Senza speranza, insomma.
A confermarlo una serie di articoli qui di seguito. Solo per stomaci forti...
"Meridionale a chi?". E in un giorno i 20 diventano 7
di Dino Martirano - Il Corriere della Sera - 15 Settembre 2010
Siciliani contro pugliesi, campani e calabresi. Duello tra l'MPA e Noi Sud
La lista con i 20 deputati - che solo 24 ore fa aveva fatto pensare all'imminente nascita di un gruppo parlamentare di «responsabilità nazionale» - si è ristretta. Ridotta a sette nomi sicuri.
Così, dopo il precipitoso annuncio del repubblicano Francesco Nucara, è scoppiata una guerriglia diffusa tra i micro-gruppi che si sono candidati a sostenere il governo in sostituzione dei finiani.
E s'insinua pure una strisciante guerra di campanile, tra «responsabili» del Sud e del Nord, e una faida tutta meridionale (siciliani contro pugliesi, campani e calabresi), tra ex dell'Mpa e i lealisti di Raffaele Lombardo.
In questo guazzabuglio di sigle, da una parte ci sono i 5 transfughi dell'Mpa che da alcuni mesi sono riuniti sotto le insegne di «Noi sud»: «Noi siamo pronti! A patto, però, che il gruppo di responsabilità sia a forte connotazione meridionalistica», azzarda Arturo Iannaccone, a nome anche di Elio Belcastro, Antonio Gaglione, Antonio Milo e Luciano Sardelli.
Tuttavia, un gruppo di supporto al governo sbilanciato sul Sud lascia perplessi i liberal democratici. Quelli che affidano all'elegante Italo Tanoni (nato a Recanati, ma eletto in Puglia) il compito di mettere in guardia chi insiste troppo sul Meridione: «Io non sono del Sud, sono liberal democratico...E sull'aiuto che a suo tempo ci chiese il presidente Berlusconi dico che presto si riuniranno gli organi di partito», puntualizza il leader del micropartito che alla Camera schiera anche Daniela Melchiorre e Maurizio Grassano.
Ma i cinque di «Noi sud», tutti continentali, sono esclusi automaticamente dai cinque lealisti dell'Mpa: «Con i traditori, mai!», tuona il calabrese Aurelio Misiti, che invece è rimasto fedele a Raffaele Lombardo insieme ai deputati siciliani Lomonte, Commercio, Latteri e Angelo Lombardo.
Per Misiti - che ha avuto la tessera del Pci dal '61 al '91 e nel 2008 è stato eletto con l'Idv finché l'arrivo dell'ex pm De Magistris non lo ha convinto a lasciare Di Pietro - quella voluta da Berlusconi è solo una campagna d'immagine: «Il gruppo non si farà perché al Cavaliere basta l'annuncio. Loro (i transfughi dell'Mpa; ndr) votano a prescindere per Berlusconi, noi invece siamo liberi, svincolati, e per questo badiamo al merito delle questioni. Soprattutto al punto 5 del programma che riguarda il Piano Sud».
E infine manda un avvertimento velenoso insieme al suo leader Raffaele Lombardo: «Andare a votare adesso sarebbe una iattura, ma se si dovesse farlo mi auguro che si faccia con una nuova legge elettorale».
Così, alla fine della giornata, rimane il buon umore di Francesco Pionati (eletto con l'Udc, oggi Adc): «Il presidente è ottimista e io sono con lui». E ce ne è anche per il calabrese Nucara: «Nuoce al centrodestra», accusa il brindisino Luciano Sardelli di «Noi Sud». Seguito a ruota da Elio Belcastro (nato a Grotteria, Reggio Calabria), che dice del suo compaesano: «Nucara non ci rappresenta».
"Sto nell'Udc, tratto col Pd e forse voto per salvare il governo"
di Antonello Caporale - La Repubblica - 15 Settembre 2010
Michele Pisacane, deputato del partito di Casini, tentato dal Gruppo di resonsabilità di Nucara
Michele Pisacane, uomo di mezza età e di nutrita presenza fisica, è considerato deputato in transito. E' di Agerola, sulla cresta montuosa che poi declina verso Sorrento. E' anche sindaco del suo paese. La consorte invece è consigliere regionale della Campania.
