venerdì 7 gennaio 2011

Update italiota

Un aggiornamento sugli avvenimenti italioti d'inizio 2011...


Spartacus a Cortina, la rivolta dei Vespa contro il premier
di Luca Telese - Il Fatto Quotidiano - 7 Gennaio 2011

Dalla primavera di Praga a quella di Cortina: si respira aria di rivoluzione, terremoto di valori. E in mancanza del centrosinistra (che, come è noto, langue), questa brezza non può che soffiare a destra, con effetti speciali capaci di stupire.

Sarà l’aria rarefatta del Cadore? O sarà l’effetto inebriante di un fungo allucinogeno?

Sta di fatto che in due soli giorni, a partire dallo storico tempio cisnettiano (quello dove un tempo spopolavano Gianni non ancora “Aggiungi-un-posto all’Atac” Alemanno e Magdi, non ancora Cristiano, Allam), si è diffusa nel centrodestra una strana e inebriante aria di rivolta, persino tra gli storici quadrumviri del berlusconismo.

Chi critica il Cavaliere, chi lo motteggia, chi ne dichiara imminente la scomparsa, chi lo sbeffeggia, chi gli detta ultimatum. Povero premier. Eppure non era la festa de Il Fatto, ma lo stesso Palalexus dove in anni passati bastava dire “Silvio” per raccogliere applausi impellicciati con il badile.

Il primo feroce attacco al primato morale e (sessuale) del “Cavaliere di Hardcore” (copyright travagliesco) non è venuto dunque dagli autori di Papi, ma da quel Vittorio Feltri che alcuni lettori di centrodestra nostalgici della vecchia linea sui siti ci rimproverano – nientemeno – di aver “plagiato”. Ebbene, Feltri due-la vendetta ha picchiato duro: “Mi auguro che il prossimo presidente della Repubblica non sia Berlusconi: immaginate che cosa potrebbe succedere… Escort al Quirinale…”.

In linea con il nuovo corso eversivo di Libero, su cui Maurizio Belpietro difende Tremonti, mentre sul Il Giornale Mario Giordano gli fa la pelle, come possibile traditore del Cavaliere.

Ma si potrebbe dire: Feltri è Feltri, poi gli altri hanno rimediato. Invece anche Bruno Vespa, deve aver avuto qualche istante di trance, o deve essere caduto vittima del fungo travaglista.

Infatti, dallo stesso palco, con il suo meraviglioso completino girocollo in taffetà nera (pare una divisa rubata ai Clingon di Star Trek, lo ha messo anche da Antonello Piroso) ha tuonato “Se Berlusconi campa ancora due anni politicamente….”. Se? “Deve avere il coraggio di mettere le palle sul tavolo e fare le grandi riforme, altrimenti – ha aggiunto Vespa – siccome il problema della quarta settimana non ce l’ha, è meglio che se ne vada!”.

Nientemeno. Un avviso di sfratto. E così Berlusconi si trova stretto tra gli antiberlusconiani di destra, e le affettuosità al curaro degli alleati (un tempo!) affidabili.

Come il ministro dell’Interno Bobo Maroni, che ha discettato spericolatamente in Transatlantico su corrispondenze asimmetriche tra calcio e politica: “E’ una legge infallibile. Se il Milan va bene la politica di Berlusconi va in crisi, quando il Milan va male Silvio Vince le elezioni, eh, eh…”.

E c’è davvero poco da ridere per due motivi. Il primo: il Milan ieri ha vinto (contro il nostro amato Cagliari, sigh) ed è primo in classifica (applicando il teorema Maroni significa perlomeno crisi). E poi perchè l’ultima coltellata è arrivata – tu quoque – proprio da dove Silvio non immaginava tradimenti, dal fortino della guardia repubblicana di Alessandro Sallusti.

Possibile? Sì, possibile. Due giorni fa, su Il Giornale, Vittorio Macioce, l’elzevirista del quotidiano, da interista, ha dedicato uno spillo alla speranza che i rossoneri perdano lo scudetto. Il pezzo si intitolava: “Mi consenta”. Il dissenso berlusconiano, ormai, ha assunto dimensioni drammatiche: Sacharov al confronto era un dilettante.


Il metodo Signorini. La politica rotocalco
di Filippo Ceccarelli - La Repubblica - 7 Gennaio 2011

Al contrario del"caso Boffo", il trattamento punta sul gossip "soft" e maligno. Il direttore di "Chi"
ha svolto indubbi compiti di pink-tank negli affari di Noemi e Veronica

Il metodo Signorini è il contrario esatto del metodo Boffo, anche se punta allo stesso scopo, che resta la produzione del discredito, però da mettere in scena con le modalità dell'intrattenimento dinanzi a 2 milioni e 300 mila innocenti telespettatori. Questo si è capito l'altro ieri notte su Canale 5, a partire dalle 23, per poco più di cinque minuti, un'eternità, con la partecipazione straordinaria del presidente del Consiglio.

La lotta politica ridotta a rotocalco, un nemico simbolico rosolato sullo spiedo del gossip e servito in pasto a un Berlusconi telefonico su di un vassoio televisivo. In ballo non c'erano - né francamente potevano esserci - accuse di omosessualità, nemmeno vagheggi immobiliari a Montecarlo.

