Qui di seguito una serie di articoli su quello che solo fino a un anno fa era spacciato come il nuovo Eldorado, il nuovo paradiso del lusso e dell'investimento immobiliare. Dubai.
Ma la crisi economica globale sta finalmente mostrando il vero volto di questo Emirato: una landa desertica mostruosamente cementificata, completamente artificiale, spaventosamente energivora e abitata per 3/4 da immigrati occidentali di lusso - che ora, licenziati dall'azienda per cui lavoravano, stanno letteralmente scappando dal Paese per evitare di finire in galera non potendo più pagare il mutuo dell'appartamento - e da immigrati asiatici resi a tutti gli effetti schiavi e prigionieri ricoperti di sabbia.
Sabbia destinata a ricoprire in futuro anche ciò che è già stato costruito e le costruzioni bloccate in cantiere. La sabbia riconquisterà i suoi spazi.
Dubai, la truffa del secolo
di Mazzetta - Altrenotizie - 4 Giugno 2009
Se avete investito denaro in un immobile a Dubai, è il momento di preoccuparvi e di fare un paio di controlli. Un gruppo di investitori britannici è stato infatti truffato alla grande da un'azienda partecipata addirittura dalla famiglia reale. Complessivamente il gruppo di inglesi ha investito qualche centinaio di milioni di dollari per l'acquisto di appartamenti in alcuni palazzi che non esistono.
Gli hanno solo fatto vedere le foto, come nemmeno in una Totòtruffa. Le Ebony 1, Ivory 1 and Ivory 2 non esistono, agli inglesi sono state mostrate le foto di altre costruzioni simili nell'area della Al Fajer Properties, che raffiguravano il Jumeirah Business Centre Towers; peccato che al posto delle tre torri vendute agli inglesi ci sono invece tre buchi per terra senza nessuno al lavoro. Gli inglesi gridano alla truffa, ma non se li fila nessuno. Hanno pensato bene di andare a Dubai e di aprire uno scandalo. Niente, l'albergo dove dovevano tenere la conferenza stampa alla fine ha detto di no e in tutta Dubai, pur svuotata dalla crisi, non si è trovato un angolo disponibile. Il bello è che la pubblicità delle torri è passata anche alla televisione di Dubai, ma nessuno ha avuto niente da ridire su quelle torri che invece non esistevano.
Un discreto campanello d'allarme anche per i nostri connazionali; da tempo le agenzie immobiliari propongono “investimenti” a Dubai anche nel nostro paese, qualcuno che ha comprato ci sarà. La Al Fajer, che da sei mesi non risponde agli investitori, è partecipata dalla famiglia reale, così gli investitori preferiscono per ora chiedere rispettosamente di essere risarciti, piuttosto che far causa alla famiglia reale nel tribunale che dipende dalla famiglia reale.
Scontato l'epilogo, riferito da un giornalista locale sotto pseudonimo: “Avevo già scritto metà dell'articolo, quando è arrivato l'ordine dall'editore di lasciar perdere”. Se c'è una cosa sulla quale può contare la famiglia reale è un marmoreo consenso tra i nativi, beneficiati da un welfare lussuoso e affascinati dalla transizione dalla tenda al grattacielo nello spazio di due generazioni.
Quando un reportage dell'inglese Johan Hari ha illuminato la crisi di Dubai, ma soprattutto la sua miseria morale, decine di abitanti degli emirati hanno intasato i forum dei siti che l'avevano pubblicato per cantare la gloria di Sua Eccellenza e spiegare quanto l'Occidente farebbe bene a guardare in casa propria. Nessuno ha però negato o confutato il racconto della schiavitù dei lavoratori di basso profilo e nemmeno i grandi scandali che stanno facendo crollare il miraggio nel deserto. Ovviamente l'articolo della Hari è stato censurato sull'internet degli emirati, come accade a tutto quello che rema contro e alla giornalista è stato proibito di tornare a Dubai.
Nonostante la propaganda, Dubai e gli Emirati in senso più ampio sono forse la truffa più grande della storia recente. La federazione di sceiccati è infatti un buco nero, anche se a lungo è stata spacciata per un paradiso di modernità e libertà nel Golfo. Nel paese vive una minoranza autoctona che non raggiunge il quinto della popolazione residente, gli altri sono tutti immigrati. Questi si dividono a loro volta in due categorie: gli immigrati dal primo mondo, che godono di relativa libertà e sono serviti e riveriti, e gli immigrati dal terzo mondo, costretti in condizioni di assoluta schiavitù.
