Ora Tremonti spieghi
di Marco Lillo - Il Fatto Quotidiano - 10 Luglio 2011
Giulio Tremonti deve alcune spiegazioni ai cittadini che lo hanno eletto e gli hanno messo nelle mani l’economia italiana.
Partiamo da una data fondamentale: il 16 dicembre 2010. Quel giorno Tremonti viene sentito come testimone dal pm Piscitelli che gli comunica due notizie importantissime:
1) il suo braccio destro al quale ha affidato i rapporti con la Finanza è indagato – proprio dalla Finanza – per corruzione;
2) Milanese si è fatto regalare da un imprenditore nei guai con la Finanza un orologio Patek Philippe del valore di circa 20 mila euro “per il ministro Tremonti”.
Il ministro nega di averlo mai ricevuto e mostra al magistrato il suo Swatch. O Tremonti mente oppure da quel preciso istante ha il fondato sospetto che il suo braccio destro lo ha venduto, facendolo passare per corrotto.
Nonostante quella mattina i quotidiani pubblichino le intercettazioni dell’imprenditore dell’orologio, Paolo Viscione, che dice: “vengo ricattato dalla politica, da questo Milanese per questa storia qua, che si fotte i soldi”, Tremonti non fa nulla.
Anche quando Milanese pochi giorni dopo dichiara a Conchita Sannino di Repubblica: “ammesso e non concesso che abbia ricevuto dei regali da Viscione, che male c’è?”.
Milanese resta il suo braccio esecutivo sulla Finanza e sulle nomine nelle società partecipate, proprio i due poteri pubblici che – secondo i magistrati napoletani – Milanese si sarebbe venduto ottenendo Ferrari, gioielli, viaggi e un milione di euro.
Ma Tremonti non si limita a una colpevole inattività. Dopo avere saputo dai pm il 16 dicembre che tipo era Milanese, resta dentro la casa pagata 8.500 euro al mese dal suo braccio destro indagato per corruzione.
Tremonti vive a sbafo di Milanese che si dimetterà solo il 27 giugno. Non per l’inchiesta per corruzione. Ma perché ha puntato il dito contro il generale Michele Adinolfi per la fuga di notizie in favore di Bisignani.
Giulio Tremonti dovrebbe spiegare agli italiani il suo comportamento dopo l’interrogatorio del 16 dicembre.
Perché dopo quell’incontro illuminante con i pm lascia Milanese al suo posto?
Perché, dopo avere appreso che Milanese lo ha venduto, sulla storia dell’orologio non lo mette alla porta?
Perché accetta di vivere a sbafo facendosi pagare sette mesi di canone più spese per complessivi 64 mila euro da un possibile corrotto?
Perché lascia quell’appartamento solo dopo la richiesta di arresto, quando la storia diventa pubblica?
Dopo l’interrogatorio del 16 dicembre avrebbe dovuto accettare da Milanese solo una lettera di dimissioni, non un appartamento nel centro di Roma.
Italia attenta, metti a rischio la credibilità
di Bill Emmot - La Stampa - 10 Luglio 2011
Nel corso di questi ultimi due anni in cui ho scritto e parlato dell’Italia, ogni volta che ho detto qualcosa di critico sui punti deboli dell’economia italiana, quasi inevitabilmente, qualcuno tra il pubblico o tra i lettori ha risposto dicendo: «Ma noi non siamo come la Grecia, e abbiamo superato molto bene la crisi».
Ho sempre contestato la seconda parte di tale argomento, che non è supportata dai fatti, ma mi sono sempre detto d’accordo sulla prima. Ecco perché è così strano, e potenzialmente tragico, che proprio il governo italiano negli ultimi giorni appaia determinato a rendere l’Italia più simile alla Grecia.
Il panico dei mercati finanziari di venerdì, con la svendita delle azioni italiane e il costo del debito pubblico in ascesa, riflette esattamente questo sentimento.
Proprio come per il Portogallo, la Spagna e la Grecia, la crescita economica in Italia è debole e il Pil e la produzione manifatturiera si riprendono più lentamente dalla crisi globale del 2008-09 rispetto a quanto è avvenuto in Francia, in Germania o nei Paesi Bassi.
Ma almeno le finanze pubbliche nazionali erano sotto controllo, con un piccolo deficit di bilancio e il rapporto tra debito pubblico e Pil stabilizzato.
Quindi, a differenza della Grecia, la debole crescita economica italiana non implicava che il Paese potesse diventare insolvente e non in grado di pagare gli interessi sui suoi enormi debiti pubblici. Situazione, comunque, che non può essere data per garantita. Perché quando si tratta di finanza pubblica, la differenza tra confortevole stabilità e dolorosa insolvenza è abbastanza esile.
Un aumento dei tassi di interesse praticati dagli investitori in obbligazioni, o un improvviso aumento della spesa pubblica o una diminuzione delle entrate fiscali possono precipitare un Paese nella crisi, soprattutto quando il debito pubblico ammonta al 120% del Pil. (A proposito, il debito pubblico dell’America, Paese spesso descritto come fiscalmente sconsiderato, arriva appena al 65% del Pil).
In alternativa, una crisi può improvvisamente scoppiare quando sorgono dubbi sulla condotta futura della politica del governo, a causa dell’instabilità politica, perché questi dubbi riguardano anche la possibilità di un controllo adeguato sulla spesa e sulle tasse.
La debolezza dell’economia italiana e l’enorme debito pubblico la rendono vulnerabile esattamente a questo genere di dubbi.
In precedenza durante la crisi economica e la lenta ripresa, i timori per l’instabilità politica e dei mercati finanziari sembravano aiutare il governo di Silvio Berlusconi.
Qualunque cosa tu possa pensare di noi, poteva dire il governo, sarebbe assai rischioso cambiarci o forzare le elezioni in questa situazione.
