Per Obama "Andiamo verso giorni migliori", mentre Tremonti rassicura che "Per noi non c'è emergenza autunnale".
Intanto però il tasso di disoccupazione nell'Eurozona resta intorno al 10%, sempre più elevato rispetto a quello di Stati Uniti e Giappone fissati al 9,6% e 5,2% rispettivamente.
In Italia il dato di luglio 2010 del tasso di disoccupazione è pari all'8,4% (a giugno era l'8,5% ma un anno prima era al 7,9%), con il numero degli inattivi - cioè chi rinuncia a cercare lavoro e quindi non rientra tra i disoccupati - che cresce a 14.948.000, un aumento di 76.000 persone (+0,5%) rispetto al mese precedente. Il livello più alto dall'inizio delle serie storiche (2004).
Inoltre nei primi otto mesi del 2010 l'Inps ha autorizzato alle aziende italiane l'utilizzo di 826,4 milioni di ore di cassa integrazione, con un aumento del 60,5% rispetto allo stesso periodo del 2009.
In attesa dell'Ecofin di domani e martedì a Bruxelles la domanda rimane sempre la stessa: A che punto siamo?...
Prepariamoci, perché «settembre e ottobre porteranno con sé cattive notizie per il mercato azionario e le banche rimangono pesantemente esposte alla leva, dato ancor più allarmante visto che stiamo entrando nella seconda "gamba" della crisi finanziaria». Parole di Pedro De Noronha, managing partner della Noster Capital di Londra, secondo cui
stiamo assistendo ad anni che rappresentano una sfida senza precedenti per gli investitori. I grandi player, semplicemente, stanno fuggendo dal mercato. Ci sono seri problemi che arrivano dal settore della rinegoziazione dei mutui Usa e l'area euro resta una seria e costante preoccupazione. La Germania non ha la minima intenzione di salvare un'altra nazione europea, la Merkel ha già usato una larga parte di capitale politico per salvare la Grecia e il mercato ellenico dei bonds e questo semplicemente per tutelare il sistema bancario francese e tedesco da ulteriori, gravi perdite.
Ci sono quattro o cinque nazioni con grossi problemi strutturali che non dovrebbero nemmeno essere nell'euro. D'altronde, devo ancora vederlo un politico che si spara alla tempia in ossequio dell'austerity. I greci non hanno alternativa se non quella di tagliare, gli altri come la Spagna non stanno affatto facendo a sufficienza: io sono per la scuola austriaca, non accetto alternative keynesiane.
Dovrebbe dirlo alla Fed e al premio Nobel, Paul Krugman, che lunedì scorso ha chiesto a chiare lettere una nuova politica di stimolo fiscale. Per De Noronha la vera preoccupazione a breve sta nel settore bancario, tanto che sta shortando i titoli di cinque grandi istituti: Ubs, Barclays, Unione de banche, Bbva e - udite udite - Intesa Sanpaolo. Il perché è presto detto:
I recenti stress tests mi hanno fatto sbellicare dal ridere. Sotto stress, infatti, i regolatori hanno messo soltanto ciò che le banche ci hanno detto, non ho visto nessuno testare qualcun'altro finché non si è arrivati al punto di non ritorno. Quando guardo alle ratio del Capital Tier 1, vedo cose poste a loro sostegno che non possono essere utilizzate nel corso di una crisi. Il vero Capital 1 ratio di alcune delle maggiori banche è soltanto l'1,7 per cento e per questo motivo sto shortando cinque grandi banche europee. Ho la certezza che la maggioranza degli istituti restino eccessivamente esposti alla leva.
Quindi, avevamo ragione quando definivamo "ridicoli" gli stress test Ue?
I regolatori hanno utilizzato il 6 per cento come soglia per definire il minimo di capital ratio ma quel 6 per cento include assets non cash come tax assets differenziati. Se invece utilizzo solo book equity tangibili quel 6 per cento diventa molto vicino al 2 per cento, un qualcosa che impone una leverage ratio di cinquanta volte. Una situazione poco gestibile nell'attuale situazione economica.
E in tal senso un grosso test per la tenuta dell'eurozona e il suo settore bancario, arriva proprio questo mese di settembre, durante il quale le principali banche irlandesi dovranno ripagare oltre 25 miliardi di debito: i volumi molto bassi delle contrattazioni parlano la lingua di un'attesa carica tanto di speranza quanto di preoccupazione.
Insomma, basterà il mercato dei bonds per finanziarsi o sarà necessario ritentare la strada del mercato, fino ad oggi prosciugata da volatilità e mancanza di fiducia?
