavano di entrare allo stadio, ma di parlare con un cassiere. Migliaia di risparmiatori terrorizzati hanno affollato la settimana scorsa gli sportelli della Kabul Bank per avere indietro i loro soldi e metterli al sicuro sotto al materasso. Oggi, la loro ansia rischia di far fallire la più grande Banca dell’Afghanistan.
Un Istituto interamente privato che, per conto del governo, paga gli stipendi dei dipendenti pubblici, dell’esercito e degli insegnanti. Un Istituto che l’anno scorso ha finanziato la campagna elettorale per la rielezione (non proprio trasparente) di Karzai e che ha fra i suoi maggiori azionisti ha il fratello del presidente e il fratello del vicepresidente del Paese.
Il panico è iniziato lunedì scorso, quando Hamid Karzai ha rimosso in un colpo solo presidente e direttore generale della Kabul Bank, che adesso è guidata da un funzionario della Banca Centrale afgana. Probabilmente il provvedimento è stato sollecitato dal generale Petraeus, comandante delle truppe Usa in Afghanistan, che ha fra le sue priorità quella di ridurre il livello di corruzione nel governo.
Sembra, infatti, che la Kabul Bank fosse un po’ troppo generosa nei confronti di certi suoi azionisti di punta, che casualmente erano anche alti funzionari governativi. Nelle loro tasche sono finiti prestiti irregolari per centinaia di milioni di dollari e lussuose ville con piscina sulle spiagge di Dubai.
Basta un dato a capire quanto fosse cristallino questo genere di operazioni: il 51% delle azioni della banca è stato comprato con soldi prestati dalla banca stessa. È illegale, naturalmente. Il sistema, se da una parte ha permesso a Mahmoud Karzai, fratello di Hamid, di acquistare il 7% dell’Istituto, dall’altra ha fatto nascere pericolosissimi attriti fra gli uomini che hanno in mano il destino politico ed economico del Paese. Una minaccia troppo grande per la stabilità dell’Afghanistan.
Era vitale che il governo di Karzai mantenesse segreto tutto questo marciume. Purtroppo non ce l’ha fatta. Risultato: gli afgani, nel timore (infondato) che la Kabul Bank potesse fallire, sono corsi in massa a ritirare i propri soldi, svuotando le casse di ogni filiale. Un meccanismo classico. Mercoledì scorso sono stati ritirati 85 milioni dollari, giovedì 109, sabato altri 69. La liquidità della Banca è più che dimezzata.
E ora, che si fa? Dagli Stati Uniti si sono affrettati a mandare una squadra del Dipartimento del Tesoro per dare “assistenza tecnica” agli afgani. Quanto a salvataggi di banche, ormai, gli americani sono espertissimi.
Ma hanno sottolineato che per la Kabul Bank non verseranno nemmeno un dollaro dei loro contribuenti. A Karzai non resta che ipotizzare di far acquistare allo Stato parte dell’Istituto, per non essere costretto, in futuro, a riempire di soldi pubblici una Banca privata.
Secondo alcuni economisti, se la crisi della Kabul Bank continuasse, potrebbe avere ripercussioni devastanti su tutta l’economia afgana. Altri, invece, sostengono che gran parte del sistema non subirebbe alcun danno. In Afghanistan, infatti, le banche sono un’invenzione relativamente recente. La maggioranza dell’economia è basata ancora sul sistema delle “hawala”, transazioni invisibili basate sul prestito d’onore, particolarmente gradite a trafficanti e terroristi.
L’unica cosa certa è che la crisi di oggi scredita il lavoro degli americani, che negli ultimi nove anni hanno cercato di costruire in Afghanistan un sistema finanziario da ventunesimo secolo. Con risultati non brillantissimi, evidentemente.
Inoltre, gli Stati Uniti continuano a ripetere di voler ritirare le truppe l’anno prossimo, ma ogni giorno incassano segnali poco incoraggianti sulla fiducia che Karzai ispira ai suoi presunti elettori.
Quando il Presidente ha cercato di rassicurare i suoi connazionali ripetendo che “il governo non lascerà che la Kabul Bank fallisca”, nessuno gli ha creduto. Chiaramente Karzai se l’è presa con i media occidentali. Sono stati loro a ingigantire il problema, a diffondere paura.
Nel frattempo, sul campo di battaglia, i talebani sono dannatamente forti. Il numero dei soldati americani uccisi nel 2010 è il più alto mai registrato dall’inizio della guerra. E il prossimo 18 settembre ci sono le elezioni parlamentari.
Troppe cose a cui pensare per Karzai, che rilancia un disperato tentativo di pacificazione con l’ “Higher Peace Council”, un “organo di negoziazione” che accoglierà vari rappresentanti della società afgana. Non avendo accettato finora nessuna forma di dialogo, tuttavia, sembra davvero difficile che i Talebani decidano di iniziare le trattative di pace proprio adesso, in un momento a loro così favorevole.
