La Russa o il capo dell’esercito: chi si dimette?
di Roberta Zunini - Il Fatto Quotidiano - 8 Gennaio 2011
Il generale Mini: "Inconcepibili due versioni su Miotto". Il ministro? "Non ho mai visto in tv un uomo delle istituzioni mimare, come un attore di un film di ultima categoria, la ricostruzione di un episodio fatale"
Fabio Mini si definisce un generale in cosiddetta ‘ausiliaria’. Anche il capo di Stato maggiore della Difesa, il generale Vincenzo Camporini, tra due mesi andrà in pensione. “Noi generali – dice Mini – in realtà non andiamo mai in pensione e continuiamo a interessarci del nostro Paese”.
Per questo gli chiediamo di dirci a quale versione della morte di Matteo Miotto crede: a quella del ministro La Russa, secondo il quale Miotto è stato ucciso durante una battaglia, o a quella del generale capo di Stato maggiore della Difesa, Vincenzo Camporini, che sostiene che Miotto sia stato ucciso da un cecchino.
Generale, lei che ne pensa?
Camporini ha detto la verità: è stato il ministro La Russa a cambiare versione. Quando ha sostenuto che gli era stata data un’informazione edulcorata. Adesso il ministro la pillola la sta indorando, sostenendo che non voleva dire quello che ha detto, che non prova rabbia per i vertici dell’esercito, bensì stima. Sono boutade che possono avere conseguenze pesantissime sulla sicurezza dei nostri soldati. Non si può giocare sulla pelle dei militari morti e di conseguenza su quella dei vivi.
Generale, la pace è lontana anche tra le istituzioni. La situazione questa volta è “grave ma anche seria” ?
Le accuse che il ministro della Difesa ha rivolto al capo di Stato maggiore della Difesa hanno un effetto negativo anche sulla situazione interna: squalificano le istituzioni politiche e militari. Questo significa intaccare il tessuto connettivo del Paese. Dopodiché non resta più nulla.
Possibile che La Russa non si renda conto di fare un danno anche a se stesso?
Questi politici sono travolti dal proprio narcisismo.
O dalla propria incompetenza?
Anche. La cosa che mi ha lasciato stupefatto è la versione “romanzata”, divulgata urbi et orbi, dal ministro La Russa, con tanto di interpretazione mimica dell’accaduto. Si capiva molto bene che aveva cambiato la sua versione dei fatti perché influenzato dai colloqui avuti con i soldati dopo essere andato in Afghanistan.
E quindi?
E quindi, a mio avviso, il ministro non dava una nuova versione perché era emersa un’altra verità. Semplicemente gli è piaciuta di più quella dei soldati. Che è sempre meno “banale”, proprio perché enfatizzata, vuoi per spirito di corpo, vuoi per darsi coraggio, vuoi per esorcizzare la morte.
Un ministro che non sa fare la tara tra l’enfasi con cui i soldati raccontano ciò che vivono e i rapporti ufficiali dei vertici delle Forze Armate, non è inadatto a ricoprire questa carica?
Un ministro deve saper fare la tara, soprattutto se è il ministro della Difesa. E deve anche saper distinguere tra i toni dei rapporti ufficiali e i toni da usare quando si deve comunicare con l’opinione pubblica. Un ministro della Difesa deve avere, sempre e comunque, come suoi primi interlocutori i vertici militari, che sono addestrati per interpretare ciò che è accaduto davvero ai soldati sul campo.
Lei è stato a lungo impegnato nei Balcani, ma anche in Cina, negli Stati Uniti, sia in veste di generale sul campo, sia come portavoce e responsabile della comunicazione dei vertici militari. Ha mai assistito a uno scambio di accuse così aspro e frontale tra il ministro della Difesa e il suo capo di Stato maggiore?
No. Non ho mai nemmeno visto in tv un ministro della Difesa mimare come un attore di un film di ultima categoria, la ricostruzione di un episodio fatale che ha coinvolto l’esercito del suo Paese.
Perché, secondo lei?
