L'ennesima bufala conclusasi nel nulla e con tanto di scuse della polizia britannica ai sei arrestati.
Ma i media mainstream, imboccati da chi detiene il potere nei rispettivi paesi, continueranno sempre a prestarsi in questa servile e meschina opera di distrazione di massa e manipolazione delle coscienze.
Anche perchè è ormai facilissimo, il terreno è fertile e le menti sono da tempo ottenebrate e cotte a puntino dal terrore e dall'ignoranza.
Un vero e proprio gioco da ragazzi nel 2010, di fronte a un'enorme audience di cervelli pulitissimi...
La bufala dell'attentato al Papa rimette a nudo la pochezza del giornalismo italiano
di Gennaro Carotenuto - www.gennarocarotenuto.it - 19 Settembre 2010
La vicenda dei sei spazzini nordafricani che si sono presi un grosso spavento a Londra, brevemente arrestati e poi rilasciati con tante scuse, non ha fatto il giro del mondo per manifesta inconsistenza (la BBC ha parlato al massimo di “possibile minaccia”, altro che piani omicidi), ma ha messo sull’attenti con poche eccezioni, Avvenire, Osservatore Romano, Manifesto, l’intera stampa italiana.
E’ l’ennesimo caso da studiare di pressapochismo, manipolazione e uso strumentale delle (false) notizie per fomentare paura, odio e razzismo.
“Erano pronti a colpire il papa” titola a tutta pagina il più autorevole (sic) quotidiano italiano, il Corriere della Sera, che millanta addirittura l’esistenza di una “cellula” della quale nessuna fonte ufficiale britannica ha mai parlato.
“Volevano uccidere il Papa” fa eco il Messaggero, il più venduto quotidiano regionale della capitale, inventando totalmente la scoperta di un piano omicida. E’ lo stesso virgolettato che troviamo anche sulla prima del Giornale. Dov’è questo piano? In quale dichiarazione di Scotland Yard si parla di un piano omicida?
Sui nostri giornali il titolo sul falso attentato al Papa compete solo con la morte del soldato delle truppe speciali in Afghanistan Alessandro Romani. A dire il vero la storia sulla “Task Force 45” (i corpi d’elite del nostro esercito alle dirette dipendenze della NATO usati in azioni di eliminazioni di nemici) alla quale apparteneva il Rambo caduto, sarebbe una vera notizia che aprirebbe l’ennesimo dibattito sull’ipocrisia retorica della “missione di pace”. I giornali lo sanno e scelgono di bucare la notizia.
Anche chi sceglie di aprire su Romani pubblica la notizia sui falsi attentati in grande evidenza: “Volevano assassinare il Papa. I fermati sono islamici” sparacchia Repubblica.
Praticamente uguale il titolo della Stampa con quella parola ISLAMICI strillata con un corpo enorme e che campeggia anche sul Resto del Carlino. Libero mette la cosa in taglio basso (si sa che Elisabetta Tulliani è il sogno erotico di Maurizio Belpietro) ma specula: “Volevano ammazzare il Papa. Ci riproveranno”.
WWWWW? Chi? Cosa? Quando? Dove? Perché? Sai qualcosa? E’ un tuo pregiudizio? O stai semplicemente diffamando? Islamici, islamici, islamici, il pericolo islamico rappresentato perfino da una mamma velata che va a prendere i figli a scuola.
Quindi i più grandi giornali italiani, ovvero i più grandi veicoli di razzismo, allarme sicurezza e islamofobia, hanno coscientemente deciso di non fare opportune verifiche e, trattandosi di papa da santificare e musulmani da demonizzare, pur nell’assoluta mancanza di qualunque fatto concreto e, nonostante abbiano avuto tutto il giorno per pensarci, hanno infine deciso di sparare la notizia infondata in prima pagina, quasi sempre in apertura. Non solo: hanno inventato di sana pianta dettagli per rendere il falso più clamoroso.
Eppure fin dall’inizio la notizia era sembrata scarsamente fondata, figlia di quegli elevatissimi standard di sicurezza nella Londra colpita davvero dal terrorismo di matrice islamista nel 2005 e che portarono all’assassinio del cittadino brasiliano Jean Charles de Menezes crivellato di colpi perché aveva carnagione scusa e fretta di prendere la metropolitana.
