Da Kabul alla Valsusa alpini anti-sommossa
di Luca Galassi - Peacereporter - 25 Luglio 2011
Le ex penne nere protestano contro l'uso dei reduci dall'Afghanistan per proteggere il cantiere della Tav
Da Kabul al Chiomonte. Tornati dalla guerra, gli alpini della Taurinense hanno rimesso la mimetica e sono saliti in Valsusa per difendere il cantiere della Tav dagli assalti degli attivisti.
In base al decreto sicurezza del 2008, i militari italiani possono affiancare le forze di polizia nel controllo cittadino e di siti 'sensibili'. Risulta particolarmente anomala la tenuta anti-sommossa.
"L'impiego è stato assai strano - spiga Luca Marco Comellini, ex maresciallo e fondatore del Partito dei Militari -, direi singolare, se non avessi forti dubbi che sia stato legale. In generale ho forti dubbi sull'utilizzo delle forze armate per questo tipo di operazioni. Sono stati messi lì per la vigilanza al sito, non riesco a capire con quali compiti e con quali funzioni. Un conto sono le funzioni di polizia, un conto quelle di vigilanza, e sono solo queste ultime quelle riservate ai militari. La tenuta antisommossa non ci doveva proprio essere. Purtroppo sappiamo quali sono le idee del nostro ministro della Difesa e della sua propaganda. Questo è uno snaturamento delle forze armate, si sottraggono funzioni a coloro che le dovrebbero esercitare, ovvero le forze di Polizia".
Far la guardia alle ruspe è stata la consegna alla Maddalena: dar man forte a polizia e carabinieri nel respingere la protesta dei valsusini. Domenica erano 150 le penne nere. Oltre il doppio gli ex-alpini che li hanno contestati. 'Montanari' contro montanari. Veterani contro nuove leve, che qualcuno chiama già mercenari.
Da qui proveniva il glorioso battaglione Susa, e anche da queste valli partono gli alpini destinati alla Forza di intervento rapido della Nato. Ora che li hanno visti dar manforte a polizia e carabinieri, i valsusini si chiedono: dove è finito lo spirito degli alpini?
Walter Neirotti è di Bussoleno, e ha fatto l'alpino quasi quarant'anni fa. "Ma non sono iscritto all'Ana (Associazione Nazionale Alpini, ndr). L'alpino l'ho fatto da militare, quando andava fatto. Ma io sono sempre stato contro tutte le guerre e non ho amato molto la divisa. Nel fine-settimana eravano tantissimi, centinaia di ex-alpini. Mi chiedo come si fa, a mandare gli alpini a fare ordine pubblico in modo così pesante contro una popolazione. Buona parte sono reduci dall'Afghanistan, dove siamo andati a 'combattere il terrorismo'. Certo, ora siamo terroristi anche noi qui della Val Susa, è per questo che ci combattono. Ma combattono se stessi, perché in ogni paesino di queste valli ci sono metri di lapidi di caduti in tutte e due le guerre mondiali, ed erano tutti alpini. Mandare soldati che fanno ordine pubblico contro una popolazione che nei secoli ha dato il sangue per la patria è stato uno schiaffo, un insulto. Erano in tanti a protestare: ne ho visti centinaia col cappello da alpini, e soprattutto gente della mia età. Contro cosa protestavano? Contro i falsi alpini, quelli che avevano scudo e manganello, quelli in tenuta antisommossa. Al presidio vengono anche utilizzati per perlustrazioni, setacciano i boschi, fanno le ronde come nelle città. Solo che qui non siamo in città".
Ha turbato molti, la vista degli alpini contro i valligiani. Gli alpini No-Tav, quelli da questa parte delle barricate, gli hanno scritto una lettera: "Abbiamo sfilato fianco a fianco con voi all'adunata del 150° anniversario dell'Unità d'Italia e non ci piace vedervi lì. Ci sconforta vedere divise sempre onorate difendere simili interessi".
Enzo Chiappusso, ex-artigliere alpino, ora operaio, è di Novalesa e ha 57 anni. "Oggi sono un volontario della protezione civile. Giro l'Italia, e do una mano per sistemare i disastri che soprattutto i nostri politici hanno combinato. Quest'anno darò indietro la tessera dell'Ana, perché le dichiarazioni del presidente non mi sono andate giù".
Il presidente dell'Ana, Corrado Perona, ha scritto, in una lettera ai veterani della Valsusa, di non farsi strumentalizzare e coinvolgere in manifestazioni 'di carattere politico'. "Gli associati dell'Ana - si leggeva nel documento - non possono utilizzare il cappello alpino per manifestazioni di carattere politico, a maggior ragione in presenza di così evidenti tentativi di strumentalizzazione".
Chiappusso ci è rimasto male, così come il gruppo degli alpini 'No Tav', che hanno rispedito al mittente le 'farneticazioni' di Perona, scrivendo una contro-lettera in cui affermano che "ci hanno pensato altri a 'strumentalizzare e sporcare la nostra storia e tradizione', ovvero quelli che decidono e sostengono l'utilizzo delle truppe alpine come truppe di invasione e occupazione di uno Stato sovrano quale l'Afghanistan, che non ha mai avuto problemi con il nostro Paese, utilizzo che, oltre a violare l'art. 11 della Costituzione viola totalmente lo spirito alpino e provoca inaudite sofferenze alla popolazione locale".