Ma semplici foto, di famiglia: un D'Alema "vestito di cachemire da capo a piedi", in realtà in tenuta da neve, e comunque immortalato, ebbene sì, a Sankt Moritz.

Tanto è bastato per mostrare con sorrisini, faccette e finti stupori al gentile pubblico non pagante la prima rimarchevole esecuzione all'insegna, appunto, del trattamento Signorini.

Che consiste sempre nel chiamare e inquadrare il nemico nel campo delle umane debolezze, ma invece di assestargli una gragnola di cazzotti o un fracco di legnate, gli si spruzza addosso un flacone di fetida malignità.

Frattanto in studio, debitamente sollecitata, la platea acconsente rumorosa al rituale di scherno, ludibrio e degradazione. Quindi si annuncia la telefonata di "Lui, il Numero Uno", che fa il suo breve, ma assortito predicozzo, dalla ferocia del comunismo al giuramento di castità nei confronti delle donne di sinistra.

Dopodiché il format di Kalispera, si reimmerge in un'euforia meno impegnativa, per quanto a tratti sensuale e lacrimosa, allineando i dolori famigliari di Barbara D'Urso, l'inconfessato bondage di Elena Santarelli, i sospiri al piano di Gigi D'Alessio e della Tatangelo e l'appello di Signorini, invero lodevole, a voler sempre bene alla propria mamma, dandole anche delle carezze. A riprova che al giorno d'oggi nulla è più terribilmente serio delle cose un tempo ritenute frivole.

Ora, D'Alema non ha bisogno di difensori. Se andasse a passare le vacanze in qualche località meno da ricchi, come faceva Romano Prodi con la sua vecchia giacca da sci, sarebbe meglio per tutti.

Ma non è questo il punto. Il rilievo della faccenda sta nella malizia tutta visiva, nell'insinuazione pettegola e un po' anche nella cortigianeria barocca che con il 2011 approdano in televisione secondo i moduli espressivi e mordaci, dispettosi, pungenti, per non dire velenosi, che fino a ieri Signorini aveva utilmente sperimentato ai danni dei concorrenti del Grande Fratello, e a volte anche dei loro poveri parenti ospitati dalle reti Mediaset, che arrivavano a piangere in trasmissione.

Il cambio di bersaglio è una novità relativa. E non solo perché il potere si adegua ai tempi rimanendo sempre uguale, con il che incessantemente i sovrani dispongono di Tigellini, Mazarini, Rasputini e Signorini, come del resto si scherza nei corridoi tra Cologno e Segrate.

Da tempo il direttore di Chi e di Sorrisi e canzoni, personaggio neanche troppo antipatico e niente affatto incolto, ha assunto una centralità nel cuore del berlusconismo reale. Per cui, oltre che dar vita ai cataloghi devozionali della Real Casa (il corpo nudo della ninfa Marina, i muscoloni e le prodezze ginniche di Piersilvio, nonno Silvio in copertina con il nipotino durante l'affaire D'Addario, a parte la ripulitura di alcune ospiti di Palazzo Grazioli e qualche pizzicata a Veronica, a suo tempo qualificata come Aspasia) Signorini ha svolto indubbi compiti di pink-tank specie durante il caso di Noemi (reportage sul party di Casoria, propagazione della verginità della ragazza, reperimento di un finto fidanzato con baci famigliari sullo sfondo del Vesuvio).

Così come sul caso Marrazzo, dalle carte giudiziarie lo si è potuto seguire mentre riproduce di soppiatto il video-hard, e quindi tesse, avverte, traffica, consiglia, riferisce, smista la curiosità sull'agguato al governatore nel quadro della controffensiva berlusconiana.

C'è poco da scandalizzarsi. Questa è oggi la politica, e a parteciparvi è abbastanza normale che siano chiamati quanti, per dirla con Il Cortegiano di Baldassarre Castiglione, "si sforzano con ogni studio ed industria di trovarci dentro o errore o almen similitudine d'errore".

In questo senso, là dove ieri c'erano idealità, culture politiche e interessi radicati, il metodo Signorini trova davanti a sé una prateria da ripopolare e al tempo stesso da biasimare con il più avvincente e cinico story-telling sulle umane fragilità.

Sentimenti, risentimenti, tradimenti coniugali, chili di troppo, malattie nascoste, botulini andati a male, improbabili tinture di capelli, eutanasie postume, gravidanze sospette, molestie sessuali presunte, patite o denunciate temporibus illis.

Su questa autostrada, D'Alema a Sankt Moritz rischia di essere poco meno di un insipido aperitivo. La didascalia maliziosa, la battutina agrodolce, la sequenza mefitica, il filmato disperato, non c'è nulla che non sia paparazzabile in seconda serata: capi d'abbigliamenti costosi e mutande sporche, etilometri e stalking, file saltate e auto malamente parcheggiate, beghe di famiglia e parentele imbarazzanti, costruzioni abusive e grane condominiali, calzini bucati e calzini celesti...

Avessero dato a Signorini il filmato sul povero giudice Mesiano, chissà cosa ci avrebbe tirato fuori, magari con un'altra bella telefonata "a sorpresa", prima di ritornare alle risatine, ai rossori, ai languori, alle coccole e ai peluche di una politica che resta pur sempre il proseguimento della guerra con altri mezzi.