Ecco perché ogni dubbio sulla salvezza della Kabul Bank va spazzato via il più presto possibile. Ecco perché bisogna minimizzare il problema, seguire gli americani e cercare di convincere gli afgani che il Paese ha ancora un futuro.È d’accordo anche Mahmoud Karzai: “Mio fratello ha fatto davvero bene a fare quello che ha fatto, ora la Kabul Bank dovrà giocare secondo le regole, investendo in Afghanistan, non all’estero”. Lo ha dichiarato dalla sua villa con piscina a Dubai.
Afghanistan, stragi e scandali
di Enrico Piovesana - Peacereporter - 4 Settembre 2010
Karzai denuncia l'ennesimo massacro di civili ad opera della Nato, ma a Kabul si parla solo del fallimento della banca che ricicla i capitali del narcotraffico e della corruzione
Un jet militare della Nato sfreccia a bassissima quota sopra un convoglio di auto in viaggio tra due sperduti villaggi nel nord dell'Afghanistan, nella provincia di Takhar. Si allontana rombando, vira e torna indietro, sparando un missile contro una delle macchine. Subito dopo l'esplosione, sbuca dal nulla un elicottero da guerra, che apre il fuoco sulle lamiere in fiamme per finire eventuali superstiti.
Il bollettino del comando Isaf parla di un ''bombardamento di precisione'' condotto contro un obiettivo ben preciso che viaggiava su quell'auto: il comandante locale del Movimento islamico uzbeco (Imu), gruppo jihadista alleato dei talebani che combatte le truppe Nato nel nord del paese. Nel raid, secondo il comando militare, sono rimasti uccisi una decina di guerriglieri.
Tra i feriti c'è Abdul Wahid Khurasani, candidato alle elezioni parlamentari del 18 settembre, che dal suo letto di ospedale racconta un'altra versione. ''Ma quali guerriglieri! Erano tutti miei parenti, in giro con me per fare campagna elettorale, compreso Amanullah, che secondo loro sarebbe stato un capo terrorista. Assurdità! Qualche mio avversario politico deve averli informati male per togliermi di mezzo''.
Una possibilità tutt'altro che remota, che però il comando Isaf ha respinto con fermezza, spiegando che l'attacco aereo è stato condotto a colpo sicuro dopo giorni di pedinamenti, e che tutte le vittime del raid erano armati.
La versione ufficiale non ha convinto il presidente afgano Hamid Karzai, che ha denunciato a gran voce l'ennesima strage di civili. Forse anche per distogliere l'attenzione dallo scandalo della Kabul Bank.
In questi giorni in Afghanistan non si para d'altro che del fallimento della principale banca privata del paese, di proprietà del fratello maggiore di Karzai, Mahmood, e del fratello minore del vicepresidente Fahim, Haseen.
La bancarotta della Kabul Bank, provocata da operazioni speculative finite male, è stata evitata in extremis dall'intervento della Banca centrale afgana e del Tesoro americano, ma questo non ha placato il panico dei correntisti, che hanno preso d'assalto gli sportelli per ritirare i loro risparmi.
L'istituto, fondato nel 2004 da un ex campione di poker e da un ex contrabbandiere di pietre preziose, ha finanziato tutte le campagne elettorali di Karzai e Fahim. Ma sopratutto ha investito miliardi di dollari nel mercato immobiliare di lusso a Dubai: principale canale di riciclaggio di capitali frutto del narcotraffico (governativo, ma anche talebano) e dell'appropriazione indebita degli aiuti finanziari internazionali.
Lo scorso mese di dicembre, annunciando l’invio di altri 30 mila uomini per proseguire la guerra in Afghanistan, Barack Obama promise agli americani già sfiduciati dal logorante conflitto l’inizio del ritiro dei loro soldati entro il luglio del 2011. Con la situazione sul campo in continuo peggioramento, la scadenza fissata dalla Casa Bianca appare però sempre più improbabile.
A farlo capire chiaramente sono una serie di dichiarazioni alla stampa dei vertici civili e militari statunitensi, nonché l’imminente stanziamento di fondi per nuovi progetti logistici a lungo termine nel paese occupato.
Secondo quanto riportato qualche giorno fa dal Washington Post, il Congresso USA avrebbe all’ordine del giorno lo sblocco di 1,3 miliardi di dollari per l’anno fiscale 2011, destinati alla costruzione e all’ampliamento di basi militari in territorio afgano.
Tra queste ultime, ce ne sono almeno tre che si trovano in zone cruciali del paese - Shindand, Camp Dwyer nella provincia di Helmand e Mazar-e Sharif - e i cui lavori permetteranno l’espansione delle attività dei reparti delle Operazioni Speciali e dei Marines.