I sei avevano fatto qualche battuta ad alta voce al pub (troppa birra, la bevanda preferita dei talebani?), erano stati ascoltati e la polizia londinese aveva preferito levarli di torno per qualche ora. Già al TG7 di venerdì sera Enrico Mentana sottolineava come la cosa fosse destinata a rivelarsi infondata, senza armi, senza piani, senza niente.
Volete che quello che sapeva Enrico Mentana alle otto di sera non fosse noto alla chiusura, varie ore più tardi, ai direttori dei grandi giornali, ai Ferruccio de Bortoli o agli Ezio Mauro?
La cosa notevole, e che rende ancora più basso il comportamento dei grandi giornali è che proprio i quotidiani cattolici, l’Avvenire, l’Osservatore romano pur aprendo sul viaggio del pontefice, hanno dato un rilievo minimo alla cosa.
Evidentemente sapevano (come gli altri) che la notizia era una bufala, sapevano che non c’è bisogno di riverire in questa squallida forma il papa e sapevano e sanno che è infame pescare nel fango di una notizia falsa per rilanciare ancora più odio antislamico.
Adesso i sei cittadini nordafricani dovrebbero chiedere di rettificare e il Corriere, se fosse un giornale serio, dovrebbe titolare a tutta pagina: “la cellula islamica era nella nostra testa malata di odio”.
Scotland Yard, nello scusarsi con i sei spazzini, ha parlato di “minaccia non credibile”. Anche i nostri giornali sono “non credibili”. Ma sono “una minaccia”.
Le 10 strategie della manipolazione mediatica
di Noam Chomsky - www.visionesalternativas.com.mx - Settembre 2010
Traduzione per www.comedonchisciotte.org a cura di Anonimo
Il linguista Noam Chomsky ha elaborato la lista delle “10 Strategie della Manipolazione” attraverso i mass media.
1 - La strategia della distrazione. L’elemento principale del controllo sociale è la strategia della distrazione che consiste nel distogliere l’attenzione del pubblico dai problemi importanti e dai cambiamenti decisi dalle élites politiche ed economiche utilizzando la tecnica del diluvio o dell’inondazione di distrazioni continue e di informazioni insignificanti.
La strategia della distrazione è anche indispensabile per evitare l’interesse del pubblico verso le conoscenze essenziali nel campo della scienza, dell’economia, della psicologia, della neurobiologia e della cibernetica.
“Sviare l’attenzione del pubblico dai veri problemi sociali, tenerla imprigionata da temi senza vera importanza. Tenere il pubblico occupato, occupato, occupato, senza dargli tempo per pensare, sempre di ritorno verso la fattoria come gli altri animali (citato nel testo “Armi silenziose per guerre tranquille”).
2 - Creare il problema e poi offrire la soluzione. Questo metodo è anche chiamato “problema - reazione - soluzione”. Si crea un problema, una “situazione” che produrrà una determinata reazione nel pubblico in modo che sia questa la ragione delle misure che si desiderano far accettare.
Ad esempio: lasciare che dilaghi o si intensifichi la violenza urbana, oppure organizzare attentati sanguinosi per fare in modo che sia il pubblico a pretendere le leggi sulla sicurezza e le politiche a discapito delle libertà. Oppure: creare una crisi economica per far accettare come male necessario la diminuzione dei diritti sociali e lo smantellamento dei servizi pubblici.
3 - La strategia della gradualità. Per far accettare una misura inaccettabile, basta applicarla gradualmente, col contagocce, per un po’ di anni consecutivi. Questo è il modo in cui condizioni socioeconomiche radicalmente nuove (neoliberismo) furono imposte negli anni ‘80 e ‘90: uno Stato al minimo, privatizzazioni, precarietà, flessibilità, disoccupazione di massa, salari che non garantivano più redditi dignitosi, tanti cambiamenti che avrebbero provocato una rivoluzione se fossero stati applicati in una sola volta.
4 - La strategia del differire.Un altro modo per far accettare una decisione impopolare è quella di presentarla come “dolorosa e necessaria” guadagnando in quel momento il consenso della gente per un’applicazione futura. E’ più facile accettare un sacrificio futuro di quello immediato.
