Saltano sui carri appropriandosi di vittorie immeritate e smentendo precedenti posizioni assunte, millantano di fare un'opposizione ferma e decisa contro la maggioranza di governo ma quando dal fumo si deve passare all'arrosto il Pd si conferma sempre specialista nell'affossare provvedimenti che avrebbero mandato sotto la maggioranza parlamentare.
Per non parlare poi delle inchieste della magistratura in corso su appalti e mazzette.
E bravi, continuate così...
Tagliano tutto, ma le province non si possono toccare
di Chiara Paolin - Il Fatto Quotidiano - 6 Luglio 2011
Quasi tutto il Pdl e la Lega bocciano la proposta dell'Idv. Dà una mano il Pd astenendosi in blocco. Di Pietro: "Spiace che il Carroccio, che parla tanto di sprechi e costi della politica, sia poi in prima fila quando si tratta di sistemare le cadreghine locali". Intanto i sacrifici servono anche per accumulare una dote pre-elettorale nel 2012 da 5,8 miliardi di euro
La manovra viaggia ormai verso il varo tracciando solchi di profondo sacrificio per i cittadini comuni, ma la politica ha deciso ieri di lasciare intatto il suo peso confermando una delle sue istituzioni più discusse: le Province.
Massimo Donadi, Idv, era riuscito in un mezzo miracolo, cioè mettere in calendario alla Camera un disegno di legge per abolire l’ente nonostante nessun altro partito avesse spinto per infilare la norma in giorni tesissimi di grande manovre (non solo economiche).
Eppure il testo è arrivato in aula e tutti gli onorevoli hanno potuto finalmente esprimersi in modo netto: Province sì o no? Voti contrari: 225, cioè quasi tutto il Pdl e la Lega. Favorevoli: 83 tra Idv, Terzo Polo e qualche cane sciolto. Astenuti: 240, praticamente il Pd intero. “Si è verificato un tradimento generalizzato degli impegni e dei programmi elettorali fatti da destra a sinistra”, ha tuonato Antonio Di Pietro.
Aggiungendo: “Dell’abolizione delle Province si parla dal 1960 ma c’è stato un comportamento patetico anche nella nostra coalizione, qualcuno ha chiesto l’ennesimo rinvio per riflettere. C’è una maggioranza trasversale che possiamo chiamare ‘maggioranza della casta’, tipica da Prima Repubblica. E spiace che la Lega, che parla tanto di sprechi e costi della politica, sia poi in prima fila quando si tratta di sistemare le cadreghine locali”.
Di Pietro insomma è arrabbiato con tutti, ma più di tutti col Pd, che nel suo programma elettorale 2008 così dichiarava: “Eliminazione, entro un anno, di tutti gli Ambiti Territoriali Ottimali, settoriali e non, attribuendo le loro competenze alle Province. Eliminazione delle Province là dove si costituiscono le Città Metropolitane”.
In realtà nessuno ha voluto intervenire sulle amministrazioni locali innovando la distribuzione delle competenze, e tantomeno si potrà parlarne ora che la legislatura volge al termine (magari anticipata al 2012).
Meglio concentrarsi sulla manovra imposta dall’Unione europea e dagli squali della speculazione giocando anche qui su un doppio binario: rinvio dei provvedimenti più pesanti e nessun taglio sulla rappresentanza politica.
Perché se è vero che all’articolo 1 del decreto della manovra si parla di riallineare gli stipendi dei parlamentari e degli amministratori locali alla media europea, ciò accadrà solo in base agli studi che appronterà una costituenda commissione, e solo per i mandati futuri.
Nel frattempo, i partiti politici vedranno decurtarsi i rimborsi di ben 7,67 milioni di euro a partire dal 2013, mentre le stangate vere saranno sui trasferimenti a Regioni e Comuni, sulla sanità (il cui taglio arriva alla cifra di 7,5 miliardi), sulle pensioni e sul prevedibilissimo aumento delle assicurazioni.
Soldi in uscita? Qualcosina per smuovere i patti di stabilità dei Comuni (200 milioni) e un gruzzoletto di 5,8 miliardi di euro per attuare la manovra di bilancio 2012. Insomma quel filo d’aria prezioso per un anno che sa già di nuove elezioni.
