Novità assoluta in un Paese dominato dal padre padrone Ben Alì fin dal 1987, che però ieri è comparso in tv e ha annunciato che non si ricandiderà alle elezioni presidenziali del 2014, ordinando anche alla polizia di non usare più le armi contro i dimostranti.
E infine ha pure promesso libertà di stampa e la fine del blocco di alcuni siti Internet.
Appena concluso il suo discorso in televisione la gente è scesa in strada festante, nonostante il coprifuoco iniziato da mezz'ora, e diversi siti Internet, da anni inaccessibili, sono stati sbloccati. Tra questi Al Jazira, Flickr, Youtube, Wat.tv, Daily Motion, il sito della radio di opposizione Kalima ed altri ancora.
Resta però da vedere se dalla prossima redistribuzione del potere ne trarranno reale beneficio anche coloro che sono scesi in piazza in questi giorni.
Ma come si dice spesso in questi casi, "piuttosto che niente, meglio piuttosto"...
La sfida dei giovani umiliati dal Potere. Ora tremano i vecchi raìs del Maghreb
di Bernardo Valli - La Repubblica - 14 Gennaio 2011
Nessun paese del Nord Africa è immune. Le rivolte delle nuove generazioni sono potenti detonatori che possono imporre svolte politiche
Sui due versanti, su quello d´Occidente (Maghreb) come su quello d´Oriente (Mashreck), il mondo arabo conosce una stagione agitata. Scorre il sangue e vecchi raìs rischiano il posto.I regimi musulmani tra l´Atlantico e il Mar Rosso, molti dei quali allineati sulla costa meridionale del Mediterraneo, sono assai più stabili, o comunque longevi, di quel che generalmente si è indotti a pensare.
E adesso, anche per l´età avanzata dei titolari, essi conoscono i guai della senilità, che non risparmia la politica, in particolare quando i vecchi governano società giovani, anzi giovanissime.
Il caso più caldo, anzi rovente, è quello della Tunisia, a qualche braccio di mare dalle nostre isole più a Sud. Il ritratto del 75 enne presidente, Zine el-Abidine Ben Ali, viene bruciato sulle piazze, tra Biserta e Sfax, da giovani nati nei (quasi) ventiquattro anni in cui egli ha troneggiato incontestato, senza interruzione, su tutte le pubbliche mura e pareti della Repubblica.
A cancellare con rabbia la sua faccia sono ragazzi venuti al mondo quando lui era già al potere e che spesso muoiono (ne sono stati uccisi una settantantina negli ultimi giorni) con lui sempre al potere. Ma ancora per molto?
Quello che viene chiamato il "piccolo Maghreb", di cui fanno parte Marocco, Algeria e Tunisia (il " grande" comprende anche la Mauritania e la Libia), è ritenuto da molti economisti come il futuro naturale prolungamento dell'Europa, al di là del Mediterraneo.
Esso è infatti destinato a fornire, come già avviene, al Vecchio Continente molti dei giovani e dei lavoratori di cui avrà sempre più bisogno; e col tempo diventerà un grande serbatoio di consumatori. Di fatto lo è già per i nostri prodotti, scambiati con il gas algerino.
Con il "piccolo" Maghreb l'Europa ha in comune da adesso la malattia della disoccupazione giovanile. Le centinaia di migliaia di giovani che escono da istituti tecnici e facoltà universitarie non trovano un lavoro.
E la crisi generale ha drasticamente ridotto la possibilità di emigrare in Europa. Il 62 per cento dei disoccupati marocchini, il 72 per cento dei tunisini e il 75 per cento degli algerini (secondo l'economista Lahcen Achy della fondazione Carnegie) hanno tra i quindici e i ventinove anni.
Insieme all'impossibilità di trovare un lavoro, questi giovani denunciano l'hogra, termine che esprime l'umiliazione inflitta dall'abuso del potere dei vecchi dirigenti, dal disprezzo e dall'arroganza delle autorità.
Negli ultimi vent'anni la forte crescita economica (quasi sempre superiore al 5 per cento) ha reso più tollerabile il regime poliziesco tunisino. S'era creato qualcosa di simile a un vago patto sociale stando al quale l'autoritarismo e la corruzione venivano compensati dal rapido sviluppo, ammirato, invidiato dai paesi vicini.
