lunedì 11 luglio 2011

O la Borsa o la vita...

Mentre la Borsa italiana anche oggi crolla (- 4% circa) e lo spread Btp-Bund segna il nuovo record storico a 300 punti base, la cancelliera Angela Merkel telefona a Berlusconi per chiedergli di accellerare al massimo l'approvazione di una manovra economica che finora nessuno negli ambienti che contano all'estero ha ufficialmente e pubblicamente bocciato. Anzi...

Quindi è lecito chiedersi: se la manovra, per le principali cariche nell'Ue, va nella "giusta direzione" e se anche importanti Paesi della stessa continuano a mostrare fiducia nell'Italia, perchè allora i cosiddetti mercati proseguono in questo attacco?

Una risposta è diametralmente opposta a quella che danno Berlusconi e Bossi: e cioè che i mercati ne hanno le scatole piene di un governo italiano instabile, rissoso e anche piuttosto corrotto. Ma non è l'unica risposta ovviamente.

E comunque come biasimarli se anche in queste ore drammatiche per il Paese l'unica preoccupazione di Berlusconi è cercare, insieme a Ghedini, un altro espediente per non pagare i 560 milioni di euro che deve a De Benedetti.

Insomma è già scattato il countdown per l'approvazione bipartisan della manovra e la successiva caduta del governo...


P.S. Intanto s'avvicina il 2 Agosto, una data che forse segnerà il primo default nella storia degli Stati Uniti.
E questa è l'altra risposta alla domanda sul perchè dell'accanimento contro l'Italia e quindi di conseguenza contro l'euro e una Ue divisa sul come procedere per accellerare il secondo piano di aiuti alla Grecia. Infatti sta cominciando a circolare l'idea di accettarne il default...


Come si conquista un Paese: l'attacco della finanza internazionale all'Italia
di Gaetano Colonna - www.clarissa.it - 10 Luglio 2011

L'attacco della speculazione che venerdì 8 luglio 2011 è stato diretto dalla finanza internazionale contro la Borsa italiana, provocando un ribasso del 3,47% pari a una perdita di 14,1 miliardi di capitalizzazione, non è una semplice operazione finanziaria.

Chi continua a parlare dei "mercati finanziari" come di una divinità che organizza la vita delle società contemporanee sa perfettamente che questi anonimi "mercati finanziari" hanno nomi e cognomi.
Sono uomini e gruppi che hanno precisi interessi e chiari obiettivi. Come in ogni operazione di destabilizzazione di un intero Paese, cioè, vi sono degli scopi ed essi sono oggi chiaramente individuabili.

L'Italia viene attaccata perché in realtà è uno dei Paesi dell'Occidente che meglio ha retto fino ad oggi la crisi finanziaria del 2007, grazie al fatto che i suoi cittadini e la rete delle sue piccole e medie imprese non hanno mai completamente dato ascolto alle sirene della globalizzazione finanziaria. Alcune sue imprese, le sue banche e le sue compagnie assicurative rappresentano quindi oggi un appetitoso obiettivo per chi spera di poterle ricomprare fra qualche mese a prezzi stracciati.

L'Italia viene attaccata perché un suo tracollo economico-finanziario rappresenterebbe il colpo definitivo all'euro e quindi al processo di unificazione europea che sulla moneta unica ha puntato (erroneamente) tutta la propria credibilità; e non vi sono dubbi che, senza l'ultimo presidio del Vecchio Continente, una visione sociale dei rapporti economici verrebbe definitivamente seppellita dalle forze montanti del capitalismo finanziario, da un lato, e dei nuovi capitalismi di Stato, come quello cinese, che, dall'altro, stanno avanzando senza freni sullo scenario mondiale.

L'Italia viene attaccata perché il nostro Paese ha una posizione determinante rispetto ai futuri assetti del Mediterraneo e del Medio Oriente e la confusa ma ancora in qualche modo persistente difficoltà italiana ad allinearsi completamente ad una politica forsennatamente filo-israeliana e di democracy building all'americana nei Paesi arabo-islamici, rappresenta oggi un ostacolo che deve essere rimosso in breve tempo.

Infine, l'Italia viene attaccata perché la sua classe dirigente, di destra centro sinistra, ha dimostrato di non intendere minimamente quale sia la posta in gioco, essendo strutturalmente impegnata in basse lotte di potere, nella difesa di interessi personalistici e nella copertura di vaste reti di corruzione, condizionamento e compromesso che ne minano alla radice qualsiasi capacità operativa e strategica.

Il potere politico che il capitalismo finanziario mondializzato ha acquisito attraverso la capacità di destabilizzare in modo diretto interi Stati, come dimostrato ampiamente negli ultimi anni, dall'Argentina alla Grecia, dipende da una premessa fondamentale che è stata acriticamente accettata da economisti e politici, vale a dire che proprio gli strumenti della finanza (credito, debito, moneta, assicurazioni, con tutti i loro molteplici derivati moderni) siano i migliori mezzi per garantire la maggiore efficienza nella raccolta e nell'allocazione dei capitali.

Il classico concetto dell'economia capitalista della efficienza dei meccanismi auto-regolatori del mercato, grazie al gioco di domanda ed offerta, è stato allargato dal mercato dei beni a quello dei capitali, nonostante costituisca uno dei presupposti del capitalismo, scientificamente e storicamente, dimostratosi del tutto insufficiente, quando non addirittura errato.

Nel caso dei mercati dei beni, questa arcaica interpretazione del rapporto fra domanda, offerta e formazione dei prezzi sostiene, come si sa, che all'aumentare del prezzo di un prodotto, giacché i produttori ne accrescono la produzione in vista di maggiori ricavi, i consumatori riducono la loro domanda, determinando una riduzione e dunque un riequilibrio fra domanda e offerta, che si rifletterebbe positivamente sui prezzi stessi.