Il Pd berlusconiano
di Paolo Farinella - Il Fatto Quotidiano - 7 Luglio 2011
Ora lo sappiamo. Con atto ufficiale firmato dalla Camera dei deputati. Agli atti parlamentari del 5 luglio 2011. Di fronte alla proposta dell’IdV di eliminare le province per cominciare a tagliare i costi della politica da camorra, il Pd si è «astenuto».
Non ha detto sì come aveva promesso e come avevano promesso tutti e su cui hanno giocato in alcune tornate elettorali. Non ha detto no formalmente, ma ha detto no all’eliminazione delle province per garantire il sottobosco, i riciclati, figli, nipoti e affiliati.
Speravamo che sull’onda del referendum il Pd avesse un sussulto di coscienza e insieme con gli altri, anche Casini, poteva avere la maggioranza in parlamento e battere ancora una volta il governo.
Il Pd non vuole che Berlusconi cada, grida di volerlo mandare a casa, ma poi all’atto pratico vota sempre per salvarlo. Non potendo sfacciatamente votare con la maggioranza che sarebbe stato peggio della legge salva Fininvest, cosa fa il caro ex Partito democratico? Si astiene.
Sta fermo e si astiene. Sta immobile, gioca a bocce ferme e si astiene. Come un lampione che illumina la notte, ma sta fermo e aspetta. Si astiene perché le province «si occupano dei permessi per l’urbanistica» (Bersani).
Conseguenze: Berlusconi regge, la maggioranza non cade, il Vaticano gode e gli Italiani sono fritti e ripassati. Non è più il Pd, ma il Pdiscilipoti. Poi dicono che uno si butta a sinistra!
Le Province, suicidio del Pd
di Jacopo Fo - Il Fatto Quotidiano - 6 Luglio 2001
Sono scandalizzato e furioso. E spero in un’insurrezione della base del Pd. Quel che è successo è assurdo e grottesco.
Il dietrofront di Silvio Banderuola, sul comma che avrebbe evitato a Mediaset di pagare 750 milioni di euro di danni per lo scippo della Mondadori, ha oscurato un evento che oserei definire epocale. Il Pd ha fatto una scelta masochista che spero avrà conseguenze catastrofiche sull’attuale dirigenza.
In sostanza c’è stata alla Camera una votazione sull’abolizione delle Province con il seguente risultato: voti contrari: 225, cioè quasi tutto il Pdl e la Lega. Favorevoli: 83 tra Idv, Terzo Polo e qualche cane sciolto. Astenuti: 240, praticamente il Pd intero.
A causa di numerose assenze e qualche defezione il governo, invece di raccogliere i 317 voti che gli hanno dato la fiducia il 21 giugno (con 293 voti contrari), ne ha raccolti solo 225.
Il governo di Silvio Banderuola poteva quindi essere sonoramente battuto su un provvedimento che avrebbe entusiasmato gli italiani stanchi di questa Casta che taglia i servizi sociali, aumenta le tasse per i cittadini comuni e protegge gelosamente i propri privilegi ed è contemporaneamente incapace di ridurre gli sprechi e far pagare le tasse.
Era un’occasione straordinaria, forse addirittura capace di far cadere il governo. Oggi persino Libero e il Giornale danno addosso al governo! Ma il Partito Democratico ha deciso per l’astensione lasciando soli Idv e centristi (Casini, Fini ecc).
Non credo serva una spaventosa cultura politica per capire che hanno fatto una boiata pazzesca! E stupisce che il Pd non abbia compreso che qualcosa è cambiato dopo le vittorie recenti di Pisapia, che non faceva parte dell’apparato del partito, di De Magistris, che si presentava contro il Pd, e dopo il risultato incredibile del Movimento 5 Stelle laddove il Pd ha presentato uomini della nomenclatura (ad esempio a Bologna).
Neppure la vittoria dei referendum che il Pd aveva a lungo osteggiato, salvo accodarsi alla fine, ha fatto riflettere i dirigenti sul livello di incazzatura degli italiani e dei suoi iscritti in particolare.