La Tunisia dispone di una dinamica e spregiudicata classe imprenditoriale che ha saputo usufruire dei forti investimenti stranieri (francesi e italiani soprattutto) attirati da una mano d'opera abile, competitiva e al tempo stesso a buon mercato.
Lo sconquasso finanziario e la stagnazione economica in Occidente hanno ridimensionato le attività e ridotto il numero dei turisti sulle accoglienti spiagge tunisine.
Se la borghesia imprenditoriale, superprotetta, è rimasta fedele al regime, le classi intellettuali, spesso educate in Francia o influenzate dalla cultura francese, hanno sentito ancor più il peso di una società dominata da un vecchio presidente, circondato da una famiglia celebre per la sua avidità. I giovani hanno concretizzato con la rivolta quella frustrazione.
I vicini paesi occidentali, quali la Francia e l'Italia, esitano ancora oggi a privare del loro sostegno un presidente "laico" che ha impedito ai loro occhi l'avvento di un potere islamico affacciato sul Mediterraneo. Una tolleranza complice e cieca poiché il fanatismo religioso prolifera dove regna l'ingiustizia ed esplode la collera popolare.
Nessuno dei Paesi del "piccolo" Maghreb è immune. Le rivolte giovanili sono potenti detonatori che possono imporre svolte politiche. Per ora questo non è accaduto, pur essendo la stagione propizia.
La vecchia monarchia marocchina, favorita dal prestigio (anche religioso) di cui usufruisce, ha adottato negli ultimi dieci anni, da quando all'abile e spietato Hassan II è succeduto il più mite Maometto VI, un sistema che cerca con alterna efficacia, di aiutare i laureati e i diplomati disoccupati.
Il sovrano, che regna e governa, con uno spirito liberale ben lontano da quello di una democrazia occidentale, ma anche ben distinto da quello dei vicini autoritarismi arabi, ha autorizzato la nascita di associazioni in cui si ritrovano i laureati senza lavoro.
Sono una specie di sindacati che servono anche come sfogo, poiché i suoi membri si raccolgono quasi quotidianamente davanti al Parlamento per protestare. E il governo non è del tutto sordo perché puntualmente ne assume un certo numero nell'amministrazione statale.
Nonostante la forti sperequazioni sociali il Marocco non ha conosciuto finora esplosioni giovanili, anche se si parla spesso di una fitta attività dei movimenti islamisti ansiosi di raccogliere e inquadrare lo scontento.
La vicina Algeria conosce invece puntualmente da anni sanguinose rivolte. Abdelaziz Bouteflika, 74 anni, è stato eletto presidente per la prima volta alla fine del secolo scorso e ha iniziato il terzo mandato nel 2009.
E' un rappresentante della classe politica uscita dalla guerra di liberazione, conclusasi con l'indipendenza, nel 1962. Se è al potere lo deve all'esercito, come tutti i suoi predecessori.
Ad eccezione di Ben Bella, che per tre anni scarsi ha cercato invano di incarnare una rivoluzione, in qualche modo fedele ai confusi progetti abbozzati durante la coraggiosa lotta armata. Grazie agli idrocarburi, che rappresentano il 97 per cento delle entrate, il regime (composto di militari in divisa o in abiti civili) mantiene il paese.
L'hogra, ossia l'umiliazione imposta dallo strapotere delle autorità, è un'espressione di origine algerina. L'arroganza di chi comanda in Algeria non impedisce tuttavia alla gente di parlare (quasi) liberamente, al contrario di quel che accadeva fino a ieri nella vicina Tunisia.
A parte il Marocco, dove la dinastia garantisce un regolare passaggio sul trono, i paesi dell'Africa settentrionale soffrono del male della successione, poiché nessuno vuol lasciare il potere a un estraneo. E quindi non c'è un presidente che non abbia modificato la Costituzione al fine di fare un imprecisato numero di mandati.
Muhammar Gheddafi governa in Libia dal 1969, da più di quarant'anni, ed essendo sulla soglia dei settanta pare stia riflettendo a quale dei due figli lasciare un giorno, ancora lontano, la guida del paese.