Per quanto questa presunta legge sia, già nel caso del mercato "tradizionale" dei beni, come è stato dimostrato a suo tempo da Rudolf Steiner, un'arbitraria semplificazione di un meccanismo assai più complesso ed articolato(1) - nel caso dei mercati finanziari, si tratta di una vera e propria falsificazione. Scrivono infatti alcuni economisti "non allineati":

"Quando i prezzi [delle azioni] crescono, è comune osservare non una riduzione ma una crescita della domanda! Infatti, prezzi crescenti significano un più alto profitto per coloro che possiedono azioni, a motivo dell'incremento di valore del capitale investito. La salita del prezzo attrae in questo modo nuovi acquirenti, cosa che rafforza ulteriormente la tendenza iniziale all'aumento. La promessa di dividendi spinge i trader ad incrementare ulteriormente il movimento. Questo meccanismo funziona fino a quando la crisi, che è non prevedibile ma è inevitabile, si verifica. Questo determina l'inversione delle aspettative e quindi la crisi. Quando il processo diventa di massa, determina un "contraccolpo" che peggiora gli iniziali squilibri. Una bolla speculativa consiste quindi di un aumento cumulativo dei prezzi, che si auto-alimenta. Un processo di questo tipo non produce prezzi più convenienti, ma al contrario prezzi sperequati"(2).

La visione del mercato finanziario come potere regolatore di ultima istanza degli assetti economici mondiali, ha conferito alle forze speculative in esso presenti la possibilità di esercitare un potere di condizionamento politico: non vi è più alcun Paese al mondo che non dipenda in qualche modo da questa ristrettissima élite di signori del denaro, i quali dispongono di uno strumento ideale di controllo, costituito dalle agenzie di rating che, a livello mondiale, sono soltanto cinque, delle quali tre hanno un monopolio di fatto del settore.

Moody's e Standard&Poor's hanno rappresentato nell'attacco all'Italia, come già avvenuto nel caso della Grecia un anno fa e in tanti altri ancora prima, la vera e propria "voce del padrone". Sono stati infatti gli outlook (previsioni) di queste due agenzie di rating, emanati a fine giugno, a dare al mondo della speculazione il segnale che si poteva e si doveva colpire ora l'Italia.

Personaggi come Alexander Kockerbeck, vice-presidente di Moody's, o come Alex Cataldo, responsabile Italia della stessa agenzia, emettono nelle loro interviste vere e proprie sentenze sul presente e sul futuro destino economico del nostro Paese, senza essere dotati di alcuna autorità per poterlo fare.

La fonte del loro potere, che non ha precedenti nella storia, sta infatti semplicemente nel fatto di essere emanazione di società finanziarie internazionali, che ne possiedono interamente il capitale societario, le stesse società finanziarie di cui dovrebbero valutare obiettivamente prodotti e performance.

"Il primo azionista di Moody's, con il 13,4% del capitale, risultava a fine dicembre del 2009, secondo rilevazioni Reuters, Warren Buffett, il guru di Omaha con il suo fondo Berkshire Hathaway. Al secondo posto con il 10,5% ecco comparire Fidelity, uno dei più grandi gestori di fondi del mondo. E poi è un florilegio di gente che di mestiere compra e vende titoli: si va da State Street a BlackRock a Vanguard a Invesco a Morgan Stanley Investment. Insomma i più grandi gestori di fondi a livello mondiale sono azionisti di Moody's. E guarda caso lo stesso copione si riproduce in Standard&Poor's: ecco nell'azionariato comparire in evidenza, a fine 2009, i nomi di Blackrock, Fidelity, Vanguard. Gli stessi nomi. Il che pone una domanda. Che ci fanno gestori di fondi nel capitale di chi dà i voti ai bond emessi dalle stesse società che abitualmente un gestore compra e vende?"(3).

Queste agenzie non hanno alcuno status giuridico, nemmeno negli Stati Uniti; il loro ruolo è stato reso possibile semplicemente dal fatto che il governo degli Stati Uniti le ha definite Nationally Recognized Statistical Rating Organizations (NRSRO) e lo stesso ha fatto la Securities and Exchange Commission (SEC), agenzia governativa che vigila sui mercati azionari(4).

Nonostante le numerose inchieste e audizioni tenutesi negli Usa, proprio come pochi giorni fa è avvenuto in sordina anche presso la Consob italiana, senza che il pubblico sia edotto di quanto emerso, Moody's, Standard&Poor's e Fitch continuano da anni a macinare profitti incredibili, sebbene le loro previsioni si siano dimostrate semplicemente ridicole, come mostrano il caso del crollo della Enron o quello di Lehman Brother's, quando di queste aziende le agenzie in questione hanno continuato a dare fino ad un minuto prima del crack valutazioni di altissima affidabilità. In merito ai loro profitti, diamo di nuovo la parola al già citato giornalista de Il Sole 24 Ore:

"Moody's, solo nel 2009, per ogni 100 dollari che ha fatturato ne ha guadagnati sotto forma di utile operativo ben 38. Su 1,8 miliardi di ricavi fanno un margine di 680 milioni. Ma attenzione, quel 38% di redditività è un mix tra i servizi di analisi e quelli di assegnazione dei rating. Solo sul mestiere più remunerativo, quello appunto dell'assegnare pagelle, la redditività balza al 42% sui ricavi. Un exploit il 2009? Niente affatto. Gli anni d'oro sono stati altri: nel 2007 il margine operativo era al 50% dei ricavi e nel 2006 si è toccato il picco del 62% di utili operativi sul fatturato. Un'enormità: 1,26 miliardi di margine su 2 miliardi di fatturato. Se poi si va all'utile netto la musica non cambia. Dal 2005 al 2009 Moody's ha generato profitti per complessivi 2,8 miliardi"(5).

Si dà quindi il caso del tutto unico che i nostri Paesi siano soggetti a valutazioni di valore internazionale da parte di agenzie che da tali valutazioni traggono direttamente profitto e che sono per di più di proprietà di società finanziarie che da quelle valutazioni possono trarre a loro volta direttamente profitto!

Quale affidabilità possano avere e quale valore di regolazione giuridica di mercato, lo lasciamo facilmente dedurre al lettore.