La crisi del debito di maggio e giugno, d'altronde, ha portato con sé un aumento dei costi per i paesi che vogliono ottenere denaro e anche di quelli del prestito bancario. Il problema è che le preoccupazioni crescenti sulla stato di salute dell'economia irlandese (36 aziende su 100 sono sull'orlo del fallimento, dati riportati dall'Irish Examiner), con tanto di downgrade da parte di Standard&Poor's, hanno fatto schizzare lo spread dei rendimenti tra bond irlandesi e bund tedeschi, situazione che vede quindi le banche costrette a pagare un prezzo maggiore per rifinanziare il loro debito.
«Ora che il mercato obbligazionario sta ripartendo dopo la pausa estiva, c'è grande preoccupazione riguardo la necessità reale per le banche irlandesi e spagnole di emettere durante il mese di settembre e soprattutto riguardo al fatto che quando questo soggetti si presenteranno sul mercato, non è chiaro quale prezzo dovranno pagare», ha dichiarato al Financial Times, Chandra Rajan di Barclays Capital, secondo cui «come tutte le altre banche, anche questi istituti saranno costrette a estendere le scadenze del loro debito ma non si sa quanta estensione sono in grado di gestire».
Per Robert Crossley, analista sui tassi a Citigroup, lo spread che l'Irlanda si trova a pagare potrebbe ulteriormente allargarsi e potrebbe innescare un effetto domino su altri soggetti:
Il potenziale e immediato pericolo è rappresentato dal fatto che le notizie si autoalimentano e noi già intravediamo una nuova spirale sull'Europa periferica. E un ampliamento dello spread, nelle condizioni attuali, potrebbe distribuirsi nei paesi a rischio molto facilmente. Molte banche hanno tratto vantaggio dalla forte domanda e dai bassi costi dei prestiti per vendere bonds negli Stati Uniti ma i banchieri stessi dicono che questa opzione era praticabile solo per le istituzioni più grandi.
Insomma, i giorni che ci dividono dal secondo anniversario del crollo di Lehman Brothers si prospettano tesi. E pericolosamente decisivi. Anche perché, da Oltreoceano, arrivano segnali ulteriormente preoccupanti per la ripresa globale.
Come anticipato martedì, il pieno recovery dell'economia americano potrebbe richiedere una decina di anni, stando all'analisi di Carmen M. Reinhart, economista alla Maryland University e storica delle crisi economiche, che ha reso nota la sua tesi nel corso dell'annuale simposio di economia di Jackson Hole, organizzato dalla Fed di Kansas City e che ha visto riuniti 110 tra banchieri centrali e studiosi.
Allen Sinai, co-fondatore dell'azienda di consulenza Decision Economics e decano dell'incontro nel Wyoming, si è definito
preoccupato oggi come non mai per il futuro dell'economia americana. La sfida infatti è unica nel suo genere: bassa crescita in ulteriore diminuzione, tasso di disoccupazione allarmante, un deficit iperbolico e un debito sovrano che ci rende una delle nazioni più fiscalmente irresponsabili del mondo.
In occasione del simposio, Carmen M. Reinhart ha preparato uno studio dal titolo "This time is different: otto secoli di follia finanziaria" nel quale ha esaminato quindici severe crisi finanziarie dalla Seconda Guerra mondiale in poi, oltre alle contrazioni economiche che hanno seguito il crash del 1929, lo shock petrolifero del 1973 e l'esplosione della bolla subprime del 2007.
Da questo studio si evince che la decade successiva ad ogni singola crisi ha visto tassi di crescita significativamente bassi e livelli di disoccupazione molto alti.
I prezzi degli immobili hanno avuto bisogno di anno per tornare a livelli di normalità e mediamente ci sono voluti sette anni per cittadini e aziende per ridurre il loro debito e recuperare nei bilanci.
Quasi scientificamente, le crisi sono anticipate da un decennio di espansione del credito e del prestito e seguite da periodi di rintracciamento più o meno della stessa durata.
Eventi largamente destabilizzanti come quelli analizzati nel mio studio, producono evidentemente cambiamenti nelle prestazioni degli indicatori macroeconomici chiave sul lungo termine, un periodo che si prolungo molto dalla fine del picco della crisi stessa». Per la Reinhart «il rischio maggiore che stiamo correndo è quello di un'errata percezione che potrebbe essere molto costoso se compiuta dalle autorità fiscale che sovrastimano le prospettive di entrata e dai banchieri centrali che tentano di riportare l'occupazione a un livello irrealisticamente alto».
Le sfide davanti a noi, quindi, sono decisamente epocali. E il margine di errore, questa volta, è davvero ristretto.
P.S. Ieri le Borse hanno festeggiato con rialzi euforici l'inaspettato aumento dell'indice ISM dell'attività manifatturiera Usa, salito al 56,3 punti in agosto dopo il calo nel mese di luglio che aveva fatto parlare di crescita rallentata e rischio di "double-dip". Il livello che potrebbe far scattare i crolli borsistici è a 50 punti, livello che molti analisti e gestori di fondi vedono probabile per ottobre, massimo novembre.