Ma ora le battaglie all’interno del governo sono diventate molto più destabilizzanti delle battaglie tra il governo e i suoi critici. Se questa guerra continua, l’opzione più opportuna sarebbe quella di andare a elezioni anticipate o cambiare il governo.
Le misure fiscali proposte dal ministro dell’Economia, Giulio Tremonti, sono state accettate dal mercato, ma gli analisti sia all’interno sia all’esterno del Paese hanno notato una loro caratteristica importante: le principali riduzioni del disavanzo di bilancio avverranno in futuro.
Questo è importante ora che la battaglia politica tra il presidente del Consiglio e il ministro dell’Economia è uscita allo scoperto. Perché l’inevitabile conclusione che trarranno gli analisti di mercato è che i tagli in effetti non si faranno mai. La credibilità delle misure fiscali si sta sgretolando.
Pensateci dal punto di vista di un osservatore esterno. Un giorno, il Presidente del Consiglio dichiara che si è sempre opposto alla guerra in Libia, a cui le forze italiane partecipano, come parte della Nato.
Un altro giorno il presidente del Consiglio attacca il suo stesso ministro dell’Economia, rende esplicito che favorisce la riduzione delle tasse e permette che uno dei suoi giornali pubblichi notizie dannose su Tremonti.
Che cosa dovrebbe credere questo osservatore? Il capo del governo si oppone alle politiche del suo gabinetto, e al suo stesso ministro.
Questo, da un punto di vista nazionale, è un suicidio. Si sta distruggendo la credibilità. L’aspetto più importante delle politiche economiche del Paese, cioè la rigorosa gestione del deficit di bilancio, viene messa in serio dubbio.
Se continua su questa strada l’Italia nella mente degli investitori internazionali finirà davvero nella stessa categoria del Portogallo, dell’Irlanda, della Spagna e della Grecia: instabile, insostenibile e insolvente. E per di più tutto questo è del tutto inutile.
Il Titanic-Italia verso la tempesta perfetta
di Peter Gomez - Il Fatto Quotidiano - 9 Luglio 2011
Alla fine ce l’hanno fatta! I capitani coraggiosi che per quasi vent’anni si sono alternati alla guida del Paese sono finalmente riusciti a portarci a un passo dalla tempesta perfetta. Ancora un piccolo sforzo e, forse già lunedì mattina con la riapertura delle borse, la nave Italia si trasformerà in un Titanic dal destino quasi ineluttabile.
Una menzione speciale va perciò al premier Silvio Berlusconi, che proprio oggi ha visto riconoscere da una sentenza civile di appello, ciò che tutti sapevano, ma che quasi tutti facevano finta di non vedere.
Lo straordinario imprenditore che dal niente è diventato uno degli uomini più ricchi del pianeta deve buona parte delle sue fortune alle tangenti. E se adesso si riparla di quelle versate dall’avvocato Cesare Previti ai giudici di Roma in modo che il suo cliente e amico potesse impadronirsi della Mondadori, scippandola a Carlo De Benedetti, bisogna ricordare che l’elenco delle mazzette Fininvest è ben più corposo.
Ci sono quelle allungate dall’ex manager e attuale parlamentare Salvatore Sciascia per addolcire gli accertamenti della Guardia di Finanza. Ci sono quelle, da molti miliardi di lire, bonificate estero su estero a Bettino Craxi. E c’è quella da 600.000 dollari intascata dal legale inglese David Mills per dire il falso e salvare Berlusconi dalle condanne penali.
Una lista impressionante (e incompleta) utile per comprendere ciò che è accaduto, e sta accadendo, all’Italia. Berlusconi, il leader del centrodestra che ora piange falsamente miseria e protesta assieme a quasi tutto il suo partito, ha selezionato una classe dirigente fatta a sua immagine e somiglianza. Un gruppo di figuri bravi soprattutto ad arricchirsi e spingere tutti gli altri (noi) verso il baratro.
Mentre il presidente del Consiglio viene condannato a sborsare mezzo miliardo di euro come risarcimento per la rapina perpetrata sulla Mondadori, nel suo governo e nella sua maggioranza siedono frotte di pregiudicati, di imputati, di prescritti e di ladri di varia specie.
Venerdì il responsabile dell’Agricoltura, Saverio Romano, nominato ministro nonostante le indagini in corso, si è ritrovato imputato per fatti di mafia. Il giorno prima Marco Milanese, il braccio destro del ministro dell’Economia Giulio Tremonti, aveva ( con poca sorpresa) scoperto di essere destinatario di una richiesta di arresto per tangenti e associazione per delinquere.
Tremonti, che gli aveva di fatto delegato il compito di tenere i rapporti con la Guardia di Finanza e quello di sovrintendere alle nomine nelle società partecipate dal Tesoro, lo aveva mantenuto al suo posto sebbene sapesse da sei mesi di cosa era accusato.
Il fatto poi che il responsabile dell’Economia abitasse in una casa pagata da Milanese 8.500 euro al mese e che la sua portavoce fosse la compagna dello stesso Milanese, deve spingere a una riflessione: o Tremonti è un uomo poco intelligente incapace di scegliersi i collaboratori (e perciò non può continuare a fare il ministro) o ha qualcosa da nascondere.
Continuare a far finta che questo quadro – al quale vanno aggiunte le storie dei vari Fitto, Berruti e compagnia cantante – non c’entri con la rincorsa che il Paese sta facendo per raggiungere la Grecia, é da stupidi. Prendersela con i cosiddetti mercati, maledire gli speculatori, è da ipocriti.
In tempi di crisi economica la credibilità delle classi dirigenti è fondamentale. Sostenere che gente del genere possa mettere la faccia su una manovra economica in grado di rassicure gli investitori esteri e di ristabilire un po’ di giustizia sociale in Italia, è da incoscienti.