"Stimare il valore di un prodotto finanziario non è paragonabile al misurare una grandezza oggettiva, come, ad esempio, stimare il peso di un oggetto. Un prodotto finanziario è un titolo su di un reddito futuro: per valutarlo, si deve stabilire in anticipo quale sarà questo futuro. Si tratta di una stima, non di una misura obiettiva, dato che nel momento "t" il futuro non è in alcun modo determinato. Negli uffici dei trader è ciò che gli operatori si immaginano che accadrà. Il prezzo di un prodotto finanziario è il risultato di una valutazione, una opinione, una scommessa sul futuro: non vi sono garanzie che questa valutazione dei mercati sia in alcun modo superiore a qualsiasi altra forma di valutazione.
Prima di tutto, la valutazione finanziaria non è neutrale: influisce sull'oggetto che intende valutare, dà avvio e costruisce il futuro che essa immagina. Per questo, le agenzie di rating svolgono un ruolo importante nel determinare il tasso di interesse sui mercati dei bond, assegnando pagelle che sono altamente soggettive, se non addirittura guidate dal desiderio di accrescere l'instabilità come fonte di profitti speculativi. Quando queste agenzie tagliano il rating di uno Stato, accrescono il tasso di interesse richiesto dagli attori finanziari per acquistare titoli del debito pubblico di questo stesso Stato e in tal modo accrescono il rischio della stessa bancarotta che hanno annunciato"
(6).

Se dunque il mito dell'efficienza dei mercati finanziari rappresenta il presupposto ideologico di queste operazioni e le agenzie di rating l'incredibile strumento di coordinamento della speculazione, capace di rendere auto-realizzantesi le proprie profezie, occorre mettere in giusta evidenza il fatto che alla base dell'attuale critica situazione dei Paesi europei sta uno specifico elemento, assai poco noto al largo pubblico, vale a dire che il Trattato di Maastricht, nel quadro delle politiche iper-liberiste allora di gran moda, ha fatto un oggettivo regalo ai poteri del capitale finanziario internazionalizzato, allorché ha sancito le modalità che gli Stati membri devono seguire per approvvigionarsi di moneta.

"A livello di Unione Europea, la finanziarizzazione del debito pubblico è stata inserita nei trattati: a partire dal trattato di Maastricht, le banche centrali hanno il divieto di finanziare direttamente gli Stati, i quali devono quindi trovare prestatori sui mercati finanziari. Questa "punizione monetaria" è accompagnata dal processo di "liberalizzazione finanziaria", che è l'esatto opposto delle politiche adottate dopo la Grande Depressione degli anni Trenta, che prevedeva la "repressione finanziaria" (vale a dire severe restrizioni alla libertà di azione della finanza) e "liberazione monetaria" (con la fine del gold standard). Lo scopo dei trattati europei è di assoggettare gli Stati, che si presuppone siano per natura troppo propensi allo sperpero, alla disciplina dei mercati finanziari, che sono ritenuti per natura efficienti ed onniscienti"(7).

Ecco quindi come, dal livello filosofico-ideologico che santifica i "mercati finanziari", accolto acriticamente ma interessatamente dalle élite dei tecnocrati comunitari, si sia aperto per legge il varco in Europa all'uso politico del potere del denaro, giungendo a condizionare in modo diretto la vita di intere comunità nazionali: il fatto che gli Stati (e, come loro, regioni, provincie e comuni) siano dovuti andare a cercare i soldi sui mercati finanziari, proprio mentre il credito veniva, come in Italia, trasformato per legge da funzione sociale ad attività esclusivamente lucrativa, pone i nostri Paesi in completa soggezione ai signori della moneta.

Questo non significa affatto voler sorvolare sulle oggettive responsabilità di classi dirigenti, tra cui quella italiana, che non vogliono affrontare radicalmente la questione dell'efficienza delle pubbliche amministrazioni, per il semplice fatto che il pubblico impiego rappresenta un gigantesco serbatoio clientelare che di fatto perpetua la loro sopravvivenza politica, altrimenti inspiegabile.

Significa semplicemente dire, in modo chiaro e definitivo, che l'inefficienza delle amministrazioni pubbliche, che continuano a sprecare somme enormi senza alcuna contropartita sul piano collettivo, non è una valida giustificazione per tollerare le ripetute aggressioni della speculazione internazionale.

Quando giornalisti, che per mestiere dovrebbero disporre di informazioni e dati assai più completi e articolati di quelli che arrivano al largo pubblico, scrivono ancora, su autorevoli quotidiani nazionali, che "quella che continuiamo a chiamare speculazione internazionale in realtà non è altro che la logica di mercato che cerca di sfruttare le occasioni", non è sciocco chiedersi se si tratta di mala fede o di semplice ottusità: abbiamo infatti già visto che la cosiddetta "logica di mercato" è una logica ideologica e politica.

Il mercato, come sacro regolatore dell'economia, non esiste, mentre esistono attori che nel mercato operano, tra i quali, non certo sacri ma a quanto pare intoccabili, sono gli speculatori e le agenzie di rating di loro emanazione: di tutti costoro si sa ormai perfettamente da anni chi sono, cosa fanno e perché.

Se fossero semplicemente i deficit e le cattive amministrazioni pubbliche a giustificare le "ghiotte occasioni" per la speculazione, questi giornalisti dovrebbero allora chiedersi come mai la speculazione finanziaria colpisca l'Europa e non gli Stati Uniti, il cui debito pubblico è assai più alto di quello medio europeo, e come mai gli attacchi si dirigano contro l'Italia o la Grecia e non contro la California, uno stato americano che è in conclamata bancarotta da anni!

Se fossero semplicemente il debito pubblico e la cattiva amministrazione a giustificare questi attacchi, ci si dovrebbe chiedere come mai siano sotto tiro grandi imprese bancarie e assicurative italiane, che hanno applicato alla lettera da anni i più avanzati dettami del capitalismo finanziario globalizzato.