"Chi si vende e chi si compra. Qua è tutto un fiorire di nomi e di scenari".
Michele Pisacane non si vende e non si compra.
"Incomprabile. Assolutamente".
Incorruttibile.
"Michele Pisacane ha 18824 voti, e se li è cercati uno per uno".
Spieghiamo al lettore stupito: lei è un deputato dell'Udc eletto in Parlamento senza preferenze.
"Per l'appunto. Allora ho candidato mia moglie al consiglio regionale della Campania in modo che fosse tutto trasparente e chiaro".
Anche sua moglie nell'Udc.
"Ora è un'ex, si è sistemata nel misto".
In transito anch'ella?
"Questa estate ho avuto solo un abboccamento, una discussione con gli amici del Pd".
Il Pd per la questione coniugale campana. Il Pdl invece per il profilo nazionale che attiene alla sua responsabilità.
"Sto bene nell'Udc. Ho solo polemizzato per come il mio nome e la mia storia politica siano stati messi da parte quando c'era da offrire visibilità".
Capito. Ciriaco De Mita, che comanda in Campania, non ha pensato a sua moglie quando c'era da fare gli assessori.
"Non solo, ma ha capito perfettamente".
Pisacane, non ci si crede.
"Invece deve credermi!"
Lei è momentaneamente in polemica con Casini.
"Se mi caccia dal partito io guardo altrove. Se non mi caccia, io non guardo".
Lineare.
"Vediamo Berlusconi cosa dirà alla Camera".
Potrebbe fare un discorso convincente e porre alla sua coscienza la dirimente questione: chi sono, dove vado.
"In questa politica nuova bisogna difendersi a denti stretti".
Lei è benissimo attrezzato.
"Noi siamo donatori di voti. Quelli se li pigliano e poi ci fottono".
Perciò ha candidato sua moglie.
"E meno male che l'ho fatto! Altrimenti chissà chi se li sarebbe presi. Io dono e quelli, i pescecani, intascano gratis il mio lavoro".
Il suo lavoro.
"La mia segreteria storica in Napoli è sempre aperta. Ascolto gli amici, poco posso fare".
Ascolta soltanto?
"Sono laureato psichiatra. Faccio il psichiatra sociale. La gente si sfoga e io raccolgo".
Raccoglie.
"Poco più".
La deregulation in mare
di Simone Perotti - www.ilfattoquotidiano.it - 15 Settembre 2010
L’imbarazzo del nostro governo (minuscolo) in materie nautiche è tutt’altro che sorprendente. I nostri politici sono in difficoltà sulle questioni semplici, terrestri, figuriamoci sul mare. E’ proprio sull’acqua, tutto sommato, che si consuma la decadenza piena, profonda, dell’Europa.
Che una barca da pesca venga presa a bersaglio da armi da fuoco in acque internazionali, del resto, non è la cosa pi grave che accade, ormai da anni. Parlavo qualche mese fa con un alto ufficiale della Marina militare italiana.
Era molto preoccupato, molto triste. Mi raccontava che i clandestini vengono spinti in mare nei giorni di Maestrale e di Libeccio forte, cioè quando perfino le nostre unità di pattugliamento restano in porto. Vengono mandati al massacro, con quelle condizioni meteo.
“Sappiamo circa un decimo di quello che accade nel Canale di Sicilia. Là sotto ci sono metri di cadaveri.” Pare infatti che di molte, moltissime navi che affondano cariche di clandestini non veniamo neppure a conoscenza. Chi registra gli incidenti (solo quelli che conosciamo) parla ormai di 15.00 morti. Se l’ufficiale della Marina ha ragione, sarebbero 150.000…
Un giorno ero a Favignana, in un’abitazione sulla costa sud ovest. Ho sentito rumori nella notte. Ci siamo svegliati e abbiamo guardato fuori. C’era un tunisino (di Tozeur) esausto, non osava neppure varcare la soglia del cancello. Era zoppo, e i suoi compagni clandestini lo avevano derubato del poco che aveva dicendogli che tanto non ce l’avrebbe mai fatta a salvarsi con la gamba in quelle condizioni.
Gli scafisti li avevano buttati in mare a duecento metri dalla costa. Gli demmo da bere, indumenti puliti e dei soldi. Gli fornimmo consigli su come comportarsi al traghetto, come non dare nell’occhio. Doveva andare a Parma, dove c’era il fratello. Non aveva neppure un numero di telefono, un indirizzo. Chissà che fine ha fatto.