In compenso, mentre i trader brindavano, gli insiders - ovvero i grandi investitori - confermavano i timori per crollo a breve: è di oltre 100 milioni di dollari di controvalore, infatti, il numero di azioni vendute dai manager di grandi aziende di Wall Street, 64 dei quali solo dei tre dirigenti principali di Goldman Sachs. Investimenti personali, non per clienti: quelli possono anche andare a schiantarsi contro il muro dei mercati. Chi vede le cose dall'interno, vende e scappa.
Bernanke: l'illusione di una pallottola d'argento!
di Andrea Mazzalai - http://icebergfinanza.splinder.com - 30 Agosto 2010
Venerdi sera, non appena conclusa la lettura dell'intervento di Bernanke a Jackson Hole, il mio sguardo ha ripercorso l'intero discorso, contando quante volte le parole "sembra, potrebbe e sarebbe..." sono apparse.
Certo, il condizionale è d'obbligo in questa crisi epocale, specialmente da parte di colui che ha sbagliato completamente la diagnosi all'inizio di questa crisi, ma quando nel discorso di Bernanke è apparsa la frase "... cadere in deflazione non è un rischio significativo per gli Stati Uniti in questo momento..." un brivido è sceso lungo la schiena, pensando al famoso discorso in cui confidava che il contagio subprime non avrebbe mai debilitato un'economia e un sistema finanziario fondamentalmente solido.Bernanke ha aggiunto poi che non è un rischio significativo solo in parte, perchè i mercati comprendono che la Federal Reserve sarà vigile e propositiva... rispetto a questo periodo di disinflazione come la chiamano per non fare troppo rumore.
Per un medico che ha studiato per anni la Grande Depressione e la Lost Decade giapponese, considerato uno dei massimi esperti in materia, aver fallito la diagnosi presuppone l'incertezza sulla validità della cura, dimenticando probabilmente, che una deflazione da debiti, se controllata e monitorata, è probabilmente la medicina naturale migliore per un infarto provocato dal colesterolo del debito e non la malattia assoluta.
Sia ben chiaro alcuni interventi erano necessari nell'immediato, l'intervento chirurgico e e la successiva camera di rianimazione, ma l'evidenza testimonia che si è trattato più che altro di un coma artificiale assistito, in attesa dell'uscita dal lungo sonno.
La politica monetaria sta perdendo tutta la sua efficacia ha sottolineato Roubini, stanno finendo le pallottole, anche se Bernanke parla ancora di armi non convenzionali, interventi monetari non convenzionali.
Un pò come un medico che assiste impotente al fallimento della cura, Bernanke ha cercato di sollevare il morale del paziente, sottolineando si che l'uscita dal coma è rallentata e che la medicina proposta ha avuto un effetto debolmente imprevisto, ma che il prossimo anno e negli anni successivi il paziente guarirà certamente.
Sì perchè, probabilmente le aziende torneranno ad investire e i consumatori a consumare, consumatori che il prossimo anno come in una favola ritroveranno il loro lavoro, riavranno la loro casa e verrà loro condonnato tutto il debito pur in presenza di valori immobiliari in caduta libera controllata.
Nel fine settimana Intel è stata chiara, nel terzo trimestre risultati sotto le attese e domanda diminuita oltre le previsioni.
In fondo basta cosi poco per fare felici i pazienti: speravamo che andasse meglio di quello che in realtà non è andato, ma non disperate il prossimo anno sarà tutto diverso, comunque vada sarà un successo.
Dopo aver disegnato il migliore dei mondi possibili per gli utili delle aziende americane, con previsioni paradisiache, dopo averle adagiate se un oceano di liquidità virtuale aggiungo io, che non tiene minimamente conto come abbiamo visto recentemente della nuova esplosione di ricorso ai finanziamenti, la revisione del secondo trimestre della crescita ci dice che la variazione degli utili delle imprese è stata di un miserabile 0,1 % rispetto alle visioni di oltre il 12 % e alla crescita a doppia cifra del primo trimestre.
Affascinante, sarebbe interessante ascoltare cosa ne pensano gli analisti che dipingono, per i prossimi mesi e anni, altipiani permanenti di utili sempreverdi, sottolineando come i valori azionari siano fondamentalmente adeguati. Beata innocenza interessata!
Non ho nessuna intenzione di tediarvi con analisi sul rapporto prezzi e utili attesi, ma non ci vuole poi molto a calcolare la traiettoria azionaria nel prossimo decennio perduto.
Alan Blinder, ex vicegovernatore della Federal Reserve sotto Greenspan, dopo aver messo in guardia lo scorso anno dal ripetersi di un revival degli anni 36/37 sottolinea come la banca centrale americana sia priva di munizioni.
In "Ultimo Treno" e "Remake 1936/37" scrissi che Blinder respingeva la possibilità che il sistema politico americano, avendo imparato la lezione, potesse far sprofondare il paese in un nuova sindrome giapponese, ma oggi guarda alla paralisi del sistema politico aggiungendo che il decennio perduto si profila come un rischio molto più grande.