"Con tutto il rispetto per chi ha dato la vita in Afghanistan - spiega infine Chiappusso - i nostri alpini non vanno a portare aiuti con zappe e badile nelle cosiddette 'missioni di pace', ma anzi, vanno armati fino ai denti. Perona deve venire a informarsi in mezzo alla gente. Io vado nel Caucaso la settimana prossima a fare un cinquemila metri. Mi porto il cappello degli alpini. I veri alpini siamo noi. Gli altri sono solo militari professionisti".
Gli alpini non hanno partecipato alle azioni di contenimento dei manifestanti. Lo spiega l'avvocato Emanuele D'amico, presente in Valsusa ieri: "Sono equipaggiati per farlo ma non l'hanno fatto".
Perché hanno scelto proprio gli alpini? "Per 'far numero', probabilmente, in vista di una futura dichiarazione dell'area 'sito strategico e militare', e perché costano meno rispetto a polizia e carabinieri.
Certo, sarebbe inquietante, o meglio, tra l'inquietante e il ridicolo, in un futuro non troppo lontano vedere i blindati Lince, quelli che dovrebbero resistere agli ordigni in Afghanistan, essere impiegati in una zona come la Valsusa, che non è esattamente un teatro di guerra".
Il partito del signorsì
di Emmezeta - www.campoantimperialista.it - 28 Luglio 2011
Il voto bulgaro sul rifinanziamento delle «missioni» di guerra
Duecentosessantanove sì, dodici no (quelli dell’Idv), un astenuto: la «piccola guerra» tricolore, al servizio della Guerra Infinita a stelle e strisce, può così proseguire. Sarà felice il presidente di questa repubblichetta fondata sul signorsì, che in questi mesi ha più volte indossato l’uniforme del portavoce Nato.
Lo ha fatto a marzo per assicurarsi la partecipazione all’aggressione alla Libia, lo ha fatto nelle settimane scorse per prevenire le marachelle della Lega, le cui minacce si sono risolte come sempre nel nulla.
Dodici no su 330 senatori equivale al 3,63%. Riflettiamo su quella che è, ad esempio, l’opposizione nel paese alla guerra in Afghanistan o a quella alla Libia e avremo la impressionante misura del tasso di (non) rappresentatività dell’attuale parlamento. Un consenso di oltre il 96%: altro che «spirito bipartisan», qui siamo in piena sindrome bulgara!
Non che ci fossero dubbi sull’esito del voto, ma alla vigilia qualche novità sembrava all’orizzonte. Del resto, l’occupazione dell’Afghanistan si avvicina al compimento del decimo anno, mentre i bombardamenti sulla Libia – che avrebbero dovuto essere «risolutivi» nell’arco di qualche giorno, massimo qualche settimana – sono ormai nel quinto mese. Sembravano dunque esserci le premesse per una qualche differenziazione.
Niente di tutto questo: non solo i leghisti si sono ricompattati (in cambio di 150 metri quadri di uffici ministeriali distaccati in quel di Monza?), ma il Pd ha ritenuto necessario imporre la più ferrea delle discipline ad una quindicina di dissidenti che erano orientati a votare contro.
I quali, naturalmente, si sono lasciati piegare senza troppa fatica. La qual cosa non stupisce, basti pensare alle figuracce dei pacifisti falcemartellati (Prc e Pdci) durante l’ultimo ed inglorioso governo Prodi, ogni qual volta si trattava di votare l’ennesimo rifinanziamento.
I leghisti, da parte loro, avevano motivato il loro dissenso solo in base a considerazioni di budget, ed oggi si dicono soddisfatti sol perché nel secondo semestre si prevede una spesa di 694 milioni di euro, contro gli 812 milioni del primo semestre.
Il risparmio (teorico) di 118 milioni verrebbe da una riduzione di militari impegnati all’estero, che dovrebbero passare da un totale attuale di 9.250 a quello di 7.222 previsto a fine anno.
Questo calo di circa duemila unità deriverebbe da una riduzione del contingente inquadrato nell’Unifil in Libano, e dal ritiro dal teatro libico della portaerei Garibaldi, il cui equipaggio è di circa mille uomini.
In realtà, la riduzione del contingente in Libano era già prevista da tempo, in cambio dell’accresciuto impegno italiano in Afghanistan. Maggior impegno non solo per il numero dei militari schierati – 4.200, tutti confermati anche per il secondo semestre – ma soprattutto per la più intensa partecipazione alle azioni di guerra, come dimostrato anche dal crescente numero di caduti.
Se sull’Afghanistan il partito trasversale del signorsì, in pratica l’intero parlamento, non ha ritenuto di dover davvero discutere, fatte salve le solite dichiarazioni di rito sulla necessità di «riflettere», la stessa cosa vale per la Libia.
Che i piani iniziali degli aggressori siano saltati, non induce ancora al minimo ripensamento, come se la delega a pensare (oltre a quella a decidere) fosse in realtà assegnata ai soli comandi Nato. Proprio per questo, anche il ritiro della Garibaldi appare assai incerto, legato agli sviluppi della guerra ed alle trattative in corso, non certo al parere del parlamento del signorsì.