Qualcuno dei responsabili di queste aziende sembra cominci ad accorgersene, ora che si trova sotto tiro, stando almeno a quanto ha dichiarato il 9 giugno Giovanni Perissinotto, amministratore delegato del gruppo Generali:

"C'è necessità di una risposta centralizzata e coordinata a livello europeo contro attacchi speculativi, anch'essi coordinati, che stanno investendo alcuni Paesi mediterranei ma che si propongono anche di mettere in discussioni la stessa stabilità dell'euro. (...) Nei ribassi di questi giorni le imprese sono impotenti. Noi siamo disciplinati, promuoviamo l'efficienza, tagliamo i costi. In tutti i Paesi seguiamo una politica di investimenti coerente con gli impegni assunti con gli assicurati. Ma non possiamo continuare ad essere così duramente colpiti dai mercati perché difendiamo il nostro Paese. In una parola perché continuiamo ad investire in titoli di Stato italiani dove sono residenti una parte significativa dei nostri clienti"(8).

Viene quindi finalmente in evidenza, ed è forse l'unico aspetto positivo della tempesta che si annuncia nei prossimi mesi sull'Italia, la necessità di sottrarre i nostri Paesi radicalmente al condizionamento del capitale finanziario internazionalizzato, riaffermando il principio che, nelle nostre democrazie, la gestione della cosa pubblica è demandata a rappresentanti eletti dal popolo.

In questa prospettiva, la liberazione delle nostre economie passa per alcuni punti fondamentali, la cui comprensione non necessita delle spericolate alchimie degli economisti di mestiere: in primo luogo, le imprese devono tornare a rendere conto non agli azionisti ma ai consumatori ed ai lavoratori e la loro efficienza si deve misurare su questo piano, non su quello della loro attività in borsa; in secondo luogo, le pubbliche amministrazioni devono essere snellite a livello territoriale e basate su principi di semplificazione burocratica, efficienza di gestione, qualificazione del personale, spirito di servizio; in terzo luogo, il credito deve tornare ad essere considerato primariamente funzione sociale e quindi deve essere posto sotto il controllo delle forze della produzione economica e non della speculazione e, di conseguenza, lo stesso deve avvenire per la creazione della moneta e dei correlati strumenti finanziari; questi ultimi devono essere in chiara e proporzionata relazione con i beni ed i servizi effettivamente sottostanti e la loro commercializzazione deve potere seguire percorsi chiaramente tracciabili; le attività finanziarie devono essere tassate in modo proporzionale ai volumi posseduti ed all'ampiezza della loro utilizzazione.

Come segnale inequivoco della strada da intraprendere, è a nostro avviso oggi necessario richiedere con urgenza l'apertura di un'inchiesta internazionale sulla condotta delle agenzie di rating, da promuovere presso le Nazioni Unite, allo scopo di verificarne composizione azionaria, conflitti di interesse, liceità delle attività svolte ed effetti diretti ed indiretti della loro condotta sulle economie dei singoli Paesi negli ultimi venti anni; nel frattempo, le attività di rating di queste agenzie, in quanto parti interessate, dovrebbero essere sospese a tempo indeterminato.

Si porrebbe in tal modo, in definitiva, all'attenzione dei popoli la questione della sovranità economica delle comunità nazionali che deve essere oggi considerata l'irrinunciabile presupposto per intraprendere il risanamento dei nostri Paesi.

Dubitiamo che le attuali classi dirigenti, tra le quali quella italiana, possano oggi porsi alla testa in Europa di un simile orientamento: ma è questa la sola via per riscattare i nostri popoli dalla schiavitù del debito.

Note:

1) R. Steiner, I capisaldi dell'economia, Milano, 1982, pp. 110-111.
2) Aa.Vv., "Crisis and debt in Europe: 10 pseudo "obvious facts", 22 measures to drive the debate out of the dead end", Real-world economics review, Issue no. 54, 27 September 2010, p. 19.
3) F. Pavesi, "Moody's, S&P e Fitch, ecco chi comanda nelle agenzie di rating", Il Sole 24 Ore, 9 maggio 2010.
4) F. William Engdahl, "The Financial Tsunami: Sub-Prime Mortgage Debt is but the Tip of the Iceberg", Global Research, November 23, 2007.
5) F. Pavesi, loc. cit.
6) Aa.Vv., "Crisis and debt in Europe", cit., p. 23.
7) Ivi, p. 26.
8) G. Perissinotto, "Serve una risposta europea agli attacchi", Il Sole 24 Ore, 9 luglio 2011.


Le misure Consob non funzioneranno
di Piergiorgio Gawronski - Il Fatto Quotidiano - 11 Luglio 2011

Scrivo nella notte fra domenica e lunedì. Le misure della Consob contro la speculazione ribassista sono doverose. Riguardano il periodo estivo, quando i volumi dei titoli scambiati si assottigliano, prestando il fianco a manovre speculative illegali delle ‘mani forti’. Ora, se qualcuno bara, sarà più facile individuarlo.

Tuttavia le misure adottate – o altre simili – non fermeranno l’ondata di ribassi. Perché è sul mercato dei titoli pubblici di Portogallo, Irlanda, Italia, Grecia e Spagna (PIIGS) che si gioca la partita decisiva.

È appena iniziato un incendio. Gli incendi si sviluppano in modo non lineare. Per fermarli, è decisivo quello che si fa (o non si fa) all’inizio.

Le cause principali dell’incendio sono due: i debiti pubblici, e la crescita anemica (o negativa) della base imponibile. Per spegnere il fuoco sul nascere bisogna agire rapidamente, e in modo decisivo, su entrambe le cause.

I paesi summenzionati dovrebbero ridurre il debito, tagliando la spesa pubblica e/o alzando le tasse. L’Italia dovrebbe fare subito la manovra per il 2013 e 2014, che per ora è solo un vago libro dei sogni. Tremonti: “Chi ci chiede di fare di più, o di anticipare ad oggi le misure previste per il prossimo triennio, non ha capito nulla. Se lo facciamo, ammazziamo il paese”.

Eh no! Signor Ministro, è lei che non ha capito. Non Le si chiede di concentrare i sacrifici in un anno, ma di votare subito misure concrete e credibili, che mettano a posto i conti anche negli anni a venire.

Ma in questa congiuntura depressa, post ‘crisi finanziaria globale’, la spesa pubblica ‘tagliata’ non viene sostituita da nulla, e si traduce perciò inesorabilmente in una nuova caduta delle vendite delle imprese, della base imponibile, e delle entrate fiscali.