Per Blinder la buona notizia è che Bernanke ha ancora delle munizioni, delle opzioni da mettere in campo, ma la cattiva è che quelle più potenti hanno esaurito la loro efficacia.
L'idea che l'acquisto di titoli di Stato e ipotecari abbia compresso i tassi ipotecari è una semplice illusione, lo dimostra la continua depressione immobiliare in atto, testimoniando che la dinamica è stata solo accompagnata ma era inevitabile in una deflazione da debiti. A nessuno interessa comprare casa in una depressione.
Blinder con la nuova liquidità che la banca centrale vuole stampare, suggerisce di acquistare titoli ipotecari, titoli corporate, prestiti alle piccole imprese, prestiti al consumo, crediti che hanno origine dalle carte di credito e non del tesoro, no titoli di stato. Ma come abbiamo visto tutto ciò non è servito a nulla o quasi.
Bernanke ha aggiunto anche che la banca centrale potrà ridurre gli interessi riconosciuti alle banche sulle riserve o comunicare in maniera più trasparente e risoluta che non intende aumentare i tassi per molto tempo, ma anche in questo caso non servirà a nulla, le riserve bancarie sono necessarie per ricostituire la base patrimoniale, nulla è in eccesso nelle riserve bancarie, nulla, e l'economia è in una trappola della liquidità.
Cosa dovrebbe dire Bernanke che il mercato già non sa, che i tassi non saliranno ben oltre il 2012... Il mercato obbligazionario che molti ritengono prossimo a un'imponente bolla, sconta nel bund attuale almeno dieci anni senza inflazione, ripeto dieci!
A Jackson Hole due economisti econometrici delle univesità di Harvard e Princeton hanno dichiarato che - quasi empiricamente - studiando il comportamento dell'inflazione e della disoccupazione nelle maggiori crisi storiche, il prossimo anno porterà una riduzione dell'inflazione al punto da dimezzare qualsiasi aspettativa.
Blinder inoltre suggerisce di rendere i tassi negativi sulle riserve come abbiamo già visto altre volte e come ha fatto recentemente la banca centrale svedese, cosi le banche piuttosto che perdere soldi preferiscono prestarli, ma la fantasia si scontra con la realtà!
E' demenziale credere di rimettere in circolo liquidità a debito nella più imponente orgia del debito mai conosciuta dalla storia, le banche hanno paura di fare credito e i consumatori hanno paura di contrarlo.
Chi invece lo prenderebbe volentieri sono gli speculatori che indebitandosi a tasso zero lo investirebbero a lungo termine in onore della deflazione, altro che inflazione, o in qualche altro investimento: alimentando inflazione virtuale nelle materie prime.
Questo grafico dimostra più di mille parole il completo fallimento delle politiche di allentamento quantitativo giapponesi, la discesa della richiesta di credito, nonostante la massiccia dose di liquidità immessa.
Come ho più volte sottolineato il peccato originale che ha portato al decennio perduto giapponese, non è stato tanto quello di fornire credito illimitato subito al sistema, quanto quello di riconoscere il fallimento di una buona parte del sistema finanziario prorogando un'agonia che in realtà ha prodotto il sequestro dell'intera economia.
Oggi in America sta accadendo lo stesso, l'idea che il fallimento di una banca possa provocare il fallimento dell'intera economia è assolutamente demenziale, la nazionalizzazione è l'unica soluzione, per cancellare questo azzardo morale.
Blinder inoltre si spinge - con la fantasia e la creatività proverbiale dei momenti di panico - a consigliare di ridurre gli accantonamenti sulle perdite future, per stimolare il credito, in fondo le famose armi non convenzionali di Bernanke saranno anch'esse frutto della fantasia di un sistema che ormai non vede altro che una soluzione: debito, debito e ancora debito, per combattere il debito.
Invece la deflazione da debiti è la cura, la malattia è l'eccesso di debito! Trichet ha ribadito a Jackson Hole che la cura è la sobrietà distinguendosi nettamente dalle politiche monetarie americane.
Non ho idea se ci troviamo di fronte ad un periodo di indebitamento strutturale o ciclico, ma la disputa accademica tra stimoli fiscali e controllo della spesa, sembra non trovare via di mezzo.
La revisione del PIL per il secondo trimestre è stata meglio delle attese, ormai tutto è meglio delle attese, quando non si tratta di immobiliare: ma al di la di quello che è stato, anche le attese per il prossimo trimestre sono demenziali, per una crescita intorno al 2,5 %.
La discesa al 1,6 % è stata rallentata dagli investimenti residenziali, dai consumi, dalla spesa pubblica e federale, dagli investimenti delle imprese e dalla riduzione del fattore scorte.