Negli Emirati si pratica estesamente la tortura, come hanno dimostrato numerosi video diffusi recentemente, nei quali il principe Issa bin Zayed al Nahyan si dilettava in un numeroso campionario di angherie insieme alla polizia: frustati, percossi, sodomizzati con un pungolo elettrico per il bestiame, schiacciati con il SUV dello sceicco e molto altro ancora; questo capita a chi finisce nelle galere dello sceicco. Guantanamo sembra Disneyland al confronto. Niente di strano, gran parte degli immigrati negli Emirati vivono come schiavi, pagati qualche decina di dollari al giorno, reclusi tra i cantieri e dormitori nel deserto, in balìa dei datori di lavoro che sequestrano loro il passaporto all'arrivo e anche se la legge lo vieta, la prassi locale non ne risente.
Veloci a varare leggi più avanzate per attirare il business, a Dubai sono altrettanto veloci a dimenticarsene. Anche nel caso dello sceicco torturatore il governo ha prima detto che “sono state seguite tutte le procedure di polizia”, ma è stato altrettanto veloce ad assicurare che “ci sarà un'inchiesta” (lenta) quando le lamentele internazionali avevano cominciato a tracimare sui media.
Tutto a Dubai sembra errore, la stessa concezione della città è insostenibile, l'impronta ecologica di un cittadino di Dubai è sette volte quella di un abitante di New York. La metropoli nel deserto non ha acqua, che è tutta dissalata, pescata dallo stesso mare nel quale finiscono i liquami non trattati di quanti poi berranno quell'acqua. Il problema degli scarichi e dei rifiuti è tanto incombente che negli ultimi anni l'emirato ha chiesto aiuto al mondo. Sono arrivati in soccorso anche dal comune di Palermo, che ha speso negli ultimi anni trecentomila euro per mandare il sindaco e altri in “missione”. Una farsa nella farsa. L'Amia palermitana avrebbe concorso a un bando per la raccolta differenziata, della quale non ha nessuna esperienza, a Palermo l'hanno mai vista. C'è solo da sperare che anche i “funzionari” palermitani abbiano seguito l'esempio degli astuti britannici e che abbiano investito del proprio altrettanto malamente.
All'insostenibilità ambientale si è aggiunta quella finanziaria, Dubai si è rivelato l'ennesimo schema di Ponzi, una piramide finanziaria destinata prima o poi a scoppiare. Tutto indica che sia scoppiata e che si sia al “si salvi chi può”, visto che nemmeno il sostegno finanziario dei vicini di Abu Dhabi sembra in grado di salvare il nuovo Eldorado dal fallimento. A Dubai hanno casa buona parte delle elite mondiali, molte corporation vi hanno trasferito la sede legale per godere delle tasse particolarmente ridotte e le imponenti realizzazioni immobiliari hanno attirato il jet set mondiale, con una forte presenza mediorientale ed asiatica. Ma anche l'Occidente ha piantato la sua bandiera, gli inglesi sono la potenza coloniale di riferimento e sovrintendono ai regolamenti di borsa, gli americani sono sbarcati con Halliburton e altri pezzi pesanti. La crisi di Dubai preoccupa molti, anche se ne parlano in pochi.
Il miracolo ha piedi d'argilla, se non di sabbia. Per trasformare Dubai nel paradiso dell'opulenza, c'è stato bisogno di una quantità imponente di capitali e di credito e, quando i capitali si sono rarefatti, hanno venduto le foto dei palazzi, rastrellando altri capitali con i quali coprire investimenti in perdita e completare costruzioni già avviate. Oggi Dubai vede i cantieri fermi e gli espatriati cercano di uscire dall'avventura nel modo meno doloroso. Tanti di loro si sono indebitati nel paese, per comprare un appartamento che ora non vale niente o anche solo per un'auto.
Quando un'azienda chiude, il più delle volte dalla sera alla mattina, è obbligata ad informare la banca del proprio dipendente, che a quel punto chiude le linee di credito e chiede la restituzione dei finanziamenti. Licenziati, ci si trova senza carte di credito e con la banca che vuole tutto e subito e con l'azienda che nella maggior parte dei casi non versa nemmeno la liquidazione pattuita. A Dubai se non paghi i debiti finisci in galera, usanze locali e prudenza, perché essendo quasi tutti stranieri una volta scappati all'estero è difficile recuperare i crediti. Così in tanti, non appena ricevono la notizia del licenziamento, si fiondano all'aeroporto e scappano su due piedi. Migliaia di automobili sono rimaste abbandonate con le chiavi sul cruscotto all'aeroporto, a volte con un biglietto di scuse per il disturbo.