In mare avvengono cose incredibili. La decadenza civile che osserviamo nelle strade, nelle città, in mare diventa caos, deregulation totale. Quello che avviene in mare sfugge all’occhio, sfugge a ogni controllo. La nostra cultura ha dimenticato le comuni radici nautiche dei popoli del Mediterraneo.
Continuiamo a riferirci all’Europa, che è un sistema organizzato su base economica e non culturale (cosa ho da dirmi con un danese, con un tedesco di Travemunde?) mentre dovremmo costruire una Thalassocrazia Mediterranea, cioè un soggetto omogeneo, pur nelle differenze, che ricolleghi i paesi che si bagnano da sempre sullo stesso mare.
Dovremmo ricordare che i nostri nonni sono morti in mare, per secoli, che la nostra storia si è svolta in mare, dagli etruschi fino ad oggi.
A furia di dimenticare chi siamo, compiamo disastri. A furia di dimenticare il nostro alfabeto, smettiamo di organizzare un discorso. Così finisce che una motovedetta libica con dieci militari italiani a bordo spari a un peschereccio del nostro Paese. Senza motivo. E senza che questo generi alcuna indignazione.
Psichiatria Democratica
di Luca Telese - www.ilfattoquotidiano.it - 14 Settembre 2010
I giovani turchi, Ferrero e i gruppi veltroniani. Fotografia di un partito perennemente in analisi. Il 25 settembre Veltroni a Orvieto: potrebbe diventare la "Mirabello di centrosinistra"
Antefatto iconografico. Guardate per un attimo la foto di questa pagina. Pier Luigi Bersani chiude la festa di Torino. In piedi, solo. Per la prima volta un leader del Pd parla senza angeli custodi, senza alfieri, senza l’abbraccio dei due principali dirigenti del partito, immancabilmente vicini a lui. Quanta distanza dal rituale di tutti gli altri anni: il segretario sul palco, e tutti i leader, simbolicamente stretti intorno.
Magari ipocritamente, stretti, ma tutti, almeno una volta l’anno, lì, come nella foto della classe all’inizio dell’anno. Ora abbandoniamo la foto, e passiamo al calvario della cronaca, dalle faide dei giovani turchi ai rumors di scissione, ai motivi per cui Orvieto potrebbe diventare una “Mirabello” di centrosinistra.
Retroscena redazionale. Per una volta vale la pena di raccontarvi come si può decidere un articolo nella riunione di questo giornale. Eravamo appena tornati dalla meravigliosa festa della Versilia, e già i nostri telefoni trillavano su un unico tema: il Pd. Un veltroniano ti dice peste e corna di un dalemiano e viceversa (fin qui nulla di nuovo); poi arrivano aggiornamenti, ritrattazioni, agenzie, colpi di scena.
Quindi la girandola della rassegna stampa. In due giorni, dal documento dei quarantenni anti-veltroniani, alle correnti storiche, un fermento criptato e indecifrabile per chi non possiede i codici delle faide antiche.
A questo punto il direttore si mette a solfeggiare e a parafrasare: “Pi…. Di…., Pi… Dì… Psichiatria Democratica”. Ovvero: ci sono chiari segni di distorsioni dell’ego e di alterazione delle percezioni dell’io, in quel partito. Lettere para-psicanalitiche ai giornali, mezze verità, indiscrezioni pilotate, colpi bassi. Per dire.
Secondo Il Corriere della sera, la settimana scorsa Bersani avrebbe stretto un patto con Paolo Ferrero per eleggere dieci parlamentari nelle liste del partito, con una “ospitata” tecnica stile radicali. Cerco il segretario di Rifondazione al telefono per capire se le sue smentite siano rituali o credibili.
Lui è furibondo: “Se stiamo dialogando con Bersani? Certo! Lo dico da mesi. Se è vero che abbiamo stretto un accordo per eleggere i nostri dirigenti? Assolutamente no – si indigna – è una follia paranoica, messa in giro con malizia dai veltroniani, magari per far piacere a Vendola”.