Intanto perché uno dei due si è sempre dimesso prima di arrivare a tal punto. Secondo perché non si arriva a questo punto: l’insipienza non è prevista per certi ruoli. La malafede magari sì, ma l’incapacità no.
Senta generale, ma c’è ancora un punto in comune tra il vertice politico e quello militare?
Sì, purtroppo: nessuno dei due dice chiaramente che questa non è una missione di supporto e assistenza all’esercito e alla polizia afghana, altrimenti avremmo mandato sempre più ingegneri e infermieri, invece abbiamo aumentato le forze militari, passando da 9 mila a 140 mila soldati. Questa è una guerra e si va “alla guerra come alla guerra”.
Cioè?
I nostri soldati partecipano a battaglie vere e proprie, le nostre Forze Speciali (sabotatori e incursori), che ubbidiscono direttamente agli ordini della Nato, ogni notte si lanciano dagli elicotteri o marciano per decine di chilometri al buio per infiltrarsi nei territori non ancora controllati. E lo fanno a costo di eliminare tutti gli avversari che incontrano sul loro cammino. In guerra eliminare significa ammazzare.
Stiamo trasgredendo l’articolo 11 della Costituzione?
Far rispettare l’articolo 11 alla lettera (L’Italia ripudia la guerra, ndr) sarebbe ottimo, tuttavia il diritto internazionale, autorizzando l’intervento armato in casi particolari, di fatto permette di aggirare l’articolo 11. Dobbiamo quindi badare alla sostanza, che è quella di far riconoscere a tutti che siamo in guerra, in un teatro di guerra, contro avversari che ci fanno la guerra.
Lettere dal fronte
di Massimo Fini - Il Fatto Quotidiano - 8 Gennaio 2011Alle penose diatribe fra il ministro della Difesa Ignazio La Russa e il generale Vincenzo Camporini, così tristemente tipiche dell’Italia di oggi, preferisco l’umanità, la sensibilità e la profondità della lettera che Matteo Miotto, l’alpino ucciso in combattimento in Afghanistan, scrisse un paio di mesi fa dopo la morte di quattro suoi commilitoni.
Una lettera che sembra venire da un mondo lontano, antico, da una “razza Piave” che pur è esistita – e nel cuore e nella mente di Matteo esisteva ancora – sostituita dai La Russa e da tutto ciò che un La Russa significa.
Una lettera che sembra venire da un mondo lontano, antico, da una “razza Piave” che pur è esistita – e nel cuore e nella mente di Matteo esisteva ancora – sostituita dai La Russa e da tutto ciò che un La Russa significa.
Nella lettera, scevra di ogni retorica, di questo giovanottone veneto c’è tutto l’orgoglio per le proprie radici e la fierezza di appartenere al corpo degli alpini, ma c’è pure la consapevolezza che la stessa fierezza, lo stesso orgoglio per le proprie radici, le proprie tradizioni, il proprio modo di essere, di vivere e morire, appartiene anche al nemico afghano, al nemico talebano.
Scrive Matteo: “Questi popoli hanno saputo conservare le proprie radici, dopo che i migliori eserciti, le più grosse armate hanno marciato sulle loro case, invano. L’essenza del popolo afghano è viva, le loro tradizioni si ripetono immutate, possiamo ritenerle sbagliate, arcaiche, ma da migliaia di anni sono rimaste immutate. Gente che nasce, vive e muore per amore delle proprie radici, della propria terra e di essa si nutre. Allora capisci che questo strano popolo dalle usanze a volte anche stravaganti ha qualcosa da insegnare anche a noi”.
Proprio perché è orgoglioso delle sue radici, il giovane Matteo comprende che questo sentimento può appartenere e appartiene, anche ad altri popoli, ad altra gente che per difenderle è disposta a combattere e a morire.
I governanti, politici e militari, dei Paesi occidentali che da dieci anni occupano l’Afghanistan si rifiutano di comprendere ciò che il giovane Matteo, con le sue solide radici, con i suoi solidi valori, non lontani, quando si chiamano fierezza, orgoglio, disposizione al sacrificio, anche estremo, da quelli del popolo afghano, ha capito benissimo.