L'aeroporto più grande del mondo, la torre più alta del mondo, isole artificiali, sequenze interminabili di centri commerciali, l'aria condizionata più pervasiva del mondo, oggi non valgono niente, sono solo la misura di un passo troppo lungo per le gambe degli emiri. In un anno Dubai ha perso la metà del suo valore immobiliare e non è ancora finita, perché rischia la compagnia aerea, si ribellano gli schiavi e si diffondono i racconti dei professionisti espatriati che passano dalla favola all'incubo e finalmente si accorgono che le leggi del paese sono scritte sulla sabbia e che tutto quella gente al loro servizio ha gli stessi diritti di uno schiavo, di quanto fosse profonda la tana del Bianconiglio.
L'ultima notizia in ordine di tempo è l'apertura di una base francese negli Emirati Arabi. La Francia, faro della Rivoluzione laica e araldo di diritti umani, rispolvera la sua politica neo-coloniale e corre così in soccorso degli Emirati Arabi Uniti, uno dei paesi nei quali i diritti umani sono meno rispettati al mondo. La cosa è rilevante e a suo modo strana, perché si tratta della prima base francese permanente in Medio Oriente a segnalare un cambiamento del profilo della politica estera francese che merita di essere indagato.
Napoleone-Sarkozy ha fatto il pieno in Dubai, ha venduto parecchi Airbus, centrali nucleari e tecnologia e adesso costituisce la “Base de la Paix” o “Peace camp” all'inglese, con cinquecento uomini stanziati a proteggere il business. Se qualcuno volesse eccepire sulla vendita di tecnologia nucleare a paesi “islamici”, è pregato di soprassedere. Se Europa e Stati Uniti hanno deciso l'abbandono del nucleare, hanno anche ingaggiato una corsa a chi vende più centrali ormai obsolete e antieconomiche ai paesi meno sviluppati. Una nemesi per Dubai, che si troverebbe così a dipendere dall'estero per le forniture energetiche e per la tecnologia.
Ufficialmente la base serve a fronteggiare la “minaccia iraniana”. L'Iran però non minaccia per niente gli emirati, ai quali contende da tempo solo un paio di scogli per nulla accoglienti e dal dubbio valore strategico. Sulla “minaccia iraniana è tempo di mettersi d'accordo: ammesso e non concesso che l'Iran abbia voglia di aggredire qualche vicino, non si capisce come gli stessi che sostengono che “l'Iran vuole distruggere Israele”, possano poi sostenere che l'Iran ha l'intenzione di aggredire la Penisola Arabica senza mettersi a ridere. La presenza francese è comunque una variabile che viene ad aggiungersi in un teatro già teso, non se ne sentiva davvero il bisogno.
Più realisticamente gli emiri hanno fatto due conti e in vista dei robusti contenziosi che presto si apriranno con mezzo mondo, hanno pensato bene di cercare un nuovo protettore e l’hanno trovato in Francia, dove Sarkozy è a suo agio nel giocare al piccolo apprendista stregone e che in patria non ha trovato obiezioni alle robuste forniture. Evidentemente i francesi ritengono ancora solvibili gli emirati o comunque si pensano nel ruolo di creditori privilegiati. Tuttavia gli emiri avranno l'energia atomica che serve a far funzionare il paese, ma tra venti anni il petrolio sarà finito e allora per pagare le centrali, l'uranio e i debiti rimasti bisognerà alzare le tasse, come minimo, le contraddizioni a Dubai non si risolvono, semmai aumentano.
Resta da vedere come la prenderanno le altre diplomazie, visto che non c'è traccia di discussione non è dato sapere nemmeno se lo sbarco dei francesi nel Golfo Persico sia gradito alla UE, al Dipartimento di Stato e al Foreign Office, dove quella che Sarkozy chiama “competizione sana” potrebbe essere interpretata come una fuga in avanti. Dettagli, la politica oggi vive sull'emozione di un attimo, inutile pensare a cosa potrà essere tra dieci o venti anni, anche se una centrale nucleare è per sempre e se l'eco del tonfo di Dubai risuonerà ancora a lungo.
La crisi travolge i "workers" di Dubai
di Elisabetta Norzi - Peacereporter - 30 Aprile 2009
Oltre millecinquecento visti cancellati ogni giorno. E' il ritmo con cui, a Dubai, i lavoratori stranieri vengono licenziati. E se a rimane sere senza lavoro, finora, erano stati soprattutto i professionisti più pagati - ingegneri, architetti, manager occidentali -, adesso la crisi sta travolgendo i workers.