Chiedi: in che senso? E lui: “È una cosa che non sta nè il cielo nè in terra – rincara la dose Ferrero – ma che punta a farci apparire come dei dirigenti all’asta che vanno da Bersani per farsi garantire con il piattino in mano. Beh – ruggisce il segretario – non è così!”.
In fondo basta questo sfogo per capire che la situazione è incandescente, e che la frattura interna influenza anche i rapporti con gli altri. Però restano dei fatti: le dichiarazioni entusiastiche di Ferrero e Oliviero Diliberto sul “Nuovo Ulivo” bersaniano, e gli editoriali dei giornali amici (ad esempio quello di Stefano Menichini su Europa) che la settimana scorsa davano già per certo l’accordo. Frammenti di schizofrenia?
Endorsing fagiolino. La nostra riunione finisce così, e l’articolo, è commissionato. Ore 13.15 (non è uno scherzo), sulle agenzie arriva l’endorsement di Massimo Fagioli, psichiatra e ricercatore della mente, che ufficializza la fine del rapporto con l’ex leader presidente della Camera Fausto Bertinotti: “Attualmente la simpatia è per Bersani”.
Le ironie sono fuori luogo. Sembra piuttosto un segno, la spia di un disagio, il turbinare di un cortocircuito fra politica e psiche. Come è noto Fagioli era stato un fan accanito di Bertinotti, fino a che non era apparsa sulla scena Nichi Vendola.
Dopo di allora lo psichiatra non aveva fatto mistero di considerarlo “deviante” per la sua omosessualità. Ora Fagioli spiega la sua nuova predilezione per Bersani: “È il solo in grado di provare a rimettere insieme la sinistra, l’unico che ancora mantiene laicità e saggezza”. Ma davvero c’è una crisi di identità nel Pd?
L’ultima crisi di identità, è la grottesca storia dei cosiddetti “Giovani Turchi”, un gruppo di quarantenni vicini a D’Alema, che scrivono un documento caustico contro il fondatore del Pd convocando una riunione ad Orvieto: “La politica interpretata come Hollywood, come un tour promozionale per propagandare se stessi”. La vera accusa a Veltroni è, ancora una volta, psicanalistica: quella di essere inconsapevolmente berlusconiano, affetto da protagonismo e bisogno di leadership.
Però “i giovani turchi” non hanno la tempra di Ataturk. Basta il pronunciamento di due ex veltroniane bersaniane, Stella Bianchi e Annamaria Parente perchè sia annullata l’iniziativa, prevista per il 25. Una indubbia vittoria dei veltroniani. Ma Orvieto è la città dove è nato il Pd, e dove Veltroni in un celebre discorso parlò per la prima volta della vocazione maggioritaria: “Non so quando saranno, so che alle prossime elezioni andremo da soli”.
Lo disse il sabato, il lunedì Mastella abbandonò la maggioranza, il giovedì cadde Prodi. Il 25, a Orvieto, si tiene anche un convegno di Libertà eguale (la componente ex riformista del partito) con Veltroni e Sergio Chiamparino.
I gruppi autonomi. Ma cosa c’è di vero nell’ipotesi avanzata ancora una volta dal Corriere, che i veltroniani vogliono fare un gruppo autonomo”. Una follia? O un inconfessabile desiderio inconscio? Walter Verini, braccio destro di Veltroni sorride: “Balle”. E in serata Veltroni interviene: “Niente gruppi: c’è bisogno che il Pd recuperi forza, si deve lavorare per fare del Pd”.
Ma a Orvieto Veltroni potrebbe meditare un nuovo strappo. Magari un appoggio tecnico al sindaco di Torino, già con un piede fuori dal partito, all’insegna dello slogan: “Oltre il Pd per tornare a vincere”. Fini torna nella “sua” Mirabello per costruire un’altra destra. Veltroni nella “sua” Orvieto per un altro centrosinistra.
Veltroni e il Pd:"Sono dentro e fuori. Ho subito ingiustizie e vigliaccherie"
da www.corriere.it - 15 Settembre 2010
Walter Veltroni non intende richiedere ruoli all'interno del Pd e ammette senza peli sulla lingua di sentirsi «dentro e fuori». Ma un pallino ben preciso lo ha, quello cioè di «mantenere viva l'idea del Pd così come è nato».
