Nel suo primo discorso dopo il rientro a Najaf, l'imam ha definito Stati Uniti, Israele e Gran Bretagna "comuni nemici" e ha chiesto ai suoi seguaci "resistenza con tutti i mezzi", sottolineando però che "le armi sono solo per i militari".
Infine ha lanciato un appello a non uccidere i propri connazionali iracheni, "Respingete l'America e prendete di mira solo gli occupanti".
Insomma il solito Moqtada, abile nell'unire toni incendiari a parole moderate proprie di un politico navigato, come ad esempio "Se il governo serve il popolo e la sua sicurezza siamo con lui. Se non lo facesse ci sono vari modi per sistemare le cose".
Va ricordato infatti che Moqtada è stato fondamentale nell'assegnare al premier sciita al-Maliki il secondo mandato per guidare l'esecutivo e che dell'attuale governo iracheno fanno parte sette ministri legati all'imam che può contare anche su 39 deputati in Parlamento.
Mentre da quasi due anni e mezzo la sua milizia, l'esercito del Mahdi, ha sospeso le attività su ordine di Moqtada.
Un vero politico a 360 gradi...
Il ritorno di Moqtada
di Christian Elia - Peacereporter - 7 Gennaio 2011
L'imam radicale torna a Najaf dopo due anni passati a Qom, in Iran, per apparenti motivi di studio
Lo hanno aspettato due anni. Migliaia di fedeli, a Najaf, nell'Iraq meridionale, hanno ritrovato il 6 gennaio scorso la loro guida: l'ayatollah Moqtada al-Sadr. Radicale, si è sempre scritto accanto al suo nome. Se questo è ancora vero è tutto da verificare, magari proprio oggi, 8 gennaio 2011, quando tornerà a parlare in pubblico.
In un primo momento si pensava che tenesse il sermone del venerdì, nella moschea di Kufa, ma un suo portavoce ha smentito. Moqtada, appena atterrato all'aeroporto di Najaf, si è recato al mausoleo dell'imam Alì, uno dei luoghi più sacri per gli sciiti. Subito dopo, senza rilasciare dichiarazioni, si è recato dal padre, nel quartiere al-Hanana della città irachena.
Un figliol prodigo qualunque, in apparenza. Ma con Moqtada mai dire mai. Il suo nome diviene di dominio pubblico nel 2003, subito dopo l'invasione Usa dell'Iraq. Dopo il rovesciamento del regime di Saddam, salutato da lui come da tutti gli altri sciiti iracheni come una benedizione, è iniziata la sua personale guerra contro gli Stati Uniti, accusati di aver colonizzato il Paese. Una guerra di parole che, nel 2004, diventa militare.
Moqtada, nonostante la giovane età (37 anni), gode di un nutrito seguito. Origini libanesi, figlio di Mohammed Sadeq al-Sadr, stimato teologo, assassinato a Najaf (assieme a due fratelli di Moqtada) nel 1999, per mano dei sicari di Saddam.
Il suocero di Muqtada, Muhammad Baqir al-Sadr, è stato giustiziato dalle autorità irachene nel 1980. In onore di quest'ultimo- alla caduta di Saddam - il quartiere di Saddam City a Baghdad (a maggioranza sciita) è stato ribattezzato Sadr-City.
Moqtada è cugino dell'imam Musa al-Sadr, fondatore del movimento spirituale libanese Lega dei Diseredati, che poi dette origine al partito politico sciita libanese al-Amal (La speranza). Un pedigree di tutto rispetto, che Moqtada segue alla lettera, senza però raggiungere il 'titolo' che permette di emettere fatwe, cioè interpretazioni della legge islamica.
Il giovane ayatollah organizza i suoi fedeli in una milizia: l'Esercito del Mahdi. A loro sono addebitati alcuni dei massacri più cruenti che, tra il 2005 e il 2007, hanno insanguinato il Paese, nelle stragi tra sunniti e sciiti. La milizia, però, combatte soprattuto contro gli Usa: nell'agosto 2004 combattimenti si verificarono ancora fra truppe statunitensi e l'Esercito del Mahdi di al-Sadr.
La battaglia che si concentrò prevalentemente attorno al cimitero wadi al-Salam e alla parte sud-occidentale della città di Najaf, finì dopo tre settimane quando l'anziano religioso, l'ayatollah Alì al-Sistani negoziò la fine degli scontri. Migliaia di guerriglieri dell'Esercito del Mahdi furono uccisi e considerevoli danni furono inflitti alla città vecchia, ai mausolei sacri sciiti e al cimitero.