Lo si è già visto in Grecia, in Irlanda, in Portogallo. Fare austerità in questo modo è inutile e dannoso: ci si ritrova quasi con lo stesso deficit, e tanti disoccupati in più.

Manca una gamba della strategia: il sostegno alla domanda privata, per compensare i tagli alla spesa pubblica e stabilizzare le vendite delle imprese . Sono convinto che oggi solo la Banca Centrale Europea ha i mezzi per stimolare la domanda del settore privato. Qualcuno dovrebbe dirglielo.

Oppure ci vorrebbero ministri economici talmente competenti in macroeconomia da sostenere la domanda ‘a costo zero’.

O tutt’e due le cose.


Reazioni sbagliate: il divieto di vendita allo scoperto
di Alessandro Beber e Marco Pagano - www.lavoce.info - 9 Febbraio 2010

Dopo il fallimento di Lehman Brothers molti paesi hanno reagito alla crisi vietando la vendita di titoli allo scoperto. L'evidenza empirica indica che nel migliore dei casi il divieto non ha influito significativamente sui prezzi, ma ha danneggiato la liquidità del mercato. Un danno particolarmente grave perché si è verificato quando la liquidità già scarseggiava e gli investitori la cercavano disperatamente a causa del congelamento di molti mercati nel settore del reddito fisso. Una lezione che le autorità di sorveglianza faranno bene a ricordare in futuro.

Il 19 settembre 2008, subito dopo che il fallimento Lehman aveva scosso la fiducia nella solidità delle banche e fatto crollare i prezzi delle loro azioni, la Securities and Exchange Commission (Sec) impose il divieto di vendere allo scoperto le azioni delle banche e società finanziarie, per sostenerne i prezzi. (1)

Fu rapidamente imitata dalla maggioranza degli altri paesi: alcuni vietarono solo le “naked short sales”, in cui il venditore non prende a prestito le azioni per consegnarle al compratore nel periodo di regolamento, altri vietarono anche le “covered short sales”, in cui il venditore si protegge prendendo a prestito le azioni.

La figura 1 mostra la diffusione dei divieti durante la crisi in trenta paesi. La frazione di azioni colpite dai divieti salì da 0 al 20 per cento nel solo mese di settembre, giunse oltre il 30 per cento a ottobre, e tornò gradualmente al 20 per cento negli otto mesi successivi.

Questi frettolosi interventi, pur variando da paese a paese per intensità, ampiezza di applicazione e durata, furono invariabilmente presentati come tesi a ripristinare l’ordinato funzionamento dei mercati ed evitare cali ingiustificati dei prezzi delle azioni.

Retrospettivamente, possiamo dire che abbiano raggiunto l’obiettivo di sostenere il mercato? E che nel farlo non abbiano inflitto “danni collaterali” al funzionamento dei mercati?

In realtà, precedenti studi economici teorici ed empirici avrebbero consigliato ben altra cautela: che i divieti delle vendite allo scoperto fossero capaci di sostenere i prezzi azionari era materia controversa, e vi era già evidenza che possono ridurre la liquidità del mercato. Poiché durante la crisi la liquidità delle azioni si è molto ridotta, è importante capire se e in che misura i divieti abbiano contribuito a tale riduzione.

UNA BUONA IDEA?

Per poter rispondere a queste domande, in un recente lavoro abbiamo usato dati giornalieri su 16.491 azioni di trenta paesi tra gennaio 2008 e giugno 2009 per analizzare gli effetti dei divieti di vendite allo scoperto, sfruttando le differenze di intensità, ampiezza di applicazione e durata di tali regimi. (2)

I nostri risultati indicano che solo negli Stati Uniti i divieti si sono accompagnati a rialzi o minori cali dei prezzi di borsa. La figura 2 mostra che negli Stati Uniti la maggioranza delle azioni colpite dal divieto ha avuto rendimenti maggiori di quelle esenti nei quattordici giorni dopo l’applicazione del divieto (data 0 nella figura).

Tuttavia, ciò potrebbe esser dovuto al contemporaneo annuncio dei salvataggi bancari da parte del governo statunitense, il che rende i dati americani poco adatti a identificare l’effetto del divieto di vendite allo scoperto sui prezzi delle azioni.

È molto più utile a questo scopo usare i dati degli altri paesi, in cui i divieti non sono stati accompagnati da annunci di salvataggi bancari, oppure hanno colpito anche azioni non bancarie, o addirittura non hanno colpito per nulla le azioni bancarie.

La figura 3 mostra che negli altri paesi che hanno imposto divieti sui soli titoli finanziari, l’intervento non sembra aver sostenuto i prezzi dei titoli soggetti: la linea relativa al rendimento delle azioni colpite dal divieto è molto vicina a quella delle azioni esenti e la supera solo in circa metà dei sessanta giorni successivi al divieto.

Questa conclusione è confermata e rafforzata dall’analisi econometrica condotta sull’intero campione: il risultato delle stime è che vietare le “naked short sales” non ha avuto effetti significativi sull’andamento dei prezzi delle azioni, e vietare anche le “covered short sales” lo ha addirittura peggiorato.

Inoltre, l’analisi empirica mostra che i divieti di vendite allo scoperto imposti durante la crisi hanno finito per ridurre in modo considerevole la liquidità dei mercati. In particolare, hanno condotto a un aumento significativo dei costi di transazione misurati dal “bid-ask spread” (differenza percentuale tra il prezzo a cui si può acquistare un titolo e quello a cui lo si può vendere).

L’effetto negativo dei divieti sulla liquidità sono più pronunciati per le azioni a bassa capitalizzazione e con rendimenti più variabili. Perciò, nei mercati in cui tali azioni sono sovra-rappresentate, i divieti di vendite allo scoperto sono associati a maggiori aumenti del “bid-ask spread”.

Ciò è illustrato nella figura 4, che mostra una stima dell’effetto dei divieti in vari paesi, separatamente per i divieti di “naked” e di “covered short sales”.

L’Italia spicca come il paese in cui il divieto di vendite allo scoperto si è accompagnato al massimo peggioramento della liquidità, probabilmente a causa della preponderanza di società piccole, rischiose e con basso flottante nel listino di Piazza Affari.