«INGIUSTIZIE E VIGLIACCHERIE» - In una intervista esclusiva a Gioia, l'ex segretario dei democratici torna sulla sconfitta del 2008 e sulle dimissioni del 2009. «Ho registrato ingiustizie e vigliaccherie. Fossi stato più giovane ne avrei sofferto» ammette.
E aggiunge: «Ultimamente ho girato l'Italia per partecipare alle feste dl Pd. E ho misurato un affetto più grande di prima. Rivedere i luoghi della mia campagna elettorale e ripensare a quelle piazze piene, a quella passione, fa male. Ma so di essere arrivato fin dove era possibile arrivare, di aver conquistato il risultato migliore della storia del riformismo italiano e di averlo fatto nel momento più difficile, dopo l'esperienza dell'Unione e delle sue intollerabili divisioni».
LE URNE - Veltroni non è oggi tra quanti auspicano di andare presto alle urne: «Bisogna affrontare l'emergenza economica, cambiare la legge elettorale, far decantare la situazione, creare le condizioni per un confronto tra due schieramenti alternativi civili. E, tra un anno, andare al voto».
E alla domanda se in questo momento si senta più dentro o più fuori dal gioco politico, risponde: «Dentro e fuori, perché io sono così, sono rimasto così, e continuo a essere convinto che una tavolozza a più colori sia più simile alla realtà dell'a vita delle persone. Quello che intendo fare, e lo farò, tenere viva l'idea del Pd così com'è nato. Senza richiedere ruoli».
Infine una indicazione programmatica: «Giorni fa il Papa, parlando ai giovani, ha detto che il posto fisso non è tutto. Non sarà tutto, ma è abbastanza. Penso che si debba ripartire da lì: i giovani devono avere diritto a un posto di lavoro fisso, dall'inizio della loro carriera, con un sistema crescente di tutele. Non è vita quella di chi cresce senza alcuna certezza per il proprio futuro».
Il fumo dei proclami del Pd
di Fabio Scacciavillani - www.ilfattoquotidiano.it - 15 Settembre 2010
Del discorso di Bersani a conclusione della Festa Democratica di Torino mi ha colpito un passaggio, che ho letto dai giornali, sicuramente non tra i più significativi, ma secondo me rivelatore: “… è questo che intendiamo parlando di alleanza per la democrazia: faremo anche le primarie, ma prima vengono i programmi, poi le persone” (cito verbatim dal resoconto de Il FQ).
Mi ha colpito perchè vi ho colto un equivoco profondo o forse il sintomo di un modo superato dai tempi (ma ben vivo nella mentalità di molti politici di professione) di concepire la formazione del consenso e il ruolo dei partiti. Un profumo antico di avanguardia del proletariato. Cerco di spiegarmi meglio.
In un partito dove le primarie sono il metodo principale (Artt.18-20 dello Statuto del PD), la scelta del programma e quella del leader non possono logicamente essere disgiunte. I punti del programma, quindi le priorità che si propongono agli elettori e i messaggi che li veicolano, sono legati indissolubilmente ai candidati che li incarnano, alla loro personalità, alla loro storia, alla loro figura e in ultima istanza alla loro credibilità.
I candidati alle primarie si confrontano sulle idee (come potrebbe essere diversamente?) e chi vince la contesa risponde agli elettori proprio sulla realizzazione di quelle idee e sulla coerenza che mantiene sui valori sottostanti.
In America né il Partito Democratico, ne’ quello repubblicano hanno un programma preciso e articolato. Sono i candidati alle primarie che ad ogni elezione lo elaborano e lo presentano al pubblico.
Obama ha vinto e quindi ipso facto il suo programma è prevalso su quello della Clinton; analogamente G.W. Bush impose il suo su quello di Mc Cain quattro anni prima. Se in futuro vincerà la Palin saranno i valori e gli interressi (in senso lato) che lei rappresenta (i Tea Parties?) a dettare l’agenda.
Lo stesso avviene in tutti i maggiori partiti europei in cui la leadership è contendibile (anche senza le primarie). Posso citare a riguardo esempi abbastanza noti: Blair formulo’ un programma di rottura con la leadership laburista che lo aveva preceduto, Shroeder la pensava diversamente da Lafontaine, Strauss Khan e la Aubry viaggiano su diverse frequenze. Va aggiunto che inevitabilmente le opinioni del leader potranno divergere da quelle di minoranze interne.