Per prima cosa, perché lo sforzo non deve essere fatto immediatamente. Secondo, perché la gente, la massa, ha sempre la tendenza a sperare ingenuamente che “tutto andrà meglio domani” e che il sacrificio richiesto potrebbe essere evitato. In questo modo si dà più tempo alla gente di abituarsi all’idea del cambiamento e di accettarlo con rassegnazione quando arriverà il momento.
5 - Rivolgersi alla gente come a dei bambini. La maggior parte della pubblicità diretta al grande pubblico usa discorsi, argomenti, personaggi e una intonazione particolarmente infantile, spesso con voce flebile, come se lo spettatore fosse una creatura di pochi anni o un deficiente. Quanto più si cerca di ingannare lo spettatore, tanto più si tende ad usare un tono infantile.
Perché? “Se qualcuno si rivolge ad una persona come se questa avesse 12 anni o meno, allora, a causa della suggestionabilità, questa probabilmente tenderà ad una risposta o ad una reazione priva di senso critico come quella di una persona di 12 anni o meno (vedi “Armi silenziosi per guerre tranquille”).
6 - Usare l’aspetto emozionale molto più della riflessione. Sfruttare l'emotività è una tecnica classica per provocare un corto circuito dell'analisi razionale e, infine, del senso critico dell'individuo. Inoltre, l'uso del tono emotivo permette di aprire la porta verso l’inconscio per impiantare o iniettare idee, desideri, paure e timori, compulsioni, o per indurre comportamenti….
7 - Mantenere la gente nell’ignoranza e nella mediocrità. Far si che la gente sia incapace di comprendere le tecniche ed i metodi usati per il suo controllo e la sua schiavitù. “La qualità dell’educazione data alle classi sociali inferiori deve essere la più povera e mediocre possibile, in modo che la distanza creata dall’ignoranza tra le classi inferiori e le classi superiori sia e rimanga impossibile da colmare da parte delle inferiori" (vedi “Armi silenziosi per guerre tranquille”).
8 - Stimolare il pubblico ad essere favorevole alla mediocrità. Spingere il pubblico a ritenere che sia di moda essere stupidi, volgari e ignoranti...
9 - Rafforzare il senso di colpa. Far credere all’individuo di essere esclusivamente lui il responsabile della proprie disgrazie a causa di insufficente intelligenza, capacità o sforzo. In tal modo, anziché ribellarsi contro il sistema economico, l’individuo si auto svaluta e si sente in colpa, cosa che crea a sua volta uno stato di depressione di cui uno degli effetti è l’inibizione ad agire. E senza azione non c’è rivoluzione!
10 - Conoscere la gente meglio di quanto essa si conosca. Negli ultimi 50’anni, i rapidi progressi della scienza hanno creato un crescente divario tra le conoscenze della gente e quelle di cui dispongono e che utilizzano le élites dominanti. Grazie alla biologia, alla neurobiologia e alla psicologia applicata, il “sistema” ha potuto fruire di una conoscenza avanzata dell’essere umano, sia fisicamente che psichicamente.
Il sistema è riuscito a conoscere l’individuo comune molto meglio di quanto egli conosca sé stesso. Ciò comporta che, nella maggior parte dei casi, il sistema esercita un più ampio controllo ed un maggior potere sulla gente, ben maggiore di quello che la gente esercita su sé stessa.
Nelle stesse ore in cui Bankitalia forniva gli allarmanti dati sul debito pubblico del nostro Paese, l’attenzione dei media e della politica era puntata sul “pericolo rom”. Pericolo inesistente e inventato appositamente per creare un capro espiatorio. E un diversivo. Basta far caso alle cifre italiane: 170mila rom presenti su territorio, di cui il 50% in regolare possesso di cittadinanza.
Dei 170mila, i domiciliati nei campi, nella stragrande maggioranza autorizzati, sono calcolati in una somma oscillante fra i 20 e i 40mila: gli altri vivono in appartamenti come i nostri. Possono essere questi numeri a destare il massimo allerta mass-mediatico? Con tutta evidenza, no.
E allora? Allora, sorge il sospetto che esista una volontà precisa di spostare l’attenzione da una crisi sempre più profonda, economica sociale politica, come quelle che vivono Italia e Francia (l’asse Sarkozy-Berlusconi) inventandosi “un” problema. Anzi: “il” problema per antonomasia: quello del nemico in casa.