Così vengono chiamati in città tutti gli immigrati indiani, pakistani, afgani, bangladesi, filippini che svolgono i lavori meno qualificati e che hanno uno stipendio massimo di 200 euro al mese. I numeri, finalmente, sono stati parzialmente confermati anche dal governo dell'emirato, che ha fatto di tutto per nascondere le difficoltà di Dubai: il ministero del Lavoro ha parlato di più di 400mila permessi di soggiorno annullati dallo scorso ottobre ad oggi.
Subito dopo, però, è arrivata puntuale la smentita: ''la popolazione non sta diminuendo a causa della crisi - ha sottolineato il ministro del lavoro Saqr Ghobash -; molti stranieri in questo periodo sono semplicemente stati mandati a casa per una vacanza, solo il tempo di fare ripartire a pieni ritmi l'economia: a fronte dei permessi cancellati, ci sono oltre 600mila nuovi visti rilasciati''. Un dato, quest'ultimo, non confermato da nessuno dei report delle banche né dalle ricerche delle agenzie di consulenza, che parlano invece di una diminuzione della popolazione del 17 percento, su un totale di circa due milioni di abitanti.
Ma non sono indispensabili i numeri per capire che la crisi ha travolto Dubai: ai bordi delle strade i cantieri sono fermi, le gru abbandonate, il traffico è scomparso e i supermercati, in tutti i quartieri della città, si sono svuotati. I prezzi degli alloggi, poi, soprattutto nelle zone abitate dagli occidentali come Springs o Jbr, sono crollati: una villetta bifamiliare con due stanze da letto, da oltre 3mila mila euro al mese è scesa a duemila. L'emiro di Abu Dhabi è intervenuto per garantire il completamento delle infrastrutture cominciate, come la metropolitana che dovrebbe essere inaugurata il prossimo settembre e la rete stradale che in città non è ancora finita. Gli altri nuovi progetti, invece, per il momento sono fermi: interi quartieri, già disegnati e alcuni anche per metà costruiti, rischiano di rimanere scheletri di cemento.
Il paradosso è che i migranti arrivati a Dubai per sfuggire dalla povertà dei propri paesi d'origine, ora fanno fatica anche a tornare a casa. ''La situazione è la stessa per molti miei amici, operai nei cantieri edili di Dubai - racconta Melanie, originaria delle Filippine che lavora per un'impresa di pulizie come domestica per 160 euro al mese-: non hanno i soldi per tornare nei loro paesi perché le aziende non hanno pagato gli stipendi degli ultimi mesi''.
E tutele, da parte dello stato o delle imprese, non ne esistono. Il consolato indiano e quello filippino hanno dichiarato di essere sommersi dalle richieste di aiuto di lavoratori che non hanno i soldi per il biglietto aereo di ritorno nelle loro città. Al momento sono le ambasciate a farsene carico: hanno messo a disposizione alcuni appartamenti e posti letto per chi è rimasto senza casa, coprono le spese di vitto e alloggio, e organizzano charter verso Manila, Delhi, Mumbai o Calcutta. ''Anche nel mio campo, quello delle pulizie - prosegue Melanie -, cominciano ad arrivare segnali di crisi: la mia società lavora solo per gli ‘expat', gli occidentali, non per i locali che pagano male e maltrattano le ragazze filippine. Moltissimi occidentali stanno però andando via da Dubai e abbiamo sempre meno clienti. Speriamo che la città non si svuoti del tutto, altrimenti anche io sarò costretta a tornare a casa. Il mio stipendio è basso, ma riesco a mandare comunque un po' di soldi a casa, per mio figlio che è rimasto nelle Filippine con i nonni. E là il lavoro proprio non si trova''.
Il lato oscuro di Dubai
di Johann Hari - The Independent - 7 Aprile 2009
Tradotto per www. comedonchisciotte.org da Mauro Morellini. La presente traduzione è un estratto dell'articolo originale
La grande faccia sorridente dello sceicco Mohammed, il padrone incontrastato di Dubai, splende sulla sua creazione. La sua immagine è in bella mostra sulla facciata di un edificio su due, alternata a quelle più familiari di Ronald Mac Donald e del Colonnello Sanders (di Kentucky Fried Chicken, ndt).