Proprio quello con Sistani, settimana prossima, è l'incontro più importante dell'agenda di Moqtada. In molti hanno visto nella mediazione del più carismatico ayatollah sciita iracheno l'ago della bilancia per sbloccare la crisi politica che - per quasi un anno - ha paralizzato la formazione del governo di Baghdad.
Ora, come nel 2004 (quando Sistani ha convinto Moqtada a richiamare i suoi) e nel 2008 (quando ha consigliato al giovane leader religioso un prudente 'ritiro di studio' in Iran), Sistani è stato decisivo. Oggi Moqtada è diverso: nel nuovo governo ha ottenuto sette ministri, forte dei suoi 39 deputati.
L'Iran, dietro le quinte, vede in lui l'interlocutore privilegiato. Tutti gli altri, compresi il laico Allawi (vicino agli Usa) e il premier al-Maliki, hanno capito che senza Teheran non si governa il Paese e ne hanno agevolato il rientro (nel 2007 pareva deciso a Baghdad l'arresto di Moqtada).
Adesso non resta che definire la transizione dell'Esercito del Mahdi da milizia a partito politico e il gioco è fatto. Anche se con Moqtada mai dire mai.
L'ora dei sadristi
di Anthony Shadid - The New York Times - 6 Gennaio 2011
Traduzione di Ornella Sangiovanni per Osservatorio Iraq
Neanche sette righe scritte a mano in arabo su un piccolo pezzo di carta, con il suo sigillo. Ma sono bastate a chiarire, ieri, che Muqtada al-Sadr, figlio di un venerato ayatollah nonché flagello dell’occupazione americana, aveva nuovamente il controllo di un gruppo che ha iniziato a dar forma all’Iraq mentre gli Stati Uniti si stanno ritirando.
“La mancanza di disciplina di alcuni di voi mentre io svolgevo i miei rituali religiosi mi ha dato fastidio e mi ha ferito me”, ha detto, rimproverando i suoi seguaci per l’accoglienza estatica ricevuta il giorno precedente. “Per favore, siate disciplinati ed evitate di urlare e spingere troppo – cose che danneggiano me, altri, voi, la vostra reputazione, e quella della famiglia Sadr”.
Ovvero, con una traduzione più approssimativa: questo non è più il movimento di un tempo.
Scena dopo scena, ieri, a un giorno di distanza dal ritorno di Sadr dopo oltre tre anni di esilio in Iran, abbondavano i segnali del nuovo volto che il suo movimento sta proiettando, con lui al comando. Non ultimo un gruppo di guardie del corpo in completi grigi o kaki che sembravano presi in prestito dall’abbigliamento dei mercenari.
Su un tratto non asfaltato pieno zeppo dei piedi dei pellegrini, sotto bandiere imperiose di devozione, i suoi sostenitori parlavano con una sicurezza nuova, arroganza persino, di un futuro che rivendicano. E dove finisce la città, vicino al santuario dall’illuminazione soffusa dell’Imam Ali, i detrattori - e sono molti - dicevano di non avere ancora perdonato, qualunque cosa egli possa promettere.
“Quest’uomo è una nullità”, diceva Mohammed Ali Ja’afar, un commerciante del posto.
In questo, si trattava di una scena familiare in un Paese che raramente è stato tranquillo da quando gli Stati Uniti lo hanno invaso nel 2003. Al centro degli eventi, ancora una volta, era Sadr, la figura rara in Iraq a unire mistica religiosa e autorità politica, con il seguito di un movimento di base che ha un fiuto della piazza e una notevole abilità di indossare i panni dell’opposizione, anche quando gioca il ruolo di ago della bilancia, come adesso.
Ryan C. Crocker, l’ex ambasciatore americano in Iraq, una volta aveva buttato là che i seguaci di Sadr “potevano rivoluzionare la politica irachena”: un’osservazione che risale ad alcuni mesi fa, ma una previsione che adesso sembra più vicina alla realtà.
Ieri a Najaf, in conversazioni da un capo all’altro della città, il ritratto che emergeva era quello di un movimento meno a un bivio e più sul punto di una sintesi di tutti i suoi elementi eterogenei – sintesi resa forse possibile dal ritorno di Sadr.
“Ora che è tornato, può iniziare a risolvere i nostri problemi”, diceva Sadeq Ibrahim, 38 anni, un veterano della milizia di Sadr che apparentemente è stata smobilitata. “E’ l’uomo in grado di farlo - un leader religioso e politico al tempo stesso - e per risolvere i problemi dell’Iraq ci vogliono entrambi”.
Ieri Ibrahim era insieme a decine di esponenti religiosi, membri di tribù, e giovani dai volti duri di coloro che sono stati privati dei diritti nei pressi dell’abitazione di Sadr, in attesa di intravedere il religioso.