Ma il caso più spinoso è quello egiziano. Nella più prestigiosa nazione araba, dove comincia il Maschrek (l'Oriente o il Levante arabo), Hosni Mubarak ha ottantadue anni ed è capo dello Stato da trentadue, dalla morte di Nasser.
E la sua futura grande impresa riguarda come trasmettere il potere al figlio Gamal. La tragedia della piccola Tunisia, dove i giovani si ribellano al vecchio satrapo, può ispirare anche le grandi nazioni.
Il lavoro è un diritto, banda di ladri
di Sihem Bensedrine - Peacereporter - 11 Gennaio 2011
Traduzione a cura di Elena Recalcati e Yvette Agostini
Sihem Bensedrine, scrittrice e giornalista tunisina esule per motivi politici, commenta i tumulti in Tunisia
Come sempre accade in questi casi, i media generalisti hanno scoperto - come d'incanto - che quella del presidente Ben Alì in Tunisia è una soffocante ragnatela nella quale restano impigliate tutte le forme di dissidenza. La rabbia della generazione tradita, per decenni tenuta davanti al bivio tra emigrazione e assenza di prospettive, è esplosa in questi giorni in dure proteste. Soffocate con violenza.
Sihem Benzedrine, giornalista e scrittrice a lungo perseguitata dal governo tunisino, per la sua lotta nella difesa della libertà di stampa e nella denuncia contro la violazione dei diritti umani, attraverso l'uso sistematico della tortura. Scrittrice di romanzi, redattrice di varie testate giornalistiche indipendenti, vive ora in esilio in Germania, sotto la protezione del Pen Club.
Dirige un giornale in internet, Kalima, tutt'ora proibito in Tunisia. Due giornalisti che lavorano per Kalima sono stati arrestati in questi giorni. PeaceReporter riceve e pubblica un suo intervento sui drammatici fatti degli ultimi giorni in Tunisia.
Dal 17 dicembre, la Tunisia è teatro di scontri che sono scoppiati in una regione svantaggiata e che si sono diffusi in tutto il Paese con movimenti di protesta. Il potere reagisce con un giro di vite autoritario.
''Durante i suoi 23 anni di regno, Ben Ali ha dimenticato le regioni interne del Paese; ora i dimenticati della Repubblica si sono ricordati della sua buona memoria!''.
E' così che l'economista Abdeljelil Bedoui commenta gli scontri che sono scoppiati il 17 dicembre a Sizi Bouzid (nella zona centro occidentale del Paese) e aggiunge: ''Questi movimenti di protesta popolare si sono innescati in una regione che registra il record di 32,3 percento di disoccupazione, il più alto del Pease. Questi giovani sono trattati con disprezzo, umiliati dalle autorità e non trovano ascolto né un ambito in cui esprimersi''.
Questa parte della Tunisia meticolosamente nascosta dietro gli indicatori economici presentati come competitivi, ha riversato la sua collera sul Paese, macchiando di sangue l'immagine di una Tunisia "piccola isola di un miracolo economico" e "modello di riuscita per i Paesi in via di sviluppo" realizzato sotto gli auspici di un "Presidente benevolo".
"Il lavoro è un diritto, banda di ladri!" è lo slogan di questa rivolta che si è sollevato come un polverone in tutto il Paese, spingendo al primo posto tra le preoccupazioni popolari la questione della corruzione che imperversa intorno al presidente Ben Ali e che si è diffusa in tutta l'amministrazione.
Tutto è cominciato con un gesto di disperazione di un giovane diplomato disoccupato, Mohammed Bouazizi, che ha tentato di suicidarsi dandosi fuoco, venerdì 17 dicembre, davanti alla sede del Governato (prefettura) di Sidi Bouzid.
Il suo banco di venditore di ortaggi al mercato era appena stato distrutto per l'ennesima volta dalla polizia, un lavoro precario che esercitava per evitare di ammazzare il tempo ciondolando tra i bar della cittadina e per non spillare soldi alla propria madre.