Certo, inutile nasconderlo, anche guardando dall’altra parte, nelle fila della cosiddetta opposizione, spesso c’è poco da stare allegri. Quella che stiamo vivendo è una crisi di sistema. Del nostro sistema politico di cui Berlusconi è solo il piu visibile, ma non unico, campione.
La lettura dei giornali ci fa intuire come l’Italia sia a un passo dallo scoperchiare una nuova tangentopoli. Le varie fondazioni di cui si sono dotati molti sedicenti leader a partire dagli anni Novanta si stanno rivelando semplicemente degli schermi per tentare di nascondere, in maniera formalmente legale, finanziamenti di dubbia provenienza e, forse, vere e proprie tangenti. Lo insegnano sia il caso Pronzato, il responsabile dei trasporti aerei del Pd, che incassava denaro da imprenditori interessati a ottenere rotte dall’Enac, sia il caso Milanese.
Il parallelismo tra le due vicende è evidente. Chi, secondo l’accusa, pagava Pronzato versava anche soldi – con finanziamenti registrati, ma non pubblici – alla fondazione Italiani Europei che fa capo a Massimo D’Alema.
Chi invece dava barche sottocosto a Milanese per ottenere nomine all’Enav foraggiava pure la Fondazione Casa delle Libertà.
Se si tiene conto che le fondazioni sono decine e decine e che in qualche caso alla testa di esse si trovano personaggi già condannati in Mani Pulite o coinvolti in altre indagini sulla pubblica amministrazione, ecco che il sospetto di trovarsi davanti a un metodo di sottogoverno diventa fortissimo.
Anche perché i nomi dei finanziatori delle fondazioni vengono mantenuti riservati, invocando senza imbarazzo alcuno (lo ha fatto proprio D’Alema) le leggi sulla privacy.
E’ il lato oscuro della Casta. E’ il non detto di un’oligarchia inefficiente e costosa che a volte si palesa votando contro l’abolizione delle provincie (o astenendosi).
E altre volte si mostra approvando leggi finanziarie che colpiscono solo i piccoli risparmiatori e rimandano di anni ogni riduzione dei costi della politica.
Imprecare, disperarsi, tentare di raggiungere in massa le scialuppe di salvataggio del Titanic-Italia, però non serve. La tempesta è brutta è vero. Ma fortunatamente non è ancora perfetta.
Meglio che i passeggeri comincino a spiegare con calma a tutti che cosa sta accadendo. E che si organizzino per cambiare ciurma e comandante.
Invertire la rotta ancora si può, lo dimostra quello che è successo a Napoli e Milano. Ma bisogna farlo in fretta. Prima che sia troppo tardi.
PIIGS, stiamo arrivando
di Angelo Miotto - Peacereporter - 8 Luglio 2011
Un declassamento dell'agenzia di rating internazionale Moody's è nell'aria. Forse questione di ore. Chi lavora sui titoli non sembra avere dubbi. E soprattutto lo sguardo degli operatori assiste a un doppio colpo, pesantissimo, per il Paese.
Italia sotto attacco speculativo, con dei numeri che fanno impressione. E che non trova nelle parole pronunciate tatticamente dall'ex numero uno di Bankitalia Mario Draghi un sollievo. Anzi.
E questo è un segnale preoccupante, perché lo stesso draghi sta per sedersi alla presidenza della Bce, la banca centrale europea. Niccolò Mancini, trader a Milano e collaboratore di E il Mensile, guarda i numeri e li traduce per PeaceReporter.
Partiamo da parole ostiche ai più. Il differenziale fra i rendimenti dei titoli di stato italiani e tedeschi ha toccato un picco con quota 245 punti base. Traduciamo?
Guardando i numeri dal 3 giugno a oggi, cioè un periodo molto breve, il Btp a 10 anni ha perso il 5, 5 percento. Il Btp a 10 anni è quello della pensionata che vuole stare tranquilla sui suoi risparmi. Stiamo assistendo a un colpo pesantissimo. Stiamo perdendo terreno su tutti. Rispetto all' indice tedesco registriamo una differenza - spread - fra le due Borse di venti punti percentuali a favore della Germania.
Il dato politico: in un Paese in cui l'ex numero uno della Banca centrale si appresta a diventare presidente della Banca centrale europea è paradossale che ci si trovi sotto attacco. L'ultima spallata l'ha data l'inchiesta P4 con il caso di Marco Milanese, che ha coinvolto anche il ministro Giulio Tremonti, l'unico referente, la figura meno discutibile di questo governo, l'uomo in cui hanno fiducia i mercati.
E questo ha dato il via libera a una situazione che è già difficile dall'inizio di questa settimana che va sotto il titolo: attacco all'Italia. Ci sononvoci e rumors che ci annunciano un declassamento da parte di Moody's.
Chi attacca l'Italia?
La speculazione internazionale, identificabile in quattro o cinque grandi banche, come Goldman Sachs o Jp Morgan, legate a qualche hedge fund aggressivo L'Italia finisce con le spalle al muro.
I prezzi dei titoli di stato scendono e quindi si alza il rendimento, quindi lo stato deve pagare più interessi.
Quello che sta succedendo oggi porta a far sì che una metà della manovra finanziaria che avrà effetto dal 2013, se ne è già andata in fumo. Questi sono numeri, non opinioni. L'aumento dei tassi fa diventare ininfluente la manovra che colpisce sempre i soliti noti.
Le agenzie di rating giocano sporco
Certo, ma il problema c'è fino a quando non ci sarà una regolamentazione delle agenzie di rating. Prendiamo il Portogallo. Declassato a spazzatura, ogni fondo che avesse avuto dei titoli di stato portoghesi era costretto, per regolamento, a venderli. Tranne la Bce, che ieri ha dato una svolta mai vista, accettando titoli portoghesi come garanzia. Una cosa mai vista.