Ma pare che i dirigenti dell’area Pd non abbiano compreso neppure la reale situazione economica attuale. Peraltro quando, nel 2006, strillavamo che il sistema economico stava saltando per aria ci prendevano per pazzi… Ma allora eravamo pochi a dirlo.
Oggi persino la Confindustria dichiara che se non si razionalizza il sistema, non si tagliano gli sprechi e non si ridimensionano i costi del Palazzo, andiamo a sbattere molto rapidamente.
E pensare che, conti alla mano, basterebbe recuperare un 10% all’anno dello sperpero colossale di risorse per far diventare l’Italia un paradiso… Uno Stato che si fa rubare più di 565 miliardi di euro all’anno non è in crisi: è una nazione di deficienti!
A questo punto tocca vedere se la base del Pd accetterà supinamente questa boiata pazzesca. Ma Bersani dovrebbe rendersi conto che, se perfino Berlusconi ha dovuto rinunciare ad alcuni suoi deliri per evitare la spaccatura del suo stesso partito, anche i leader del Pd devono piantarla di predicare bene e razzolare male. Ma forse Bersani lo ha capito… Il problema è spiegarlo ai D’Alema boys.
Inchiesta sugli appalti aerei. I Piccini che fanno paura al Pd
di Marco Lillo e Ferruccio Sansa - Il Fatto Quotidiano - 6 Luglio 2011
Due fratelli, l'unico testimone morto e l'accusa di tre mazzette ai dalemiani, dalla privatizzazione Telecom a Tanzi. Dalle parole dell'imprenditore è nata l'inchiesta romana su appalti e contributi alla fondazione ItalianiEuropei
Due fratelli. Un incidente che uccide il testimone chiave. Accusatori che attribuiscono tre mazzette a politici e affaristi dalemiani. I nomi dei fratelli Sergio e Pio Piccini al Pd fanno venire la pelle d’oca. Dalle parole di Pio, il minore, è partita l’inchiesta dei pm romani Paolo Ielo e Giuseppe Cascini sulle mazzette ammesse da Vincenzo Morichini e Franco Pronzato, due amici di Massimo D’Alema.
L’imprenditore toscano parla di un appalto da Finmeccanica di 8 milioni l’anno. Per ottenerlo (senza gara) ricorre a Morichini, amico di D’Alema, socio nello yacht Ikarus e procacciatore di finanziamenti per ItalianiEuropei. Pio spiega ai pm: “Se avessimo ottenuto l’appalto, avremmo versato il 5 per cento a Morichini e alla fondazione di D’Alema”. ItalianiEuropei smentisce.
L’inchiesta chiarirà. I fratelli Piccini anni fa erano comparsi in altre due indagini accanto a esponenti del Pd. Inchieste finite con l’archiviazione. L’unico testimone d’accusa, Sergio Piccini (fratello maggiore), è morto in uno strano incidente.
Il primo incrocio tra i nomi di Sergio Piccini e D’Alema in un verbale risale al 2002, quando i carabinieri su delega del pm napoletano Marco Del Gaudio registrano la testimonianza di Giampiero Antonioli, esperto di telecomunicazioni.
Il suo nome rispunterà nel 2005, sarà uno dei tre spiati (con Alessandra Mussolini e Piero Marrazzo) dagli investigatori privati Pierpaolo Pasqua e Gaspare Gallo del Lazio gate.
Antonioli viene sentito in un’indagine sulle associazioni dei consumatori, ma parla di Parmalat e Telecom Italia, della leggendaria super-tangente che il centrosinistra avrebbe incassato per la privatizzazione Telecom avvenuta sotto il governo D’Alema. La storia non ha trovato riscontri giudiziari.
Gli investigatori valutano con cautela le affermazioni di Antonioli, che potrebbe covare risentimento verso i Piccini. Dopo il crac Parmalat, le sue dichiarazioni vengono rivalutate: questo signore nel 2002 aveva riferito circostanze confermate due anni dopo dall’indagine di Parma, come il ruolo di “ufficiale pagatore della politica” di Sergio Piccini o i suoi rapporti con Nicolò Pollari.