E’ un escamotage che funziona da millenni e che torna sempre utile. La stessa cosa, però, non accade nella Germania di Angela Merkel, dove l’atteggiamento garantista assunto dalla Cancelliera nei confronti dei rom va di pari passo con la capacità di affrontare la crisi senza affamare la popolazione e indebolire le fasce più deboli, sottraendo diritti sociali e civili.
Niente a che vedere, insomma, con quanto capita, guarda un po’ il solito caso, da noi che registriamo i fatti della Fiat a Pomigliano d’Arco.
Dicevamo dei dati di Bankitalia, sottovalutati da quasi tutti i giornali italiani e, quel che è peggio, dalla discussione politica. Il 13 settembre scorso, Draghi ha fatto sapere che il debito pubblico italiano è salito al record assoluto di 1.838,296 miliardi di euro: segnando un più 4,7% rispetto allo stesso mese del 2009.
Come è a tutti noto, il debito pubblico di uno stato è contratto verso terzi (piccoli risparmiatori ma, soprattutto: enti, banche e ad altri Stati attraverso la cessione di titoli Bot, Cct, etc…) con lo scopo di sostenere la spesa utile a far funzionare il Paese.
Su questi titoli paghiamo attualmente interessi annui di circa 70 miliardi di euro. E già sarebbe un successo se riuscissimo a non far lievitare il capitale debitorio. Ma come abbiamo appreso, non è così.
E’ altresì noto che, per pagare almeno gli interessi, l’unica fonte è il prelievo tributario dalle tasche del cittadino (oddio! un altro sistema sarebbe quello della cessione di beni pubblici: ma se siamo arrivati a privatizzare pure l’acqua, vuol dire che abbiamo raschiato il fondo).
Ora, lo stesso rapporto di Bankitalia che rileva l’aumento del debito ci rende edotti che le entrate fiscali, nei primi sette mesi dell’anno in corso, sono state pari a 210,374 miliardi di euro: 7,411 miliardi in meno rispetto al periodo gennaio-luglio del 2009.
E, attenzione: non calano perché il prelievo fiscale sui lavoratori è sceso (anzi…) calano perché c’è stato un «minor versamento a saldo registrato a febbraio 2010 dell’imposta sostitutiva su interessi e altri redditi da capitale».
E non lo dice un marxista-leninista: lo affermano, in un sussulto di sincerità, il Dipartimento delle Finanze e la Ragioneria Generale dello Stato del Ministero dell’Economia.
Adesso, non serve un premio nobel di economia per capire che se il debito pubblico aumenta e le entrate fiscali scendono, il Paese rischia di chiudere per fallimento. E buon per noi che l’ultima asta di titoli di stato emessi dal Ministero del Tesoro, il 10 settembre scorso, ha fatto entrare nelle casse dello stato 10 miliardi e mezzo di euro.
Ma è un “buon per noi” molto relativo ai tempi brevi e ad alto rischio sugli effetti che potrebbero innescarsi da qui a non molto.
Gioverà appena ricordare, infatti, che il recente crack greco è stato determinato proprio dalle speculazioni finanziarie sui suoi titoli di stato: andate deserte alcune aste, per incentivare la domanda la repubblica ellena è stata costretta ad alzare gli indici di rendimento al 10% per quelli a due anni e all’8,80% per quelli a dieci, col risultato di diventare insolvente e, quindi, fallire.
A poco può consolarci che gli indici di rendimento dei nostri titoli siano pari allo 0,683% per i trimestrali e all’1,428%, per quelli di un anno: basterà che una o due aste vadano deserte per cadere dentro lo stesso identico circolo vizioso del gioco al rialzo degli speculatori che ha devastato la Grecia.
Il problema è che su certe questioni la maggioranza di Governo ha tutto l’interesse a glissare. Quello che non si capisce è come faccia l’opposizione a non mettere la questione al centro del dibattito, lasciando che a sottolineare la strana dimenticanza della voce “economia” fra i fatidici 5 punti della ripresa politica sia stato il presidente della Camera Gianfranco Fini, nel discorso di Mirabello. Ed è già qualcosa, anche se le sue indicazioni restano tutte iscritte all’interno di quello status quo inossidabile che più liberista di così non si può.
Una logica che Edmondo Berselli, deceduto ad aprile, lasciandoci un pamphlet da pochi giorni in libreria L’economia giusta (Einaudi) definisce: «pensiero unico monetarista». Il pensiero, cioè, che un mercato finanziario da lupi mannari lasciato libero di agire indisturbato ci avrebbe arricchiti tutti.