Questi poliziotti cercavano di ricattarlo, come fanno con tutti i venditori ambulanti del mercato, e la punizione per il rifiuto di sottomettersi al loro racket è la distruzione della mercanzia.
Loro stessi sottopagati (circa trecento dinari al mese), i poliziotti sbarcano il lunario estorcendo denaro ai cittadini. I loro superiori li incitano a queste pratiche per poterli gestire meglio. Così non c'è più spazio per i sentimenti, per coloro che sarebbero inclini a recalcitrare di fronte all'esecuzione di lavori sporchi.
Il cinismo si spinge fino al punto di farli imprigionare e fargli pagare sanzioni amministrative per poi reinserirli nel circuito, senza dubbi sulla loro sottomissione.
E' così che tra il 2009 ed il 2010, 1300 funzionari di polizia sono stati oggetto di inchieste amministrative per corruzione e abuso di potere.
Il sistema è quindi percepito dalla maggior parte della popolazione come altamente corrotto. Uno studio compiuto per Global Financial Integrity (Gfi), ha mostrato che le fughe di capitali illeciti sono cresciute in Tunisia sino a circa diciotto miliardi di dollari. Una somma che coprirebbe la totalità del debito estero del Paese!
La corruzione diffusa nell'entourage del presidente è diventato l'argomento quotidiano di conversazione dei tunisini; nei cables di WikiLeaks sulla Tunisia si può leggere cosa ne pensa l'ambasciatore Gordon Gray: "Il presidente Ben Ali sta invecchiando, il suo regime è sclerotico e non ci sono successori evidenti. Numerosi tunisini sono frustrati dalla mancanza di libertà e provano rabbia nei confronti della famiglia presidenziale, della corruzione, della disoccupazione diffusa, delle disuguaglianze regionali. [...] La Tunisia è uno stato di polizia, con poca libertà d'espressione e di associazione, e con gravi problemi di diritti umani."
Dopo Sidi Bouzid, Menzel Bouzayan, Mazzouna, Meknessi, tutte le comunità vicine si infiammano, scandendo i medesimi slogan contro la corruzione e la tirannia del potere.
La reazione ufficiale è un giro di vite autoritario. Ben Ali promette "di applicare con fermezza la legge" e dà l'ordine di sparare sulle folle inferocite uccidendo tre giovani e ferendo centinaia di manifestanti, buona parte dei quali non può essere trasportata negli ospedali a causa dei posti di blocco della polizia che impediscono il traffico su tutte le strade.
Gli arresti dei giovani si contano a centinaia e viene decretato il coprifuoco.
Nel giro di due settimane, si organizzano movimenti di solidarietà in tutte le città del Paese (Jendouba, Le Kef, Feriana, Kairouan, Kasserine, Gafsa, Djerba, Sfax, Monastir, Sousse, Tunisi) e degenerano in confronti con le forze dell'ordine, che hanno represso con mano pesante le manifestazioni pacifiche.
Ai giornalisti viene impedito di seguire gli avvenimenti, coloro che han tentato di fare il proprio lavoro sono stati aggrediti con violenza o arrestati.
L'attacco più grave però è stato contro gli avvocati. Il 31 dicembre, gli avvocati dovevano portare un bracciale rosso su indicazione del Consiglio Nazionale dell'Ordine, in segno di solidarietà, ma sin dall'alba, tutti i tribunali del Paese sono stati assediati dalla polizia, che ne ha impedito l'accesso agli avvocati.
Numerosi avvocati sono anche stati aggrediti e feriti, in particolare le loro vesti sono state strappate nei tribunali di Gafsa, Jendouba, Mahdia, Djerba, Monastir, Sousse, Sfax e soprattutto a Tunisi, dove gli avvocati feriti sono stati numerosi. Il Consiglio dell'Ordine ha indetto una giornata di sciopero per il 6 gennaio in seguito alle aggressioni della polizia avvenute nei tribunali.
L'Unione regionale del sindacato di Sidi Bouzid, a sua volta, ha annunciato uno sciopero generale per il 12 gennaio.