I rifiuti di Napoli e il quarto miracolo
di Guido Viale - Il Manifesto - 4 Gennaio 2011

Berlusconi ha annunciato il quarto dei miracoli con i quali, nel giro di pochi giorni, libera dai rifiuti Napoli e la Campania. I precedenti tre sono andati male; la spazzatura non se ne è andata dalle strade, oppure è ricomparsa dopo qualche mese.

Qualcuno - per esempio il manifesto - lo aveva previsto fin dai primi mesi del suo governo. Non era difficile: Bertolaso non stava facendo altro che accumulare i rifiuti in discariche - illegali - che presto si sarebbero riempite.

Mentre venivano trascurate, ma anche ostacolate, le misure di un ciclo «virtuoso» dei rifiuti: riduzione alla fonte, promozione del riuso, raccolta differenziata spinta, compostaggio - domestico, in impianti o in fattoria - della frazione organica; impianti per il recupero degli imballaggi; revamping degli impianti per la separazione, il trattamento e il recupero della frazione indifferenziata; studi - perché nulla se ne sa; nemmeno quante sono realmente - per risolvere il problema delle ecoballe; bonifica delle zone - ma si tratta di due intere province! - devastate dai rifiuti tossici ad opera della camorra; misure per prevenire il ripetersi di quelle pratiche; ma, soprattutto, una collocazione alternativa per due terzi degli oltre 25mila addetti campani al ciclo dei rifiuti (almeno il triplo del necessario), assunti o abbindolati con l'idea che la gestione dei rifiuti fosse un pozzo senza fondo in cui sprofondare senza alcun progetto, oltre ai residui dei nostri consumi, anche gli scarti di una gestione dell'occupazione dissennata.

Unico obiettivo strategico del governo, come nei devastanti 14 (allora) anni di commissariamento (di cui quasi 6 sotto la diretta responsabilità dei precedenti governi Berlusconi), la corsa agli inceneritori: il deus ex machina a cui affidare una sparizione dei rifiuti di cui non si sa più come bloccare la crescita: quattro, o cinque, oppure tre, di nessuno dei quali sono stati ancora stabiliti progetto o localizzazione definitiva.

E' solo stato messo in funzione, con fanfare, grancassa e passaggi di mano complessi e secretati, l'inceneritore di Acerra, il cui progetto è vecchio di 50 anni e che funziona un giorno sì e l'altro no.

Eppure, per oltre due anni, a Berlusconi è stato accreditato il «miracolo» della scomparsa dei rifiuti campani: non solo dai suoi supporter, ma anche da avversari che hanno preso per buona la propaganda del governo senza fare inchieste né avere un'idea del problema: dai maggiori quotidiani nazionali, che hanno più volte tributato ampi riconoscimenti al governo, ai dirigenti del Pd, che ha approvato tutti i disastri perpetrati da Bertolaso.

E questo, nonostante che in Campania, nel 2008, fosse all'opera un forum rifiuti a cui partecipavano decine di organismi di base, di associazioni del volontariato, i sindacati, le associazioni imprenditoriali, le camere di commercio, che di idee e informazioni in proposito ne stava producendo a iosa.

Vediamo per esempio che cosa scriveva il 6 agosto 2008 su la Repubblica Tino Iannuzzi, segretario regionale del PD campano: «Abbiamo giudicato con favore la nomina da parte del governo, del sottosegretario Bertolaso, figura autorevole di dirigente dello stato e di uomo delle istituzioni. Il suo operato, in proficua e leale collaborazione con la regione e gli enti locali, è stato intenso e positivo con interventi emergenziali e urgenti, che hanno consentito il superamento della fase più acuta della crisi, con la rimozione dei rifiuti dalle strade».

Nemmeno accorgersi che il grosso della rimozione dei rifiuti era stata già realizzata - con metodi più che discutibili - dal precedente commissario De Gennaro sotto il governo Prodi!

E, prosegue Iannuzzi: «Abbiamo sostenuto con determinazione le scelte dei siti per la localizzazione di nuove discariche e degli impianti necessari per un ciclo moderno e completo di gestione dei rifiuti. Simbolicamente (sic!) abbiamo detto e ripetiamo che sindaci del Pd con la fascia tricolore non saranno mai alla testa di proteste popolari per contestare le decisioni... Ci siamo posti l' obiettivo di lavorare, nella conversione del decreto legge sui rifiuti».

E' il decreto che oltre ai quattro inceneritori e alle dieci discariche - tre delle quali persino Berlusconi è stato costretto a annullare, perché contrarie alla legge, alla salute e al buon senso - autorizzava le discariche campane ad accogliere anche rifiuti tossici - quelli fino ad allora sversati nei Regi Lagni del Casertano - e gli impianti di depurazione degli scarichi civili ad accogliere anche reflui industriali; smantellava gli impianti di separazione del secco dall'umido e di trattamento di quest'ultimo, perché tutto potesse finire negli inceneritori, la cui capacità era sovradimensionata proprio per evitare la raccolta differenziata; non stanziava alcun fondo per questa - anche se fissava al 2010 (ormai trascorso!) l'obiettivo del 50 per cento - né per il compostaggio della frazione organica. E bravo Iannuzzi!