Un’altra possibile ragione del maggior deterioramento della liquidità nel caso italiano è l’incertezza regolamentare indotta dalla condotta altalenante della Consob. Nel periodo della crisi, in Italia si verifica il massimo numero di modifiche al regolamento delle vendite allo scoperto tra tutti i paesi: il 23 settembre 2008 la Consob vieta le “naked short sales” sui soli titoli finanziari e il 1° ottobre anche le “covered short sales” su questi titoli, il 10 ottobre estende il divieto a tutti i titoli (in controtendenza con la decisione della Sec di eliminare il divieto, pochi giorni prima), il 1° gennaio 2009 rimuove il divieto di “covered short sales” su titoli non finanziari e il 1° giugno anche quello sui titoli finanziari, e infine il 31 luglio elimina tutti i divieti (tranne per operazioni legate ad aumenti di capitale).

Le continue modifiche regolamentari possono aver creato un clima di incertezza nel mercato italiano, accrescendo il danno inflitto dai divieti alla liquidità. Infatti, Robert Battalio e Paul Schultz mostrano che proprio l’incertezza regolamentare ha influito in modo deleterio sulla liquidità nel mercato delle opzioni negli Stati Uniti. (3)

LEZIONE IMPARATA?

L’evidenza empirica indica che, nella maggioranza dei paesi, l’avventata reazione alla crisi da parte delle autorità di sorveglianza dei mercati azionari – cioè l’imposizione di divieti delle vendite allo scoperto – nel migliore dei casi non ha influito significativamente sui prezzi, ma al contempo ha danneggiato la liquidità del mercato – danno particolarmente grave perché si è verificato quando la liquidità già scarseggiava e gli investitori la cercavano disperatamente a causa del “congelamento” di molti mercati nel settore del reddito fisso.

A ciò va aggiunto che nella generale insipienza delle autorità di sorveglianza, alcune si sono contraddistinte non solo per la velocità nell’imitare il fallace attivismo della Sec a fine 2008, ma anche per la lentezza nell’imitarne la successiva resipiscenza.

Mentre gli Stati Uniti e il Canada hanno eliminato i divieti di vendite allo scoperto già l’8 ottobre 2008 e la Svizzera e la Gran Bretagna nel gennaio 2009, invece l’Italia e i Paesi Bassi hanno atteso fino al giugno 2009, e altri paesi hanno eliminato i divieti ancora più tardi.

Un piccolo drappello di paesi vietavano ancora le “naked short sales” all’inizio del 2010, e l’Irlanda e la Corea del Sud vietano tuttora le “covered short sales” di titoli finanziari. (4)

Forse il maggior beneficio di questo esperimento mondiale è stato di produrre una grande quantità di dati sugli effetti delle vendite allo scoperto. La conclusione suggerita dalla loro analisi è ben riassunta dalle parole pronunciate il 31 dicembre 2008 dall’allora presidente della Sec, Christopher Cox: “Sapendo quello che sappiamo ora, non lo rifaremmo: i costi sembrano superare i benefici”. Speriamo che le autorità di sorveglianza di tutto il mondo ricordino questa lezione quando si troveranno a fronteggiare la prossima crisi.


Note:

(1) Per vendita allo scoperto (in inglese: “short sale”) si intende una vendita sul mercato di titoli dei quali non ci si è preventivamente assicurata la provvista.
(2) Beber, Alessandro e Marco Pagano (2009), “Short-Selling Bans around the World: Evidence from the 2007-09 Crisis,” Cepr Discussion Paper n. 7557.
(3) Battalio, Robert e Paul Schultz (2010), “Regulatory Uncertainty and Market Liquidity: The 2008 Short Sale Ban’s Impact on Equity Option Markets,” non pubblicato, January.
(4) Attualmente il Belgio, la Danimarca, il Lussemburgo e il Portogallo vietano ancora le “naked short sales” di titoli finanziari, mentre il Giappone e la Spagna le vietano per tutti i titoli. La Germania ha eliminato i divieti di “naked short sales” su titoli finanziari a fine gennaio 2010 e l’Austria lo farà alla fine di febbraio.

Figura 1. Percentuale di azioni colpite dal divieto di vendite allo scoperto in un campione di 30 paesi (fonte: Beber e Pagano, 2009)

Figura 2. Extra-rendimento cumulativo mediano nei 14 giorni lavorativi dopo l’imposizione del divieto di vendite allo scoperto negli Stati Uniti, per le azioni soggette e quelle esenti dal divieto (fonte: Beber e Pagano, 2009)

Figura 3. Extra-rendimento cumulativo mediano nei 60 giorni lavorativi dopo l’imposizione del divieto di vendite allo scoperto sulle azioni del settore finanziario, in tutti i paesi tranne gli Stati Uniti, per le azioni soggette e quelle esenti dal divieto (fonte: Beber e Pagano, 2009)

Figura 4. Impatto stimato del divieto delle vendite allo scoperto sul bid-ask spread percentuale, per paese (fonte: Beber and Pagano, 2009)



Tremonti: "Ai mercati segnale forte, ok alla manovra in una settimana"


di Massimo Giannini - La Repubblica - 11 Luglio 2011

Il ministro scosso dalle inchieste: misure blindate non possiamo ammazzare il Paese. In campo anche Bankitalia: sì al piano triennale ma deve essere rafforzato


Illudiamoci pure. Sforziamoci di credere che il vertice straordinario di questa mattina a Bruxelles tra le più alte cariche di Eurolandia (Von Rompuy, Barroso, Trichet e Juncker) non sia stato convocato per discutere del "caso Italia".

Ma da venerdì sappiamo che l'allarme tricolore, in Europa, è ormai suonato. Sul piano internazionale, si tratta di capire se e come sarà possibile disinnescarlo. Sul piano nazionale, si tratta di evitare che il fallimento politico di un governo ormai impresentabile si trasformi nella bancarotta di un intero Paese.

Non siamo alla soglia di un altro 1992, quando un'Italia schiantata dal peso del suo debito pubblico fu distrutta dalla speculazione.

Allora la lira uscì dallo Sme e fu pesantemente svalutata, e il governo Amato impose alla nazione una cura da quasi 100 mila miliardi di allora, con tanto di "scippo" notturno sui depositi bancari.