Il voto bipartisan sul rifinanziamento delle «missioni», viene dopo quello sulla Libia e dopo il lasciapassare al massacro sociale della manovra economica. Insomma, quando si tratta di economia e di politica estera (tanto più nei suoi aspetti militari) il parlamento è monocolore.
Un fatto che dovrebbe far riflettere coloro che pensano che il male del paese si chiami solo Berlusconi. Un fatto che ci dice con chiarezza quale sia la natura del Pd, un partito confindustriale ed atlantico, che non ammette su questo il minimo dissenso.
Spesso il Pd viene descritto come un partito incerto ed ondivago. Molto spesso lo è davvero, ma non quando si tratta di partecipare alle guerre imperialiste, di cui ama invece farsi vanto.
Un «particolare» di cui fingono di scordarsi coloro che, da sinistra, si apprestano all’ennesima alleanza con il partito di Bersani. «Alleanza democratica», sembra che la chiameranno. Sì, «democratica» e filo-imperialista.
Strategie da Camusso: il voto invisibile
di Luca Telese - Il Fatto Quotidiano - 27 Luglio 2011
Domanda: come fa una importante organizzazione sindacale che consulta i lavoratori su un accordo impopolare ad occultare un risultato (prevedibilmente) sgradito? Risposta: con un referendum secretato.
Ovvero disegnando un omissis, come nei documenti dei servizi segreti. Non ci credete? Per ulteriori precisazioni chiedere all’ideatrice di questo ennesimo paradosso del burocratese sindacale, Susanna Camusso.
Per quanto possa sembrare incredibile, infatti, la segretaria generale della Cgil ha avuto una pensata da manuale, per disinnescare con un trattamento “bulgaro” ogni possibile dissenso all’ultimo accordo che ha sottoscritto: ha preso carta e penna, e ha scritto alle organizzazioni del suo stesso sindacato incaricate di organizzare le consultazioni nelle fabbriche, di tenere segreti i risultati dei lavoratori non iscritti. Ancora una volta non ci credete?Questo il passaggio testuale: “Il voto eventualmente espresso da non iscritti o da lavoratori iscritti ad altre Organizzazioni – scrive la Camusso – non potrà in nessun modo essere preso in considerazione”. Compresa la comunicazione dei risultati finali.
Ovviamente anche questo ennesimo pasticcio del burocrate-sindacalese ha una spiegazione che rende comprensibile, non tanto la scelta suicida, ma almeno la logica che l’ha guidata.
La Camusso, infatti, si prepara a fronteggiare il presumibile dissenso all’accordo che ha appena firmato insieme alla Cisl e alla Uil con Confindustria: questo accordo, che abbiamo definito il “porcellum sindacale”, annulla il voto dei lavoratori sui contratti (già questa una bella pensata) quando la maggioranza dei rappresentanti sindacali lo sottoscrive.
In pratica: se il 50% più uno dei rappresentati sindacali firma un contratto (a seconda delle fabbriche bastano anche due sole organizzazioni) non si vota.
In virtù di questo accordo, poi, i sindacati firmatari sono vincolati a non scioperare. Un patto oneroso per la Cgil, soprattutto per quella parte dell’organizzazione (la Fiom, ma non solo) che aveva fatto del consenso la bandiera delle ultime battaglie (a partire dai referendum alla Fiat).
Quindi si prepara a fronteggiare il sindacato di Maurizio Landini (che fa votare iscritti e non iscritti) predisponendo un protocollo quasi brezneviano. In virtù del regolamento interno e delle intepretazioni che la stessa Camusso sollecita alla Commissione di garanzia, l’unico organismo dirigente che si può pronunciare sulla materia è il direttivo: in tutte le sedi e in tutte le assemblee, si potrà illustrare una sola posizione. Indovinate quale? Quella della Camusso.
Ma anche la Fiom adotta le sue contromosse. Il sindacato dei metalmeccanici sceglie di stampare il testo, senza commenti e di diffonderlo, così almeno i lavoratori sapranno che cosa votano.
Certo, questa volta a temere il voto non sono la Confindustria e gli altri sindacati, ma gli stessi dirigenti Cgil. Così, la burocratja sindacale partorisce: il voto invisibile.
Secondo la segretaria della Cgil, infatti, si possono consultare i lavoratori, solo a patto di non divulgare il loro verdetto.
Sarebbe come far vedere la partita solo agli spettatori delle tribuna, sarebbe come fare le primarie in America consentendo il voto solo agli agit prop dei comitati elettorali democratici o repubblicani, sarebbe come fare le elezioni e limitare lo scrutinio solo agli iscritti ai partiti.
L’ultima ciliegina? “L’invito – scrive ancora la segretaria – è a dare puntuale attuazione alle modalità di consultazione definite dal Comitato direttivo nazionale della Cgil affinché tutti i voti delle iscritte e degli iscritti siano considerati e concorrano ad approvare l’Accordo”.
Quelli che votando, insomma, concorrono solo ad approvarlo. Una bella idea della democrazia diretta. Ma si sa, nel tempo in cui tutto cambia, chi ha paura di essere sconfitto preferisce nascondere i fatti piuttosto che incassare una bocciatura.