La Bce avrebbe dovuto, seguendo la normale procedura, rifiutare quei titoli e certificare il default del Portogallo. La nostra situazione si è incanalata su una strada che porterà la I italiana a entrare nei cosiddetti PIGS (Portogallo, Irlanda, Grecia, Spagna) trasformandoli in PIIGS.
Perché non c'è una regolamentazione delle agenzie di rating?
Tremonti nel 2008 durante la grande crisi delle banche, aveva detto che si doveva togliere lo strapotere alle agenzie del rating, che i derivati stavano tornando a una situazione pre 2008, dipingendo una situazione con chiarezza.
È lì che sono intervenuti Usa e Gran Bretagna, che vivono anche grazie al rating e che hanno rapporti stretti con le stesse agenzie. È un problema di quei paesi che hanno sul proprio territorio le banche più aggressive, che riescono a bloccare la riforma e la regolamentazione del rating.
Se Moodys taglia e declassa l'Italia?
Allora lo Stato italiano pagherà più caro il proprio debito. Non si deve creare panico, il rischio non è immediato, ma è quello che porta al default: con i tassi di interesse che schizzano e uno Stato che deve emettere nuovi titoli e garantire rendimenti più elevati si dà il via a una spirale di questo tipo.
Riflessi politici?
I mercati stanno mandando a casa il governo. Possono riuscire a resistere a Casini, a Bersani, a Di Pietro, ma ai mercati non può resistere nemmeno Berlusconi, anche perché a differenza dei politici della Prima repubblica ha ancora aziende quotate in Borsa. Più tira la corda, più è costretto ad affrontare rischi.
da www.insurgente.org - 9 Luglio 2011
Traduzione per www.comedonchisciotte.org a cura di Supervice
I dubbi sulla periferia dell'eurozona oggi si concentrano sull'Italia
Le sue banche sono crollate alla borsa di Milano (che ha visto la perdita più consistente di tutt’Europa, con un meno 3,47%), mentre il differenziale di rischio ha segnato il suo massimo dall’entrata nella zona euro.
Tutto il mercato comincia a domandarsi se i conti italiani non siano in condizione peggiori di quelli spagnoli. Il differenziale di rischio della Spagna supera i 284 punti e quella dell’Italia è di poco inferiore.
In questo periodo i titoli di stato italiani tornano a soffrire e le loro quotazioni sono calate per il quinto giorno consecutivo, collocando lo spread ai suoi massimi: i dubbi sulla Grecia continuano a condizionare le contrattazioni e oggi il rischio di un contagio riguarda in particolar modo l’Italia."Si parla di un possibile default della Grecia e che il contagio si estenda a Irlanda, Portogallo e Spagna, poi l’Italia è la fermata successiva”, ha assicurato Charles Diebel, capo stratega dei Lloyds. "L’’Italia ha una quantità di debito spaventosa".
Dubbi sull’economia italiana
La situazione economica dell’Italia non aiuta. Oggi è stato rivelato che la produzione industriale di maggio è calata dello 0,6% rispetto ad aprile (quando era salita dell’1,1%) ancor più delle previsioni degli analisti, che speravano in un calo dello 0,1%.
Ieri il ministro italiano Giulio Tremonti ha annunciato nuove misure di aggiustamento per un valore di 40 miliardi di euro in quattro anni, anche se la maggior parte delle iniziative vengono posticipate al 2014, l’ultimo anno della manovra.
Ma qui sorgono dei dubbi, visto che si specula che Tremonti potrebbe abbandonare il governo a seguito del presunto scandalo di corruzione e il suo piano potrebbe non realizzarsi.
Concretamente, la redditività dei titoli a dieci anni è arrivata a toccare il massimo del 5,371%, facendo salire lo spread (il differenziale rispetto ai titoli corrispondenti tedeschi) dell’Italia fino al record di 247 punti, cosa che non si presentava dal 1999.
La settimana che termina oggi potrebbe essere la peggiore per le obbligazioni italiane dal maggio 2010, quando venne realizzato il primo salvataggio per la Grecia. La scorsa settimana i titoli di stato italiani rendevano il 4,8%. Inoltre, il differenziale tra le obbligazioni italiane e quelle spagnole è attorno ai 40 punti base, la metà rispetto all’inizio dell’anno.
L’Italia può contrarre la "febbre spagnola"
In questo senso, il quotidiano statunitense The Wall Street Journal assicura che l’Italia ha il rischio di contrarre "la febbre spagnola", visto che, a differenza di quello che avveniva all’inizio della crisi, il mercato ritiene che il paese governato da Silvio Berlusconi sarebbe sempre più vicino a essere il prossimo a cadere dopo Grecia, Irlanda e Portogallo.
I problemi dei due paesi sono differenti: in Spagna si tratta del passivo e della ristrutturazione del sistema finanziario, con un debito pubblico relativamente basso e una crescita timida.
Anche l’Italia ha un deficit basso, il 4,6%, ma il suo rapporto tra debito pubblico e PIL è del 119%, superato solamente da quello della Grecia ed è cresciuto anche nel periodo del boom economico.
Fino ad ora la performance migliore dei titoli di stato italiani rifletteva una minore preoccupazione del mercato per i suoi conti, dovuto in parte a una maggiore liquidità: il mercato delle obbligazioni italiane è tre volte maggiore di quello spagnolo.
Il problema, secondo il quotidiano, è che mentre la Spagna ha preso iniziative decisive per affrontare la situazione, i problemi dell’Italia si sono fatti sempre più espliciti. Ha un problema cronico di crescita e ci si aspetta che il suo debito rimanga al di sopra del 100% del PIL ancora per anni.