Il nocciolo della guerra afghana, a parte i loschi interessi di chi la sta conducendo, la distruzione per lucrare sul business della ricostruzione, gli aiuti fasulli, il turismo estremo delle Ong, è tutto qui.
Scrive Matteo: “Questi popoli hanno saputo conservare le proprie radici, dopo che i migliori eserciti, le più grosse armate hanno marciato sulle loro case, invano. L’essenza del popolo afghano è viva, le loro tradizioni si ripetono immutate, possiamo ritenerle sbagliate, arcaiche, ma da migliaia di anni sono rimaste immutate. Gente che nasce, vive e muore per amore delle proprie radici, della propria terra e di essa si nutre. Allora capisci che questo strano popolo dalle usanze a volte anche stravaganti ha qualcosa da insegnare anche a noi”.
Proprio perché è orgoglioso delle sue radici, il giovane Matteo comprende che questo sentimento può appartenere e appartiene, anche ad altri popoli, ad altra gente che per difenderle è disposta a combattere e a morire.
I governanti, politici e militari, dei Paesi occidentali che da dieci anni occupano l’Afghanistan si rifiutano di comprendere ciò che il giovane Matteo, con le sue solide radici, con i suoi solidi valori, non lontani, quando si chiamano fierezza, orgoglio, disposizione al sacrificio, anche estremo, da quelli del popolo afghano, ha capito benissimo.
Il nocciolo della guerra afghana, a parte i loschi interessi di chi la sta conducendo, la distruzione per lucrare sul business della ricostruzione, gli aiuti fasulli, il turismo estremo delle Ong, è tutto qui.
È assolutamente inutile che i comandi politici e militari occidentali si intestardiscano nel voler “conquistare i cuori e le menti degli afghani”, perché questa gente vuole conservare i propri cuori, le proprie menti, le proprie radici, le proprie tradizioni, i propri costumi, anche se noi, come scrive Matteo “possiamo ritenerle sbagliate, arcaiche”.
Il fatto è che sono le loro radici e non sono disposti a cambiarle con quelle di altri, soprattutto se imposte con l’arroganza di chi si ritiene detentore di una “cultura superiore”, con la violenza, con le bombe che uccidono tutti, guerriglieri talebani, vecchi, donne e soprattutto quei bambini, cenciosi ma vitali, che Matteo Miotto osserva, pensieroso, dal suo Lince (i bambini sono il 40% dei ricoverati negli ospedali afghani).
Matteo ammira questo popolo che, nonostante “i migliori eserciti, le più grosse armate” siano passate sul suo corpo, è riuscito a conservare se stesso, la propria anima.
Il fatto è che sono le loro radici e non sono disposti a cambiarle con quelle di altri, soprattutto se imposte con l’arroganza di chi si ritiene detentore di una “cultura superiore”, con la violenza, con le bombe che uccidono tutti, guerriglieri talebani, vecchi, donne e soprattutto quei bambini, cenciosi ma vitali, che Matteo Miotto osserva, pensieroso, dal suo Lince (i bambini sono il 40% dei ricoverati negli ospedali afghani).
Matteo ammira questo popolo che, nonostante “i migliori eserciti, le più grosse armate” siano passate sul suo corpo, è riuscito a conservare se stesso, la propria anima.
Dall’intero tono della lettera si capisce che Matteo non era convinto che la guerra cui stava partecipando fosse giusta, che fosse giusto combattere altri ragazzi come lui (perché anche i talebani sono dei ragazzi), diversissimi in tante cose, ma con alcuni valori essenziali, prepolitici, che li accomunano: la difesa della propria identità, della propria dignità, delle proprie radici.
Non era convinto, ma da bravo soldato, da veneto orgoglioso e fiero, ha fatto il suo dovere fino all’ultimo, fino al sacrificio della vita. Come un vero alpino. Come un talebano. E sono certo che, se da qualche luogo misterioso ci può ascoltare, questo paragone non lo offenderà.