Temendo una reazione degli studenti, la polizia ha ugualmente utilizzato 'preventivamente' la violenza contro i liceali che hanno ripreso i corsi il 3 gennaio, provocando degli scontri in numerose località, Ben Guerdan, Kassarine, Gabes, Gafsa, Chebba, e Thala, dove la sede del partito al potere è stata data alle fiamme. Una cosa è certa, con questa gestione esclusivamente autoritaria, la collera popolare non è prossima a placarsi.
L'Unione Europea, che sta negoziando uno statuto avanzato di partenariato con la Tunisia, mantiene un silenzio sconcertante; il 3 gennaio, la Rete Euromediterranea dei Diritti dell'Uomo (Remdh) ha lanciato un appello ''all'Unione Europea per prendere pubblicamente posizione sulle gravi violazioni dei diritti umani avvenute in Tunisia durante la repressione delle manifestazioni a sostegno degli abitanti di Sidi Bouzid''.
Tunisia, c'è una strage sotto casa, fate finta di niente
di Miguel Martinez - http://kelebeklerblog.com - 13 Gennaio 2011
"Presidente, il tuo popolo è morto “, annuncia il rapper tunisino, Hamada Ben Amor.
A due passi dall’Italia, un regime messo in piedi un quarto di secolo fa dai servizi segreti italiani, sta facendo strage dei propri cittadini in questi giorni.
Nel primo pomeriggio, i morti assassinati dalla polizia erano 66, ma in queste ore sembra che siano morte ancora altre persone.
Mentre la Francia offre ufficialmente il suo aiuto tecnico per “gestire” le manifestazioni, il ministro degli Esteri italiano, Franco Frattini (quello dell’ elicottero), ha riaffermato ieri il sostegno del governo italiano al regime tunisino.
Di ciò che sta succedendo, ne parlano davvero pochi.
Fondamentale, il sito (in lingua francese) Nawaat.
Poi, c’è la giovane e bravissima blogger egiziana Zenobia che scrive in inglese.
Da noi, ne parlano Bousoufi (con un post importante sulle origini della rivolta), Canale di Sicilia, Doriana Goracci, Falecius, Baruda e non tanti altri.
Alcune cose si trovano sull’aggregatore Islametro, che lentamente sta diventando una fonte importante per capire ciò che succede in Medio Oriente.
Intanto, traduco un brano che ho trovato su un sito belga cui mi sento molto vicino, come approccio al mondo, Les Indigènes du Royaume, e vi presento anche il video di una manifestazione a Tunisi, con un discorso notevole sottotitolato in francese.
Questi bastardi di tunisini che vogliono guastarci le prossime vacanze a Gerba la dolce e a Hammamet… questi bastardi di tunisini che non capiscono niente di laicità e di « diritti delle donne » (anche senza « diritti dell’uomo »), che sono l’alfa e l’omega dei valori democratici universali, che dico, intergalattici… questi bastardi di tunisini che stanno per rovinare il nostro pezzo da esibizione nella grande truffa dell’unione euro-mediterranea, nostra riserva privata… questi bastardi di tunisini che ci servivano come modelli per vendere al Sud le nostre parousie occidentali, a chi le venderemo adesso? …
Questi bastardi di tunisini, che invece di fare i fedeli guardiani contro l’Africa nera, si immolano nel fuoco come dei cretini… questi bastardi di tunisini, che grazie al regime del “marito della parrucchiera” erano considerati come il baluardo contro l’islamismo, a chi facciamo credere all’esistenza di “Al-Qaida-Maghreb-e-io-con-le-chiappe-sul-divano » ?…
Questi bastardi di tunisini, che ci svelano a noi stessi e, come in uno specchio, ci mostrano la maschera ghignante del nostro cinismo e della nostra "iprocrisia…
Video con sottotitoli in francese
P.S. Mi segnalano che ne parlano anche Canzoni contro la guerra
http://www.antiwarsongs.org/canzone.php?lang=it&id=37623
e “Fortress Europe” da cui Canzoni contro la guerra ha tratto la traduzione
http://fortresseurope.blogspot.com/
Algeria, la guerra dimenticata dagli intellettuali di corte
di Karim Metref* - Peacereporter - 10 Gennaio 2011
Una struttura politica molto complessa che tiene insieme il Paese in un equilibrio fragile. L'autore algerino spiega il contesto in cui vanno collocate le rivolte
In questi giorni, le agenzie internazionali hanno tirato fuori la zone Nord dell'Africa dal dimenticatoio mediatico in cui era immersa da quando è finita la sanguinaria guerra civile in Algeria.