Ma in sostanza una volta che un leader emerge dalla scelta dei militanti e simpatizzanti (del partito o della coalizione) a mio avviso non e’ assolutamente pensabile che possa portare avanti un programma deciso da altri in separata sede. Quindi non e’ possibile stabilire prima il programma e dopo (quando esattamente?) eleggere il candidato premier.
Il metodo delle primarie cambia la natura di un partito e plasma la democrazia interna in forme diverse da quelle che prevalevano nei partiti novecenteschi, che piaccia o meno. Infatti se Ignazio Marino avesse vinto le primarie dello scorso anno, il PD avrebbe un volto e seguirebbe priorita’ diverse.
Non voglio esprimere un giudizio di merito, o fare un paragone, mi limito ad osservare che l’enfasi di Marino era su temi che Bersani riteneva meno cruciali e viceversa. Ha vinto quest’ultimo e quindi chi gli ha conferito fiducia (e anche chi non gliel’ha conferita) lo giudichera’ sulla capacita’ di realizzare quanto promesso.
L’alternativa che il passaggio nel discorso di Bersani sembra evocare a me appare piuttosto incongrua e di difficile applicazione.
Chi dovrebbe formulare il programma ex ante? Un conciliabolo di notabili riunito intorno ad un caminetto? Un’assemblea? Funzionari di partito? Intellettuali organici? E non e’ assurdo aspettarsi che chi vince le primarie si presti a fare da semplice esecutore?
Si dovrebbe ipotizzare che i candidati “giurino fedeltà” al programma prima ancora di presentarsi. Quindi chiederebbero il voto solo sulla propria persona senza potersi differenziare sulle proposte politiche. A me francamente sembra improponibile, ma se mi sfugge qualcosa e se qualcuno riesce ad intravedere una logica, vi invito a spiegarla nei commenti.
Volendo riassumere in due parole, le primarie sono uno strumento innovativo (almeno per l’Italia) se servono a selezionare non solo il leader (e indirettamente la squadra che lo affianca), ma allo stesso tempo le politiche che egli propugna e che troveranno applicazione nell’azione di governo in caso di vittoria alle urne. Fare diversamente provocherebbe un guazzabuglio di confusione e di ipocrisie.
Perchè, in definitiva, le idee camminano sulle gambe degli uomini non sul fumo dei proclami.
Si può dare del fallocefalo al sindaco padano?
di Luca Telese - www.ilfattoquotidiano.it - 14 Settembre 2010
Mi hanno scritto in tanti – compreso qualche leghista per insultarmi – dopo l’intervista battibecco a Radio24 a ‘La zanzara’ in cui ho prosaicamente dato del fallocefalo al sindaco di Adro.
Alcuni mi dicono: “Sono d’accordo, ma non è esagerato essere così duri?”. Io rispondo a tutti che non solo lo ritengo necessario e utile, ma – persino – una dura necessità. Insultare qualcuno non è mai bello e personalmente non mi da nessuna soddisfazione. Non amo l’ideologia e l’estetica dell’ingiuria.
Tuttavia sono convinto che ci sia una continua sottovalutazione della gravità di alcune iniziative leghiste, come quella del nostro beneamato sindaco, che ha impecettato una scuola dello stato italiano con il simbolo della Lega – dai banchi, agli attaccapanni, agli zerbini – pretendendoci poi di raccontare che si tratta di un antico simbolo celtico.
Esattamente come la svastica, mi viene da dire e ho detto a lui. Allora qualcuno mi chiede: ma non è eccessivo evocare paragoni con il nazismo? Il tratto in comune però c’è, ed è nel passaggio dalla burla al dramma, dalla birreria di Monaco al metodo goebbelsiano, dalla manipolazione alla propaganda.
Qui non si tratta di un fatto grave, come l’antica consuetudine nell’uso dei bambini per accattivare consensi politico-ideologici. Qui si tratta di un atto ancora più grave. E cioè dell’idea che si possa imporre il lavaggio del cervello ai bambini, cercando di indottrinarli per procacciare consensi.
Se uno costruisse l’asilo “Fausto Bertinotti” costellandolo di falci e martello, e poi mi raccontasse che la falce e martello non è un simbolo politico ma è un retaggio della storia del novecento gli direi che è un citrullo.