Quali di questi fattori aiuterà ancora la crescita nel terzo trimestre? Nessuno, risottolineo nessuno!
Gli investimenti immobiliari sono depressi, gli stimoli fiscali in via di estinzione, Intel ha detto che la domanda è scesa innaspettatamente e non penso abbia fatto ulteriori investimenti e i consumi sono stati spinti al rialzo dal fattore energetico altamente volatile e speculativo.
Nonostante la più imponente dose di stimoli fiscali e monetari della storia, l'economia ha rallentanto sino a raggiungere il livello zero di questo trimestre in quattro trimestri, e qualcuno come Bernanke parla di guardare al prossimo anno tenendo invariate le previsioni medie di una crescita al 3 %.
Senza una crescita nella media storica niente riduzione del tasso di disoccupazione, anche se come abbiamo visto l'esodo dalla forza lavoro, la mancanza di fiducia nella ricerca di un nuovo lavoro, ha fatto stabilizzare e scendere il tasso in questione.
Il dato di venerdi sorprenderà nuovamente le illusioni del mercato, ma l'abbandono della forza lavoro non è un buon segnale. Al di là del tasso che potrebbe sorprendere in negativo, ciò che conta è il numero di posti creati, che alcuni indicatori anticipatori segnalano alquanto depresso.
Sarà una settimana intensa dal punto di vista macro con dati riguardanti le vendite, i consumi, l'occupazione, gli ordini e alcuni indicatori anticipatori come il PMI di Chicago che ci introdurrà alla nuovà realtà manifatturiera ovvero quella di un'economia che ormai ha prodotto il risultato di una effimera ripresa statistica.
Robert Shiller sostiene che ormai la "double dip" è probabilmente imminente, ma la questione non si pone, Bernanke e l'economia americana stanno dimostrando che in realtà, se non fosse per qualche artificio contabile, da questa crisi non siamo mai usciti.
Una pallottola d'argento o una semplice goccia sparata da una pistola ad acqua, solo la verità sempre più figlia del tempo dimostrerà purtroppo che chiunque dimentica il suo passato è destinato a riviverlo.
Dalla Fed un'alluvione di moneta, ma basterà?
di Federico Rampini - http://rampini.blogautore.repubblica.it - 27 Agosto 2010
Ci risiamo. Ben Bernanke, presidente della Federal Reserve, ha fatto capire che la banca centrale ritornerà a praticare il cosiddetto “quantitative easing”, che potremmo tradurre in “allentamento quantitativo”. Di che si tratta? Di una terapia estrema per evitare che l’America ricada in recessione. Un cura a cui già la Fed fece ricorso quando si rischiò il collasso sistemico, nel 2008.
Poiché la banca centrale ha già ridotto i suoi tassi d’interesse direttivi a quota zero, quello che è lo strumento più classico per aiutare l’economia (cioè la riduzione del costo del credito) non è più utilizzabile: sotto zero non si può andare.
E allora resta questo metodo “eterodosso”. Equivale a trasformare la banca centrale in un Bancomat che elargisce dollari. Lo fa acquistando massicciamente sui mercati titoli pubblici: per comprare questi titoli stampa moneta, e quindi mette in circolazione più liquidità.
Nella fase più buia dell’ultima crisi quella terapia ha avuto una certa efficacia, visto che abbiamo evitato il peggio. Ha delle controindicazioni, però. Essa ha beneficiato più il sistema bancario che l’economia reale.
Le banche Usa stanno benone, oggi, se confrontate con la situazione in cui versano il mercato del lavoro e i consumatori.
E non c’è nessuna garanzia che la liquidità generata dalla Fed venga prestata dalle banche a chi ne ha davvero bisogno.
C'è una crisi "greca" che minaccia l'Italia
di Mauro Bottarelli - www.ilsussidiario.net - 3 Settembre 2010
A parte queste pagine, trovate notizie da qualche parte sulla tanto disastrata e vituperata Grecia? Il paese che stava mandando a gambe all'aria non solo l'euro ma la stessa stabilità dell'Europa sembra sparito: va tutto bene, Fmi e Ue hanno detto che il piano di austerity del governo prosegue bene e hanno sbloccato la seconda tranche di aiuti, le aste di bond governativi vanno a gonfie vele. Insomma, problema risolto. Non è proprio così e lo vedremo.
Ma partiamo dal vertice della piramide europea, ovvero dalla Bce, la quale ieri ha deciso di estendere la rete di salvataggio di liquidità, di fatto ritardando la exit strategy dalle politiche d'emergenza visto che la ripresa appare quanto agitata e le banche dei paesi periferici rimangono vulnerabili.
Di più, un simposio di 78 economisti interpellati da Reuters hanno risposto all'unanimità che la Bce lascerà i tassi all'1 per cento per il sedicesimo mese di fila in settembre e l'aspettativa media per un rialzo si sposta all'ultimo trimestre del 2011.