Quest’uomo ha venduto Dubai al mondo come la città dalle mille e una luce, una Shangri-la del medio oriente, isolata dalle tempeste di sabbia che imperversano sulla regione. Egli domina dall’alto la skyline in stile Manhattan, spuntando da file su file di piramidi di vetro e hotel che ricordano torri fatte con monete d’oro. Lo ritroviamo lì, sull’edificio più alto del mondo, uno spunzone lanciato verso il cielo più di ogni altra costruzione dell’uomo nella storia.
Ma il sorriso dello sceicco Mohammed ha perso un po’ di smalto ultimamente. Le onnipresenti gru si sono prese una pausa nel panorama, come ferme nel tempo. Ci sono innumerevoli edifici fermi a metà, all’apparenza abbandonati.
Nelle costruzioni più scintillanti, come l’enorme hotel Atlantis, un gigantesco castello rosa, edificato in 1000 giorni ad un costo di più di un miliardo di euro su un isola artificiale costruita ad hoc, l’acqua piovana filtra dal soffitto e le tegole si staccano dal tetto.
Questa terra da favola e’ stata costruita su un sogno e adesso cominciano a vedersi le crepe.
Improvvisamente sembra assomigliare un po’ meno ad una Manhattan al sole e un po’ più ad una Islanda nel deserto. Ora che la folle esplosione dei cantieri si è fermata ed il vento sta girando, i segreti di Dubai stanno lentamente emergendo. Questa è una città costruita da zero nell’arco di pochi decenni selvaggi di macro-credito e di uccisione dell’ecosistema, di soprusi e di schiavitù. Dubai è una metafora vivente di vetro e metallo del neo-liberismo globalizzato che può finire la sua folle corsa schiantandosi contro la storia.
Erba rotolante
30 anni fa quasi tutta la Dubai che oggi conosciamo, era deserto, abitato solo da cactus, erba rotolante e scorpioni; ma nel centro città ci sono ancora delle tracce della cittadina che c’era una volta, nascosta dal vetro e dal metallo. Nel polveroso fortino del Dubai Museum viene raccontata una versione edulcorata della sua storia: verso la metà del diciottesimo secolo fu costruito qui, nel basso golfo persico, un piccolo villaggio i cui pochi abitanti pescavano perle non lontano dalla costa. Qui si formò in breve tempo una popolazione cosmopolita, arrivata dalla Persia, dal subcontinente indiano e da altri paesi arabi, attratta dal sogno di fare fortuna. Diedero al villaggio il nome di una vorace cavalletta locale, la Daba.
Il villaggio fu presto preda delle navi da guerra dell’impero britannico che lo mantenne con la forza fino al 1971. Quando gli inglesi se ne andarono, Dubai decise di allearsi con i 6 statarelli confinanti per formare gli Emirati Arabi Uniti.
Le navi inglesi salparono per sempre proprio quando i giacimenti di petrolio stavano per essere scoperti e gli sceicchi che improvvisamente si ritrovarono al potere dovettero subito affrontare un enorme dilemma: erano per lo più nomadi analfabeti che avevano vissuto finora portando carovane di cammelli attraverso il deserto e adesso galleggiavano su oro puro; cosa ci avrebbero fatto?
Dubai aveva solo un rivoletto di petrolio in confronto alla vicina Abu Dhabi, perciò lo sceicco Maktoum decise di usarne i proventi per creare qualcosa di durevole. Avrebbe costruito una città che sarebbe stata il cuore mondiale del turismo e dei servizi finanziari, succhiando contanti e talenti da tutta la terra. Attirò il mondo con la promessa del Tax-free e risposero in milioni, sommergendo la popolazione locale che adesso forma solamente il 5% degli abitanti di Dubai, una città che sembra essere piovuta dal cielo, fatta e finita in soli 3 decenni. C’e’ stato uno scatto in avanti dal diciottesimo al ventunesimo secolo nell’arco di una generazione.
Se prendete il “Big Bus Tour of Dubai”, vi viene somministrata la versione ufficiale di come tutto questo sia successo: “Il motto di Dubai e’ ‘porte aperte, menti aperte’” vi dice la guida in toni studiati prima di depositarvi al suk a comprare copri-teiere di pelo di cammello. “Qui siete liberi”. “Di acquistare artigianato”, aggiunge.
Passando accanto ad ogni edificio monumentale, vi dice “Il world Trade Center è stato costruito da Sua Altezza..”.
Ma è una bugia.
Non l’ha costruita lo sceicco questa città. L’hanno costruita gli schiavi.
La stanno costruendo proprio ora.
Nascosti in bella vista
Esistono 3 diverse Dubai, sebbene ben intrecciate fra loro.