Solidarietà a Mario Borghezio
di Miguel Martinez - http://kelebeklerblog.com - 27 Luglio 2011
”Spiace sentir qualificare come ‘farneticazioni’ le stesse idee forti, sulla realta’ del pericolo islamista che, ovviamente al netto della violenza e piu’ che mai di quella contro persone innocenti come le vittime della strage di Oslo, per non fare che un solo straordinario esempio, persone coraggiose e lungimiranti come Oriana Fallaci hanno espresso con grande chiarezza”.
Circa una volta la settimana, i media ci indicano il capro espiatorio di turno. Da ieri, e per qualche ora ancora, è il solito Mario Borghezio della Lega.
Mario Borghezio, in un intervento (a La Zanzara, programma di Radio 24) che merita di essere ascoltata attentamente, ha detto la stessa cosa che abbiamo scritto qui. Eccolo qui, il Borghezio che parla, ascoltate bene e non limitatevi alle citazioni fuori contesto dei media.
Borghezio ha parlato in maniera pacata, nonostante un giornalista incalzante, dalla voce non si sa se più isterica o viscida, che non ascoltava minimamente il suo discorso, ma cercava di fargli dire una battuta autoincriminante sui Templari.Mario Borghezio dice di condividere le idee di Anders Breivik, che ritiene ottime; mentre non condivide l’azione commessa da Breivik.
E dice che le idee di Breivik (non le azioni) sono condivise da partiti che “vincono le elezioni in tutta Europa” e prendono il 20% dei voti in molti paesi; e quindi sono condivise da circa cento milioni di europei.
Io aggiungo (non li ha citati Borghezio) che le idee di Breivik, tolta qualche punta personale, sono le stesse di Oriana Fallaci, di Magdi Cristiano Allam, di Marcello Pera, di Vittorio Feltri, di Fiamma Nirenstein, e di tutti gli altri “nemici del multiculturalismo” di cui abbiamo parlato spesso su questo blog.
E all’estero, sono le idee di Geert Wilders, di Filip Dewinter, di Thilo Sarrazin, ad esempio.
Chiaramente, più uno scrive, più ci mette di personale e quindi siamo sicuri che nelle 1.500 pagine degli scritti di Breivik, ci saranno tante piccole divergenze con tutte le persone citate; ma il nucleo del discorso è quello. E ovviamente stiamo parlando delle idee, non della strage. Le persone che abbiamo citato apprezzano le stragi solo se commesse in divisa, e preferibilmente dall’aria.
Borghezio viene attaccato per i soliti due meschini motivi: da parte della sinistra (in senso ampio) per segnare un punto (“amico di un killer pazzo che ha fatto notizia”) contro la destra. E da parte della destra per non permettere alla sinistra di segnare il piccolo punto mediatico.
Da nessuna parte, ovviamente, la minima attenzione a ciò che Borghezio ha realmente detto; né tantomeno a ciò che Anders Breivik ha realmente detto (se non altro, a differenza dei propri compagni di partito, Borghezio dimostra di saper leggere l’inglese).
E quindi nessuna attenzione a ciò che bolle realmente nella grande pentola europea. Tutti a condannare con tanta violenza il sintomo, da vietare ogni menzione della malattia.
Decentramento, Rotondi imita Bossi. Sedi del ministero ad Avellino e Milano
di Carlo Tecce - Il Fatto Quotidiano - 26 Luglio 2011
Dopo la proposta di Michela Vittoria Brambilla di spostare alcuni uffici del ministero del Turismo a Napoli, ora anche il ministro per l'Attuazione del programma imita la Lega Nord e spiega: "Costi zero, saremo ospiti delle Prefetture irpine"
L’idea più fantasiosa per celebrare i 150 anni dell’Unità d’Italia è del ministro Gianfranco Rotondi, democristiano di origine controllata, secolarizzato al berlusconismo.
Il suo ministero per l’Attuazione del programma, nonostante l’agonia del governo, accorcerà le distanze come l’Autostrada del Sole cinque decenni fa. Un po’ su, un po’ giù, un po’ al centro: uffici divisi tra Milano, Roma e Avellino.
Il Fatto ha raccontato che i collaboratori di Rotondi, per un dicastero che costa 8 milioni di euro l’anno, casualmente sono avellinesi come lui. Anche se eletto tanti chilometri più a Nord, a Milano, l’ex segretario di Democrazia cristiana per le autonomie, passato al Pdl nel 2009, ha arruolato amici di liceo e di famiglia, dirigenti e funzionari di partito (il suo).
Ecco che Rotondi, armato di invidiabile sarcasmo, scrive al nostro giornale per ringraziarci di un suggerimento a nostra insaputa: “Ogni promessa è debito e io sono qui a onorare quella che ho fatto. Ironizzando sui miei molti consulenti avellinesi e milanesi, mi avete provocato chiedendomi perché non trasferissi il ministero ad Avellino o a Milano. Ci siamo: ho riunito i miei collaboratori e appena comunicato al segretario generale della Presidenza del Consiglio che disporrò, d’accordo con il mio sottosegretario Daniela Santanchè, l’apertura di due sedi di rappresentanza a Milano e ad Avellino”.