Che così continuava: «E' stato il Pd, con l'emendamento del sottoscritto approvato in commissione mmbiente della camera, a favorire la concessione degli incentivi Cip6 per i termovalorizzatori di Salerno, Napoli e Santa Maria La Fossa.

Su questo tema ostico i parlamentari campani del Pd si sono battuti con coraggio e forza, nel partito e nella discussione in aula per la concessione, in via straordinaria ed eccezionale, di contributi indispensabili per superare le tante e rilevanti difficoltà che ostacolano da noi la costruzione dei termovalorizzatori».

Due anni dopo è uno degli esponenti di punta del Pdl, Gaetano Pecorella, presidente della commissione parlamentare di indagine sulla presenza della malavita organizzata nel ciclo dei rifiuti, a spiegare che la partita degli inceneritori avrebbe dovuto essere chiusa da tempo: « residuale, perché si dovrà puntare sul riutilizzo dei materiali, sviluppando la fase del recupero.

E' l'obiettivo, per esempio, che hanno in Germania: quello di arrivare al 90 per cento di riutilizzo. L'avvenire è questo». (Liberal, 20.10.2010).

Perché allora insistere sugli inceneritori? Per incassare la rendita degli incentivi Cip6, che l'Unione europea ha messo al bando. E chi se ne frega se i rifiuti restano per strada per qualche anno ancora.

Sugli inceneritori passano anche, a volo radente sostanziose tangenti su cui in Campania la componente del Pdl più direttamente legata alla camorra sta mettendo le mani, con la loro assegnazione alle amministrazioni provinciali che controlla.

Altro che mezzo per eliminare dalla gestione dei rifiuti la camorra, come hanno sempre sostenuto gli inceneritoristi ad oltranza! Leggere, per saperne di più, il libro La Peste di Tommaso Sodano. E per finire, Iannuzzi non fa una parola sugli «esuberi» del settore; il che, per un partito che dovrebbe occuparsi dei lavoratori, sembra una grave dimenticanza.

Dunque, se siamo arrivati a questo punto (discariche piene, impianti di compostaggio e di trattamento (Stir, ex Cdr) chiusi o fuori uso, raccolta differenziata, con poche significative eccezioni, a terra, consorzi e comuni indebitati fino al collo e impossibilitati ad avviare un ciclo virtuoso, migliaia di lavoratori a rischio di licenziamento) lo dobbiamo non solo a Berlusconi e Bertolaso, ma anche al Pd, che in materia (ma non solo) la pensa esattamente come loro.

Così, tra le scelte del Pd spicca anche la gestione dissennata dell'Asìa, l'azienda di igiene urbana di Napoli. Certo, la situazione ereditata dal management nominato dalla giunta Iervolino all'inizio del 2008 non era delle più rosee: raccolta differenziata quasi a zero, mezzi vecchi e non funzionali, personale anziano, in larga parte in subappalto, mancanza - come ovunque, in Campania - di impianti di compostaggio; scarsità di risorse liquide e forte indebitamento.

Ma in due anni la raccolta differenziata su tutto il territorio cittadino avrebbe potuto venir organizzata.

Decine e decine di comitati, di associazioni, di parrocchie e molte municipalità erano pronte a dare una mano (e avevano dimostrato una certa efficacia nei giorni più duri dell'emergenza). Salerno è riuscita in un anno a passare dal 14 al 70 per cento; Napoli è ancora sotto il 20, procede con passo da lumaca ed è anche tornata indietro.

Perché Asìa ha puntato tutto su quello che chiama «chiusura del ciclo», cioè sull'inceneritore per bruciare tutto subito: prima cercando una partecipazione in quello di Acerra; poi aspettando quello di Napoli.

Nel frattempo non ha costruito nemmeno una stazione ecologica per i rifiuti ingombranti (li potete vedere per strada in tutte le «cartoline» televisive di Napoli; nemmeno un impianto di compostaggio (per cui c'erano due progetti già pronti); ha avuto in gestione gli impianti di separazione secco-umido di Tufino e Giugliano: il primo quasi nuovo e il secondo (dove c'è stata anche un infortunio mortale) appena ristrutturato; e li ha mandati in malora.

Adesso utilizza parzialmente quello di Santa Maria Capuavetere, in provincia di Caserta, che funziona a pieno ritmo: il che significa che quegli impianti possono essere rimessi a nuovo.

Ha gestito in modo demenziale, risparmiando sulle coperture in terra dei rifiuti sversati, la discarica Sari di Terzigno, che adesso le è stata giustamente sottratta.

Così non sa più dove sversare; e quindi non può neanche raccogliere. Per i conferimenti dipende interamente dall'amministrazione provinciale in mano al PDL di Cesàro e Cosentino, che, in vista delle elezioni, hanno tutto l'interesse a far marcire la situazione per addossarne la responsabilità alla Giunta «di sinistra» di Napoli.