Ci sono gli Expats, gli occidentali ben remunerati.
Ci sono gli emirati, come lo sceicco Mohammed;
e poi c’e’ la sottoclasse straniera, quella che ha costruito la città e che è intrappolata qui. Sono nascosti in bella vista.
Li vedi ovunque, nelle loro impolverate uniformi blu, mentre vengono aggrediti con urla dai loro superiori, ma si è allenati a non guardare.
Senti sempre lo stesso Mantra: “Lo sceicco ha costruito la città, lo sceicco ha costruito la città”.
“Operai? Che operai?”
Ogni sera le centinaia di migliaia di giovani che hanno davvero tirato su Dubai vengono stipati negli autobus e portati dai loro cantieri fino ad una vasta distesa di cemento a circa un’ora dalla città, dove vengono tenuti in disparte. Fino a pochi anni fa venivano trasportati su carri bestiame ma poi gli Expats si lamentarono dicendo che non era un bello spettacolo, così ora vengono smistati su piccoli autobus di metallo che fungono da serre nel caldo del deserto: lì dentro sudano come spugne mentre vengono lentamente sbatacchiati.
Sonapur è un mosaico di miglia e miglia di identiche costruzioni di cemento divise da strade piene di calcinacci. Intorno a 300.000 uomini vivono uno sull’altro in questo posto che in Hindi significa “Città d’oro”.
Nel primo campo in cui mi fermo, sconvolto dall’odore di fogna e di sudore, gli uomini si accalcano, impazienti di raccontare a qualcuno quello che stanno passando.
Sahinal Monir, un ventiquattrenne magro originario della regione dei delta del Bangladesh mi dice:”Per portarti qui ti dicono che Dubai è il paradiso. Poi ci arrivi e ti rendi conto che è l’inferno”. 4 anni fa un “reclutatore” arrivò nel villaggio di Sahinal nel sud del Bangladesh.
Raccontò agli uomini del villaggio di un posto dove si guadagnava 40.000 takka al mese (€ 450) per lavorare dalle 9 alle 17 in cantieri edili. Un posto dove si veniva trattati bene, alloggio confortevole e cibo abbondante. Dovevano solo comprarsi un visto di lavoro del costo di 220.000takka (€2500) che avrebbero potuto ripagare facilmente in 6 mesi. Così Sahinal vendette la terra della sua famiglia e prese altri soldi in prestito per raggiungere questo paradiso.
Appena arrivato, il suo passaporto fu preso in consegna dalla sua ditta. Non l’ha più rivisto da allora. Gli dissero con maniere brusche che da quel momento in poi avrebbe lavorato 14 ore al giorno nel caldo del deserto - dove ai turisti occidentali è consigliato di non stare all’aperto neanche 5 minuti in estate quando le temperature raggiungono i 55° - per uno stipendio di 500 dirham al mese (€ 105), meno di ¼ della paga promessa.
“Se non ti piace vattene a casa”. “Ma come faccio, il mio passaporto ce l’avete voi e non ho i soldi per il biglietto”. “Beh, allora ti conviene lavorare” gli risposero. Sahinal fu preso dal panico. La sua famiglia, moglie, un figlio ed una figlia, i suoi genitori, erano tutti in attesa delle sue rimesse, orgogliosi del fatto che il loro ragazzo ce l’avesse fatta. Ma lui avrebbe dovuto lavorare per più di 2 anni solo per pagare il costo di essere arrivato qui; e il tutto per guadagnare meno di quello che prendeva in Bangladesh.
Mi mostra la sua camera: una minuscola cella di cemento con letti a castello a tre piani che divide con 11 compagni. Tutte le sue proprietà sono ammassate sulla sua cuccetta: 3 magliette, un paio di pantaloni di ricambio e un cellulare. La stanza puzza perché i bagni nell’angolo del campo, meri buchi nella terra, traboccano di escrementi e di nuvole di mosche. Non c’è aria condizionata e nemmeno ventilatori, per cui il caldo è insopportabile. “Non si riesce a dormire, tutto ciò che fai è sudare e grattarti tutta la notte”. Nel picco del caldo estivo la gente dorme per terra, sul tetto, dovunque possa sperare di trovare un minimo di brezza.
L’acqua che portano nel campo in grandi contenitori bianchi non è totalmente desalinizzata; sa di sale. “Ci fa star male, ma non c’è niente altro da bere” mi dice.