Alcuni avevano intrapreso il viaggio fino da Bassora, all’estremo sud, accalcandosi in gruppi e con le voci nei bisbigli frettolosi di chi sta trepidando. Tutti sembravano echeggiare lo slogan dello striscione nero alle loro spalle: “Sì, sì, al leader”.
“Nostro padre, nostro fratello, e il nostro leader”, dichiarava uno di loro, Maher Ghanem.
Un tale fervore non è nulla di nuovo per un movimento populista emerso dopo l’invasione americana come una delle forze più imprevedibili dell’Iraq, partendo dal seguito del padre di Sadr, assassinato nel 1999. Nel 2004, la sua milizia aveva combattuto due volte contro le forze armate americane, e il suo linguaggio, religioso quanto nazionalista, è tuttora decisamente anti-americano.
Di questi tempi, tuttavia, si tratta di un movimento assai più sofisticato, che si è ripreso dalle sconfitte militari del 2008, ottenendo 40 seggi in Parlamento e offrendo un appoggio decisivo al ritorno al potere del Primo Ministro Nuri Kamal al-Maliki il mese scorso.
Molti qui considerano il successo del gruppo un segnale della sua maturazione. I suoi stessi quadri, quasi del tutto liberi dalla minaccia e dal sospetto dei loro rivali sciiti, ritengono che sia semplicemente l’esito naturale del sostegno di base di lunga data di cui godono.
Nei lunghi mesi di negoziati per il governo, alcuni dei rivali di Sadr si erano lamentati dell’arroganza chiassosa dei suoi delegati riguardo al loro potere, un’altezzosità che ieri echeggiava per le strade.
“Per otto mesi non c’è stato governo, finché i sadristi hanno dato la loro benedizione e si è messo insieme”, diceva Anmar Khafaji, 22 anni, un sostenitore arrivato da Nassiriya per vedere Sadr. “Se non ci fossero i sadristi, non ci sarebbe nessun governo”.
Altri erano anche più diretti. “Se Dio vuole, governeremo il Paese, ma lo faremo attraverso la giustizia, assieme ai nostri fratelli, tramite le nostre idee e il nostro intelletto che uniranno gli iracheni”, diceva Ibrahim. “La nostra arma ora è la penna, nonché il nostro sapere”.
Che questo corrisponda a verità qui è ancora materia di discussione. L’attuale ambasciatore americano, James F. Jeffrey, ha detto di non avere visto prove del fatto che i sadristi abbiamo rinunciato, “in pratica o in teoria”, all’idea di usare la forza contro gli oppositori. Per tutti i mesi dei negoziati seguiti alle elezioni parlamentari dello scorso anno, i diplomatici americani erano preoccupati dell’eventualità che i sadristi avessero un ruolo decisivo nel nuovo governo.
A Washington, tuttavia, la reazione al ritorno di Sadr è stata pacata. Nel 2004, un portavoce americano a Baghdad aveva definito Sadr “un teppista da due soldi”. Ieri l’altro, Philip J. Crowley, il portavoce del Dipartimento di Stato, lo ha definito “il leader di un partito politico iracheno che ha ottenuto un certo numero di seggi alle elezioni del marzo 2010”.
In effetti, non è nessuna delle due cose: una realtà che ieri era evidente. Sadr è partito dal suo ufficio nello stile di uno dei pezzi grossi di Baghdad, in un convoglio di BMW color argento scortate da fuoristrada.
A pochi chilometri di distanza, in una moschea sacra per il movimento, i suoi sostenitori parlavano di lui in termini millennaristici come un salvatore, un mistico, e un araldo della venuta dell’Imam Nascosto, che si rivelerà alla fine dei tempi, portando ordine e giustizia e vendicandosi dei nemici di Dio.
Alcuni manifesti proclamavano Sadr “Colui che prepara”, che apre la strada al ritorno dell’imam. Anche il braccio culturale del suo gruppo è noto come “i preparatori”, in una sintesi fra il religioso e il politico talmente perfetta che nessuno fa realmente commenti in merito. Abdel-Hussein Saadi, un pellegrino venuto da Baghdad, diceva di essere in effetti sicuro che l’imam sarebbe apparso nel corso della sua vita.
Era non meno sicuro della determinazione di Sadr a combattere per i suoi diritti prima di allora, qualunque sia la sua distanza da un governo pieno di suoi ministri e vice.
“Rappresenta suo padre, e salverà gli iracheni dalle grandi sofferenze che sono costretti a sopportare da parte di un governo che non riuscirà mai ad eliminarci”, diceva.