In prima pagina di tutte le agenzie e di tutti i giornali internazionali campeggiano notizie sulle sommosse in Algeria. Ma cosa succede in Algeria? E che lettura politica se ne può fare?
Per far vedere questa impreparazione a parlare della zona basta citare il fatto che nei media Italiani a mo' di esperto l'Ansa non ha trovato meglio che intervistare il sempiterno Tahar Ben Jalloun, che ha dichiarato: "Se gli algerini e i tunisini continuano ad essere stretti nella morsa di regimi totalitari, se in questi giorni la rabbia dei giovani senza speranze nel futuro sta esplodendo nelle strade da una parte all'altra dei due paesi maghrebini, lasciando sul terreno morti e feriti, è colpa anche dell'Italia e della Francia, che da anni continuano ad ignorare le violazioni delle libertà più elementari, l'indigenza delle popolazioni, pur di fare affari con Tunisi e Algeri, dove la democrazia non è certo di casa. (...) Come peraltro nell' Egitto di Mubarak, nell'Iraq di Saddam, nella Siria di El Assad, o in Cina."
Certo che lo scrittore marocchino, che da sempre è stato considerato privo di spessore politico, negli ultimi anni si sta svelando un intellettuale molto impegnato!
Impegnato a ripulire con la lingua le parti posteriori del titolare del trono di Rabat, però.
Questo non perché ciò che dice dell'Algeria e della Tunisia sia completamente infondato, anzi... Ma perché, stranamente, ha dimenticato di nominare anche il Marocco tra le dittature amiche alle quali vengono perdonati crimini, saccheggi e violazioni dei diritti a spese dei rispettivi popoli.
Ma cosa succede in Algeria, esattamente?
Nessuno lo sa. La situazione algerina, credo, è un enigma anche per chi la domina e usa mille sotterfugi e manipolazioni per tenere le redini del potere.
La natura del potere algerina non ha, come in Libia, in Tunisia o in Marocco, il classico schema delle dittature arabe con una figura forte alla testa, lo "Zaim", e una classe mafiosa, violenta, corrotta e corruttrice, intorno a lui, in uno schema piramidale quasi perfetto.
Il potere algerino è una geometria molto complessa fatta di un misto di poteri militari, politici, economici, di false legittimità storico-rivoluzionarie e di vere legittimità "claniche" costruite intorno ad appartenenze geografiche, all'appartenenza ad una confraternita religiosa, ad un gruppo di famiglie alleate tra di loro, o, come nel caso di molti generali, tra quelli che misero il paese a ferro e a fuoco negli anni 90, all'adesione ad un piano comune di presa di potere, speso sostenuto da qualche potenza internazionale.
L'equilibrio tra queste forze tiene quando c'è un polo forte e ricchezze sufficienti da spartirsi.
Dal 1999, anno di ritorno dell'attuale presidente dal suo esilio dorato nei paesi del golfo, ad oggi, il sistema ha tenuto grazie ad un accordo conveniente per tutti, al consenso internazionale intorno alla persona di Bouteflika, alla figura forte di Bouteflikastesso e soprattutto grazie alle enormi rendite del petrolio.
Oggi, in questa ennesima protesta "detta del pane", cos'è che non funziona più? Cos'è che si è rotto nell'ingranaggio del potere algerino?
Sicuramente, la causa non è la crisi economica . Gli effetti della crisi mondiale hanno toccato pochissimo l'Algeria. Il prezzo del petrolio prima fonte di reddito del paese è arrivato a prezzi mai sognati in passato.
Lo stato algerino non è mai stato così ricco, come in questi anni. Il governo ha negli ultimi dieci anni cancellato definitivamente il suo debito internazionale e ha ancora le casse strapiene di soldi.