Attenzione. La casta prima agita le forbici e poi si riproduce? Il ministro assicura che l’operazione “città che vai, ministero che trovi” costa zero: “Non spenderemo un euro perché saremo ospiti delle Prefetture”.
Passi per l’ospitalità, ma che farà un pezzo del governo in Irpinia? “Non saranno generiche sedi sul territorio – e qui l’esperto democristiano infila una stoccatina ai leghisti per la farsa di Monza – ma due gruppi di lavoro che entro ottobre annunceranno una proposta su due temi: la razionalizzazione dei costi della politica con riordino delle autonomie locali e alcune proposte cogenti da inserire nel piano per il Sud. A Milano ci sarà la commissione sui costi e ad Avellino quella per il Mezzogiorno”.
Curiosa la prima riforma avellinese-milanese: la Santanché dovrà lasciare la Capitale con le telecamere annesse e uno studio enorme che affaccia su piazza Montecitorio.
La fuga di Rotondi è una fotografia che definisce la salute del governo e la resistenza di alleanze ormai logore: il ministro campanilista fa un dispetto ai leghisti che sbraitano contro Roma e anche al duo Gianni Alemanno-Renata Polverini che, spesso silenziosi, urlano appena una scrivania inutile abbandona il cupolone.
Un ministero in Irpinia è la prova fisica di un governo all’ultimo atto. Quando le comiche finali tirano giù il sipario.
Nitto Palma, un falco alla Giustizia. Amico di Previti, favorito per il dopo Alfano
di Mario Portanova - Il Fatto Quotidiano - 26 Luglio 2011
Il magistrato entrato in politica con Forza Italia è un pasdaran dell'immunità parlamentare e vicino all'ex avvocato di Berlusconi condannato per corruzione. Alla Procura di Roma seguì inchieste scottanti, da Moro a Vermicino
Potrebbe essere vicina la scelta di Nitto Palma come prossimo ministro della Giustizia. Il magistrato romano è in pole position – tra i suoi avversari più quotati al momento c’è Donato Bruno, presidente della Commissione affari costitituzionali della Camera – e la sua candidatura potrebbe essere ufficializzata nella giornata di giovedì.
Romano, 61 anni, entrato in parlamento nel 2001 con Forza Italia, dal 2008 sottosegretario all’Interno, il possibile successore di Angelino Alfano “promosso” segretario del Pdl è innanzitutto un pasdaran dell’immunità parlamentare.
Suo, nel 2002, un emendamento che prevedeva il blocco totale di indagini e processi sui parlamentari per tutta la durata del loro mandato. In pratica, un lodo Alfano esteso a un migliaio di politici italiani.
Dovrà ritirarlo, anche per le pressioni interne alla stessa maggioranza di centrodestra, di Udc e An in particolare. Anche perché rischia di sembrare un favore troppo sfacciato all’”amico” Cesare Previti, imputato in diversi procedimenti per corruzione.
E’ lo stesso Palma a prendere il telefono e a informare Previti, che ha una reazione furibonda: “E’ chiaro che ci stiamo facendo ricattare dai democristiani”. Due anni più tardi, la stessa accusa di legiferare ad personam gli viene rivolta apertamente nel dibattito parlamentare sulla riforma della prescrizione, detta anche “salva-Previti”.
Nel 2007, un articolo dell’Espresso lo annovera tra i frequentatori delle cene con diversi parlamentari forzisti organizzate dallo stesso Previti nell’attico di pazza Farnese. Dove l’avvocato di Berlusconi si trovava agli arresti domiciliari.
Un falco, insomma. Chi lo conosce racconta che non ama affatto la categoria a cui appartiene, che detesta Magistratura democratica e vede come fumo negli occhi un altro magistrato sceso in politica sul fronte opposto, Antonio Di Pietro.
Palma, tra l’altro, è stato sposato con Elvira Dinacci, figlia di Ugo, capo degli ispettori del ministero della giustizia nei primi anni bollenti di Mani pulite. E fino al 1996, lo stesso Palma ha lavorato in via Arenula come vicecapo di gabinetto del ministro Filippo Mancuso, nemico feroce dei magistrati che indagano su Tangentopoli.
Prima di entrare in politica, Nitto Francesco Palma ha lavorato a lungo alla Procura della Repubblica di Roma, alle prese con casi scottanti: l’arresto del mafioso italoamericano Frank Coppola “tre dita”, i Nar, le Brigate Rosse, il processo Moro Ter, l’inchiesta sui fondi sovietici al Pci.
Pezzi di storia, come la tragedia di Vermicino, quando, nel 1981, Palma fece arrestare il proprietario del terreno dove si trovava il pozzo artesiano che aveva inghiottito il piccolo Alfredo Rampi.
Da magistrato si è occupato anche di mafia, alla Dna, e dopo la strage di Capaci si è scagliato, in un’intervista al Corriere della Sera, contro quelli, sinistra compresa, che “non volevano Giovanni Falcone superprocuratore, perché era amico di Claudio Martelli (all’epoca ministro della giustizia per il Psi, ndr)”.