Poi c'è il problema delle ecoballe: nessuno ne parla, ma c'è quasi un miliardo di garanzie bancarie (con istituti di primaria rilevanza nazionale) affidati a quel mucchio di rifiuti come fossero altrettanti barili di petrolio (e lo diventeranno se si farà un numero sufficiente di inceneritori per smaltirle beneficiando degli incentivi CIP6).

Ma se dovessero venir smaltite altrove, a pagamento, si trasformerebbero in un costo astronomico di almeno un paio di miliardi. Così, finché la cosa non sarà chiarita, a tenere in sospeso la vicenda dei rifiuti campani, oltre alla camorra e all'inettitudine di molte amministrazioni locali, ci sarà anche un pool di banche.

Infine c'è l'esercito, che continua a «presidiare» discariche e inceneritore. I militari in servizio vengono pagati (Ministero della Difesa) come se fossero in missione in Afghanistan a rischiare la vita. Ma, controllando le discariche, sanno dove portare i rifiuti che molti Comuni sono costretti a tenere per strada perché non hanno a disposizione impianti di conferimento.

Così non è raro vedere squadre di decine di militari prelevare un cumulo di rifiuti stradali per cui basterebbero due addetti alla nettezza urbana. Anche per questo l'emergenza non finirà molto presto.

Nell'immediato, una soluzione per superare l'emergenza (e poi procedere subito su tutti gli altri punti) ci sarebbe: a Parco Saurino, in provincia di Caserta e in terra di camorra, c'è una discarica vuota da 300mila metri cubi (ampliabile fino a 600).

C'è da anni e avrebbe potuto evitare anche l'emergenza del 2008, se fosse stata messa a disposizione. Invece è rimasta vuota per drammatizzare la situazione campana su cui Berlusconi stava conducendo la sua vittoriosa campagna elettorale.

Adesso Berlusconi sostiene che qualcuno ostacola i suoi piani. Sa di che cosa parla. C'è qualcuno, nel suo stesso partito, molto interessato a mantenere le mani sui rifiuti.

Costui non vuole levargli le castagne dal fuoco per fargli riuscire di nuovo il «miracolo»: fino a che, per lo meno, non gli saranno state consegnate le chiavi di tutto il ciclo dei rifiuti: cominciando dalle deroghe sulla tracciabilità dei rifiuti, che ha tanto fatto arrabbiare (per finta) lo pseudo ministro Prestigiacomo.


L'aziendalizzazione targata Gelmini
di Bruna Brioni - Altrenotizie - 6 Gennaio 2011

Con il voto definitivo del 23 dicembre in Senato la riforma Gelmini e l'aziendalizzazione dell'Università hanno preso il via. Con 161 voti favorevoli, 98 contrari e 6 astenuti si è segnata la fine di un lungo periodo di protesta negli atenei e nelle piazze italiane.

La politica ha perso su tutti i fronti e non solo per il triste spettacolo di un'inutile rush finale di un'opposizione, quella del Pd, perennemente in letargo, ma anche e soprattutto per l'evidente mancanza di capacità rappresentativa di quelle istanze e bisogni che la protesta degli studenti ha portato alla luce negli ultimi mesi.

Da sottolineare, inoltre, che per portare a casa i titoloni di questa riuscita, il testo Gelmini è stato blindato dietro offerta all’opposizione di contentini in sede di mille proroghe.

La società italiana, soprattutto con i giovani, si trova a dover fronteggiare un cambiamento radicale negli stili di vita e nei punti di riferimento più tradizionali. La crisi economica poi rende piuttosto rapido questo cambiamento che gli italiani vivono in pieno regime berlusconiano.

Pensiamo solo alla vicenda Fiat, al suo AD Marchionne, osannato come il genio del management e alla trasformazione delle garanzie di un contratto collettivo nazionale in carta straccia. Più di così. Così mentre a sinistra il Partito Democratico si arrabatta sulle “primarie” pare non si riesca a trovare efficaci argomenti per ricostruire ridare spunti a una sinistra senza fiato.

Intanto l'Università targata Gelmini, dopo la promulgazione del Presidente della Repubblica e la pubblicazione in Gazzetta Ufficiale, ha bisogno di una serie piuttosto nutrita di decreti e regolamenti attuativi, ma sembra che entro nove mesi sarà cosa fatta.

La ministra, infatti, garantisce che "la riforma verrà attuata fin dal prossimo anno accademico" e promette che nei prossimi mesi seguiranno tutti gli adempimenti e i decreti attuativi necessari.

Il ddl Gelmini recante "Norme in materia di organizzazione delle Università di personale accademico e reclutamento, nonché delega al Governo per incentivare l’efficienza del sistema universitario" è ora cosa fatta e nei prossimi mesi saranno radicali i cambiamenti strutturali negli Atenei italiani.

Si è parlato a sproposito di organizzazione, ma il cambiamento cui stiamo per assistere sarà radicale, trasformando il volto e la natura dell'istruzione universitaria italiana. Infatti, la parola che meglio descriverebbe questa trasformazione, è "aziendalizzazione"; lo spauracchio per eccellenza del governo per vestire di modernità i tagli indiscriminati ad ogni settore sociale, culturale e in definitiva economico.

Le riforme sono solamente una foglia di fico per mascherare i soliti tagli indiscriminati e ne è un esempio tipico la famosa riforma targata Brunetta.