Sadr è tornato
di Paul Pillar* - The National Interest - 5 Gennaio 2011
Traduzione di Ornella Sangiovanni per Osservatorio Iraq
Il ritorno di Muqtada al-Sadr in Iraq, due giorni fa, viene descritto da alcuni come una sorpresa. Tale non avrebbe dovuto essere.
Il giovane esponente religioso aveva già mostrato un gusto sufficiente per la competizione per il potere quasi al livello della zuffa da rendere irrealistica l’idea che avrebbe trascorso i prossimi anni a Qom, immerso nei libri per diventare ayatollah, ancor meno quella che nel lungo termine si sarebbe dato a una vita contemplativa.
E’ il leader di una delle principali fazioni irachene: il suo ritorno fisico in Iraq era nell’ordine delle cose mentre prende forma l’ordine politico iracheno del dopo occupazione.
La mossa di Sadr e l’accordo tra le fazioni sciite al quale è connessa sottolineano quanto sia aspra la divisione confessionale in Iraq, nonostante precedenti segnali incoraggianti di attività politica che travalicava le confessioni.
La principale manifestazione di tale attività, la coalizione di Iyad Allawi, Iraqiya, è stata sconfitta dal Primo Ministro Nuri al-Maliki, che si è dimostrato più abile. Maliki ha fatto i suoi accordi più importanti con altri sciiti, e in particolare con i sadristi.
Quello che passa per democrazia in Iraq non va molto al di là di un semplice concetto di dominio della maggioranza.
Gli sciiti sono la maggioranza, e governano. Avendo fatto un patto con Maliki, malgrado un precedente scontro sanguinoso fra i due, Muqtada al-Sadr è una parte importante di questo sistema.
Il ritorno di Sadr evidenzia inoltre quanto ancora lontano, sotto altri aspetti, l’Iraq sia da qualunque cosa che un occidentale riconoscerebbe come democrazia stabile. Data la responsabilità dei sadristi per gran parte dello spargimento di sangue confessionale nel passato assai recente dell’Iraq, il fatto che il loro leader sia tornato nel Paese come un attore politico accettato, invece di essere consegnato all’ignominia e all’esilio, è di per sé una affermazione considerevole a riguardo.
L’Iraq è tuttora un luogo violento, non solo nel senso degli incidenti quotidiani ma anche di quanto siano vicine – sotto la superficie della vita politica – la possibilità e la propensione a fare ricorso a uno spargimento di sangue di maggiori dimensioni.
Un’ulteriore realtà sull’Iraq sottolineata dal ritorno di Sadr è che l’influenza dell’Iran è in aumento e quella degli Stati Uniti è diminuita. Sadr si è fatto le ossa, naturalmente, con il suo genere di anti-americanismo collerico e violento. E l’Iran è stato il principale mediatore esterno nel far sì che le fazioni sciite, e in particolare Maliki e Sadr, raggiungessero un accordo.
Comprensibilmente, i sunniti iracheni non sono felici del ritorno di Sadr in Iraq. Un negoziante di un quartiere sunnita di Baghdad citato nell’articolo del New York Times sulla vicenda prevede che la vita in Iraq “verrà sconvolta” nuovamente e che “le milizie torneranno e domineranno”.
A breve termine non scoppierà probabilmente una guerra civile completa, che non sarebbe nell’interesse del Primo Ministro. Più a lungo termine, Muqtada al-Sadr rappresenta forse l’avversario più formidabile a Maliki uomo forte in formazione.
Sadr guida un’organizzazione politico-militare che potrebbe acquisire ulteriori caratteristiche degli Hezbollah libanesi. Sadr stesso probabilmente proseguirà gli studi necessari a diventare ayatollah (cosa che può fare a Najaf, in Iraq, e non solo in Iran), e le credenziali religiose ne aumenteranno l’influenza.
Tutto questo stato di cose scoraggiante è una dimostrazione e un promemoria di ciò che non avrebbe dovuto sorprendere chiunque, prima che venisse lanciata la guerra in Iraq nel 2003, avesse guardato oltre il dittatore ba’athista ed esaminato più attentamente il tessuto politico e sociale del Paese.
Ma nel perseguire il progetto dei neoconservatori di cercare di iniettare la democrazia attraverso la canna del fucile, e nel vendere con fervore la guerra con scene spaventose di ciò che avrebbero potuto fare dittatori alleati di terroristi, coloro che hanno fatto la guerra questo esame non si sono mai presi il disturbo di farlo.
*Paul R. Pillar, 28 anni passati alla CIA, dove è stato analista capo e poi vice direttore dell’Antiterrorismo (CTC), è attualmente presso la Georgetown University, come direttore dei graduate studies del Programma di studi sulla sicurezza.