Grande appassionato di calcio, Palma è stato anche membro del Comitato organizzatore di Italia Novanta, per i mondiali di quell’anno, nonché vicecapo dell’ufficio indagini della Figc. I rumour romani gli attribuiscono amicizie altolocate e varie, da Luigi Abete a Francesco De Gregori, fino al vicecapo della polizia Nicola Cavaliere.
Gentile on. Bersani, il guaio è il rapporto tra politica e affari
di Marco Travaglio - Il Fatto Quotidiano - 27 Luglio 2011
Gentile on. Bersani, grazie per aver raccolto alcuni degli interrogativi che le abbiamo posto sul Fatto Quotidiano. E anche per esser uscito dalle generiche declamazioni di principio, entrando per la prima volta nel merito delle questioni che La riguardano. Credo che gliene siano grati, oltre ai nostri lettori, anche i suoi elettori.
La invitiamo fin d’ora a un confronto più diretto nella nostra redazione, magari davanti alle telecamere della nostra nascente web-tv, come abbiamo già fatto con l’on. D’Alema. Infatti non tutte le Sue argomentazioni mi hanno convinto e provo, in estrema sintesi, a spiegarLe perché.
1. È vero che ai politici, oltre a condotte che dovrebbero essere scontate come rispettare la magistratura, fare un passo indietro se indagati o imputati di reati gravi, applicare la presunzione di innocenza e così via, “tocca produrre riforme che tolgano la possibilità alla corruzione”. Le domando, siccome Lei è stato due volte ministro nei sette anni dei governi di centrosinistra, quando mai ne avete prodotta una: io ricordo solo controriforme che hanno agevolato la corruzione e garantito l’impunità per corrotti e corruttori, come la depenalizzazione dell’abuso d’ufficio non patrimoniale, il nuovo 513 Cpp, la legge costituzionale abusivamente detta “giusto processo”, la riforma penale tributaria che prevede amplissime soglie di non punibilità per gli evasori fiscali, l’indulto extralarge del 2006 esteso a corrotti e corruttori.
2. Lei invoca giustamente “meccanismi di garanzia e limitazione del rischio nei partiti”. E rivendica il draconiano “codice etico” del Pd, “più stringente di un normale percorso giudiziario”. Siccome però il Suo partito ha portato in Parlamento due pregiudicati (Carra per falsa testimonianza e Papania per abuso d’ufficio), più vari inquisiti e imputati, ed è riuscito l’anno scorso a candidare a presidente della Regione Campania e poi a sindaco di Salerno un signore imputato per corruzione e concussione, Le domando: quel codice prevede deroghe così generose, o ha maglie così larghe da lasciar passare simili soggetti?
E in base a quale codice etico, due anni fa, avete mandato al Senato Alberto Tedesco, il vostro assessore alla Sanità della giunta Vendola che si era appena dimesso perché indagato per corruzione? Senza quel gesto, epico più che etico, Tedesco sarebbe agli arresti, come i suoi coindagati che non hanno avuto la fortuna di rifugiarsi in Parlamento: è questa la “parità dei cittadini davanti alla legge”?
3. Nella “triangolazione Gavio-Bersani-Penati” c’è poco di suggestivo. Se Lei raccomanda Gavio a Penati, Penati coi soldi dei milanesi acquista il 15% delle azioni della Milano-Serravalle a 8,9 euro l’una da Gavio che le aveva appena pagato 2,9 euro, Gavio intasca 176 milioni di plusvalenza e subito dopo ne investe 50 nella scalata di Unipol a Bnl sponsorizzata dal Suo partito, che dobbiamo pensare? A una sfortunata serie di coincidenze?
4. Nel 2004, quando “favorì l’incontro” Gavio-Penati, Lei non era ministro delle Attività produttive, visto che allora governava Berlusconi: Lei era un semplice europarlamentare. A che titolo “favoriva l’incontro” fra un costruttore privato e il presidente della Provincia? E perché l’incontro avvenne in gran segreto?
Non c’è nulla di male se un costruttore e il presidente della Provincia, soci in un’autostrada, s’incontrano: purché lofaccianoallalucedelsole,negliuffici della Provincia, e al termine diramino un comunicato per informare i cittadini del tema trattato e delle decisioni prese. Nella massima trasparenza.
Invece Penati incontrò Gavio in un hotel romano, tra il lusco e il brusco. E se sappiamo di quell’incontro, e del Suo ruolo di facilitatore, è solo grazie alle intercettazioni dei pm di Milano. Le pare normale?
5. Su Pronzato non ho scritto inesattezze, come del resto Lei finisce per ammettere nella sua onesta autocritica. Il signore in questione fu Suo consigliere al ministero, poi il Pd lo indicò nel Cda dell’Enac e contemporaneamente lo nominò responsabile per il trasporto aereo del partito. Non è questione di “doppio incarico inopportuno”, ma di conflitto d’interessi tra incarico pubblico e di partito.
Un conflitto d’interessi che gli ha consentito con una mano di favorire l’azienda aeronautica dei Paganelli all’Enac e con l’altra di spartirsi la tangente con Morichini, procacciatore di fondi per la fondazione Italianieuropei di D’Alema.