Uno dei punti principali della riforma, riguarda l'organizzazione degli Atenei. Attualmente i Consigli di amministrazione degli Atenei italiani sono composti dal rettore, dal pro rettore, dai rappresentanti di docenti, ricercatori e studenti.

Accanto a questi siedono in consiglio rappresentati degli enti locali, quali il Comune, la Provincia, la Regione, della Camera di Commercio e naturalmente da un rappresentate del Ministero dell'Istruzione, Università e ricerca.

Con l'entrata in vigore della riforma il cda degli Atenei sarà ridotto a 11 componenti e almeno 3 dovranno essere esterni, privati. Inoltre, il direttore amministrativo finisce la sua carriera per lasciare il posto alla figura del direttore generale, un manager cui farà capo la complessiva gestione e organizzazione dei servizi e delle risorse, compreso il personale dipendente.

Non solo: per lasciare mano libera al consiglio di amministrazione e alla nuova governance, entra in gioco anche la possibilità di unire o federare università vicine. Questo anche perché i tagli sono stati e saranno sempre più fatali. Ben consapevole di questo il governo delinea con generosità le vie di fuga.

Accanto a questa "ristrutturazione" sono molti gli elementi che confermano l'assenza di qualsiasi fondamento di rinnovamento e confermano che a scrivere il disegno di legge sia stato il ministro Tremonti. Così mentre il denaro scorre a fiumi a vantaggi dei soliti noti e di opere pubbliche mai iniziate (come il ponte sullo stretto) o per opere costruite e subito abbandonate (come a La Maddalena in Sardegna, per il settore cultura, formazione e per tutti i servizi sociali) l'imperativo è uno solo: tagliare.

La scure si abbatte anche sul reclutamento dei ricercatori, che diventano a tutti gli effetti a tempo determinato per un massimo di sei anni. L'accesso ai ruoli di associato e ordinario è lasciato ad un'abilitazione nazionale come condizione di base, cui fanno seguito le attuali procedure di selezione pubblica bandite dalle Università cui potranno accedere solo gli abilitati. Gli altri punti sono specchietti per le allodole, messi lì per fare colore, per distrarre dalla vera finalità di cui sopra. Sempre i tagli.

Solo che si taglia anche e soprattutto sul diritto allo studio, dato che i fondi saranno ridimensionati sensibilmente e, accanto a questi, per compensare secondo la ministra, si introducono dei contributi sulla falsariga dei prestiti d’onore. Significa che lo studente non riceve un contributo, un aiuto. Riceve un “finanziamento” da restituire.

Il diritto allo studio dovrebbe prevedere risorse che rendano democratico l’accesso e il conseguimento di un titolo di studio universitario, non un prestito. In sostanza la funzione fondamentale e costituzionale di garanzia d’istruzione, cultura e progresso vengono meno per lasciare il posto ad una sperequazione sociale fatta di privilegi a beneficio di pochi.

Ma tra i famigerati meriti della riforma si ricomprende la famosa parentopoli, cui il governo risponde con un decalogo etico. Invece di garantire il rispetto delle norme, che ci sono, che regolano il reclutamento e l’assunzione di docenti in modo trasparente e corretto per tutti, parenti o no, s’introducono delle incompatibilità in base al grado di parentela.

E’ davvero paradossale: per garantire ciò che è legale, si ricorre all’introduzione di una norma che probabilmente sarà additata come incostituzionale perché lesiva del principio di uguaglianza. Inoltre, non si è presa in considerazione l’eventualità di uno scambio di favori su Atenei diversi: io assumo il tuo, tu assumi il mio.

Quello che è sicuro, e tuttavia poco innovativo, sono i tagli alle risorse destinate a Università, ricerca e diritto allo studio. Non è invece del tutto sicuro che questa possa essere l’ultima riforma del governo Berlusconi che, sotto ricatto della Lega, dovrà mettere insieme qualcosa per il federalismo tanto osannato dalle camicie verdi. Altri tagli incombono.


Marchionne: o vinco o non vale
di Fabrizio Casari - Altrenotizie - 5 Gennaio 2011

O il voto mi piace, o il voto è ininfluente. O vinco il referendum o il referendum non ha valore. Più o meno questo, al netto di ogni imbellettamento di forma (peraltro scarso) il senso delle parole di Marchionne in relazione al referendum che dovrebbe confermare o smentire l’accordo su Mirafiori.

In sostanza, il narciso Ad Fiat ripropone con uguale arroganza quanto già affermò alla vigilia del referendum a Pomigliano, conclusosi però con un 60 per cento a favore e 40 per cento contrario all’accordo sullo stabilimento campano, cioè con percentuali molto lontane da quelle sognate a Corso Marconi.

Anche a Mirafiori, dunque, la musica segue lo stesso spartito. Pomigliano o Torino cambia poco: la volontà del gruppo torinese è la stessa. Il tutto alla faccia di quanti ritenevano opportuno il consenso nella consultazione di Pomigliano, a quello che si riteneva un accordo “particolare”, in quanto dettato da esigenze locali specifiche e non riproponibile per altri impianti. Ma quando mai: il modello Marchionne si è ripresentato anche a Mirafiori.