“Il lavoro fa schifo” dice. “Devi portare mattoni e blocchi di cemento da 50kg sotto il sole cocente. Questo calore, non puoi capire. Sudi così tanto che non riesci a pisciare per giorni o settimane addirittura. E’ come se tutto il liquido ti uscisse dalla pelle e ti fa puzzare. Ti gira la testa ma non puoi fermarti mai, eccetto un’ora di pomeriggio. Sai che se ti cade qualcosa dalle mani o se scivoli, corri il rischio di morire, ma le ore che non lavori perché stai male ti vengono decurtate dallo stipendio e resti intrappolato qui più del dovuto.
Adesso sta lavorando al 67° piano di un nuovo scintillante grattacielo da dove costruisce verso l’alto, verso il cielo, verso il caldo. Non ne conosce il nome. Nei suoi 4 anni qui non ha mai visto la Dubai conosciuta dai turisti di tutto il mondo. Conosce solo quella che costruisce piano per piano. E’ “arrabbiato”? Rimane in silenzio per un po’. “Qui nessuno tira fuori la rabbia, non si può. Ti arrestano e ti tengono dentro a lungo prima di deportarti. L’anno scorso dei lavoratori hanno scioperato perché non li pagavano da 4 mesi. La polizia di Dubai ha circondato il loro campo con filo spinato e cannoni ad acqua spedendoli a lavorare con la forza. I capi della rivolta sono stati sbattuti in galera”.
Provo con un’altra domanda: Sohinal si pente di esser venuto? Tutti gli uomini guardano in terra imbarazzati: “Come facciamo a pensarci? Siamo costretti a star qui. Se cominciamo a pensare ai rimpianti..” Lascia la frase a metà. Il silenzio viene rotto da un altro operaio:” Mi manca il mio paese, la mia famiglia, la mia terra. Puoi far crescere del cibo in Bangladesh. Qui non spunta niente. Solo petrolio e grattacieli.
Da quando è scoppiata la crisi, mi dicono, l’elettricità è stata tagliata in dozzine di campi e degli uomini non vengono pagati da mesi. Le loro compagnie si sono volatilizzate con i loro passaporti ed i loro stipendi. “Ci hanno tolto tutto. Anche se in qualche modo riuscissimo a tornare in Bangladesh, chi ci ha prestato i soldi ci chiederà di restituirli e se non possiamo ci sbatteranno in galera”.
Per legge tutto questo è illegale. I datori di lavoro devono rispettare le scadenze di pagamento, non possono confiscare i passaporti e devono concedere delle pause dal lavoro, ma non ho incontrato nessuno che mi abbia detto che questo davvero succede. Neanche uno.
Questi uomini sono portati qui con l’inganno e tenuti qui con la forza, con la complicità delle autorità locali.
Sahinal potrebbe facilmente morirci qui. Un inglese che lavorava su progetti edili mi ha detto:”C’è un enorme tasso di suicidi nei campi e nei cantieri ma non vengono riportati. Li fanno passare per incidenti sul lavoro. E anche in questi casi le famiglie non si liberano del debito. Semplicemente lo ereditano.
Uno studio di Human Rights Watch ha scoperto che è in atto una “copertura pianificata del reale numero” delle morti avvenute per colpi di calore, per sfinimento o per suicidio. Il consolato indiano ha registrato 971 morti fra i propri connazionali nel solo 2005. Quando queste cifre hanno cominciato a trasparire, ai consolati è stato imposto di smettere di contare.
Alla luce del crepuscolo mi intrattengo con Sohinal e i suoi amici che fanno la colletta per comprare una bottiglia di stracciabudella. La fanno fuori con sorsi feroci. “Ti aiuta a dimenticare” dice Sohinal con voce pungente.
Lontano, le luci della Dubai che ha contribuito ad edificare scintillano noncuranti.
Dubai è finita?
di Elisabetta Norzi - Peacereporter - 9 Gennaio 2009
“Dubai is finished” dice qualcuno. Tra gli “expat”, gli stranieri provenienti da tutto il mondo che raggiungono l’80% degli abitanti di Dubai, non si parla d’altro: la crisi è arrivata, con qualche mese di ritardo, anche qui.
La paura comune a tutti, in una città che per crescere ha avuto bisogno di cervelli e manodopera provenienti da oltre 100 paesi diversi, è quella di perdere il lavoro. Non è ancora chiaro quanto la crisi sia strutturale e quanto invece il riflesso di quella dell’Occidente. Sta di fatto che, nell’emirato che basa la sua ricchezza sul turismo e sugli investimenti immobiliari, per la prima volta qualcosa sta scricchiolando. Hotel, ristoranti e centri commerciali non sono mai stati vuoti come in questo periodo e molte delle gru che costruiscono torri e grattacieli nella New Dubai si stanno fermando. Dal governo arrivano rassicurazioni, ma ogni giorno vengono tagliati posti di lavoro, a tutti i livelli: ingegneri e architetti occidentali, impiegati e operai edili indiani, pakistani o afgani.