Ma da allora ad oggi la differenza più rilevante riguarda solo l'esistenza dell'euro, che finora ci ha salvato da un collasso sistemico. Per il resto, il debito ha ricominciato a salire, Berlusconi è il premier più screditato dell'Unione e nella sentenza d'appello sul Lodo Mondadori, la Corte lo ha giudicato ufficialmente colpevole (ancorché prescritto) di aver costruito il suo impero televisivo-informativo comprando una sentenza attraverso una tangente di 400 milioni di lire pagata ad un giudice. E la sua maggioranza è un esercito in disfacimento, mascariato da un manipolo di ministri litigiosi e parlamentari inquisiti.

L'economia affonda: crescita zero, occupazione zero, competitività zero. In questo quadro sconfortante, l'unica speranza di evitare il disastro, già dalla riapertura dei mercati di questa mattina, è affidata a una manovra da 40 miliardi che dovrebbe portarci al pareggio di bilancio entro il 2014.

E' una manovra piena di buchi neri, affidata per buona parte a una legge delega sul fisco di cui non si conoscono i tempi e non si capiscono i contenuti. Ma sul piatto non c'è nient'altro. E allora tanto vale ingoiare questa minestra riscaldata e un po' rancida. Nella speranza che basti a placare la fame degli speculatori globali.

Chi ha davvero a cuore i destini del Paese è ben consapevole della drammaticità del momento. E si sta muovendo, per mettere in sicurezza l'impegno, sottoscritto con la Ue, di raggiungere il pareggio di bilancio nel prossimo triennio.

Il "triangolo istituzionale" che opera, in momenti come questo, conta su due lati solidi. Il primo è il Quirinale. In queste ore il presidente Napolitano sta rafforzando la sua moral suasion, già avviata nei giorni scorsi, per richiamare tutti "al senso di responsabilità".

Già venerdì scorso, nelle stesse ore in cui partiva sui mercati l'attacco ai titoli italiani, a Loveno di Menaggio sul Lago di Como, Napolitano aveva compreso i rischi che il Paese stava correndo dalle parole sussurrategli dal "collega" Christian Wulff, presidente della Repubblica federale tedesca: "Non dovete desistere dal rigore; quando ero presidente della Bassa Sassonia ho tartassato i miei elettori, che volevano inseguirmi con il forcone. Ma alla fine mi hanno ringraziato...".

All'Italia è richiesto lo stesso sacrificio. Per questo il presidente della Repubblica ha avviato un giro di consultazioni a tutto campo. "Maggioranza e opposizione devono concordare sulla necessità di conseguire l'obiettivo del pareggio di bilancio. Voglio che questo obiettivo non sia messo in discussione da nessuna parte politica...".

Le risposte, per ora, sono confortanti. Bersani e Casini, con il "patto di Bologna", sono pronti a fare la loro parte. Di Pietro rafforza il suo nuovo profilo "moderato", dichiarandosi disponibile a collaborare.

Il secondo lato solido del triangolo è la Banca d'Italia. Chi parla in queste ore con gli uomini di Via Nazionale ne trae indicazioni preziose. Mario Draghi e il direttorio partono dalla premessa che quanto sta accadendo sui mercati ha un'origine nelle incertezze dei leader europei di fronte alla crisi della Grecia. Troppe esitazioni sulla gestione degli aiuti, troppe indecisioni sul coinvolgimento o meno dei privati intorno al "bailout" per Atene.

Ma il governatore e la sua squadra non si nascondono che il problema specifico dell'Italia esiste eccome. La rissosità e l'instabilità della maggioranza sono un richiamo forte per la speculazione. In più, cominciano a venire al pettine i nodi della manovra. Il pareggio di bilancio è un "imperativo categorico", ed averlo riconfermato ha un significato forte.

Ma ora, si dice a Palazzo Koch, la manovra andrà rivista e rimpolpata al più presto, e con misure credibili, che diano garanzie sulla reale consistenza degli interventi di risanamento. In caso contrario, sarà difficile resistere all'assalto delle "locuste".

Venerdì scorso siamo andati a un passo dal baratro, e Via Nazionale ha dovuto muoversi per evitarlo. Ma che succederà nei prossimi giorni? Domani ci sarà un'asta dei Bot annuali da 6,7 miliardi.

Giovedì sarà un test più importante, con un collocamento di Btp decennali e quinquennali. L'agenda del debito pubblico è impegnativa, e culminerà a settembre con tre aste di titoli a medio lungo termine, per importi superiori ai 20 miliardi. L'auspicio di Via Nazionale è che ci si arrivi con la manovra pluriennale approvata, e, se possibile, rinforzata dal punto di vista qualitativo.

Quello che rende improbabile la speranza, tuttavia, è la debolezza assoluta del terzo lato del triangolo: il governo. Il presidente del Consiglio, dopo il comunicato di venerdì scorso successivo al pranzo con il ministro del Tesoro, è di nuovo scomparso dalla scena. Ha evitato di intervenire telefonicamente ad una delle solite iniziative domenicali della sua maggioranza.

E per certi versi è stato un bene: invece di rassicurare il Paese, avrebbe dato fuoco alle polveri, attaccando a testa bassa i giudici per la sentenza esemplare che lo certifica "corruttore" e lo obbliga a pagare 560 milioni alla Cir. Il suo non è dunque un gesto di responsabilità, ma solo il segno di una disperazione dalla quale non sa come uscire.

Resta Giulio Tremonti, allora, a difendere la "sua" manovra. Assediato sulla stangata a orologeria, accusato di aver tenuto al suo fianco come collaboratore quel Marco Milanese di cui ogni giorno si scoprono nuovi malaffari, sospettato di aver abitato nella casa di quest'ultimo, con un affitto pagato non si sa a che titolo, Tremonti è amareggiato. Molto più di quanto non dicano le sue esternazioni pubbliche. "Non ho nulla da temere. Non sono mai stato sfiorato da uno schizzo di fango...".