A confermare che solo gli uomini, nel regno animale, commettono più volte lo stesso errore, il PD e una parte della Cgil ritengono che, anche in questo caso, al referendum si debba votare “si”, perché lo scambio indecente tra diritti e lavoro è frutto velenoso ma obbligato della necessità di rilanciare gli investimenti Fiat nel comparto auto.

C’è da sperare che la Cgil non arrivi a una prova di forza con i suoi metalmeccanici: la Segreteria Camusso dovrà fare attenzione alle prossime mosse, giacché la Ggil Pensioni e la Funzione Pubblica, i due maggiori sindacati di categoria di Corso D’Italia, si sono già schierati con la FIOM.

Sarà quindi opportuno che la Camusso non ceda alle tentazioni verticistiche verso l’interno e alle sirene dall’esterno di chi auspica la frattura tra FIOM e CGIL: auspicare una spaccatura è un consiglio interessato da parte di chi spera in una divisione dell’unico sindacato confederale degno di tal nome, che permetta nel prossimo futuro l’esportazione agevole del modello Marchionne anche in altri comparti pubblici e privati del Paese.

Bisognerebbe accettare l’accordo in cambio degli investimenti? A parte l’assurdità di porre in contrapposizione i diritti dei lavoratori e le regole della rappresentanza con gli investimenti produttivi, di quali investimenti si parla?

Non si sa, giacché Marchionne si guarda bene dallo specificarli. Di quale piano strategico si tratti idem, a meno di non voler considerare una cosa seria l’idea di vendere 30 milioni di auto in Europa nel prossimo biennio.

Come già rilevato, solo un governo come quello italiano poteva trasformare Marchionne in una guida spirituale del comando d’impresa: oltreoceano, nessuno avrebbe dato all’Ad in cachemire la possibilità di essere vago e non convincente nella proposta, indisponente nelle richieste e arrogante nelle pretese. E solo in Italia l’opposizione può rinunciare all’attività di controllo e di rappresentanza dei lavoratori per fare il controcanto a governo e Confindustria.

Sarebbe interessante allora interrompere la fanfara mediatica di laudatores (non sempre ingenui) della Fiat per porre invece alcune semplici domande. La più stringente riguarda il livello di penetrazione dei prodotti Fiat sul mercato.

E’ di ieri, infatti, la notizia che il gruppo automobilistico torinese ha venduto seicentomila vetture, collocandosi in fondo alla classifica del comparto, distanziati da diverse lunghezze da tedeschi, francesi, giapponesi e statunitensi.

E allora: perché produrre di più se nemmeno quanto si produce si riesce a vendere? E se non si riesce a vendere quanto già prodotto, non sarà responsabilità del management e di chi lo guida invece che di chi le macchine le ha realizzate e finite?

Nel mercato italiano, dove pure Fiat gode di condizioni privilegiate, il mercato dell’auto ha subìto una flessione del 9,2. Ma esaminando i dati di un contesto già negativo, la quota percentuale di presenza della Fiat in Italia si riduce in proporzione molto di più. Secondo il rapporto ministeriale, infatti, nel 2010 la Fiat ha perso il 16,73 della sua quota di mercato, che passa dal 32,8 al 30,1.

E se gli italiani acquistano meno automobili, quelle che pure si comprano sono sempre meno Fiat. Wolkswagen? Migliora dell’8,25. Renault? Migliora del 14,99. Opel? Cresce dello 0,42. E allora?

La verità è che la Fiat produce automobili il cui valore oggettivo è molto al di sotto del valore commerciale. Al confronto con le case tedesche, francesi, giapponesi e statunitensi, una Fiat vale molto meno e costa più o meno la stessa cifra. Sarà per questo - e non per l’assenteismo, gli scioperi, le pause o le malattie dei lavoratori - che le Fiat restano invendute?

Le auto progettate da Corso Marconi hanno una capacità d’innovazione di prodotto infinitamente minore delle loro simili europee e giapponesi e la gamma di modelli proposti sono solo una minima percentuale e a minor qualità di quelli della concorrenza.

Provate a misurare qualità, dotazioni e prezzi di un segmento medio di Toyota o Wolkswagen o Renault e metterla poi a raffronto con una Fiat; il risultato sarà più chiaro di migliaia di parole. Anche aver concentrato su uno o due segmenti la produzione automobilistica è stata una scelta miope, e aver concepito dei modelli che s’innovano dal precedente solo per qualche dettaglio a fronte di migliaia di euro d’aumento, ha definitivamente seppellito speranze e illusioni di una casa automobilistica che, al netto d’incentivi e aiuti di Stato di varia natura, ha dimostrato di essere incapace di stare sul mercato. Perché incapace di progettare, pianificare, realizzare e vendere.

Fiat si rivela un’azienda animata solo dalla volontà di competere attraverso il contenimento del costo per unità di prodotto invece che puntare sulla qualità dello stesso. Pensa forse d’inondare il mercato di auto proponendo vendite a prezzi di saldo? Chiede maggiore produzione ma non riesce a vendere nemmeno quanto già in stock.