Il Governing Council della Banca centrale europea dovrebbe quindi mantenere fondi illimitati per prestiti agli istituti bancari almeno fini all'inizio del prossimo anno, garantendo una lifeline alle banche di paesi come Spagna, Irlanda e Grecia: non a caso gli istituti di questi paesi sono stati protagonisti di prestiti record dalla Bce negli ultimi mesi.
Abbiamo già parlato sia del downgrade dell'Irlanda da parte di Standard&Poor's sia dello spread record tra decennali e irlandesi e bund tedeschi e questo si concretizza in una sola cosa per gli analisti: la Bce, esattamente come tutte le altre banche centrali, deve pensarci non una ma dieci volte prima di ritirare le misure di supporto. Non a caso, la Fed sta pensando a un secondo piano di quantitative easing anche per evitare i prospettati tracolli borsistici per l'autunno/inverno.
«Certamente Trichet non sarà felice di questo ma non posso immaginare che prenda altra decisione. Le porte del credito resteranno aperte per tutto l'anno, dopodiché seguirà una graduale exit strategy», ha dichiarato Erik Nielsen di Goldman Sachs.
Anche perché, nonostante la Bce sembri intenzionata ad alzare le prospettive di crescita, questa decisione appare motivata unicamente dal secondo trimestre record della Germania e non su chiare linee macro per il futuro dell'eurozona.
«Le speranze della Bce che i risultati degli stress test riportassero fiducia nei mercati è già evaporata», dichiara netto Jacques Cailloux, economista di Rbs, secondo cui «la rinnovata debolezza che stiamo vedendo nei mercati dell'export chiave potrebbe trasformarsi in preoccupazione riguardo una più generale debolezza sul fronte economico».
L'Inflazione nell'Eurozona appare, dagli indicatori, ancora moderata attorno all'1,5-1,6 per cento ma il fatto che il potente sindacato metalmeccanico tedesco IgMetall abbia chiesto aumenti salariali del 6 per cento sembra parlare un'altra lingua.
A questo uniamo il fatto che alla fine di settembre le banche europee dovranno affrontare una pesante sfida di liquidità quando dovranno ripagare 225 miliardi di fondi a 12, 6 e 3 mesi oppure dar vita a roll over in scadenze più brevi.
Insomma, prospettive non proprio rosee per l'Europa, anche alla luce del richiamo del Fondo Monetario Internazionale rispetto all'ammontare del debito di alcuni paesi, tra cui l'Italia, il cui livello starebbe raggiungendo il punto di non ritorno, ovvero l'ingestibilità.
Ora, passiamo dal quadro generale alla Grecia, primo tassello del domino. Per capire come vanno le cose basta chiedere ai dipendenti pubblici, i quali stanno utilizzando i propri risparmi per vivere visto che gli stipendi non bastano più: insomma, i cittadini stanno generalmente mettendo mano al proprio "tesoretto", impoverendosi e facendo venire a mancare depositi alle già esangui banche elleniche: si parla di un 9 per cento in meno dalla fine del 2009, tra cittadini costretti a ritirare e correntisti abbienti che spostano il capitale all'estero.
I dipendenti pubblici, che hanno già subito due tagli salariali, ora dovranno affrontare tre anni di congelamento salariale e pagare il conto, inoltre, dell'aumento dell'Iva dal 19 al 21 per cento e della pressione fiscale su carburante, alcool e tabacco. D'altronde, l'economia greca si contrarrà del 4 per cento quest'anno e del 2,6 il prossimo, basandoci però sulle ottimistiche stime del governo greco dello scorso maggio.
Il trend negativo per "main street" è confermato da Gikas Hardouvelis, capo economista alla EFG Eurobank Ergasias SA di Atene: «Sembra che i risparmiatori privati abbiano cominciato ad attingere ai loro risparmi per compensare le ridotta disponibilità di introito causata da contrazioni salariali, alta tassazione e alto tasso d'inflazione. In generale, i depositi corporate e privati a giugno sono scesi per il sesto mese di fila a 216,5 miliardi di euro da 238 milioni di euro alla fine del 2009, stando alle cifre fornite dalla Banca di Grecia».
Il problema, però, oltre che sociale è strutturale per il sistema poiché le banche greche sfruttano i depositi per sovvenzionare i prestiti alla clientele e ogni prelevamento li costringe a prendere in prestito più denaro dalla Bce visto che il mercato monetario resta chiuso a doppia mandata.
L'outflow di depositi nel secondo trimestre ha costretto, ad esempio, la National Bank of Greece SA (NBG) ad aumentare i prestiti richiesti alla Bce di 6,4 miliardi di euro raggiungendo la cifra di 21,3 miliardi rispetto ai primi tre mesi dell'anno, stando a calcoli presentati da Tania Gold, analista di UniCredit a Londra, secondo cui «con questo ritmi non stupisce affatto il dato di una sempre crescente dipendenza dalla Bce».