6. Se davvero Lei vuole “allestire nei partiti meccanismi di garanzia e di limitazione del rischio”, è proprio sicuro che il compito di un politico sia quello di patrocinare scalate e fusioni e acquisizioni bancarie o societarie, anziché scrivere regole severe e poi farle rispettare dagli organi di garanzia, restando fuori dalla mischia? Non ritiene pericoloso che l’arbitro si metta a giocare la partita con una delle squadre? 7.
Qui non si tratta di “alludere a combine poco chiare o addirittura a illeciti” da Lei commessi, onorevole Bersani. L’ho scritto e lo penso. Qui si contesta una concezione malata dei rapporti tra affari e politica. La stessa che nel 1999 portò D’Alema e Lei a sponsorizzare i “capitani coraggiosi” che s’ingoiarono la Telecom a debito, coi soldi delle banche, riducendola a un colabrodo.
La stessa che nel 2004 portò Lei e Fassino, come rivelò ai magistrati Antonio Fazio mai smentito né querelato, a recarvi dall’allora governatore di Bankitalia per patrocinare la fusione tra Montepaschi e Bnl.
La stessa che nell’estate 2005 portò Lei, D’Alema, Latorre e Fassino a sostenere, in pubblico e in privato, l’allegra brigata dei furbetti del quartierino che con metodi illeciti e banditeschi tentavano di saccheggiare un bel pezzo del sistema bancario ed editoriale, e a difendere fino alla fine il loro indifendibile padrino Antonio Fazio.
Tutte queste vicende, a mio modesto parere, spiegano come mai la sinistra italiana se n’è sempre bellamente infischiata delconflittod’interessidiBerlusconi.Eappaionopure in lieve contrasto con la Sua fama di “liberalizzatore”: ricordano piuttosto i pianificatori da Gosplan dei piani quinquennali sovietici.
Trent’anni fa a domani, Berlinguer rilasciava la celebre intervista a Scalfari sulla questione morale: “I partiti hanno occupato lo Stato e tutte le sue istituzioni… gli enti locali, gli enti di previdenza, le banche, le aziende pubbliche, gli istituti culturali, gli ospedali, le università, la Rai, alcuni grandi giornali…”. Io una ripassatina gliela darei.
Polverini, la bulletta del peperoncino
di Loris Mazzetti - Il Fatto Quotidiano - 28 Luglio 2011
Che Renata Polverini fosse un bluff, purtroppo lo si è capito in ritardo e solo quando si è seduta sulla poltrona da presidente della Regione Lazio: ha impiegato sei mesi per fare la giunta, ha riempito la regione di consulenze d’oro, ha fatto tagli drammatici alla sanità. Che responsabilità ha la tv!
La “Bulletta di San Saba” (così la chiamano nel palazzo), deve la sua fortuna alle tante apparizioni in tv che l’hanno lanciata quando era il capo di un sindacato dalla scarsa rappresentanza nel mondo del lavoro.
Ha saputo, sapientemente, usare il servizio pubblico come trampolino verso il potere. Bella presenza, disponibilità al dialogo, riflessiva, moderata nelle risposte. Una donna di destra non aggressiva che non parla su copione, persino critica, a volte, nei confronti del governo.
Essere spigliati e simpatici di fronte alla telecamera non sempre è sinonimo di sostanza.
Il primo a cadere nel trappolone è stato Walter Veltroni (allora segretario del Pd), che tentò di candidarla nel 2008. All’inizio della campagna elettorale laziale accade il primo impaccio: Roma viene tappezzata di manifesti che comunicano che a fianco della Polverini, si sarebbe candidato (poi ritirato solo dopo le polemiche), il fondatore, assieme a “Caccola” Delle Chiaie, di Avanguardia nazionale, Adriano Tilgher, capolista di La Destra di Storace, uno che va in giro a dichiarare: “Non nego l’Olocausto, ma il problema è capire se l’ordine della soluzione finale venne dall’alto”.
“Epifani in gonnella” (la definizione è di Vittorio Feltri), aveva dimenticato che il suo mentore, Gianfranco Fini, nel 2008, mentre B. trattava con Fiore, lo stesso Tilgher e si faceva fotografare con la moglie di Gaetano Saya (allora in galera per attività eversiva), era intervenuto molto duramente: “No a candidature che gettano discredito”.
Non dovrebbe sorprendere che la Polverini per andare alla festa del peperoncino, organizzata da Guglielmo Rositani (che figura per uno che sta nel cda della Rai e dovrebbe essere un esempio, il video con le minacce fisiche al cronista Carlo Tecce è una macchia indelebile), per fare 60 chilometri tra Roma e Rieti abbia usato l’elicottero antincendio (costo 15 mila euro pagati dai contribuenti).
sora Renata, quella di “Io sono io e voi…”, dovrebbe sapere che in Inghilterra il ministro dell’Interno Jacqui Smith, per aver fatto pagare allo Stato 67 sterline per due film porno acquistati dal marito, si è dimessa.
Son contento
di Andrea Scanzi - Il Fatto Quotidiano - 28 Luglio 2011
Son contento, ragazzi. Dico davvero. E non è perché ho appena fatto trampling con Anna Torv, Rosario Dawson e Cècile de France. Quella è routine.