Inoltre, come ricorda il WSJ, il 10% del PIL di quest’anno sarà destinato al pagamento degli interessi, mentre nel caso della Spagna l’ammontare si colloca al 6%.
Infine, l’Italia deve ancora avere dal mercato circa la metà dei 222 miliardi di euro che aveva pianificato, mentre la Spagna ha una necessità di finanziamento pari a 40 miliardi.
La reazione negativa della banca al test di stress"Stiamo assistendo a una fuga verso la qualità e i paesi periferici sono sempre più sotto pressione, specialmente Spagna e Italia", ha spiegato a Bloomberg l’analista del WestLB, Michael Leister.
"L’opinione generale su Portogallo e Grecia, insieme alle necessità di riforme strutturali significative e una maggiore austerità in Italia e Spagna, stanno portando alla tempesta perfetta. I differenziali continuano a salire." In questo contesto, la banca italiana è in testa alla classifica delle discese nei mercati europei.
Questa settimana Unicredit, il maggiore istituto bancario del paese, ha chiuso con un calo del 7,85%. Gli analisi assicurano che gli investitori sono stati messi in agitazione dal documento filtrato sui test di stress, secondo il quale i paesi dovranno ricapitalizzare le banche che interrompono questo esame.
Inoltre, oggi destano preoccupazione gli ultimi dati della Bank of America, che ritiene che non queste banche riusciranno ad affrancarsi dai problemi del debito sovrano e di quelli posti da UBS, che a sua volta pensa che il settore bancario italiano avrà la peggiore performance in Europa e che per questo preferisce indirizzarsi verso banche più grandi.
Fininvest e Cir, cosa cambierà
di Francesco Manacorda - La Stampa - 10 Luglio 2011
Addio a quasi tutti i 600 milioni che la Fininvest ha oggi in cassa. E poi un probabile taglio ai dividendi - che quest’anno non sono nemmeno stati distribuiti - nel prossimo futuro.
Per i sei azionisti eccellenti della Fininvest, Silvio Berlusconi e i suoi cinque figli, la sentenza depositata ieri si traduce innanzitutto in un durissimo colpo alle finanze della holding di famiglia che controlla la Mondadori con il 50,1% del capitale, Mediaset con il 39%, il Milan integralmente ed ha inoltre il 35% di Mediolanum e altre partecipazioni finanziarie, compreso un 2% di Mediobanca.
Se Fininvest non riuscira con un improbabile colpo di scena a bloccare il risarcimento da 560 milioni nelle more del giudizio della Cassazione - i suoi avvocati sono già al lavoro per cercare di dimostrare il «grave e irrimediabile danno» che consentirebbe di non versare i soldi - quella cifra andrà infatti pagata.
E sebbene a sborsarli sarà la holding di famiglia non è difficile calcolare quanto costerà in sostanza a ciascuno dei suoi membri la sentenza. Il conto più salato, non è una sorpresa, lo paga proprio Silvio Berlusconi.
A lui fa capo il 63% della holding e quindi in teoria il risarcimento gli costerà 353 milioni.
Decisamente più leggero il colpo per i figli di primo letto Marina e Pier Silvio, entrambi titolari del 7,65% della holding: poco meno di 43 milioni per uno. Barbara, Eleonora e Luigi, nati dalle nozze con Veronica Lario, possiedono assieme il 21,4% di Fininvest: dunque poco più di 112 milioni in tre o 37,5 milioni a testa.
Cifre che fanno girare la testa, anche se nel suo complesso il maxirisarcimento ammonta a circa il 10% del patrimonio di Silvio Berlusconi e famiglia, che secondo l’ultima classifica di Forbes ammonta a poco più di 5 miliardi di euro.
Ma Fininvest rischia davvero di rimanere in ginocchio di fronte all’esborso di 560 milioni deciso dal giudice? Non sembra.
Premesso che al momento sono le banche che hanno garantito la fideiussione per 806 milioni complessivi - si tratta della capofila Intesa-Sanpaolo, Unicredit, Monte Paschi e Popolare di Sondrio - che dovranno sborsare materialmente il risarcimento alla Cir, è ovvio che in contemporanea questi istituti busseranno alla Fininvest.
La fideiussione, che non verrà sfruttata in pieno, potrebbe essere trasformata in un prestito da ripagare in un certo periodo di tempo, oppure - eventualità più probabile - rimborsata subito dalla società.
In che modo? A fine 2010, la capogruppo Fininvest aveva una liquidità appena superiore ai 500 milioni che può utilizzare agevolmente.
A questa cifra bisogna poi aggiungere l’utile dell’esercizio appena concluso: 87 milioni che sono rimasti tutti in casa visto che quest’anno - fatto eccezionale - la holding ha deciso di non distribuire dividendi alla famiglia.
Ufficialmente si è trattato di una scelta prudenziale legata al quadro economico generale. Ma di fatto la decisione di chiudere i cordoni della borsa era legata proprio all’incombere della sentenza arrivata ieri.
Con una liquidità disseccata è probabile che nei prossimi anni i dividendi Fininvest subiranno una stretta rispetto al passato. Un passato che è stato molto ricco: dal 2004 al 2009 la holding ha distribuito ai Berlusconi tutti dividendi per circa 1,4 miliardi: al ritmo di 200 milioni l’anno ci vorrebbero circa 3 anni per ricostituire la somma versata a Cir.
Visto che in casa Fininvest le risorse ci sono pare invece assai improbabile - per non dire impossibile - che per far fronte al risarcimento si decida di vendere qualcosa, ad esempio la stessa Mondadori, di cui peraltro la holding non ha il controllo totale.