Alcune stime dell'agenzia di rating Moody's dicono che l’emirato di Dubai ha un debito di 50 miliardi di dollari, mentre la Dubai Holding parla di 70 miliardi. Mohammad Alabbar, presidente del Consiglio finanziario consultivo creato dal governo per fare fronte alla crisi economica mondiale e presidente dell'impero immobiliare Emaar, attraverso agenzie e quotidiani ha invece dichiarato che il debito ammonta a 10 miliardi di dollari e che non c’è da preoccuparsi: i beni sovrani sarebbero oltre 90 miliardi, senza contare le infrastrutture. I soldi chiesti in prestito da Dubai, ha precisato ancora Alabbar, non erano finalizzati alla coperture di spese, ma al finanziamento di progetti di sviluppo infrastrutturale.
Uno studio dell’Investor Sentiment Survey della società mondiale di consulenza immobiliare Jones Lang LaSalle sottolinea come la possibilità di bancarotta dell’emirato sia estremamente remota: alle spalle c’è Abu Dhabi, capitale degli Emirati e del petrolio, che interverrebbe in caso di necessità. Secondo la ricerca, inoltre, è normale che un mercato con una crescita del 100% e oltre subisca un rallentamento e una decrescita: “Oggi Dubai è per un investimento a medio termine, l'era degli speculatori è finita. Il mercato immobiliare della città entrerà, come è giusto che sia, nella sua fase di maturità e di stabilità”.
La crisi, però, pesa già sulle spalle di quasi quattromila persone rimaste senza lavoro. I numeri sono allarmanti e si tratta di stime per difetto, poiché dati ufficiali complessivi non sono stati diffusi: nell’ultimo mese solo la Nakheel, società di costruzioni di proprietà del governo, ha dichiarato 500 tagli e ha sospeso ogni nuovo progetto. La Al Shafar General Contracting, tra le più grandi imprese di costruzioni della città, secondo il sito internet Al Arabiya ha licenziato il 10% dei dipendenti, a tutti i livelli: su un totale di 18mila lavoratori, sono rimaste senza lavoro 1800 persone.
Il Dubai Properties Group, invece, secondo le testimonianze di alcuni dipendenti che hanno perso il posto, ha mandato via oltre 600 dipendenti. Per il momento i tagli sono principalmente tra gli ingegneri, gli architetti, gli impiegati e gli sviluppatori immobiliari.
Il lavoro regge meglio, invece, tra gli operai: “I cantieri cominciati, anche se stanno rallentando, devono essere terminati – dice un operaio pakistano che lavora alla costruzione di un grattacielo a Dubai Marina -. Tutti questi nuovi edifici non possono rimanere a metà. Non so cosa succederà, per ora i tagli sono stati fatti tra i lavoratori che guadagnano di più. Noi prendiamo solamente 1000 dirham al mese, circa 200 euro”. Quasi tutte le imprese di costruzioni hanno però fermato o rimandato i nuovi progetti, compresi i più noti come la Palma, le isole a forma di mondo e persino il grattacielo di 800 metri, il più alto del mondo, nella business city. La conseguenza, chiaramente, sarà una diminuzione della richiesta di manodopera, compresa quella non qualificata che arriva in prevalenza dall’India, dal Pakistan, dal Bangladesh, dall’Afganistan.
Per chi viene licenziato non c’è nessuna forma di tutela: alcuni lavoratori hanno raccontato che le società li obbligano a dare le dimissioni. Chi non lo fa, non riceve la lettera di raccomandazione del datore di lavoro, indispensabile a Dubai per trovare un altro posto. “Questa città si è espansa troppo velocemente e tutti pensavano potesse essere immune dalla crisi – racconta Pramod, taxista indiano che lavora 12 ore al giorno con un auto che divide con un collega - . Io almeno sono fortunato, il mio lavoro è sicuro. Molti miei connazionali che lavoravano nelle costruzioni, soprattutto impiegati, hanno perso il lavoro, non so come faranno a mantenere ancora le loro famiglie”. Per trovare una nuova occupazione c’è tempo un mese, poi l’alternativa è una sola: tornare a casa e ricominciare tutto da capo.