Certo che i rialzi dei prezzi sono una causa scatenante. I rialzi improvvisi dei prezzi di alcuni generi di prima necessità sono dovuti alla speculazione e non agli aumenti improvvisi sul mercato internazionale.
L'Algeria non è come la Tunisia, dove il commercio é completamente in mano privata e dove ogni rialzo su livello internazionale ha effetti diretti sul mercato locale.
Il mercato algerino degli alimenti di prima necessita é fortemente regolato dallo stato. Riminiscenza dell'era socialista, i prezzi dei cibi di prima necessita in Algeria sono protetti. Il pane e il latte, soprattutto. Ma anche l'olio e lo zucchero, i prodotti che hanno causato l'infiammata di questi giorni.
Le penurie, però, sul mercato algerino sono un fenomeno endemico. Utilizzate per speculare e fare soldi o per creare tensioni sociali.
Altro fenomeno endemico nella società Algerina è sicuramente la sommossa.
Dalla prima insurrezione post Indipendenza della Cabilia del 1980, ci sono state periodicamente sollevamenti popolari. Addirittura, dal 2001 al 2010, le sommosse popolari sono state decine ogni anno.
Le penurie in Algeria sono endemiche così come lo sono anche le sommosse... Ma allora é tutto normale quello che succede? No. Non é normale, per vari motivi. Ne cito due, che considero principali. Il primo é la contemporaneità con la Tunisia. Il secondo è l'interesse dato dalla stampa internazionale a tutte due le rivolte.
Cominciamo con il primo punto. Come detto prima il sistema tunisino non é come quello algerino. Si basa sulla figura del leader assoluto e su un rigido controllo poliziesco del territorio. Le sommosse non fanno parte del costume politico tunisino.
In Tunisia si rischiano pesantissime pene di prigione solo per aver aperto un sito sbagliato su Internet (leggere ad esempio il caso dei "giovani di Zarzis" sul rapporto di Amnesty international del 2007).
Le proteste in Tunisia sono rare, rarissime.Quando ci sono, sono sinonimo di grande crisi sociale, ma anche di grande debolezza del sistema politico poliziesco. Qualcosa si sta muovendo.
Poi di strano c'è la contemporaneità. Finora non ci sono mai stati fenomeni di contagio tra i due paesi. Le proteste nei paesi del Maghreb sono sempre state isolate.
La seconda anomalia è la copertura data alle sommosse sia in Algeria che in Tunisia dai media internazionali. Non è sempre così! Ci sono state tantissime rivolte popolari ignorate dai media nel passato.
Quanti di noi hanno sentito parlare delle insurrezioni della Cabilia dal 2001 al 2004, in Algeria. Pochissimi. I network internazionali hanno completamente ignorato l'evento. Stessa cosa per le rivolte dei minatori nel bacino minerario di Gafsa e Radayef in Tunisia tra il 2008 e il 2009. Silenzio totale. Perché allora queste?
Sia la diffusione veloce delle violenze, sia la copertura ampia da parte dei network internazionali, sono, secondo me, segno del fatto che, sia internamente che esternamente, c'è un accordo per un cambiamento.
Se si fa il parrallelo anche con il caso della Còte d'Ivoire, si potrebbe dedurre che in Africa le potenze occidentali hanno deciso di giocare insieme e non più una contro l'altra. In un tentativo di limitare l'occupazione da parte della potenza cinese di terreni di caccia che una volta erano riservati all'occidente.
Cambio di strategia che vuol dire anche riorganizzazione dei poteri locali, ridistribuzione del potere tra le mani dei vari alleati interni. Cosa, che come ogni ridistribuzione di potere non può avvenire senza violenza e senza legittimità popolare, vera o finta che sia.
Quindi ci resta solo ad aspettare per capire cosa ci porteranno queste sommosse. Quelle del 1988 portarono la fine del socialismo aprendo alla borghesia di stato la via dell'investimento privato. La guerra civile segnò la fine del monopolio di stato sulle riserve d'energia.
Ora forse arriverà una nuova coalizione, ultra liberale, sicuramente, islamista moderata, probabilmente... ugualmente sostenuta dalle varie potenze occidentali. E viveranno felici e faranno molti piccoli gestori del petrolio delle multinazionali.