Non capisco perché con il sindaco di Adro si dovrebbe essere più indulgenti. Ci sono delle frontiere davanti a cui bisogna avere il coraggio di scrivere: chi tocca muore.
Il sindaco di Adro è recidivo, perché un anno fa, lasciò dei bambini innocenti senza mensa per farsi propaganda politica. In qualche modo ci riuscì, perché ci costrinse a parlare di lui, ad assistere allo spettacolo della manipolazione e dell’odio fra gli ultimi.
Io ho molto rispetto per alcuni dirigenti leghisti, grandissimo rispetto per chi si porta il (suo) bimbo sulle spalle a Pontida o al comizio di Vendola o di Bersani. Non ne ho nessuno per chi si appropria degli spazi dello Stato per metterci le sue bandiere.
Caccia al tricolore
di Piero Ricca - www.ilfattoquotidiano.it - 13 Settembre 2010
Passeggiare con il Tricolore è rischioso, può apparire come una provocazione politica, può essere considerato un gesto offensivo rispetto alle idee del secondo partito di governo, il partito che esprime il ministro degli interni.
Sembra incredibile ma può capitare, girando sul territorio nazionale con la bandiera del proprio paese sulle spalle, di venire bloccati, identificati e forse denunciati dalla polizia, di essere minacciati e insultati in ogni modo da patrioti di una nazione inesistente: la “Padania”,
Questo ci è capitato ieri, domenica 12 settembre, a Venezia, in una bella giornata di sole, punteggiata dal verde delle bandiere e delle casacche dei tifosi leghisti, giunti da tutto il nord Italia per la rituale celebrazione del “dio Po”.
Sul palco Umberto Bossi e i principali leader del partito secessionista. Ai balconi di Venezia decine di bandiere tricolore, a ripetere il gesto famoso della signora Lucia, veneziana sensibile al valore dell’unità nazionale.
Eravamo una decina: con noi Marco Gavagnin, consigliere comunale a Venezia per la lista civica a cinque stelle, e l’amico Paolo Papillo, del blog Informazione dal Basso. Sbarcati a Venezia, abbiamo acquistato una bandiera da un venditore ambulante che ce ne ha regalata una seconda.
Dopodiché ci siamo incamminati verso Riva dei Sette Martiri (patrioti giustiziati mentre gridavano “Viva l’Italia Libera!”), dov’era in programma la manifestazione leghista, ad angolo con via Garibaldi. A un certo punto siamo stati bloccati da un plotone di poliziotti e carabinieri. Motivo? Grave rischio di disordini a causa della nostra “provocazione”.
Intanto erano partiti gli insulti del popolo verde, proprio mentre gli amplificatori diffondevano la voce roca (e le parole poco comprensibili) del capo. “Comunisti di merda” è stato l’epiteto più gentile. Alcuni ci gridavano “froci” e “culattoni”.
Un tipo inneggiava: “Forza Paraguay!”. Poi sono partiti i coretti da stadio: “Padania! Padania!”. Per loro il Tricolore è “da buttare nel cesso”, come insegna il grande leader, perché “l’Italia non è mai esistita e mai esisterà”.
Soltanto il cordone di polizia ha scongiurato il rischio dell’aggressione fisica da parte di questi individui fanatizzati, incattiviti da decenni di violenta demagogia. Siamo stati tutti identificati, noi, non i linciatori. E poi allontanati tra due ali di folla inferocita.
Insomma, a 150 anni dall’Unità d’Italia e 65 dalla Liberazione, gli italiani restano da fare. Certi giorni viene il dubbio che sia troppo tardi.
Desolazione Italia
di Gianni Petrosillo - http://conflittiestrategie.splinder.com - 15 Settembre 2010
L'Italia è divenuta la patria degli smargiassi e dei fanfaroni che mascherano la propria infingardaggine e incompetenza dietro la rissa pubblica e la polemica ad alta voce.
Si urla e si sbraita, da un capo all’altro della politica e dell’economia, della cultura e della società, ma sempre meno si prendono quelle decisioni indispensabili a dare spiragli di opportunità alla nazione, in un contesto che si fa viepiù drammatico sotto ogni profilo.