Nei giorni scorsi sono girate le usuali voci di una possibile vendita del Milan, ma anche questa ipotesi cade nel vuoto nelle stanze di Fininvest dove comunque i conti in rosso del Milan - 71 milioni di perdita lo scorso anno - ora bruceranno più di prima. «La sentenza è pesantissima- commenta non a caso l’ad rossonero Adriano Galliani Berlusconi ci dirà quanto condizionerà la società».
La cassaforte dell'ingegnere: un tesoretto per acquisizioni
La Borsa già sogna, la Cir già frena. Per la holding che fa capo a Carlo De Benedetti e di cui il figlio Rodolfo è amministratore delegato la pioggia di soldi che dovrebbe arrivare a breve da parte della Fininvest significa prima di tutto uno scatto garantito domattina in piazza Affari. Di quanto?
Venerdì il titolo Cir ha chiuso a 1,789 euro, Lunedì l’attesa è che l’azione superi di gran slancio i 2 euro. In Borsa c’è chi calcola l’impatto della sentenza - con un risarcimento decisamente più alto dei 400-450 milioni previsti alla vigilia - sui titoli Cir addirittura a 0,8 euro per azione. E il mercato potrebbe tenere conto anche di un’ipotesi transazione.
A caldo nessuno ne parla, ma De Benedetti senior e Silvio Berlusconi sono prima di tutto uomini d’affari che si conoscono da una vita. Adesso che la Cir appare vincente non è escluso che le parti possano addivenire a più miti consigli: uno sconto sui 560 milioni in cambio del ritiro del ricorso in Cassazione.
Si vedrà nei prossimi mesi. Intanto i messaggi che arrivano da via Ciovassino, sede milanese dell’impero familiare, sono improntati alla massima prudenza. In primo luogo, è già stato fatto capire agli analisti finanziari, la Cir metterà da parte quei 560 milioni - o quel che resterà una volta pagate varie spese connesse al processo - e non li toccherà fino alla sentenza in Cassazione.
In senso tecnico e seguendo il criterio contabile internazionale Ias 37, significa che a fronte della cassa che entra nella società verrà postato un debito potenziale di pari entità.
La somma, dunque avrà un impatto neutro sia sul conto economico di Cir sia sulla posizione finanziaria netta. Questo per un paio d’anni, il tempo in cui è attesa la pronuncia della Cassazione, a meno che prima arrivi una transazione che oggi nessuno è in grado di prevedere.
Se poi la Cassazione confermerà i giudizi di primo e secondo grado, allora che cosa succederà? Qui le strade sono due. La Cir, colpita da improvvisa fortuna, potrebbe decidere di elargire un dividendo straordinario ai suoi azionisti. Oppure ipotesi questa considerata più probabile da chi segue la società dedicare le risorse a nuovi investimenti.
Dunque, con la cospicua cifra in cassa Rodolfo De Benedetti potrebbe dedicarsi a nuove acquisizioni. Quando ha preso il gruppo in mano le attività prevalenti erano due: l’editoria con il 55% del gruppo Espresso e la componentistica auto con il 67,4% di Sogefi.
A questi business se ne sono aggiunti altri due, costruiti partendo dal basso: l’energia, con Sorgenia di cui Cir ha il 51,9% e la Sanità con la Kos, controllata al 56,7%.
La parola d’ordine sotto la guida di Rodolfo, è quella di rafforzare i settori in cui èattiva la società: un’acquisizione nella componentistica è stata fatta da poco; con gli introiti del Lodo potrebbero arrivarne altre nella sanità o nell’energia.
E l’ipotesi di un «cedolone», che pure oggi in casa Cir viene considerata praticamente impossibile? Può essere comunque di qualche interesse calcolare in via del tutto ipotetica e simulando appunto un dividendo straordinario da parte di Cir per ridare agli azionisti il risarcimento - quanto frutterebbe l’operazione all’Ingegnere e ai sui tre figli, ossia Rodolfo, Marco ed Edoardo.
I conti, sebbene approssimativi qui non si calcolano le spese e si parla di importi lordi - sono presto fatti: maggior azionista di Cir è Cofide, con un soffio meno del 46%, dunque alla finanziaria andrebbero 257 milioni di eventuale cedola straordinaria.
Se poi anche Cofide decidesse di distribuire l’introito ricevuto dalla controllata ai propri soci, allora il 52% di quella cifra, ossia 133 milioni, andrebbero alla società in accomandita della famiglia De Benedetti, posseduta proprio dal presidente onorario della Cir e dai tre figli. Se di guerra anche personale si tratta tra Berlusconi e De Benedetti, alla fine il valore della vittoria è anche questo.
Un altro passo verso la fine
di Marcello Sorgi - La Stampa - 10 Luglio 2011
Vent’anni sono un tempo lunghissimo. E sono le differenze che colpiscono nel caso Mondadori, scoppiato, o meglio riscoppiato dopo appunto un ventennio, a seguito della sentenza civile che ha condannato Silvio Berlusconi a pagare a Carlo De Benedetti 560 milioni di euro.
Una cifra che il Cavaliere dovrà versare nelle casse della Cir come risarcimento del modo illecito con cui si assicurò, dopo aver corrotto un giudice che lo aveva favorito sul piano giudiziario, la maggior casa editrice italiana.
Vent’anni fa si trattava di una grossa vicenda economica - la contesa senza esclusione di colpi, tra due imprenditori avversari, attorno a una società che controllava, tra l’altro, uno dei principali quotidiani italiani - nella quale alla fine di un’interminabile controversia giudiziaria la politica poté entrare dall’alto, con il tradizionale ruolo di mediatrice, il volto impassibile di Andreotti e il sorriso sornione di Ciarrapico, allora uno dei manutengoli del divo Giulio, che siglò materialmente la tregua e il patto di divisione dell’azienda tra i due contendenti.