“Piccini è una persona chiave che ha gestito rapporti finanziari del gruppo Telecom. Sergio diventò braccio destro di Tanzi. Ha gestito interessi colossali”. Antonioli parla del network di relazioni di Sergio Piccini (in parte, secondo Antonioli, ereditato da Pio), cita “Mastella, Cossiga, D’Alema”.
Descrive “un rapporto di affari molto serio con D’Alema attraverso London Court”, di cui era alla guida Fabio De Santis (socio di Ikarus e amico del presidente pd). Antonioli aggiunge: “Sergio ha lasciato a Pio le chiavi dei conti riservati, cifrati e documentazione sui rapporti con politici. Pio tiene i rapporti che teneva Sergio”.
Antonioli riferisce poi che Sergio incontrava il dirigente dei servizi Nicolò Pollari, cercava di scoprire se c’erano indagini sul suo ruolo in Telecom. “Pio Piccini tiene i rapporti con Pollari e so che due o tre mesi fa ha conosciuto Licio Gelli insieme con un amico di Sergio che dice: sono agente Cia in Italia”.
Poi Antonioli tira la bomba: “Loro (Piccini, ndr) affermavano di aver avuto una parte organizzativa nella ventilata mega tangente che Colaninno e i suoi finanziatori hanno pagato ai Ds, a D’Alema e Violante. Sergio era una persona serissima… non ha mai mentito su queste cose”. Prove? Nessuna. I carabinieri del Nucleo di Roma, dopo il crack Parmalat, si ritrovano in mano quelle dichiarazioni esplosive.
Per riscontrarle chiedono di intercettare Antonioli, Pio Piccini e il suo socio Nicola Catelli. Scoprono i rapporti tra una società dei Piccini (usata da Tanzi come veicolo di finanziamenti) e Il manifesto.
Tutto finisce nel calderone dell’inchiesta di Parma e poi in archivio. Come gli atti, richiesti dalla Procura di Parma, sulla morte di Sergio, avvenuta nel 2000 in un incidente d’auto (sei mesi prima era scampato a un incidente su un jet privato).
Ma c’è un terzo incrocio tra gli uomini del Ds-Pd e Sergio Piccini: ruota intorno al “canestro delle mazzette di Tanzi ai politici” e al dalemiano Claudio Burlando, l’uomo che ha portato a Roma Franco Pronzato (consigliere Enac e dirigente Pd arrestato). A parlarne, nel 2005, è Tanzi. I pm di Roma aprono un’inchiesta. Tanzi riferisce di tangenti legate alla joint-venture Ecp.
Un’operazione che, secondo i pm di Parma, voleva scaricare sulle Ferrovie i debiti delle società turistiche dei Tanzi (gruppo Itc&P). Tanzi indica Piccini, allora presidente di Itc&P, come intermediario. Nemmeno Tanzi ricorda quali pagamenti furono effettuati.
Comunque le Ferrovie varano la joint-venture con Tanzi, che tra il 12 marzo e il 28 giugno 1996 fa confluire nella società mista, per un valore di 108 miliardi di lire certificato dal perito Emanuele D’Innella, le sue aziende turistiche in passivo, secondo l’ accusa, per 692 miliardi.
E qui entra in scena il centrosinistra. Cambia il governo e, racconta Tanzi, “Piccini mi disse di aver pagato anche il neoministro Burlando, mi parlò di un miliardo di lire… Mi recai al ministero per ringraziarlo del suo positivo interessamento. In quella visita di cortesia Burlando mi confermò di aver condiviso l’operazione”.
Burlando nega ogni accusa, annunciando denunce (non presentate). Oggi ricorda: “Le trattative si conclusero il 10 maggio ‘96, mentre io sono diventato ministro il 18 maggio ’96 e qualche giorno dopo abbiamo sciolto la joint venture”. L’inchiesta si concluse con un’archiviazione. Contro Burlando c’erano solo le parole di Tanzi. L’unico possibile testimone, Sergio Piccini, era morto con i suoi segreti.