E questo vale per tutte le sfere sociali dove spesso sono i gruppi di potere più screditati e parassitari a dettare la linea e la condotta alle poche forze vive che ancora resistono al deterioramento generale.
Si sonnecchia e si vivacchia in attesa di tempi migliori di là da venire in mancanza di iniziative coraggiose e, comunque, impossibili senza un ribaltamento purchessia del quadro di desolazione nel quale siamo piombati, prima ancora che la crisi finanziaria internazionale divenisse l’alibi reiterato dai nostri governanti a giustificazione dei loro innumerevoli errori.
Partiamo dall’attuale Esecutivo. Una maggioranza scombinata in preda agli spasimi da personalismi e alle faide correntizie perde tempo e terreno laddove il primo stringe ed il secondo cede sotto ai piedi.
Chi ne pagherà le conseguenze non saranno certo Berlusconi o Fini ma il popolo italiano che privo di punti di riferimento, in un momento storico di immani mutamenti, sprofonderà definitivamente nella morta gora dove si trova già bloccato.
Persino i soldati del Cavaliere di Arcore sono disorientati e se uno come Feltri si chiede cosa stia accadendo, dopo il muro contro muro tra il Presidente della Camera e quello del Consiglio, vuol dire che la situazione è del tutto marcita.
Del resto, com’è possibile che il leader del PDL accetti di tenersi in casa il proprio assassino sapendo che questi non ha smesso di tramare alle sue spalle e che sta solo aspettando la prima occasione per disarcionarlo?
Il capo dello Stato, approfittando dei tentennamenti dei berlusconiani ha invitato il governo ad andare avanti, ma si tratta di una affermazione sibillina che così dovrebbe essere completata, “andare avanti… nel logoramento” e permettere alla compagine a lui più affine di rifarsi sotto approfittando dell’autoconsunzione dell’avversario.
Quanto potrà durare questo tira e molla? Sempre troppo per un Paese in mezzo al guado, impotente al cospetto di circostanze storiche singolari che stanno modificando il quadro politico mondiale.
Che dire poi dell’economia? Qui comandano soprattutto le banche e le imprese del “cattivo vapore” che dopo aver smesso di svolgere qualsiasi funzione sociale non sono capaci di restare sul mercato senza appoggiarsi alla stampella statale.
La regola è allora quella della privatizzazione dei profitti e della socializzazione delle perdite, in maniera da far pagare sempre ai cittadini i guasti del sistema. Il mondo intellettuale riflette questa discesa a capofitto nel baratro di una misera epocale che dilapida inesorabilmente l’eredità di un antico splendore culturale di cui la nostra terra è stata madre fertile.
Per mascherare questa triste realtà si moltiplicano premi e riconoscimenti da assegnare a qualsiasi nullità analfabeta che finga di saper tenere in mano una penna.
E’ l’orgia devastante del ceto semicolto salito alla ribalta editoriale!
Infine, anche dal lato sociale lo scatafascio non è meno vasto, crescono egoismi, corporativismi, razzismi, tra gruppi sociali, tra aree territoriali, tra autoctoni e stranieri, tra occupati e disoccupati. Si rischia realmente la spaccatura del Paese a prescindere dalla Lega.
Le guerre e i rancori tra ceti sociali, come quelli tra lavoratori autonomi e dipendenti, vengono alimentate ad arte, et pour cause, dalle attuali squadriglie dirigenziali e manageriali, del settore pubblico e del privato, le quali per non essere capaci di reagire alla decadenza in atto, essendone parte in causa, devono dividere, separare, frammentare per dominare e sopravvivere alla loro stessa rovina.
Perciò la crisi fa un salto di qualità e da dramma economico e politico diventa tragedia sociale che recide le radici spirituali del corpo nazionale. Questi drappelli dirigenti attuano manovre diversive per garantirsi la propria meschina conservazione avvilendo e umiliando l’intera società.
Proprio come nelle considerazioni del Gattopardo questa classe di saprofiti ripete a sé stessa: “per noi un palliativo che permette di durare cento anni equivale all’eternità”.
Ma cento anni sono un auspicio troppo generoso per questi cadaveri ambulanti, mentre anche un solo minuto in più di loro esistenza per tutto il resto della popolazione equivale ad una morte certa.