Son contento perchè è Grande Italia. Viviamo un momento storico che regna, redime, signoreggia, soverchia e tiranneggia.
Son contento perché discutere se Marco Travaglio indossi mutande o bermuda quando registra Passaparola è un bel passo avanti intellettuale. Di questo passo potremo tutti compiere serie esegesi sulla Lettera ai Filippesi di San Paolo: è acclarato.
Son contento perché Libero, Giornale e Unità (toh: le affinità elettive tra destra e “sinistra”) hanno tutti giustamente rimbrottato il vicedirettore del Fatto. «La coraggiosa penna di inchiesta si trasforma da eroe in comune fifone» (Libero). «Il coraggio se uno ce l’ha non se lo può dare» (Giornale). «Qualcuno è riuscito a mettere in mutande il giustiziere senza macchia. Il guaio per lui è che ora non può mica chiedere l’arresto del terremoto» (quei guasconi dell’Unità – ah ah ah).
Che fifone, quel Travaglio lì. Ha perfino paura dei terremoti. Roba da vergognarsi. Mica come Belpietro, che quando ci sono le scosse del sesto grado Richter sfida ardimentoso gli smottamenti tellurici, riprendendo con una mano i libri che cadono dagli scaffali e con l’altra disegnando arabeschi maya di pregevolissima fattura.
Oltretutto Belpietro è uno che è scappato perfino da un attentato che si era fatto da solo: come fai a dubitare del coraggio di uno così? Ci fosse stato lui, in quel video di Passaparola, il terremoto lo avrebbe fermato con la sola imposizione della mascella.
Son contento perché Vittorio Feltri è uno figo. Veramente. Dopo aver cannato, con tutti i suoi amichetti pseudogiornalisti, la paternalità degli attentati norvegesi, incolpando Al Qaeda (eh?) e scoprendo un attimo dopo che il carnefice era un personaggio tutto sommato ideologicamente vicino ai dettami del centrodestra nostrano, non è che ha chiesto scusa. No. Mica chiede scusa, uno come Feltri.
Al contrario, il Gran Maestro delle caricature di Sherlock Holmes ha accusato i ragazzi ammazzati di essere stati – pure loro – delle mammolette. Di non essersi opposti abbastanza. Ha ragione. Farsi ammazzare da uno che ti mitraglia quando sei disarmato e pietrificato, è roba da smidollati laburisti.
E del resto anche Feltri, come Belpietro, è uomo che del coraggio (fisico e morale) ha fatto un vanto personale. Feltri è così coraggioso che, se fosse donna, si stuprerebbe da solo. Senza opporre peraltro resistenza.
Son contento perché Borghezio mi piace. Ogni volta che parla, capisco chi ponga perplessità attorno alla pertinenza del suffragio universale in Italia.
Son contento perché Gabriella Carlucci esiste. E’ l’unica a stimare Giovanardi e la teoria secondo cui col centrosinistra al potere ci sarebbero più Amy Winehouse è un capolavoro a cui, urge ammetterlo, non sarebbe arrivato neanche Red Ronnie.
Son contento perché anche a Viterbo Brunetta ha ribadito d’esser convinto che i cretini siano gli altri.
Son contento perché Nitto Paola è l’uomo giusto al posto giusto. Se lo conosci, lo Previti (cit).
Son contento perché Madama Bernini mi affascina. Da sempre. E’ una che usa il latino a caso, affezionata in maniera commovente alla parola “iato”. Ha quel look vedovile di chi fa della medietà bruttina un tratto distintivo.
E poi quegli occhi. Ah, quegli occhi. Perennemente sgranati come – ho già avuto modo di scriverlo - una che si trova sempre davanti a una erezione monumentale di Mike Tyson. Da qui lo stupore e sbigottimento eterno di cornea e iride. Suo e della Carfagna.
Son contento di avere sottovalutato il Pd. Che partito meraviglioso, il Partito Disastro. In neanche due mesi, dopo quelle amministrative e quei Rerefendum delle cui vittorie si era pateticamente appropriato, è riuscito a sprecare tutto.
Ci vuole talento assoluto per disboscare dalle fondamenta ogni speranza. Occorre abnegazione encomiabile nel salvare ogni volta dall’oblio politico il loro amico prediletto: Priapino da Arcore.
Che statista sublime, Bersani. E’ perfino riuscito a superare l’exemplum di Veltroni, con la sua Versione Remix della Questione Morale Irrisolta. Class action, macchina dal fango, querele.
E quel tic delle labbra in fuori quando è nervoso, come il compulsivo sbatter d’occhi di Fassino o il soffiarsi tra le mani di D’Alema: son nati proprio brutti, i grigi compagni del Pci. O perlomeno tutti finiscono così (cit).
Son contento, caro Bersani, perché quando alza la voce e minaccia a casaccio in conferenza stampa, fa ridere i polli (di allevamento) e assurge a perfetto emblema di tutta quella inutile sicumera, quella fastidiosa supponenza e quella risibile “pretesa superiorità morale” che costituisce il bagaglio mesto (e colpevole) di chi ha ammazzato la sinistra in Italia.
Son contento perché peggio di così non si può andare. Eppure scaveranno ancora. E ancora li voteranno.