Che le cose non siano andate esattamente come era negli auspici dei filo-monetaristi, la storia di questi ultimi anni ne dà buona testimonianza. L’euro non ha creato nessuna stabilità (vedi di nuovo il caso Grecia), il dollaro e la sterlina stanno ancora pagando e chissà fino a quando continueranno a pagare e a far pagare il crack dei mutui subprime del 2008, la disoccupazione è in costante aumento in tutto il mondo occidentale.
Di contrasto, gli unici che continueranno a godere di finanziamento illimitato saranno, per esplicita promessa del Presidente della Banca Centrale Europea, Jean-Claude Trichet, fatta il 3 settembre, gli istituti di credito.
I quali ricevono denaro dalla Bce all’1% di interesse (il più basso di sempre da quando c’è l’euro) e lo spacciano al dettaglio ad un tasso che varia, secondo tipologia, dal 4 al 20 per cento (provate ad accedere a quella opzione bancaria che si chiama “scoperto” e ve ne accorgerete). E se questa non è “usura”, allora spiegatemi, per favore, cos’è l’usura…
Sì, d’accordo – può essere l’obiezione – ma non abbiamo alternative. Oddio! non è proprio così. E non bisogna neanche andarla a cercare tanto lontano un’alternativa plausibile, o ipotizzare chissà quali bagni di sangue per sperimentare qualcosa di diverso da questo tran-tran da banco dei pegni globale e senza (apparente) fine.
Basta guardare cosa avviene in Germania e notare come il suo modello di rapporto stato-economia sovverta il primato della finanza a vantaggio di una concezione partecipativa e paritaria fra capitale e lavoro. Storicamente, è definito “modello renano”. Di recente, è invalso l’uso di chiamarlo “modello wolkswagen”.
Si tratta, in soldoni spiccioli, di lasciare il mercato libero, sì, ma dentro le regole stabilite dallo stato. E di ricondurre l’economia al servizio della società rendendo partecipi i lavoratori alle sorti e agli utili dell’impresa produttiva.
E’ – a pensarci bene – la tradizione di economica sociale e partecipativa dell’Europa contro quella turbo-capitalista (finanziaria e monetarista) del mondo anglosassone. Incarnato appena ieri dal reagan-tatcherismo e, oggi, dalla tigre cinese.
E non si tratterebbe nemmeno – pensate un po’ – di architettare chissà quali riforme. Basterebbe realizzare, tanto per gradire, una seria legislazione applicativa dell’art. 46 della Costituzione della Repubblica italiana, a tutt’oggi disattesa, che recita: «Ai fini della elevazione economica e sociale del lavoro in armonia con le esigenze della produzione, la Repubblica riconosce il diritto dei lavoratori a collaborare, nei modi e nei limiti stabiliti dalle leggi, alla gestione delle aziende».
Non è una chiave di volta augurale di chissà quali miracoli. Anzi, come avverte Edmondo Berselli nel suo pamphlet, si tratta di mettere in conto la possibilità di «avere meno risorse. Meno soldi in tasca. Essere più poveri».
Non vi sembra una prospettiva allettante? Può darsi. Ma essere poveri è un conto, e non è detto che la povertà sia sempre un disvalore. Essere schiavi di chi possiede il potere della moneta, fino a decidere che cosa dobbiamo consumare per mantenere in vita a qualunque costo (disoccupazione, flessibilità, precariato, sfruttamento immigrativo…) un sistema che favorisce solo qualche centinaio di fanatici, di incoscienti, di canaglie che hanno come unico interesse il loro, e solo il loro, super-profitto, è tutt’altro. Ed è peggio…
Ecco: di tutto questo, un paese sotto lo schiaffo di una crisi economica senza precedenti avrebbe il dovere (dico: dovere) di dibattere. Vi sembra poco eccitante discutere di una materia arida come l’economia? Ah! vabbeh…
Allora continuiamo a sollazzarci con il pericolo rom. O con la scissione di Salvatore “vasa-vasa” Cuffaro dall’Udc, per gli alti e nobili intenti di garantire una maggioranza purchessia a questo governo. O di quella messa in moto da Walter Veltroni con il suo listone dei 75 attori in cerca d’autore. Hai visto mai?