In una chiara indicazione che l’attività bellica americana proseguirà ben oltre l’estate del 2011, i contratti di fornitura per i lavori in Afghanistan non saranno stipulati prima del gennaio del prossimo anno, mentre le opere stesse, nella migliore delle ipotesi, risulteranno terminate almeno un anno più tardi. L’approvazione dei fondi necessari è arrivata per ora dalle apposite commissioni di Camera e Senato, in attesa del voto definitivo dei due rami del Congresso.
A questi progetti vanno poi aggiunti quelli già avviati che riguardano le nuove strutture per le forze di sicurezza locali, programmate secondo il Pentagono per i prossimi cinque anni. A tal proposito gli Stati Uniti dovrebbero stanziare oltre cinque miliardi di dollari.
Se i sondaggi negli USA indicano una larga maggioranza di americani sempre più contraria ad una guerra ormai quasi decennale e senza prospettive, come per l’Iraq gli obiettivi della Casa Bianca corrispondono alla necessità di prolungare ancora a lungo la presenza militare in Afghanistan.
Di fronte all’opposizione interna, in un anno di elezioni che preannunciano pesanti sconfitte per i democratici, l’amministrazione Obama sembra aver delegato ai generali il compito di stroncare ogni speranza per un possibile disimpegno nel 2011.
Proprio i vertici militari statunitensi, d’altra parte, erano stati i promotori del’escalation bellica decisa alla fine dello scorso anno. Il moltiplicarsi delle dichiarazioni rilasciate nell’ultimo periodo cela così a fatica il disprezzo per il principio costituzionale del controllo civile sui militari, nonché per il sentimento di avversione alla guerra diffuso tra i cittadini americani.
A mettere le cose in chiaro sulle prospettive del conflitto in Afghanistan è stato innanzitutto il nuovo comandante delle forze americane nel paese, generale David Petraeus. Da Kabul, quest’ultimo ha rilasciato un’intervista alla BBC nella quale ha sottolineato come la scadenza del luglio 2011 non rappresenterà alcun punto di svolta fondamentale per la guerra in corso.
“Questa data rappresenta l’inizio di un processo. Niente di più e niente di meno”, ha aggiunto Petraeus, chiarendo che tra un anno semplicemente “alcuni compiti inizieranno ad essere trasferiti alle forze afgane”, ma solo “in quelle aree nelle quali le condizioni lo permetteranno”.
Un altro punto critico riguarda poi l’addestramento delle forze di sicurezza afgane, affidato agli americani e ai loro alleati. Sottolineando che il momento della transizione “è ancora molto lontano”, il comandante delle operazioni di addestramento, generale William Caldwell, in una recente conferenza stampa ha ricordato che occorrerà almeno un altro anno solo per reclutare un numero adeguato di soldati e agenti di polizia locali.
Gli sforzi americani in questo ambito si scontrano con un elevatissimo livello di analfabetismo e di diserzione, ma riflettono anche una più generale difficoltà ad instaurare un governo fantoccio affidabile e sufficientemente autorevole. Sempre secondo il parere del generale Caldwell, i reparti afgani non saranno in grado in nessun modo di farsi carico dei problemi del loro paese nell’immediato futuro.
Ancora più esplicito è stato infine un altro generale americano di stanza in Afghanistan, il comandante dei Marines, James Conway. In aperto dissenso con il presidente Obama, Conway ha addirittura rimproverato la Casa Bianca per aver dichiarato di voler iniziare il ritiro delle truppe USA nel luglio del 2011, un annuncio che a suo parere avrebbe contribuito a rinvigorire la resistenza talebana.
Al di là del consueto ottimismo mostrato da Washington, le prospettive in Afghanistan per gli Stati Uniti e le altre forze di occupazione rimangono tutt’altro che rosee. I rapporti con il governo di Hamid Karzai continuano ad essere complicati, come dimostra ad esempio l’ordine di parziale ritiro dei contractors privati dal paese sui quali gli americani contano in maniera massiccia.
La condotta dei mercenari privati, secondo le parole dello stesso Karzai, risulta destabilizzante per il paese, dove essi di fatto “presiedono ad una struttura di sicurezza parallela al governo afgano”.
Questi contractors suscitano il risentimento della popolazione civile, tra la quale è comprensibilmente già diffuso un profondo sentimento anti-americano, visti i dei ripetuti massacri tra la popolazione causati dalle operazioni delle forze speciali.
Con un crescente livello di competizione per l’espansione dell’influenza in Asia Centrale tra Stati Uniti, Russia - e della soprattutto Cina - in definitiva, la presenza americana in Afghanistan si protrarrà ancora a lungo.
Un impegno necessario per sostenere un governo afgano irrimediabilmente debole, che senza le forze di Washington finirebbe per crollare rapidamente sotto l’offensiva talebana.