Ieri invece il dispositivo della sentenza era stato appena reso noto, che già centrodestra e centrosinistra si alzavano, in difesa o contro Berlusconi, trasformando l’epilogo fuori tempo massimo della lunga battaglia sulla Mondadori in nuova occasione di scontro.
Con la differenza che nel frattempo uno dei due protagonisti è diventato premier, ha lasciato che gli anni passassero senza mai voler affrontare il problema del conflitto tra i suoi interessi personali e familiari e il suo ruolo pubblico, e quando s’è trovato platealmente di fronte alle conseguenze dello stesso conflitto, non ha trovato di meglio che buttarla in politica, pur sapendo che questo non gli servirà a bloccare, né a limitare, i duri effetti della decisione dei giudici.
Berlusconi fin dalla vigilia della sentenza, che s’annunciava nefasta per lui, ha voluto dare la sensazione che la magistratura civile, che considera avversa come e forse più di quella penale da cui si sente perseguitato, stavolta aveva scelto lo strumento della rovina economica per farlo fuori.
Intendiamoci: il mezzo miliardo e più di euro che De Benedetti, già domattina, per tramite di una banca, potrebbe ritirare dalle casse della Fininvest - in forza di una fideiussione concordata dopo la condanna di primo grado - è una cifra che fa spavento.
Mal contati, sono mille miliardi delle vecchie lire. Ma non è, come il Cavaliere vuol far credere, e come la figlia Marina, presidente della Mondadori, ha ripetuto, un colpo tale da portare l’azienda di famiglia al fallimento.
Inoltre Berlusconi ha a disposizione ancora un grado di giudizio, e se la Cassazione dovesse capovolgere il verdetto, la somma potrebbe anche tornare indietro.
Perché allora padre e figlia, con il coro politico di un centrodestra ormai quasi completamente appiattito sugli interessi familiari della casa di Arcore, hanno scelto di drammatizzare?
Per una ragione chiarissima: essere colpito nei soldi è per Berlusconi la più inaccettabile delle pene, un danno materiale e insieme d’immagine, uno sfregio al mito, ormai calante, dell’uomo del fare che ha costruito la sua fortuna sul proprio talento e sui suoi sogni.
Se infatti si viene a scoprire che ben altre sono le fondamenta di quel patrimonio, la sua stella potrebbe declinare anche più rapidamente di quanto sta avvenendo da mesi.
Questo spiega perché il Cavaliere si sia preoccupato maggiormente di questo aspetto, che non della patente di «corruttore» che la sentenza dei giudici di Milano gli ha cucito addosso la prima volta nero su bianco. Un giudizio terribile, per un leader che si propone di restare alla guida dell’Italia per altri due anni. Ma sul quale, sorprendentemente, il premier sorvola.
Berlusconi ha fatto così un altro passo verso la fine della sua parabola, che giorno dopo giorno sembra avvicinarsi inesorabilmente. Forse dovrebbe cominciare a riflettere seriamente sull’opportunità di aspettarne a qualsiasi costo la conclusione.
Dopo una settimana in cui la richiesta di arresto di uno stretto collaboratore di Tremonti ha fatto traballare per un’intera giornata l’incerto equilibrio economico del Paese, sono imprevedibili le conseguenze della sentenza civile di secondo grado (pronunciata non a caso a mercati chiusi) in cui il premier, al sodo, è stato condannato per corruzione. Ma non porteranno certo nulla di buono.
Expo e ‘ndrangheta, la sicurezza il vero affare. “Qui minimo minimo ci vogliono 500 uomini”
di Davide Milosa - Il Fatto Quotidiano - 9 Luglio 2011
Il particolare emerge dalla requisitoria del pm Alessandra Dolci che ieri ha chiesto mille anni di condanne per 118 imputati nel processo Infinito sull'infiltrazione delle cosche in Lombardia. Dalle pieghe dell informative emerge così il nuovo progetto dei clan per spartirsi la torta dell'Esposizione universale
Ma quale edilizia. Per Expo 2015 la ‘ndrangheta punta sul comparto della sicurezza. Cinquecento uomini come minimo. Con appalti da frazionare. Cinque euro al giorno. “Sai quanto soldi sono”. La frase sta in calce al mai abortito progetto della mafia calabrese di aggiudicarsi una fetta della torta più golosa che la Lombardia abbia mai visto.
Il dato, ad oggi rimasto tra le pieghe delle informative, emerge dalla requisitoria del pm Alessandra Dolci nel processo con rito abbreviato che vede imputati 119 presunti affiliati alle cosche calabresi. Proprio ieri il magistrato della Direzione distrettuale antimafia ha chiuso il suo intervento snocciolando richieste di condanna per mille anni di carcere. tutto come da programma.
Tranne per l’assoluzione (chiesta dall’accusa e sulla quale dovrà decidere il gup Roberto Arnaldi) a favore di Antonio Oliverio, ex assessore nella giunta provinciale di Filippo Penati e definito dal gip Giuseppe Gennari “il capitale sociale dei clan”.
La definizione, mutuata dalla sociologia, è stata più volte ripresa dallo stesso magistrato, che nella seconda tranche della sua requisitoria, andata in scena il 28 giugno scorso nell’aula bunker di via Uccelli di Nemi a Ponte Lambro, ha compulsato le migliaia di pagine dell’inchiesta.
“Cinquecento faldoni – ha esordito – per un procedimento obbiettivamente gigantesco”. Uno tsunami di carte dove “è difficile per me riuscire a raccapezzarmi e devo dire, giudice, che sinceramente non invidio il suo compito”.