Il finanziamento cumulativo della Banca Centrale Europea verso gli istituti greci ha toccato i 96,2 miliardi nel mese di luglio, più del 2,5 per cento rispetto al mese precedente e del 94 per cento rispetto alla fine dello scorso anno, quando toccò quota 49,7 miliardi, stando al report preparato da Manos Giakoumis, direttore della ricerche per Euroxx Securities SA. Il problema è che le banche greche non possono sperare di vivere alle spalle della Bce per sempre, visto che questo denaro è molto più a buon mercato di un deposito a termine ma la politica di easing dovrà finire prima o poi: a quel punto, o si torna a cercare denaro sul mercato (a quale prezzo, visto i rischi, è facile desumerlo) o si cerca di attirare depositi per assicurarsi i fondi di base. Non a caso le azioni delle banche greche sono quelle che hanno performato peggio tra le 54 compagnie tracciate da Bloomberg Europe Banks and Financial Services Index quest'anno: National Bank ha perso il 44 per cento, Alpha Bank e Eurobank il 36 per cento mentre Piraeus Bank SA, che non è presente nell'indice, è crollata del 49 per cento. Insomma, una situazione da mani nei capelli. «L'ambiente macro-economico persistentemente negativo in Grecia e il processo di restringimento della liquidità sia privata che corporate ha portato a una contrazione del 6 per cento dei depositi nella prima metà dell'anno», ha reso noto National Bank, che controlla un terzo dei depositi di risparmio del paese in quel periodo, lo scorso 27 agosto. Insomma, in Grecia i lavoratori non mettono i soldi in banca, prelevano i soldi in banca. L'Argentina, di fatto, è cominciata così: non a caso, circolano voci in ambienti finanziari che il governo greco intenda imporre restrizioni sul prelevamenti nel corso dei prossimi mesi. A quel punto, la tensione sociale potrebbe non essere più gestibile. E il rischio di contagio diverrà davvero alto. P.S. E se il contagio dovesse partire, l'Italia rischia di pagare il conto più salato. Guardate questo link: Vi sono segnalate le dieci entità - Stati come aziende - con maggior esposizione verso contratti cds da copertura del rischio al 28 agosto scorso: l'Italia è al primo posto con circa 6.600 contratti aperti per un controvalore di oltre 25 miliardi di dollari, al secondo la Germania con 2200 contratti aperti per un controvalore di 15 miliardi dollari e al terzo la Spagna con 4400 contratti e un controvalore di 14 miliardi e 700 milioni di dollari. Poi, a seguire, Brasile, Francia, General Electric Capital Corporation, Cds sui prestiti, Cds su securities legate al settore immobiliare, il Regno Unito e l'Austria. Tutti catastrofisti come il sottoscritto anche alla ISDA Marketplace?
La decrescita. Quante saracinesche restano giù dopo le ferie
di Tommaso Vaccaro - www.dazebao.org - 31 Agosto 2010
Anche a Termini Imerese, dopo gli stabilimenti Fiat di Melfi e Cassino, i 2.200 operai impiegati nell’assemblaggio della Lancia Ypsilon tornano a lavoro. Da queste parti la malinconia da rientro post-vacanziero è un “lusso” del passato. Come quell’odiato primo giorno di scuola che, a distanza di anni, assume la forma di un ricordo gradevole, spesso rimpianto.
Nel volto mesto degli operai che fanno il loro ingresso in fabbrica dopo la pausa legata alle ferie e a una settimana di cassa integrazione, resta soltanto la preoccupazione per un futuro che – stando alla situazione attuale – appare segnato.
Il conto alla rovescia di Termini Imerese
Nel calendario, le tappe cerchiate con il pennarello rosso sono quelle del 20 settembre, quando scatteranno altre due settimane di Cig; il ritorno alle catene di montaggio previsto per il successivo 4 ottobre; il fatale appuntamento con la fine del 2011, quando il Lingotto darà il benservito allo stabilimento siciliano, chiudendone per sempre i battenti.
Nel mezzo, c’è la data del 15 settembre con l'incontro fissato al ministero dello Sviluppo economico per iniziare a sondare le eventuali offerte di rilevamento della struttura.
Peccato che il governo, proprio in quei giorni, sarà impegnato giorno e notte a cucire le toppe ad una maggioranza sempre più lacerata, tra i tira e molla con i finiani e le minacce del Carroccio. “Se sono stati latitanti prima – presagiscono infatti le tute blu di Termini Imerese – figuriamoci che attenzione avranno ora per la nostra emergenza”.
I viaggi di Sergio
Ma la cassa integrazione a singhiozzo riguarda un po’ tutti gli stabilimenti italiani. Lui, Sergio Marchionne, l’ad dell’azienda torinese, sale a bordo del suo elicottero per visitare all’alba la fabbrica di Cassino. Incontra gli operai, il direttore della struttura e poi riparte dopo nemmeno un’ora.