E anche sulla manovra da 40 miliardi si mostra fiducioso: "Chi ci chiede di fare di più, o di anticipare ad oggi le misure previste per il prossimo triennio, non ha capito nulla. Se lo facciamo ci suicidiamo: ammazziamo il Paese. La verità è un'altra. Ai mercati daremo un segnale forte. E sa qual è? Il fatto che la manovra è blindata, e sarà approvata dal Parlamento in una settimana. Una cosa che nella storia d'Italia non è mai accaduta...".

Anche Tremonti confida insomma nel "senso di responsabilità" al quale fa appello Napolitano. Ma resta un'incognita, gigantesca. Al di là del cordone sanitario imbastito intorno al Paese dai suoi due più autorevoli organi di garanzia, questo governo non è credibile. Non lo è mai stato.

Ma oggi è ancora peggio. Anche il ministro che ha tentato in modo colpevolmente tardivo di incarnare la virtù del rigore, con l'inchiesta di Napoli appare umanamente provato e politicamente indebolito.

Lui continua a resistere, forte dell'unica sponda alla quale si può appoggiare, cioè quegli stessi mercati che da "filosofo" ha sempre esecrato: "Venerdì, con l'attacco all'Italia, si è toccato con mano qual è il "costo politico" di Giulio Tremonti: dimissionatemi pure, e vedrete cosa succede ai titoli di Stato...".

Probabilmente ha ragione lui. Ed è per questo che Napolitano e Draghi esigono che questa manovra, pur con tutti i suoi difetti, arrivi al traguardo senza troppi danni. Ma una politica non si può reggere sui ricatti.

E c'è anche chi obietta che la manovra, con la sua irrinunciabilità e la sua intangibilità, sia un'arma spuntata.

Vista la dinamica del venerdì nero, lo sostiene più di un operatore di Borsa: "Ma quale manovra da salvare! Se Berlusconi saltasse domattina, sui mercati sarebbe una festa, e lo spread crollerebbe al minimo storico ...". È sicuramente un paradosso. Ma rende bene l'idea di quale sia la credibilità di questo governo presso la business community.


Si fa presto a dire speculatori
di Donato Didonna - Il Fatto Quotidiano - 11 Luglio 2011

Ho lavorato abbastanza nel mondo delle banche e dei mercati finanziari per avere un’accezione diversa, non necessariamente negativa, della speculazione e degli speculatori così come degli arbitraggisti, rispetto a quella che i media e i politici (i primi rappresentano spesso solo la voce dei secondi) ci venderanno in questi giorni.

Anche i manager delle aziende quotate in difficoltà cercano puntualmente di scaricare le responsabilità dei cattivi andamenti azionari sugli short seller.

Gli speculatori e gli arbitraggisti sicuramente cercano e sfruttano a loro vantaggio inefficienze, incapacità ed asimmetrie informative. Ma ogni mercato o sistema giuridico (si pensi a quello tributario) ha bisogno di tale azione per diventare più efficiente, colmando lacune ed errori di impostazione.

Guardiamo allora l’attacco in corso da un altro punto di vista: una potenza economica con un governo che godesse di una minima reputazione, capace di adottare misure razionali e non demagogiche in un contesto di crisi economica e finanziaria, diventerebbe mai il bersaglio della speculazione? Qual è allora il messaggio che ci mandano i mercati attraverso gli speculatori?

Normalmente è molto più razionale l’operato dei così detti speculatori di quello delle vittime della speculazione. Nei prossimi cinque anni andranno in scadenza notevoli quantità di titoli del debito pubblico italiano: cosa è più razionale fare, detenere “Italia” o cercare debitori sovrani di maggiore qualità e solvibilità?

Campioni di irrazionalità sono in genere i risparmiatori che immancabilmente comprano, incoraggiati dai risultati, ai massimi mentre rivendono, presi dal panico, ai minimi: sono i necessari alleati di ogni speculazione. In finanza, finché non si vende, le perdite sono soltanto virtuali.

Mettiamo, per assurdo, che proprio oggi il Governo in carica si dimettesse e, dopo rapide consultazioni di prassi, Napolitano affidasse l’incarico di formare un nuovo Governo ad Enrico Bondi, un austero manager italiano apprezzato come risanatore di grandi aziende come Parmalat e da pochi giorni a spasso: come reagirebbero i mercati?

Di crisi finanziarie nel mondo ce n’è e ce n’è per tutti, a partire proprio dagli Usa, ma è sbagliato pensare che gli speculatori attacchino per cattiveria o antipatia: i mercati, di fatto, votano prima degli stessi corpi elettorali, danno una valutazione e premiano i più capaci a danno degli incapaci e degli inetti, sempre più vulnerabili.

Da oggi i danni in termini di ricchezza virtualmente bruciata potrebbero essere molto pesanti, ma, con un paragone volutamente paradossale, anche i danni dei bombardamenti alleati durante l’ultima guerra mondiale lo furono e, anche allora, non certo per antipatia o cattiveria nei nostri confronti, bensì per liberare loro stessi e quindi anche noi, da una pericolosa leadership politica e dalle sue sciagurate alleanze.


Dopo di me il diluvio
di Marco Bracconi - La Repubblica - 11 Luglio 2011

Senza di me affondiamo e affonda anche l’euro, dice Tremonti. Senza la Lega che tiene la barra dritta si andrebbe allo sbando, suggerisce Bossi. Per il Giornale, intanto, se Silvio molla il Paese sarebbe abbandonato alla catastrofe. Mentre gli ex finiani di ritorno avvertono che se cade la maggioranza allora cade anche l’Italia.

Insomma, con la Borsa in affanno e lo Spread che sale, ritorna puntuale il mantra del dopo di me il diluvio. Recitato nelle sue diverse forme, declina in propaganda una emergenza vera, sommando il grottesco a ciò che invece è potenzialmente drammatico.

E invece nessuno è indispensabile, mai. Soprattutto se quel nessuno governa da anni caricando se stesso e il Paese di contraddizioni sempre più laceranti. Non ultima, quella di trincerarsi dietro ai rischi di default.

E’ la regola del berlusconismo, che da sempre non ammette eccezioni. Che sia giudiziaria, finanziaria o di ordine pubblico, l’importante è che sia emergenza.