Dopodiché ha tenuto la barra fissa sul cosiddetto “capitale sociale” dei clan. “Noi – ha spiegato la Dolci – dobbiamo vedere la ‘ndrangheta come una organizazione che ha una forte coesione interna, ma che vive anche di una rete relazionale verso l’esterno”. Eccolo qua, allora, il capitale sociale costituito da politici, faccendieri, imprenditori.
Tradotto: la zona grgia che da sempre anima i rapporti tra la mafia e le istituzioni. E dunque “solo cogliendo questo aspetto noi riusciamo a capire cos’è la ‘ndrangheta piuttosto che Cosa nostra”.
Esempi? Il magistrato cita il nome di Pietro Pilello “noto commercialista, presidente del Collegio sindacale di varie società a partecipazione pubblica tra cui l’Ente Fiera”. Cosa fa dunque questo Piello che non risulterà però indagato? “Invita Cosimo Barranca (capo della locale di Milano) a una manifestazione elettorale”.
Ma c’è anche la vicenda Bertè. “Vogliamo renderci conto – dice il pm – che c’è qualcosa di veramente singolare nel caso di un direttore sanitario di una casa di reclusione (…) che va da persona a lui nota come mafiosa perché si vuole buttare in politica”. Il boss in questione è Rocco Cristello, ucciso a Verano Brianza il 27 marzo 2008.
Per non parlare di Giuseppe Romeo, colonnello dei carabinieri, all’epoca dei fatti in servizio presso il Comando provinciale di Vicenza. Sintetizza il pm: “Si incontra più volte con Strangio“. Perché? “Strangio ha un problema: i camion della Perego lungo la statale valtellinese vengono fermati troppo spesso dalla Stradale”.
E favore per favore, Romeo confessa al boss una sua aspirazione: “Candidarsi alle elezioni europee del 2009″. Immediata la risposta: “Non ti preoccupare ti faccio conoscere una persona”. Di chi parla? “Di Massimo Ponzoni, all’epoca assessore regionale all’Ambiente”. Prosegue l’accusa: “Strangio e Romeo entrano negli uffici del Pirellone”.
E’, dunque, in questo quadro che emerge la nuova questione sugli affari di Expo 2015. E non solo. Si tratta di alcune intercettazioni contenute nell’inchiesta Bad Boys che nel 2009 ha dato scacco alle cosche di Cirò Marina, per anni egemoni nel Varesotto. Il 4 luglio scorso il tribunale di Busto Arsizio ha condannato 17 persone. Undici anni sono andati al boss Vincenzo Rispoli, coinvolto anche nell’indagine Infinito.
L’intercettazione, letta dal pm, è attribuita a Emanuele De Castro che per conto della ‘ndrina gestisce la cosiddetta bacinella. “Siamo interessati alla sicurezza – dice il luogotenente del boss – . Poco poco ci vorranno minimo 500 persone. Cinquecento uomini di sicurezza”.
Risponde Rispoli: “Se tu su un appalto di questo ci guadagni 5 euro l’uno al giorno, vedi che cifre che si fanno”. Dopodiché discutono sul come ottenere appalti. “Un appalto diretto è impossibile che ce lo danno a noi. E quindi abbiamo bisogno di una serie di ditte tra virgolette pulite”.
Nel discorso entra anche il nome di un industriale che ha promesso dei lavori alla ‘ndrangheta. “Qualche ditta grossa ce l’ha pure lui – dice Belcastro – . Questo addirittura ha detto che ci fa parlare con Ligresti“.
Insomma, i boss sanno perfettamente di non poter vincere direttamente i maxi-appalti di Expo. Ecco, allora, la sponda del capitale sociale. Un grande investimento. Tanto più che i politici si accontentano di molto poco. Diecimila euro di matite per la campagna elettorale bastano e avanzano.
Il gioco è semplice. E lo è ancora di più per le società partecipate. Qui, addirittura, i boss fanno assumere propri uomini. “Questo fa sì – dice il pm – che una serie di commesse siano dirottate alle imprese legate alla ‘ndrangheta”.
E’ il caso del boss di Bollate Vincenzo Mandalari e della municipalizzata Ianomi. Lo stesso boss, legato alla potente cosca di Guardavalle, arriverà addirittura a costruire una sua lista politica per condizionare le elezioni comunali del 2010.
Un progetto che viene rubricato in un capo d’accusa: ostacolo del libero esercizio del diritto di voto. Reato non confermnato dal gip. Lo stesso progetto di Bollate lo ritroviamo a Seregno, quando il boss locale Pio Candeloro apparecchia la candidatura di Eduardo Sgrò.
Entrambi sono imputati nel processo Infinito. Nel marzo 2010, però, Candeloro si occupa di strategie politiche. “Quando sono le elezioni fammi parlare a me”, spiega in un italiano improbabile. “Perché lui deve sfondare e deve essere lui a dirigere”.
Poi precisa e svela: “Dobbiamo essere noi a dire chi va a fare cosa”. Quindi rassicura: “Parolo io con Mazzacuva (presidente del Consiglio comunale), parlo io con Pon…”.
Politica e ‘ndrangheta, dunque. In vista di Expo. Ma non solo. Lo scenario inquieta e le parole del pm aggiungono particolari decisivi a un quadro già in parte delineato dalle carte dell’inchiesta del 13 luglio scorso.
Oggi, però, a un anno di distanza da quel blitz clamoroso, dentro a 500 faldoni, ritroviamo nuove spigolature. Sulle quali pesa la richiesta di archiviazione per uno dei tanti politici citati nelle informative della polizia giudiziaria. Una scelta inspiegabile alla luce soprattutto dell’ordinanza firmata dal gip.
E, dunque, delle due l’una: o si tratta di una resa della magistratura davanti alla sentenza Mannino che ha svuotato quasi totalmente il reato di concorso esterno, oppure siamo davanti a una strategia in vista di possibili nuove inchieste.