Da qui la seconda domanda: è possibile prendere le lucciole della vanagloria Fiat e confonderle con le lanterne dei dati di mercato? E’ possibile, amici del PD, consegnare le chiavi delle relazioni industriali a chi non è in grado nemmeno di svolgere al meglio il lavoro per il quale è profumatamente pagato? Perché chi sogna di espellere la democrazia dai luoghi di lavoro dovrebbe dettare le regole democratiche?

E’ possibile che siano i diritti costituzionali, lo Statuto dei lavoratori, la stessa funzione sociale dell’impresa a soccombere di fronte alle pretese di industriali che cominciano a sembrare più che altro dei nuovi agrari?


L’Italia è in guerra!
di Alberto Puliafito - Il Fatto Quotidiano - 7 Gennaio 2011

«Ucciso in un vero scontro a fuoco». «La verità va detta fino in fondo». Sono le parole del Ministro La Russa sulla morte dell’alpino Matteo Miotto in Afghanistan. Il che significa una cosa sola, visto che le parole sono importanti: l’Italia è in guerra.

Uno scoop.

Adesso possiamo finalmente raccontare la guerra, con termini bellici. Sul fronte abbiamo un contingente di 3.300 uomini. L’Italia schiera 750 mezzi terrestri tra carri armati, blindati, camion e ruspe, 30 velivoli di cui 4 caccia-bombardieri, 8 elicotteri da attacco, 4 da sostegno al combattimento, 10 da trasporto truppe e 4 droni. Il costo del conflitto (per l’Italia) è di circa 600 milioni di euro per il solo 2010.

Un altro scoop. La guerra costa.

Poi, possiamo parlare delle questioni meno comode. La coalizione militare guidata dagli Usa registra 2.278 morti (la fonte, costantemente aggiornata). L’Italia conta 34 caduti.
Muoiono anche i nemici, gli afghani. Oltre 6.500. E siccome la guerra si svolge in Afghanistan, muoino anche i civili: fra i 14 e i 30mila. Stime al ribasso, ovviamente.
Impossibile azzardare stime realistiche per quanto riguarda i feriti.

L’ennesimo scoop. La guerra genera morti.

Insomma, siamo in guerra e bisogna raccontare la verità, lo dice La Russa. L’abbiamo scoperto quasi nove anni dopo l’inizio del conflitto, ma adesso, finalmente, non dovremo più parlare di missione di pace.

Peacekeeping è un concetto nato all’interno dell’Onu. Prevede, fra l’altro, una questione fondamentale: il consenso di entrambe le parti in causa. Ad un certo punto, però, il peacekeeping è stato utilizzato per giustificare missioni di guerra, per indorare la pillola all’opinione pubblica. Il problema è che la guerra, quella vera, puzza e fa orrore. Ha il colore del sangue e dei suoni inimmaginabili. Non va bene per una fiction di prima serata, figuriamoci sul Tg1.

1990. Prima Guerra del Golfo, la guerra faceva paura. Le prime pagine dei giornali titolavano utilizzando la parola. Guerra, scritto a caratteri cubitali. Ai Tg passavano le immagini notturne che mostravano, in verde, le traiettorie dell’antiaerea irachena.

Ci fu, peraltro, l’illusione di una completa informazione sul tema. In realtà, venne applicata una forma rigidissima di giornalismo embedded. Quel che importava veramente era dare alle persone l’illusione di una copertura mediatica a tutto tondo.

Ma i giornalisti accreditati in Iraq dovevano sottostare a regole rigidissime, per il loro “racconto di guerra” (in merito, si veda il bel lavoro di Claudio Fracassi, Sotto la notizia niente). Gli alleati bombardavano l’Iraq. I media bombardavano lettori e spettatori. Guerra. Guerra. Guerra.

Poi, dopo che l’audience fu ben saturo – senza in realtà aver visto o saputo quasi niente di quel che accadesse in Iraq, men che meno del perché non fu presa Baghdad, per esempio – la strategia comunicativa cambiò. La guerra non faceva più notizia, perché l’agenda politica l’aveva derubricata a missione di pace, esportazione della democrazia, difesa della libertà altrui, lotta preventiva al terrorismo. E simili.

Così, la guerra non si racconta quasi più, cambiando le parole. E con le parole, cambiano i concetti, e ci si abitua facilmente. I morti e i costi restano. Ma evaporano fra le pagine dell’informazione.

Vale per tante cose.

Missione di pace in luogo di guerra.
Ricostruzione dell’Aquila invece di costruzione (con tutto quel che segue, ma ne ho già parlato abbondantemente, su queste pagine e altrove).
Miracoli invece di interventi dovuti dallo Stato (a volte anche fallimentari, ma non è questo che importa ora).
Black bloc invece di studenti che protestano.
E ancora, fra le mille parole chiave utilizzate a sproposito, comunisti, emergenza, riforma.

Ora, però, abbiamo scoperto che siamo in guerra. E potremmo ricominciare da qui, per esempio, a dare alle parole il loro vero significato. Oppure a scoprire quelle che mancano – come scrisse Travaglio per raccontare della protesta studentesca -, o ancora, a inventarne di nuove per proporre concetti complessi. In questo senso, si può leggere questo post come seguito di Consensificazione e Monosofia nucleare: la famigerata visione d’insieme non può mancare.

Siamo in guerra, e tocca difendersi.