Altro che una nuova gamma di prodotti credibili. La politica aziendale targata Marchionne passa in primo luogo dalle pubbliche relazioni dell’Amministratore delegato. Al Meeting, in fabbrica, negli Usa. Tutto va bene, purché se ne dia notizia.
Le cifre del ‘disastro Italia’. “L’antropologia positiva” di Sacconi
Così mentre mezzo milione di posti di lavoro restano in bilico e centinaia di aziende della Penisola non rialzeranno mai, colpevole la crisi, le saracinesche abbassate per la pausa estiva, la prima brezza settembrina stimola le riflessioni del Ministro del Welfare, Maurizio Sacconi.
“Solo i lavoratori e le loro organizzazioni possono determinare quella produttività che garantisce il ritorno dell’investimento” vagheggia l’ex socialista dalla pagine del Corsera. Farfuglia una “antropologia positiva” che passa dalla formula “meno Stato e più società” sull’impronta, continua Sacconi, della “tradizione francescana”.
Un pugno allo stomaco a fronte di un sistema produttivo, quello italiano, in piena fase di liquidazione, con oltre 650.mila dipendenti di aziende in crisi che nel futuro non scorgono altro che il baratro della disoccupazione. E non certo per colpa dei lavoratori stessi, 400mila dei quali a breve resteranno a spasso.
Made in Italy. E’ strage dei grandi e piccoli marchi
Del “made in Italy”, un tempo sbandierato dagli “ottimisti” come il volto inossidabile del Bel Paese, non resta infatti che una distesa di carcasse dai nomi altisonanti. Fallisce la Itierre con i suoi marchi Just Cavalli, Galliano, C’N’C, Ferrè e i suoi 1.500 dipendenti.
Al 30 giugno 2010, la posizione finanziaria del fallimentare Mariella Burani Fashion Group (1.500 dipendenti) è negativa per 358,611 milioni di euro. Gli effetti per le quattromila aziende fornitrici monocommittenti saranno immediatamente devastanti, con migliaia (fino a seimila) posti di lavoro che potrebbero saltare.
Lo ‘scontrino’ della crisi. Pagano i lavoratori
E ancora c’è il dramma dei 350 della Nokia-Siemens, dei 700 della Ixfin di Caserta e dei 1.400 dipendenti della Ex-Jabil. Per quanto riguarda la Finmek, saranno in mille, divisi tra il Veneto, l’Abruzzo e la Campania a piangere le conseguenze di una crisi tutt’altro che alle spalle. 220 i lavoratori della Ritel di Rieti e 800 quelli della Micron ad Avezzano. Questo solo nel settore delle apparecchiature elettriche.
Ma sono tanti i capitoli di questo libro dall’esito annunciato. C’è la chimica, con i 400 della Portovesme a Cagliari che rischiano lo stipendio, gli 800 della Ineos Vinyls in Veneto, Romagna e Sardegna, i 300 della Montefibre a Venezia, i 450 della Nuova Pansac veneta, i 200 della Basell a Terni, gli 80 della Krotongres a Crotone.
C’è il settore degli elettrodomestici: i 4.000 della Merloni in Emilia, Umbria e Marche, i 500 della Electrolux in Veneto, i 150 della Riello a Lecco, i 150 della San Giorgio a La Spezia, i 900 della Siltal in Piemonte, Veneto e Campania, gli 800 della Indesit in Piemonte, Lombardia e Veneto.
Una strage di posti di lavoro e di aziende che spazzerà il comparto dei cosiddetti “prodotti per la casa” in un sol colpo: rischiano il posto e lo stipendio i 120 della Cesame a Catania, i 550 della Nicoletti a Matera, i 450 della Saint Gobain a Savigliano in Piemonte, i 650 della Ideal Standard a Brescia e in Friuli, i 1500 della Natuzzi a Bari.
A parte il caso Tirrenia, e i 3mila posti a rischio, ci sono poi i capitoli disastrosi sulla Firema, la Fervet, la Ferrosud e la Keller che sta chiudendo il sito produttivo in Sicilia senza dare garanzie per quello sardo.
Ci sono i 450 lavoratori della Grimeca a Rovigo i 200 della Manuli, i 200 della Astigiana Ammortizzatori, i 400 della Rieter, i 250 della Sogefi, i 1200 della Oerlikon Graziano, i 200 della Cantieri Apuania, i 300 della Eaton, i 300 della Fincantieri di Castellammare di Stabia, i 500 della Atr.
Tanti (troppi) numeri che forse possono confondere, ubriacare. Ma solo se presentati nella loro crudezza, quasi come uno scontrino del supermercato, rendono pienamente le dimensioni di una spesa troppo onerosa. Un prezzo che l’Italia non sarà in grado di pagare.